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Tag: finanza

Economia di guerra e crisi del liberismo – con Vadim Bottoni e Alessandro Volpi

Oggi presentiamo il panel Economia di guerra e crisi del liberismo con relatori Alessandro Volpi e Vadim Bottoni e moderato dal nostro Gabriele Germani. Nel panel si è parlato di finanziarizzazione, del potere dei fondi e di cosa si intende per economia di guerra. L’Unione europea con le sue attuali regole ha realmente la possibilità di perseguire un’economia di guerra? Cosa è necessario cambiare? E perché politicamente è mancata e manca la volontà di farlo? L’euro è un ostacolo o un’opportunità? Buona visione!

#EconomiaDiGuerra #euro #fondi #finanza #economia #finanziarizzazione

Gli USA spaccati: Kamala vuole la guerra – ft. Giacomo Gabellini

Oggi i nostri Giuliano e Gabriele hanno intervistato il sempre preparato Giacomo Gabellini attorno alle strategie messe in campo dai due diversi candidati alle presidenziali USA di novembre. Mentre sembra ormai solo questione di formalità la conferma della candidatura di Kamala Harris, Trump solleva problemi di legittimità attorno la sua figura. Mentre i Democratici puntano allo scontro attorno al mondo, i Repubblicani sembrano prediligere una strategia pragmatica che, nell’immediato, scaricherebbe i costi della difesa sui singoli scenari ai partner europei e asiatici. Buona visione.

#USA #impero #imperialismo #Biden #Trump #Kamala #Harris #Donald #Taiwan #finanza #USA24

L’Europa è morta di troppa austerità!

Dall’ultimo meeting tenuto dal gruppo nel 2012 a Rimini, la MMT torna in Italia in grande stile e con una nuova credibilità; se nel 2012, i suoi sostenitori erano associati a fantasiose teorie complottiste o populismi, oggi le ricette espansive ed eterodosse sembrano le uniche possibili per salvare l’Occidente dalla de-industrializzazione e dalla sicura sconfitta nel conflitto multipolare. Lo Stato deve tornare a svolgere un ruolo attivo nella vita economica del paese e per farlo deve ricorrere a tutti gli strumenti nel cassetto degli attrezzi, tra cui la politica monetaria. La presenza di Warren Mosler è quindi un momento cruciale di riconoscimento della caparbietà e coerenza alla fine premiata; così, a distanza di oltre un decennio, Draghi, Monti e rettiliani vari sono costretti a fare autocritica, mentre il gruppo del MMT continua a predicare la lieta novella inascoltato. Le istituzione europee svoltano a destra e diventano monopolio del dogmatismo del PPE, ma negli USA è ormai chiarissimo chi avesse ragione quindici anni fa. L’Unione europea si sta suicidando di austerità assistita.  Buona visione!

#MMT #crisi #UE #USA #economia #politicaespansiva #politicamonetaria #finanza

La guerra dell’Occidente per salvare gli speculatori – ft. Paolo Ferrero

Oggi i nostri Clara e Gabriele intervistano Paolo Ferrero, ex segretario di Rifondazione Comunista e ex Ministro del Lavoro, per presentare l’ultimo numero della rivista bimestrale Su la testa dal titolo L’Occidente è un accidente sul tema del declino occidentale associato alla crisi economica e alla guerra. Le élite occidentali sacrificano il 90% della popolazione per salvare multimiliardari e fondi speculativi; queste pulsioni spingono al contrasto con i paesi emergenti (BRICS). Buona visione!

#Occidente #finanza #socialismo #pace #Cina #Russia #guerra #USA

Crollo NVIDIA: l’intelligenza artificiale tra speculazione e monopolio – ft. Alessandro Volpi

Oggi il nostro Gabriele intervista Alessandro Volpi attorno alla caduta del titolo NVIDIA: dopo settimane e mesi di salita impetuosa, da record, il titolo legato al settore dell’intelligenza artificiale sembra in brusca frenata; le cifre andate perse fanno anche capire il livello di finanziarizzazione raggiunto dal settore. Sullo sfondo incombe il rialzo dei tassi che dopo i dati sull’inflazione australiana sembra inevitabile, con i suoi effetti depressivi sulla crescita. Il capitalismo USA sembra dunque muoversi per salvare il primato del dollaro e ricreare un proprio settore produttivo in grado di tenere testa ai paesi emergenti. Buona visione!

#NVIDIA #finanza #economia #dollaro #dedolarizzazione #tassi #USA #IA #intelligenzaartificiale #chip

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

La guerra commerciale degli USA contro la Cina accelera la fine della dittatura del dollaro

Rimbambiden ormai ha lanciato la rincorsa alle boutade trumpiane sui dazi stellari su qualsiasi cosa prodotta in Cina, a partire ovviamente dall’auto elettrica dove i produttori occidentali sono indietro di decenni rispetto a Pechino. Ma potrebbe essere una mossa avventata: costretta a rinunciare al mercato USA, infatti, la Cina sarebbe incentivata ad accelerare il processo di dedollarizzazione e, visto il suo peso nel commercio globale, questo comporterebbe necessariamente un crollo dell’egemonia globale del dollaro stesso. L’attivismo di Macron che ha recentemente rafforzato la sua narrazione sulla creazione di una sorta di autonomia strategica finanziaria europea invocando la nascita di campioni bancari continentali grazie a processi di fusione e acquisizione, potrebbe essere quindi spinta anche dalla consapevolezza dell’imminente crollo dell’egemonia del dollaro. Ne abbiamo parlato con Alessandro Volpi, il cicerone preferito di Ottolina Tv quando si tratta di seguire il denaro e cercare di capire cosa aspettarci dalla grande rivoluzione dell’architettura finanziaria globale. Buona visione!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

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Ex GKN convoca tutti il 18 maggio in piazza – Ft. Dario Salvetti

Gli operai ex GKN invitano tutta la cittadinanza in piazza sabato 18 maggio per dire no alle politiche di deindustrializzazione in atto nel paese e alle politiche di guerra e genocidio. Non possiamo creare un’oasi di diritti e pace, in un modo di guerra e ingiustizie: gli operai ex GKN lo dicono a gran voce. La redazione di Ottolina si associa a questa manifestazione e a queste richieste, esprimendo solidarietà ai manifestanti e agli operai ex GKN. Buona visione!

