Musk, Trump e Buffet si stanno preparando per la più grande rapina del secolo?
Immàginati di investire 2.000 euro e, dopo 6 mesi, ritrovartene 500 mila: è esattamente quello che è successo a Elon Musk da quando ha fondato, nel maggio 2024, il comitato di azione politica a sostegno di Donald Trump America PAC; nei quattro giorni che hanno seguito l’oceanica vittoria di The Donald, solo le azioni Tesla sono passate da 231 a 331 dollari (+ 45%) ed è solo la punta dell’iceberg. Ieri, infatti, Trump ha annunciato la nascita di un nuovo ministero ad hoc: il Department of Government Efficiciency, il dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE, per gli amici). Un nome, un programma: manco fossimo in un remake di Idiocracy, DOGE infatti è il nome della criptovaluta più amata da Elon Musk, l’unica che da 2 anni può essere utilizzata per fare acquisti sui negozi online di Tesla e che nell’arco di di 48 ore è più che raddoppiata, raggiungendo una capitalizzazione di oltre 60 miliardi di dollari. A guidare il nuovo dipartimento, al fianco di Elon Musk ci sarà l’altro astro nascente delle oligarchie che si sono stufate di farsi rappresentare da politici – che, per quanto servili, risultano spesso troppo cauti e timidi – e hanno deciso di prendersi direttamente il governo del Paese; si chiama Vivek Ramaswamy e deve la sua popolarità, in particolare, a un best seller uscito nel 2021: Woke, Inc.: all’interno della truffa sulla giustizia sociale delle multinazionali americane. Come Musk (e come Trump), Ramaswamy ha capito una cosa fondamentale: nell’era del declino dell’egemonia neo-liberale e del politically correct, affermare in modo sguaiato che i froci, i negri e le zecche rosse hanno rotto i coglioni è un lasciapassare a prova di bomba per rapinare indisturbati i cittadini comuni, con il loro sostegno; mentre Ramaswamy, infatti, conduceva la sua popolare crociata contro la dittatura dell’ideologia woke, raddoppiava (nel giro di pochi anni) il suo patrimonio personale, fino a sfiorare quota 1 miliardo. Da un lato replicando in piccolo il modello BlackRock e Vanguard con il suo fondo di risparmio gestito Strive Asset Management (a sostenerlo, in particolare, Peter Thiel, co-fondatore e presidente di Palantir, che vede come primi azionisti, con oltre il 25% delle quote, proprio BlackRock e Vanguard); dall’altro, mentre insieme a Musk e Trump conduceva una crociata contro i vaccini Pfizer, con la sua Roivant Science con Pfizer firmava un corpulento accordo per la formazione di una nuova società focalizzata sulle malattie infiammatorie. D’altronde, nell’arte del doppio standard poteva vantare il maestro dei maestri: mentre continua a condurre la sua crociata contro l’ideologia green, Elon Musk, infatti, incarna l’esempio perfetto delle oligarchie che, in nome della transizione ecologica, incassano fiumi di denaro pubblico per gonfiare a dismisura il loro patrimonio privato; se Tesla produce qualche profitto, infatti, è solo ed esclusivamente grazie ai contributi pubblici, che vanno dal credito d’imposta concesso per i nuovi stabilimenti – come il miliardo e 3 ottenuto per la nuova gigafactory in Nevada – ai contributi per convincere i consumatori a sperperare i loro soldi acquistando un’auto che deve la sua fama interamente proprio all’ideologia green, ai 10 miliardi che Tesla ha guadagnato ad oggi vendendo ad altri produttori di auto crediti per veicoli a zero emissioni. Ed è solo la punta dell’iceberg perché, rispetto al patrimonio che ha accumulato, i profitti che genera Tesla sono spiccioli: a fare la ricchezza di Musk, infatti, in larghissima parte sono le azioni di Tesla, che valgono oltre 100 volte quello che Tesla produce in termini di profitto. Una bolla. E indovinate un po’ sostenuta da chi? Esatto: BlackRock, Vanguard e State Street che, con oltre il 16%, sono i principali azionisti; date queste premesse, con questo nuovo giocattolino creato ad hoc da Trump e messo interamente nelle loro mani, quanta fuffa e quanti doppi standard dovremo sorbirci? Prima di rispondere, vi ricordo di mettere mi piace a questo video e aiutarci così (anche oggi) a combattere la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi – sia quelli progressisti e democratici di YouTube che quelli populisti e sovranisti di X, entrambi uniti dal comune obiettivo di prenderci per il culo – e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social, compresi quelli del nostro spin8ff di divulgazione storica e filosofica Ottosofia, e anche di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un’icona qualsiasi del trumpismo a firmare un accordo miliardario con qualche monopolio finanziario rettiliano nel New World Order (alla facciaccia vostra), ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a provare a darvi le informazioni che vi servono per avere un’opinione fondata sui fatti invece che sugli slogan della propaganda.