#GKN #guerra #finanza

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L’asse Russia – Cina per la costruzione di Stati sovrani e indipendenti fa tremare l’imperialismo

Non ha manco finito di mettere in piedi il nuovo governo che ecco che Putin è già in visita a Pechino! D’altronde, che la prima visita ufficiale di Stato dopo una rielezione veda coinvolti i due paesi è ormai un’usanza da oltre 10 anni, da quando cioè Xi, nel 2013, inaugurò la sua presidenza con una visita a Mosca che vide i due leader intrattenersi in un faccia a faccia a porte chiuse durato la bellezza di 5 ore. Ora Putin non vuole certo essere da meno e in una lunga intervista pubblicata dall’agenzia cinese Xinhua – “una delle più importanti e affidabili al mondo” secondo le parole dello stesso Putin – il 5 volte presidente della Russia prova a delineare le direttrici fondamentali di questa amicizia senza limiti tra i due paesi, come viene definita nelle comunicazioni diplomatiche ufficiali. In questa fase di feroce revisionismo storico dove, piano piano, si fa spazio la narrazione che in realtà la seconda guerra mondiale è stata la guerra del mondo libero contro i due totalitarismi alleati tra loro, Putin decide di partire proprio dalla grande alleanza anticoloniale e antinazifascista tra Cina e Unione Sovietica cementata in quegli anni: “I nostri popoli” sottolinea Putin “sono legati da una lunga e forte tradizione di amicizia e cooperazione”; “Durante la seconda guerra mondiale” sottolinea “soldati sovietici e cinesi si opposero insieme al militarismo giapponese e noi oggi ricordiamo e celebriamo il contributo che il popolo cinese ha dato alla vittoria comune, perché fu la Cina a trattenere le principali forze militariste giapponesi, consentendo all’Unione Sovietica di concentrarsi sulla sconfitta del nazismo in Europa”. Ora gli eredi dei nazifascisti in Europa e in Giappone sono impegnati a terminare l’opera interrotta dalla gloriosa resistenza di cinesi e russi, come braccio armato dell’impero. Putin ricorda anche come l’URSS fu, in assoluto, il primo paese al mondo a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese nata dalla guerra anticoloniale; ricorda anche che, in questi tre quarti di secolo, il rapporto tra i due paesi ha attraversato momenti decisamente difficili, ma sottolinea come tutto questo sia servito da insegnamento e come oggi entrambi i Paesi siano pienamente consapevoli che “La sinergia di forze complementari fornisce un potente impulso per uno sviluppo rapido e globale”.
La complementarietà delle economie russe e cinesi, a questo stadio di sviluppo, è piuttosto palese: da una parte il paese più ricco di materie prime al mondo e, dall’altro, l’unica vera grande superpotenza manifatturiera globale che produce, da sola, circa un terzo di tutto quello che viene prodotto oggi in tutto il pianeta e che di quelle stesse materie prime ha una sete inesauribile; attenzione però, perché – ovviamente – questa complementarietà è anche il prodotto di uno squilibrio. Un’economia fondata sull’estrazione delle materie prime si colloca strutturalmente a uno stadio di sviluppo inferiore rispetto a un’economia trasformatrice e, se il rapporto fosse fondato esclusivamente sull’evoluzione spontanea delle dinamiche capitalistiche, con l’approfondirsi dell’integrazione economica questo squilibrio, nel tempo, necessariamente non farebbe che accentuarsi: la ragione è molto semplice e consiste nel fatto che nel capitalismo il più forte vince sempre e cannibalizza il più debole; quindi in regime di libero scambio puro, senza l’intervento di quelli che vengono definiti fattori esogeni (e quindi, in soldoni, della politica e dello Stato), quando due economie che hanno – in virtù delle dimensioni delle rispettive manifatture – due livelli di produttività così lontani come quella cinese e quella russa aumentano il livello di integrazione, alla fine del giro quella che è partita avvantaggiata non farà altro che aumentare il suo vantaggio sempre di più. Che è esattamente il motivo per cui nel mondo, anche dopo i processi di decolonizzazione (e, quindi, una volta terminata la sottomissione di un paese ad un altro tramite l’esercizio della forza bruta), invece di emanciparsi dai rapporti di dipendenza, i paesi sottosviluppati hanno spesso ulteriormente aggravato la loro subordinazione, in particolare laddove alla lotta di liberazione non ha fatto seguito la costruzione di uno Stato sovrano minimamente funzionante in grado, appunto, di intervenire e apportare dei correttivi sostanziosi.

Xi Jinping e Vladimir Putin

Che è, appunto, il nocciolo della faccenda: cresciuti ed educati in un sistema dove gli Stati, scientemente, sono Stati privati della loro capacità di intervenire per apportare dei correttivi – e, anzi, dopo la parentesi democratica del dopoguerra sono tornati ad essere sempre di più essi stessi veri e propri agenti del capitale (e cioè strutture il cui unico scopo è velocizzare e rendere ancora più efficaci e inarrestabili i meccanismi interni del capitalismo), i pennivendoli della propaganda neoliberista, spesso anche in perfetta buona fede, non possono che vedere nel rafforzamento dei rapporti tra due economie così diverse, come quella russa e quella cinese, un inevitabile processo di subordinazione dell’una nei confronti dell’altra. Ed ecco così che da anni, un giorno sì e l’altro pure, le pagine dei giornalacci cercano di convincerci che la Russia ha ben poco da festeggiare perché se, dopo essere stata isolata dall’Occidente democratico e liberale, è costretta ad andare in ginocchio a Pechino alla ricerca di un’alternativa, questo non potrà che renderla un paese vassallo, col petto gonfio di retorica, ma totalmente incapace di esercitare una qualsivoglia sovranità reale; d’altronde, se cane mangia cane e sono scomparse tutte le museruole in circolazione, che alla fine quello più grosso e allenato prevalga è del tutto normale e inevitabile. Fortunatamente, però, in realtà esistono parecchie più variabili di quelle che solitamente è in grado di prendere in considerazione il pensiero binario dell’uomo neoliberale ed è su questo che insiste Putin che, nell’intervista, torna più volte in particolare su due semplici ma essenziali concetti: il perseguimento dei rispettivi interessi nazionali e il rispetto della sovranità. “Vorrei sottolineare” dichiara ad esempio Putin subito all’inizio dell’intervista, che il rapporto tra i nostri due Paesi “si è sempre basato sui principi di uguaglianza e fiducia, di rispetto reciproco della sovranità e di considerazione degli interessi reciproci”.
Al di là della retorica e del politichese, cosa significa in soldoni? Per capirlo bene facciamo un controesempio: i trattati di libero scambio e di libera circolazione dei capitali promossi dall’Occidente, in piena osservanza dei dogmi neoliberali; in questo caso si tratta, appunto, di limitazioni della sovranità degli Stati, che rinunciano a controllare la fuga dei capitali verso l’estero e l’ingresso di merci verso l’interno. Risultato: invece che gli interessi nazionali, a trionfare sono gli interessi specifici dei capitalisti. Il giochino lo conosciamo tutti (è il funzionamento di base della globalizzazione neoliberista): il primo punto è che i capitalisti possono andare liberamente a caccia dei posti più redditizi per i loro investimenti scatenando, così, una concorrenza al ribasso tra i vari paesi per offrire le condizioni migliori per attrarli, sforzandosi di contenere i salari dei propri lavoratori oppure adottando regole sempre più permissive in termini di standard ambientali o di sicurezza – che, in soldoni, significa sempre meno soldi che vanno in salari e sempre di più in profitti; il secondo è che i Paesi (o i pezzi di oligarchia) che partono avvantaggiati dividono il processo produttivo in tanti pezzetti diversi e mentre relegano il lavoro povero ai paesi che offrono vantaggi salariali e regolativi, si tengono la testa per loro. Si va così a consolidare una divisione internazionale del lavoro con una gerarchia ben precisa dove i paesi periferici perdono completamente il controllo della filiera produttiva a favore di quelli più avanzati, che continuano ad ampliare la loro superiorità tecnologica; insomma: prima magari producevi dei trattori che non si possono vedere, ma li producevi come volevi te e potevi decidere quanti produrne, come e quanto pagare i lavoratori, quante tasse far pagare ai proprietari della fabbrica o magari, addirittura, la fabbrica nazionalizzarla. Ora, magari, i trattori che contribuisci a costruire possono anche essere il top di gamma, ma della tua vecchia indipendenza non c’è più traccia e a determinare tutti i fattori è la concorrenza imposta da chi sta in cima alla piramide, tra tutti i suoi sottoposti: sei una specie di gladiatore in un’arena che si deve prendere a sciabolate con gli altri, mentre chi detiene la testa di tutta la catena sta sugli spalti a godersi lo spettacolo e a incassare il cash; e da questa spirale, finché ti affidi alle magnifiche sorti e progressive del mercato, non c’è verso di uscire.
E non abbiamo manco ancora introdotto il terzo punto, che è forse quello più rilevante in assoluto e, cioè, l’aspetto finanziario: chi ha il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa. Ecco: quella è, in assoluto, la cima della piramide e che – grazie alla globalizzazione neoliberista – si stacca sempre di più da tutto il resto diventando irraggiungibile; grazie alla piena libertà di circolazione dei capitali garantita dalla globalizzazione neoliberista, i capitali hanno subìto un processo di concentrazione senza precedenti e chi detiene questi monopoli finanziari privati (e, quindi, decide dove vanno i soldi per farci cosa) ha il vero potere, ben al di sopra dei singoli Stati. Ecco: una cooperazione e un’integrazione economica fondata sul riconoscimento dei rispettivi interessi nazionali e della sovranità è, sostanzialmente, l’opposto di questo meccanismo; uno Stato sovrano, quindi, è uno Stato che decide politicamente le condizioni alle quali le merci possono entrare e i capitali uscire. Ed è per questo che nella neolingua dell’Occidente neoliberale, al termine sovrano abbiamo sostituito autoritario: per l’Occidente democratico, è autoritario ogni Stato abbastanza forte da limitare la libertà delle oligarchie di concentrare nelle loro mani il potere finanziario e trasformarlo, poi, in un potere politico superiore a quello dello Stato stesso; democratico, invece, è ogni Stato che lascia alle oligarchie il potere di fare un po’ cosa cazzo gli pare e le istituzioni possono accompagnare solo.