“Ho il piacere di annunciare che il Grande Elon Musk” – dice proprio così, the Great Elon Musk – “insieme al Patriota Americano Vivek Ramaswamy, guiderà il DOGE, il dipartimento per l’efficienza governativa”: “insieme, questi due splendidi americani apriranno la strada alla mia amministrazione per smantellare la burocrazia governativa, tagliare l’eccesso di regolamentazione e gli sprechi, e ristrutturare le agenzie federali”; “diventerà, potenzialmente, il Progetto Manhattan della nostra epoca. Un governo ridimensionato, con più efficienza e meno burocrazia, sarà il regalo perfetto all’America per il 250esimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza. Sono sicuro che avranno successo”. Già in diverse occasioni abbiamo sottolineato come la sfida che si trova davanti l’amministrazione Trump ricorda molto da vicino quella che si trovò ad affrontare nel 1981 Ronald Reagan: una vera e propria rivoluzione non solo degli Stati Uniti, ma dell’intero sistema mondo sul quale rivendicano da sempre la totale egemonia; allora l’intero sistema era stato messo a rischio sul fronte interno dalla lotta di classe di un proletariato industriale galvanizzato da decenni di sviluppo industriale e, su quello internazionale, dalla debacle del Vietnam e dalla crescita dell’influenza del blocco sovietico in un mondo che lottava contro l’eredità coloniale. Oggi la sfida arriva sul fronte internazionale dall’asse delle potenze emergenti che pretendono la transizione a un nuovo ordine globale multipolare e, su quello interno, dell’insostenibilità di un’economia interamente fondata sul debito e sulle bolle speculative; nonostante l’enorme differenza tra i due contesti, in entrambi i casi il primo tassello della rivoluzione necessaria da annunciare ai quattro venti è sempre lo stesso: lotta alle burocrazie e ai fannulloni e massima libertà all’intraprendenza degli imprenditori statunitensi. E, in entrambi i casi, a disegnare il canovaccio sono sempre gli stessi: la Heritage Foundation, uno dei più importanti e influenti think tank reazionari a stelle e strisce; come ci ricorda Marco D’Eramo, infatti, furono proprio loro a mettere nero su bianco il piano dettagliato della rivoluzione reaganiana in un lunghissimo libro bianco di oltre 1000 pagine e che, alla fine del doppio mandato di Reagan, si vantavano “che il 60-65% delle sue raccomandazioni fosse stato fatto proprio dall’amministrazione, che nel corso di due mandati vantò tra i suoi membri 36 funzionari provenienti dal think tank” (Marco D’Eramo, Dominio: la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi).
Ed ora, rieccoli: nel marzo 2023, infatti, la stessa Heritage Foundation è tornata con un altro libro bianco di 900 pagine che segna i capisaldi della rivoluzione necessaria; “Nell’inverno del 1980” ricorda nella prefazione Paul Dans, direttore del progetto, “la nascente Heritage Foundation inoltrò al presidente eletto Ronald Reagan il suo testo Mandato per la leadership. Questo lavoro collettivo da parte dei principali intellettuali conservatori e di ex funzionari governativi, definiva le principali prescrizioni politiche, agenzia per agenzia, per il presidente entrante… E la rivoluzione che seguì molto probabilmente non sarebbe mai avvenuta, se non fosse stato per il lavoro di questi attivisti. Con questo testo ora siamo tornati al Futuro, e oltre. Ma” sottolinea Dans, ormai “non siamo più nel 1980. Adesso il gioco è cambiato. E” – alzate bene le antenne perché questo passaggio è notevole – “la lunga marcia del marxismo culturale all’interno delle nostre istituzioni ormai è avvenuta. E di fronte al trionfo del socialismo e dell’internazionalismo proletario, la missione storica di tutti noi sinceri conservatori non può che essere “invertire la tendenza, e ripristinare i valori fondativi della nostra Repubblica”, che è esattamente quello su cui s’è concentrato Trump in una delle sue prime dichiarazioni pubbliche dopo il voto: d’altronde, come sottolinea sempre Dans nell’introduzione al libro bianco “Il nostro obiettivo è mettere insieme un esercito di conservatori allineati, controllati, addestrati e preparati. Mettersi al lavoro fin dal primo giorno per decostruire” quello che definiscono “the administrative State”, lo Stato amministrativo – e cioè, appunto, la macchina distopica nella quale sarebbe stato trasformato l’apparato statale federale con l’affermarsi dell’egemonia del marxismo culturale. Una linea che viene ribadita e approfondita poi nell’introduzione affidata a Kevin Roberts, il presidente della Heritage Foundation: “44 anni fa” ricorda Roberts riferendosi al periodo immediatamente precedente l’inizio della controrivoluzione neo-liberale avviata da Reagan “gli Stati Uniti e il movimento conservatore versavano in gravissime difficoltà. Entrambi