Da questo punto di vista, la Cina (di sicuro) e la Russia (in buona misura) sono senz’altro Stati autoritari e, quindi, la loro relazione è una relazione tra Stati autoritari, con nessuno dei due che è in grado di imporre niente all’altro e, men che meno, le rispettive oligarchie; per questo è un tipo di relazione che non ha niente a che vedere con quelle a cui siamo abituati nel giardino ordinato, sia perché – a differenza del rapporto tra impero e vassalli che regola le relazioni all’interno dell’Occidente collettivo – non c’è un rapporto gerarchico a livello militare e i due Paesi sono autonomi e indipendenti dal punto di vista prettamente geopolitico (e questo viene riconosciuto anche dagli analfoliberali), ma soprattutto perché, appunto, entrambi hanno mantenuto un discreto livello di sovranità rispetto allo strapotere delle rispettive oligarchie e quindi, di conseguenza, ognuno rispetto alle oligarchie dell’altro. Insomma: sotto tanti punti di vista, nonostante le enormi differenze e gli enormi squilibri che abbiamo già sottolineato, si tratta molto banalmente di un rapporto tra pari che per noi, nati e cresciuti nelle periferie dell’impero, è una cosa quasi inconcepibile ed ha molte conseguenze, anche contraddittorie. A differenza dei rapporti dove vige una gerarchia precisa, ad esempio, i rapporti tra pari sono incredibilmente complicati; lo sono all’interno di una coppia o tra amici: figurarsi tra Stati – e ancor di più tra due superpotenze del genere. E gli esempi abbondano: basti pensare a Forza della Siberia II, il gasdotto da 2600 chilometri che dovrebbe trasportare 50 miliardi di metri cubi di gas russo ogni anno in Cina, un’infrastruttura strategica che più strategica non si può; eppure, nonostante l’aria che tira e l’amicizia senza limiti, i negoziati sono ancora abbastanza in alto mare (come è giusto e normale che sia quando due enti autonomi e indipendenti devono trovare una quadra per una partita così complessa). Per fare un confronto, basta pensare alla vicenda dei due Nord Stream, quando uno Stato formalmente sovrano ha accettato che un suo supposto alleato compisse un atto terroristico di portata gigantesca sul suo territorio senza battere ciglio; oppure quando, in seguito allo scoppio della seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, i Paesi europei hanno aderito a delle sanzioni economiche progettate più per distruggere la loro economia che non quella dell’avversario. Ecco: se come parametro per capire la solidità di un’alleanza prendiamo questo, effettivamente no, l’alleanza tra Russia e Cina non è minimamente comparabile, ma da quando in qua il rapporto tra un imperatore e i suoi sudditi si chiama alleanza? E che fine hanno fatto tutte le filippiche degli analfoliberali sulla democrazia che è sì faticosa, ma, alla fine, è l’unica strada per stabilire legami sociali stabili e duraturi?
Ora, è proprio questo modello di rapporti democratici tra Stati autonomi e indipendenti che Russia e Cina stanno proponendo al resto del mondo; e uno degli organi multilaterali che dovrebbe servire da piattaforma per questo nuovo modello di relazioni internazionali sono ovviamente i BRICS che, quest’anno, vedono la presidenza di turno affidata proprio alla Russia che – afferma Putin – vuole utilizzare, appunto, il suo ruolo per “promuovere un’architettura più democratica, stabile ed equa delle relazioni internazionali”: Putin sottolinea che “la cooperazione all’interno dei BRICS si basa sui principi di rispetto reciproco, uguaglianza, apertura e consenso” ed è proprio per questo che, insiste, “i Paesi del Sud e dell’Est del mondo vedono nei BRICS una piattaforma in cui le loro voci possono essere ascoltate e prese in considerazione e trovano la nostra associazione così attraente”. La creazione di enti multilaterali fondati sulle relazioni paritarie e democratiche tra Paesi, però, è più complicata da fare che da dire perché il presupposto – appunto – è che gli Stati coinvolti siano davvero sovrani e quindi, appunto, autoritari (e, cioè, abbastanza forti da tenere a bada il potere delle loro oligarchie); ma molti dei paesi coinvolti hanno tutt’altro che terminato questo processo di emancipazione dal potere delle oligarchie, come è il caso – ad esempio – del Brasile o dell’India che, di fronte alle loro oligarchie perfettamente integrate nella finanza globale, sono in grado di esercitare soltanto una sovranità parziale. Per non parlare, poi, dei Paesi come l’Arabia Saudita, che sono premoderni e che esercitano una loro sovranità soltanto nella misura in cui lo Stato coincide esattamente con le loro oligarchie.
Se quindi, da un lato, l’imperialismo – che è, appunto, il sistema su cui si fonda il dominio dell’Occidente collettivo sul resto del pianeta e che annienta ogni sovranità in nome dello strapotere delle oligarchie finanziarie – è un sistema, oltre che barbaro e inaccettabile, anche oggettivamente in declino (e contro il quale la rivolta è ormai inarrestabile), la costruzione dell’alternativa è ancora lunga e piena di ostacoli; l’amicizia senza limiti tra Russia e Cina, però, costituisce un nucleo centrale per questo nuovo modello di relazioni internazionali più democratico, di una potenza senza precedenti, ed è per questo che rappresentano (e continueranno a rappresentare) il nemico principale dell’imperialismo, che vede nella loro disfatta l’unica possibilità di continuare a rimanere in piedi, costi quel che costi. A noi non rimane che fare la nostra parte contro la guerra finale dell’imperialismo e, per trasformare anche l’Italia e l’Europa in un insieme di Stati sovrani e indipendenti, pronti a dare il loro contributo per la costruzione di un mondo nuovo senza il quale la distruzione reciproca, più che un’ipotesi, diventa – giorno dopo giorno – una certezza; per farlo, nel nostro piccolo, come minimo ci serve un media che non faccia da megafono alla propaganda dell’impero, ma che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Victoria Nuland

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Perché il CAPITALISMO è incompatibile con la DEMOCRAZIA

I greci pensavano che il mondo fosse stato creato da un uovo che aveva generato un essere dall’aspetto sia femminile che maschile, con le ali d’oro, le teste di toro sui fianchi e un enorme serpente sul capo; gli antichi Maya, invece, pensavano che l’umanità fosse germogliata dal suolo da un impasto di terra e mais. Nell’Occidente industrializzato, intere generazioni educate alla scienza e ai lumi della ragione hanno a lungo creduto che il capitalismo e la democrazia fossero perfettamente compatibili l’uno con l’altro; anzi, che fossero proprio fatti della stessa pasta. Bene, si dirà: in fondo ogni civiltà ha bisogno di costruire i propri miti per sopravvivere; ma giunti nel 21esimo secolo e con le crisi epocali che stiamo attraversando, tante persone stanno finalmente aprendo gli occhi e a questa favoletta non ci credono più.

Wolfgang Streeck

Wolfgang Streeck, il più importante sociologo tedesco contemporaneo, e Micheal Hudson, probabilmente uno dei più grandi economisti viventi, gli occhi li hanno aperti da tempo e nel loro decennale lavoro di ricerca hanno ormai in lungo e in largo dimostrato l’assoluta impossibilità che capitalismo e democrazia possano convivere in una stessa società. La democrazia è quella forma di governo che poggia sull’idea della partecipazione al potere dei cittadini, della redistribuzione della ricchezza e del primato dell’interesse comune sull’interesse privato; prodotto del pensiero democratico sono stati i sindacati, la sanità e la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori e il suffragio universale. Il capitalismo, invece, è un sistema economico e sociale oligarchico che tende naturalmente alla concentrazione di ricchezza in mano a un gruppo di persone sempre più ristretto e che trasforma questa concentrazione di potere economico anche in potere politico, privando così la maggioranza delle persone sia della possibilità di partecipare al governo della cosa pubblica, sia di quella di autodeterminare la propria esistenza; prodotti del capitalismo sono l’individualismo consumistico, la privatizzazione dei servizi e degli spazi pubblici e la crescita senza limiti delle diseguaglianze sociali. “Questi due disegni di società, a cui si contrappongono anche visioni antropologiche e filosofiche differenti” afferma perentorio Streeck nel suo Come finirà farà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi “non possono chiaramente coincidere. O l’uno, o l’altro.” “Le economie occidentali” sottolinea invece Hudson in The Destiny of civilization “si trovano di fronte a una scelta: ridursi all’austerità finanziarizzata e distruggere definitivamente ogni spazio democratico o fare il passo di ricominciare a distribuire la ricchezza e porre fine al domino delle oligarchie neofeudali”. E quelle di Hudson e Streeck non sono più voci isolate, e da tutte le scienze sociali arrivano studi e ricerche che dimostrano l’incompatibilità scientifica ed empirica di questi due opposti metodi di governo e visioni del mondo. “Ma come mai nonostante sia ormai diventato così palese” si chiede Streeck “è così difficile per tante persone accettare che le nostre ex democrazie si siano trasformate ormai da tempo in tecnocrazie di mercato che non rispondono più al controllo popolare?” “Troppi, credo” si risponde Streeck “sono ancora abituati alla tipica immagine del colpo di stato che abolisce in un sol colpo la democrazia: elezioni annullate, leader dell’opposizione e dissidenti in prigione, stazioni televisive consegnate a truppe d’assalto sul modello argentino o cileno.” Ma non è certo questo l’unico modo per porre fine a una democrazia e dar vita a regimi oligarchici e autoritari: in Occidente ad esempio, è avvenuto in modo molto diverso e cioè, semplicemente, quando con la svolta neoliberista si è deciso di lasciare il capitalismo libero di svilupparsi senza più freni e vincoli comunitari. In ogni caso, questo non è più certo il tempo di piangersi addosso e Hudson e Streeck ci indicano anche le possibili strade per sconfiggere questo cancro politico, economico e culturale.
C’è una buona notizia dentro una cattiva notizia esordisce Streeck in uno dei saggi di Come Finirà il capitalismo?. A un’intera generazione di occidentali la Guerra Fredda è stata raccontata come uno scontro fra democrazia e tirannia finita con la netta vittoria del capitalismo e, quindi, della democrazia: la cattiva notizia è che oggi la crisi delle democrazie occidentali si è talmente acuita che questo racconto mitologico si sta rivelando una menzogna; la buona notizia, invece, è che finalmente se ne ricomincia a parlare. Alle origini, riflettono Streeck e Hudson, il capitalismo portò effettivamente a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti e questo perché la più numerosa classe borghese del tempo lottava contro i privilegi feudali della ristrettissima classe aristocratica; in quel breve attimo della storia, dunque, la sconfitta degli ereditieri feudali ad opera degli imprenditori capitalisti segna realmente un progresso generale non solo economico, ma anche civile e politico e questo sicuramente è il grande merito storico del capitalismo. Questa fase, però, è finita da un pezzo e – come ha insistito più volte Hudson nell’intervista che ci ha recentemente rilasciato – la società contemporanea somiglia molto di più proprio alla vecchia società feudale che non allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini: durante tutto il ‘900, infatti, nonostante nel senso comune capitalismo e democrazia siano usati quasi come sinonimi, i capitalisti si sono sempre opposti a riforme democratiche e di ampliamento dei diritti sociali e senza le battaglie socialiste sarebbero entrambi rimasti pura utopia; per fare un esempio, i socialisti europei dovettero lottare contro i regimi capitalisti autoritari in Germania, Francia, Italia e ovunque nel mondo anche solo per ottenere il suffragio universale maschile e poi quello femminile, e la stessa cosa si potrebbe dire per le battaglie per l’introduzione di servizi pubblici universali come l’istruzione, la sanità, la cura dell’infanzia e le pensioni per gli anziani. Il Manifesto di Marx ed Engels, giusto per citare nomi a caso, si conclude con un fervido appello ai lavoratori affinché vincano la battaglia per la democrazia contro le oligarchie economiche; anche Il trentennio d’oro del secondo dopoguerra, durante il quale le nazioni europee diedero veramente vita a delle socialdemocrazie, non fu il frutto di un capitalismo buono e moderato, ma il prodotto di una classe lavoratrice particolarmente organizzata e consapevole e di una classe capitalista sulla difensiva sia dal punto di vista politica che economico. Purtroppo, come non smetteremo mai di ripetere, con la controrivoluzione neoliberista avviata nella seconda metà degli anni ‘70 i rapporti di forza sono radicalmente cambiati, con tutte le conseguenze che stiamo vivendo; Milton Friedman, guru degli economisti neoliberali, diceva “Una società che ponga l’uguaglianza prima della libertà non otterrà nessuna delle due. Invece, una società che antepone la libertà all’uguaglianza è in grado di raggiungere un livello superiore di entrambe”.
Ma di quale forma di libertà parlavano Friedman, Thatcher, Reagan e, in generale, tutte le bimbe del neoliberismo di destra e di sinistra? Fondamentalmente, della libertà delle oligarchie di muovere i capitali un po’ ovunque in giro per il mondo e di speculare sui mercati senza più alcun ostacolo comunitario o di interesse nazionale; peccato, però, che questa libertà implichi una riduzione di tutte le altre libertà e diritti della maggioranza delle persone: “Ci sono essenzialmente due tipi di società” scrive Micheal Hudson in The Destiny of civilizazion: “le economie miste con pesi e contrappesi pubblici, e le oligarchie che smantellano e privatizzano lo Stato, prendendo il controllo del suo sistema monetario e creditizio e delle infrastrutture di base per arricchirsi, soffocando l’economia. Un’economia mista in cui i governi mirano a combinare il progresso economico con la stabilità sociale può sopravvivere solo resistendo al tentativo delle famiglie più ricche di ottenere il controllo del potere pubblico.” La svolta neoliberista, insomma, è il momento in cui le oligarchie sono state abbastanza forti da imporre il secondo modello – quello a loro più congeniale – e con l’inesorabile avanzare della finanziarizzazione, fatta di privatizzazioni dei servizi pubblici essenziali, attacco indiscriminato allo stato sociale, guerra senza frontiere a tutti i corpi intermedi e aumento senza limiti delle diseguaglianze sociali, anche la democrazia non poteva che perdere qualsiasi sostanza e significato; in fondo, se ci pensiamo, non c’è cittadino comune dei paesi cosiddetti democratici che non provi un senso di rassegnazione e abbia l’impressione di vivere un mondo in cui, qualunque cosa faccia o voti, ha perso comunque il potere di cambiare le cose. “Ma stando così le cose” si chiede giustamente Streeck “come mai non si è ancora diffusa in Occidente un’ideologia apertamente antidemocratica e le oligarchie si ostinano a tenere in vita queste complesse procedure democratiche?”
A dire il vero, negli ambienti cosiddetti progressisti e liberali qualche voce di protesta nei confronti del suffragio universale l’abbiamo già cominciata a sentire: ad esempio nel 2016, con l’accoppiata BrexitTrump che tanto fece gridare allo scandolo i salotti chic, oppure in Italia ogni volta che una qualche forza cosiddetta populista ottiene buoni risultati alle elezioni, ma – in linea di massima – dobbiamo riconoscere che ha ragione Streeck e la ragione è che la forma e le procedure democratiche sono, in verità, assolutamente utili e funzionali al potere oligarchico: è anzi proprio grazie al feticcio delle elezioni, riflette il pensatore tedesco, che questo sistema viene apparentemente legittimato a livello popolare; il compito delle attuali procedure democratiche è proprio quello di far apparire una società di mercato capitalista come una scelta del popolo e questo nonostante i suoi meccanismi siano chiaramente sottratti al vaglio popolare e nonostante sia una chiara scelta oligarchica di cui il popolo subisce le conseguenze. “Il capitalismo in Occidente” scrive “è oggi compatibile con la democrazia, nel senso che anche con le elezioni riesce tranquillamente a sterilizzare il potenziale redistributivo della politica democratica e allo stesso tempo fa affidamento sulla competizione elettorale per dare legittimità a questo stato di cose.”

Michael Hudson

La pensa così anche Michael Hudson: “Il modo apparentemente più ovvio per determinare se una società è democratica” scrive l’economista americano “è chiedersi se gli elettori sono in grado di attuare le politiche che desiderano. Recenti sondaggi d’opinione negli Stati Uniti mostrano una forte preferenza per l’assistenza sanitaria pubblica e la remissione del debito studentesco, ma nessun partito politico sostiene queste politiche. È ovvio” conclude amaramente “che queste vadano oltre la gamma consentita di opzioni aperte alla scelta democratica.” Insomma, a chi dice che finché ci sono libere elezioni il nostro mondo che ci circonda è quello che noi ci scegliamo, Hudson e Streeck rispondono che questo è semplicemente un mito, una leggenda metropolitana; e che nella dura realtà, oggi viviamo in una società regolata formalmente da procedure democratiche che nascondono una sostanza sociale capitalista e autoritaria, e rimossa dall’immaginario ogni politica redistributiva – aggiunge ironico Streeck – i cittadini democratici sono finalmente liberi di interessarsi degli spettacoli pubblici offerti dai loro leader e star più in voga. Dalla contrapposizione destra – sinistra al politicamente corretto, alle discussioni sul bon ton di quello o quell’altro politico nazionale, la post democrazia ci offre un catalogo praticamente infinito di pseudo dibattiti, non consentendo mai alla noia di avere il sopravvento; come ripete sempre il nostro Tommaso Nencioni, siamo di fronte alla politicizzazione delle puttanate e alla depoliticizzazione di tutto quello che ha un vero impatto sulle nostre vite.
A queste severe analisi di Hudson e Streeck si potrebbe però ribattere che la globalizzazione capitalistica stia alimentando anche diverse istanze di emancipazione, dalle nuove lotte femministe contro le discriminazioni sessuali alle rivendicazioni degli immigrati e, in generale, di tutte le minoranze; una spiegazione interessante di questi fenomeni emancipatori ce la offre l’economista Emiliano Brancaccio in un’intervista rilasciata a Jacobin Italia: “Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati.” Che si tratti di donne o di uomini, di nativi o di immigrati, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale; questo processo di omologazione mette in crisi le vecchie tradizioni e valori, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta sempre di più i confini nazionali e le rispettive identità culturali: “Col tempo” scrive Brancaccio “il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico. Ma ci rende tutti uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo.” Si tratta, insomma, di un movimento contraddittorio a cui guardare – come a ogni fenomeno culturale capitalista – con sguardo critico, senza bigottismi nostalgici né infantili entusiasmi progressisti: “Il fatto che il capitale ci renda tutti sudditi, ma senza differenze” conclude Brancaccio “non è negativo in sé come ci dicono i sovranisti reazionari, ma non è nemmeno positivo in sé come ci dicono i globalisti liberali: è positivo se quella tendenza progressiva a rendere tutti i lavoratori egualmente sfruttati si trasforma in un rinnovato antagonismo di classe.”, e quindi se non si trasforma, detta in soldoni, in una guerra individualistica contro il passato in nome di un futuro ipercapitalista.
Ma insomma, dobbiamo chiederci, si può davvero ancora sperare in una rinascita democratica? Di quanta politica seria sono disposti ad occuparsi oggi le masse postdemocratiche? E quante persone credono ancora che esistano beni collettivi per i quali valga la pena lottare? Negli ultimi anni, scrive Hudson “gli sfruttatori hanno quasi sempre mostrato una volontà molto maggiore di difendere i loro guadagni con la violenza di quanto le vittime siano disposte a combattere per proteggersi o ottenere riforme sostanziali.” Ma la nostra risposta non è disfattista: ce ne sono, e ce ne saranno sempre di più e il punto di partenza è che sempre più persone metteranno a fuoco questa assoluta incompatibilità strutturale tra capitalismo e democrazia. Sul piano della sfida politica, la possibilità di restituire senso al concetto di democrazia non può fare a meno di un processo di riforme che restituiscano ossigeno alla maggioranza della società, emancipandola dal ricatto materiale dentro e fuori i luoghi di lavoro, un percorso che rimetta al centro le grandi e mai tramontate questioni del diritto alla casa, alla sanità, alla democrazia nei luoghi di lavoro, all’istruzione; una battaglia quotidiana da accompagnare a due ingredienti fondamentali: controllo dei movimenti dei capitali sul piano nazionale ed europeo e una forte pianificazione economica. “Come contrapporre ad esempio il diritto all’abitare a quello della speculazione e della rendita” riflette Streeck “se non imponendo in maniera trasversale e sistematica limiti alla proprietà immobiliare e alla speculazione sui prezzi degli affitti?”; tutte le evidenze empiriche ormai ci dicono che la libertà di movimento dei capitali da un lato favorisce i profitti a danno dei salari e, dall’altro, alimenta l’instabilità macroeconomica e il caos delle relazioni internazionali. La nostra prima esigenza politica, dunque, è quella di reprimere la libertà di movimento del capitale per ridare slancio a tutti gli altri diritti – civili, politici e sociali; ma chi sarebbe materialmente in grado di portare avanti questa rinnovata subordinazione del mercato finanziario agli interessi della collettività? Streeck sembra piuttosto pessimista che tutto questo possa avvenire a un livello sovranazionale: “Se non c’è nulla nell’Europa sovranazionale che possa fornire il tipo di coesione sociale e di solidarietà e governabilità necessario, se tutto ciò che c’è a livello sovranazionale sono gli Junker e i Draghi, allora la risposta generale è che invece di fare come Don Chisciotte e cercare di estendere la scala della democrazia a quella dei mercati capitalistici, bisogna fare il possibile per ridurre la scala di questi ultimi e adattarla alla prima.” In altre parole, il mercato deve essere riportato nell’ambito del governo nazionale democratico. Staremo a vedere.
Quello che è sicuro è che per invertire la rotta serve prima di tutto convincersi dell’intrinseca antidemocraticità del capitalismo, ma per farlo avremo bisogno di un media libero e dichiaratamente democratico che combatta la propaganda delle oligarchie che fingono pure di essere state scelte e volute da noi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è Mario Draghi

“Sono Ottimista. L’Europa collasserà” – lo scoppiettante esordio di MICHAEL HUDSON su OttolinaTV

Ottoliner ben ritrovati; oggi per ogni ottoliner che si rispetti, è un gran giorno. Finalmente, a circa due anni dalla nascita del nostro progetto, abbiamo con noi l’economista che probabilmente più di ogni altro ci ha guidato e ispirato: il leggendario Michael Hudson, l’autore di Superimperialism, il libro che per primo ha svelato a tutto il mondo la nascita dell’imperialismo finanziario USA e della dittatura globale del dollaro. Ieri abbiamo rapito Michael per oltre due ore; il risultato verrà pubblicato a breve in versione integrale. Oggi, però, ci premeva darvi subito un piccolo ma succulento anticipo e non potevamo che concentrarci su quello che, probabilmente, è l’aspetto più attuale e urgente dell’analisi di Hudson; di fronte al conflitto epocale tra Occidente collettivo e Sud globale, infatti, anche a questo giro sembra regnare sovrana la confusione e c’è chi sproloquia di fantomatici conflitti inter – imperialistici, come se tra il capitalismo finanziarizzato delle oligarchie USA e lo stato sviluppista cinese non ci fosse poi chissà che differenza. Lo scontro in atto, in sostanza, sarebbe uno scontro tra soggetti tutto sommato equivalenti, dettato esclusivamente dalla stessa volontà di potenza e quindi, in soldoni, non ci riguarderebbe; anzi, alla fine – padrone per padrone – meglio la democrazia statunitense, con la sua libertà di espressione e di organizzazione politica e sindacale, del turbocapitalismo cinese. Hudson da anni conduce una battaglia intellettuale senza esclusione di colpi per cercare di spiegare perché questa impostazione sia sostanzialmente una gigantesca puttanata e oggi, per la prima volta, il perché lo potete sentire direttamente da lui in italiano, grazie al doppiaggio del nostro mitico Diego Cossentino. Il capitalismo industriale dell’economia politica classica non è il paradiso: non ci assomiglia neanche lontanamente; il paradiso non esiste.
La storia, il progresso e la democrazia moderna però sì, esistono eccome e per riprendercele dobbiamo ultimare il lavoro che le rivoluzioni borghesi avevano iniziato ormai qualche secolo fa e sbarazzarci definitivamente dei parassiti. Per farlo ci serve un vero e proprio media, uno di quelli che, ad esempio, è in grado di portare per la prima volta sul web italiano un gigante come Michael Hudson, per uscire dal pantano del pensiero dominante e del declino e ridare voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Margaret Thatcher

SINNER l’ANTI-ITALIANO: se un EVASORE TOTALE viene spacciato per Eroe della Patria

“Lavoro, famiglia e la rimonta da Slam”; Jannik Sinner, “l’arcitaliano che vorremmo essere”: nei giornali dei fintosovranisti, lunedì – la prima volta di un italiano agli Open di Australia – veniva salutata, comprensibilmente, con incontenibile entusiasmo. Ora, a noi il tennis piace, piace vedere il tricolore in cima al podio e piace pure Sinner, ma cosa intendono esattamente quando parlano dell’arcitaliano che vorremmo essere? Intendiamoci: sul che vorremmo essere magari ci può anche stare, ma siamo proprio sicuri che si parli esattamente di un arcitaliano? Jannick Sinner infatti, come d’altronde anche l’allenatore e 4 componenti su 5 del team che ci ha regalato di nuovo, dopo decenni, la Coppa Davis, in realtà sono italiani un po’ a modo loro: hanno tutti la residenza a Montecarlo, dove pagano le tasse (o meglio, dove non le pagano); il principato di Monaco, infatti, è un gigantesco paradiso fiscale e per l’Italia è un problema enorme. Ogni anno ci finiscono una quantità spropositata di quattrini che a noi che non ambiamo a essere arcitaliani, ma ci accontentiamo di essere italiani semplici, servirebbero come il pane per finanziare i servizi essenziali che hanno permesso anche ai nostri campioni di diventare quello che sono (dalla scuola alla sanità, a tutto quello che fa del nostro paese – ancora per poco – un paese moderno e sviluppato), ma anche per rilanciare la nostra moribonda economia. Siamo proprio sicuri che il modello del perfetto patriota sia qualcuno che prende dalla nostra comunità tutto quello che gli serve e poi, quando gli va bene, ci fa ciao ciao con la manina e non restituisce niente? Con patrioti così – e con chi li eleva a role model di cui vantarsi e da ostentare – non è che rischiamo di darci una martellata nei coglioni?

Jannik Sinner

Il patriottismo italiano ai tempi del governo dei fintosovranisti al servizio di Washington e delle oligarchie finanziarie sembra un po’ strambo: i personaggi dello sport si fottono beatamente i soldi che dovrebbero servire per garantire i servizi essenziali a chi ha più bisogno e per far ripartire l’economia anche per tutti gli altri e, ciononostante, diventano eroi della patria; come si dice in questi casi, la mia idea di patria evidentemente è differente. Il caso di Montecarlo è un caso scuola di come funziona il grande furto di ricchezza delle oligarchie e dei super – ricchi a danno dei loro – a quanto pare – tanto odiati compatrioti e riguarda, in particolare, proprio l’Italia; in appena due chilometri quadrati, infatti, a Montecarlo si concentrano circa 38 mila abitanti, 19 mila per chilometro quadrato: la più grande concentrazione di popolazione al mondo e senza che ci siano i megagrattacieli di Dubai o di Abu Dhabi. Tutti fitti fitti come formichine; insomma, un vero posto di merda. Eppure, come riporta Idealista, è proprio qui che ci sono i monolocali più cari del mondo: 51 mila euro al metro quadrato, contro gli oltre 43 mila del centro di Hong Kong; un gap che aumenta se, invece che i soli monolocali del centro, ci si allarga anche alle altre aree e alle altre tipologie di abitazione. A Montecarlo, infatti, il prezzo al metro quadro medio continua ad essere di oltre 44 mila euro, mentre a Hong Kong scende a poco più di 16 mila: 44 mila euro al metro quadro, 4 milioni e mezzo per un umile appartamento di 100 metri quadrati. Perché?
Semplice: nel principato di Monaco le tasse sul reddito e sulle plusvalenze non sono semplicemente scandalosamente basse; proprio non ci sono del tutto, come non ci sono tasse sul patrimonio, sull’eredità e manco l’IMU, e per acquisire il diritto di non pagare le tasse a Montecarlo ti devi comprare per forza quattro mura. Ecco così che decine di migliaia di ultra – ricchi di tutto il pianeta fanno a gara per spartirsi i mattoni che si accumulano uno sopra l’altro in questi orrendi 2 chilometri quadrati di territorio; i 39 mila abitanti di Montecarlo, infatti, si dividono in poco meno di 140 nazionalità di provenienza diverse : solo nel 2022 – riporta l’ufficio di statistica monegasco – sono state effettuate transazioni immobiliari per 3,54 miliardi, oltre 90 mila euro pro capite. In Italia, giusto per avere un parametro di confronto, il valore delle transazioni immobiliari in un anno equivale a meno di 2000 euro pro capite. Tutti soldi che non solo vengono sottratti al fisco, ma anche all’economia reale.
E’ un esempio paradigmatico di bolla speculativa che si sostiene grazie alla fuga dei capitali e all’elusione fiscale internazionale: te sei azionista di un’azienda che opera in un paese X, ma hai la residenza fiscale a Montecarlo; quando arrivano i dividendi, invece di reinvestirli li porti nel principato di Monaco e ci compri uno di questi appartamenti: un quadrilocale standard da 123 metri quadrati per 5,4 milioni, oppure un modesto bilocale da 70 metri quadrati per appena 4,9 milioni o, se ti è andata particolarmente di lusso quell’anno, magari anche un bel duplex da oltre 400 metri quadrati per la modica cifra di 22,9 milioni. Ovviamente quei soldi non creano nessuna forma di ricchezza reale e, a parte quell’1% scarso che va a chi la casa l’ha costruita davvero, non aiutano nessuna forza produttiva a svilupparsi, e però te sei tranquillo che il tuo patrimonio è al sicuro, completamente detassato e che si rivaluterà continuamente grazie ai tuoi amici che sono al governo nel tuo paese di provenienza, che ti garantiscono che la fila di super – ricchi che fanno a pugni per comprarsi le quattro mura necessarie per farli diventare parte di questo sogno distopico ci sarà sempre e che nessuno farà mai niente per mettere fine a questa rapina . E, anzi, eleggeranno a eroe della patria dell’anno chi ci partecipa, che, va ricordato, sarà pure il primo italiano a vincere gli Open d’Australia, ma in questo giochino a chi frega più soldi all’Italia e agli italiani arriva esimo. Dopo i meno di 9 mila abitanti autoctoni e i poco meno di 10 mila cittadini francesi, a guidare la classifica dei residenti monegaschi per paese di provenienza – e di gran lunga – infatti, c’è proprio l’Italia: oltre 8000, seguiti a gran distanza dai meno di 3000 cittadini britannici e dai poco più di mille svizzeri e belgi. Gli statunitensi, invece, sono proprio pochini: meno di 400; strano eh? Beh, mica tanto: insieme ai francesi, infatti, gli statunitensi sono gli unici che non hanno diritto all’esenzione totale dalle tasse sui redditi e sulle plusvalenze; chiamali scemi… I governi USA hanno steso tappeti rossi in casa ai loro super – ricchi creandosi anche paradisi fiscali interni; ma i capitali non li fanno fuggire a caso. Loro sono quelli che i capitali li fregano agli altri, non certo quelli che se li fanno fregare.

Valentino Rossi’s “Ciao poverih”

Ora, i nostri 8 mila connazionali che con i loro magheggi fiscali hanno dichiarato guerra all’economia del nostro paese, diciamo che in media hanno un modesto appartamento da un centinaio di metri quadrati per uno anche se non ci stanno mai: come avviene nella stragrande maggioranza dei casi,100 metri per questi parassiti sono un misero pied-à-terre. Ecco: fanno 800 mila metri quadrati di bolla speculativa edilizia a 50 mila euro al metro quadrato, e cioè 40 miliardi sottratti all’economia reale del nostro paese, perché fare soldi investendoli nell’economia reale comunque è troppo più faticoso e rischioso che non depositarli in una bolla speculativa in un paradiso fiscale. E 40 miliardi sono tantini, eh? Sono oltre 30 volte i soldi che servono per salvare l’ILVA, ma soprattutto sono circa 4 volte il totale degli investimenti esteri diretti che l’Italia riceve in media in un anno; non so se è chiaro: con la scusa di attrarre più investimenti, nell’arco di 30 anni abbiamo completamente azzerato i diritti dei lavoratori italiani e poi scopriamo che attiriamo in tutto una quantità di investimenti che è un quinto dei quattrini che i nostri super – ricchi hanno fregato all’economia italiana per comprarsi casa in quel cesso di posto che è Montecarlo, e il bello è che questa è solo la punta dell’iceberg. La bolla speculativa immobiliare dei paradisi fiscali, infatti, è una parte infinitesimale del gigantesco schema Ponzi in cui è stata trasformata dalla controrivoluzione neoliberista l’intera economia dell’Occidente collettivo; il grosso della ciccia, infatti, è dall’altra parte dell’oceano, a Wall Street: è il sistema che Daniela Gabor ha ribattezzato il Wall Street consensus, il vero nodo – insieme alla proiezione militare – del superimperialismo dominato da Washington e che gode di una vasta rete di alleanze.
Alessandro Volpi, in particolare, a questo giro si è concentrato su un asse: quello che lega a Washington la Norvegia. La Norvegia infatti, mentre fa la ramanzina al resto del mondo sulla transizione ecologica, fonda la sua potenza economica nazionale su un gigantesco fondo che si occupa di investire gli enormi profitti che arrivano dalle care vecchie fonti fossili e che sono aumentati a dismisura da quando l’Unione Europea ha deciso di uccidere l’economia dei paesi che vi aderiscono per far finta di fare un dispetto a Putin mentre, in realtà, facevano solo un regalo a Zio Biden: una quantità spropositata di quattrini che – come i quattrini degli italiani che finiscono nelle case di Montecarlo – non contribuiscono in nessun modo allo sviluppo economico del vecchio continente, ma solo ed esclusivamente ad alimentare le bolle speculative dei mercati finanziari, in particolare quelli USA, rimandando così il crollo definitivo dello schema Ponzi dell’economia Occidentale mentre, allo stesso tempo, contribuiscono a scavare il baratro in cui precipiteremo quando inevitabilmente, a un certo punto, la everything bubble – la bolla di tutto – scoppierà. Quindi, in soldoni, le cause profonde che hanno scatenato la grande depressione del ‘29 (che è stata la seconda grande depressione del capitalismo globale) sono le stesse identiche che hanno causato la terza grande depressione – come la chiamano Vijay Prashad e i ricercatori della Tricontinental – che è quella che stiamo vivendo noi in diretta da una quindicina di anni abbondanti. Nel ‘29, però, ancora non esisteva il Wall Street consensus e, cioè, questa gigantesca concentrazione monopolistica dei capitali finanziari privati che è quella che tiene insieme, in una strategia unica coordinata, i mega – fondi come BlackRock, Vanguard, State Street e altri fondi enormi – ma in termini assoluti comunque secondari – come, appunto, quello sovrano della Norvegia che campa di sfruttamento delle fonti fossili: in quel caso, allora, a salvare il capitalismo dal suo suicidio ci dovette pensare Roosevelt con il suo New Deal che le oligarchie furono costrette ad accettare perché, altrimenti, sarebbe saltato definitivamente per aria tutto, ma che non digerirono mai fino in fondo. Con il New Deal, infatti, per salvare il sistema, una fetta enorme di potere politico che – in soldoni – è il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa, passò dai grandi gruppi capitalistici privati allo stato; da allora le oligarchie hanno imparato la lezione e, a partire dagli anni ‘70 – gli anni, cioè, dello scoppio della grande controrivoluzione neoliberista inaugurata ufficialmente dall’avvio della lotta contro la democrazia moderna in Occidente da parte della Commissione Trilaterale – hanno pianificato in ogni minimo dettaglio la costruzione del più grande monopolio finanziario privato della storia del capitalismo globale, trasferendo di nuovo il potere politico di decidere dove vanno i soldi per fare cosa in mano alle oligarchie che, bisogna ammetterlo, fino ad oggi hanno fatto un ottimo lavoro: a oltre 15 anni dallo scoppio di quella che chiamano la crisi finanziaria ma che in realtà, appunto, è la terza grande depressione della storia del capitalismo globale, il monopolio finanziario privato è riuscito a garantire profitti e dividendi stellari alle oligarchie senza che fosse necessario rimettere in moto l’economia reale e, quindi, senza che il potere dovesse essere di nuovo trasferito – almeno in parte – agli stati come ai tempi del New Deal al punto che oggi, anche quando si parla di finanziamenti pubblici – come nel caso della transizione ecologica o dei giganteschi incentivi pubblici messi in campo dall’amministrazione Biden nel tentativo di Make america great again come Trump e più di Trump – i quattrini vanno tutti, senza esclusione, a finire nei bilanci dei gruppi privati. Come dire… chapeau.

Sergio Marchionne

Scemi noi, il 99%, che – come per le case degli evasori di Montecarlo – continuiamo a occuparci a dividerci sulle fregnacce mentre questi ci fregano da sotto il naso tutta la ricchezza che produciamo con il nostro sudore. Sarà perché sono un po’ vagabondo, ma io sinceramente mi sarei anche abbondantemente rotto i coglioni di lavorare per pagare i duplex da 22 milioni a Montecarlo a qualcuno che non ha mai lavorato mezz’ora in vita sua. Ottolina Tv l’abbiamo fondata per questo: per convincervi che è arrivata l’ora di riprenderci i nostri soldi. Che dici? Ci dai una mano? Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Jannik Sinner

No dai, scherzo, che poi sembra che ce l’abbiamo con lui. Invece a me Sinner mi gasa anche, ci mancherebbe! Rifamo:

E chi non aderisce è Valentino Rossi

Ah no? Manco lui. Va beh.

E chi non aderisce, allora, è Sergio Marchionne
(eh si, anche lui c’aveva la residenza a Montecarlo: grande patriota pure lui?)

MARATONA OTTOLINA – Un Nuovo Governo per il 99% – ft Tridico, Mattei, Scarpinato, Basile, Bradanini (Live pomeriggio)

FINE DELL’AUSTERITA’ E NUOVO INTERVENTO PUBBLICO: UN’IPOTESI DI GOVERNO così si intitola l’incredibile conferenza messa in piedi da Andrea del Monaco e soci 20 relatori, ognuno con un campo di competenza diversa, si alternano sul palco per delineare le traiettorie fondamentali di un vero e proprio governo alternativo per il paese, in grado di coniugare radicalità e concretezza, per tornare a essere dalla parte del 99% nei fatti, e non solo nelle chiacchiere dall’ex ambasciatore italiano a teheran e pechino Alberto Bradanini, alla Giovanna D’Arco della battaglia culturale contro il mito dell’Austherity Clara Mattei, da Elena Basile a Pasquale Tridico, da Roberto Scarpinato a Gianni Dragoni, il meglio del meglio dell’Italia che resiste alla dittatura di Washington e delle Oligarchie, tutti uniti per costruire un vero fronte popolare plurale, democratico e in grado di conquistare il cuore della maggioranza della popolazione una vera maratona per ridare a questo paese la speranza di un vero nuovo governo per il 99%

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