erano stati traditi dall’establishment di Washington e non avevano più punti di riferimento. Erano frammentati, e strategicamente alla deriva” e il tutto proprio mentre “eravamo assediati da avversari esistenziali, stranieri e domestici. La fine degli anni ’70 fu in assoluto uno dei momenti più bassi dell’intera storia americana, e della coalizione politica che avrebbe dovuto preservarne l’unicità in termini di libertà e prosperità umana”. “Oggi” continua Roberts “l’America e il movimento conservatore stanno attraversando un’era di divisione e pericolo simile alla fine degli anni ‘70”: “L’inflazione sta devastando i bilanci familiari, i morti per overdose continuano ad aumentare e i bambini subiscono la tossica normalizzazione dei diritti transgender con drag queen e pornografia che invadono le biblioteche scolastiche”, ma soprattutto “All’estero, una dittatura comunista totalitaria a Pechino è impegnata in una guerra fredda strategica, culturale ed economica contro gli interessi, i valori e le persone dell’America” che rappresenta una minaccia esistenziale per “i fondamenti morali stessi della nostra società”; “Eppure” continua Robert “gli studiosi di storia non possono fare a meno di notare come, nonostante tutte queste sfide, l’ultima parte degli anni ’70 alla fine si sia rivelata il momento in cui la destra politica si è riunificata, ha riunificato il Paese, e ha portato gli USA a una lunga serie di vittorie politiche, economiche e globali di portata storica”. Per replicare quello storico successo, la strada maestra è sempre la stessa: “Smantellare lo stato amministrativo e restituire il potere dell’autogoverno al popolo americano”; “molte persone perderanno il lavoro” ha chiarito Roberts in un’intervista all’Associated Press; “Molti edifici pubblici verranno chiusi. Però noi speriamo che queste persone possano comunque prosperare. Speriamo che possano essere riconvertiti all’industria privata”.
Formula vincente non si cambia, quindi: ma quanto fu veramente vincente quella controrivoluzione di Reagan? E se fu vincente, quanto questa vittoria fu dovuta a questa politica dei tagli per liberare gli spiriti animali del capitalismo? Nonostante i grandi tagli annunciati, durante i due mandati dell’amministrazione Reagan, in realtà, il deficit federale passò dal 2,5 al 5% del PIL; il debito, dal 32,5 al 50% nonostante il PIL, nel frattempo, fosse cresciuto (e anche assai) e il numero di dipendenti federali, invece che diminuire, aumentò dai 2,9 milioni del 1981 ai 3,1 del 1989. Un record. A pesare, sia per la spesa che per gli impiegati, furono in particolare gli investimenti nella difesa che, nell’arco di 8 anni, raddoppiarono: da 157 miliardi a oltre 300. Dopo il 1989 il numero di dipendenti federali subì gradualmente un piccolo ridimensionamento, a parte durante un’amministrazione: indovinate quale? Esatto: la prima amministrazione Trump, durante la quale i dipendenti federali aumentarono di oltre 100 mila unità (dai 2,8 milioni scarsi del 2017 agli oltre 2,9 milioni del 2021); da allora sono un po’ diminuiti, di circa una trentina di migliaia. Insomma: come sottolineiamo spesso, Biden è più trumpiano di Trump e Trump è più bideniano di Biden (a parte nella retorica che hanno scelto per spacciarci le loro vaccate). A determinare il successo della controrivoluzione reaganiana, quindi, sono state presumibilmente tante cose, ma di sicuro non la capacità di rendere più snella ed efficiente la macchina amministrativa; e così, a occhio, neanche il protezionismo: come Trump e soci, infatti, anche Reagan si riempiva la bocca con la tanto sbandierata difesa del made in USA e fece ricorso a misure protezioniste. Introdusse quote sull’importazione di autoveicoli giapponesi e riuscì a imporre delle restrizioni volontarie alle esportazioni di acciaio di vari Paesi, inclusi Giappone e Corea del Sud; inoltre, proprio come un Trump o un Biden, qualsiasi, applicò sanzioni e restrizioni commerciali contro l’Unione Sovietica e altre nazioni comuniste (giustificando tali misure con questioni di sicurezza nazionale), per non parlare, poi, degli accordi del Plaza e del Louvre, nei quali impose con la forza un rafforzamento delle valute dei Paesi concorrenti dal punto di vista della produzione industriale. Ma, ciononostante, i risultati non furono esattamente entusiasmanti: quando arrivò alla Casa Bianca, infatti, la produzione industriale rappresentava il 23% del PIL; a fine mandato era scesa al 20. Nel 1981 la produzione industriale USA rappresentava ancora circa il 30% della produzione globale; a fine mandato era scesa abbondantemente sotto il 25.
Il punto è che quando si sottolinea, giustamente, il grande successo della controrivoluzione reaganiana, bisognerebbe specificare per chi e per cosa: i vincitori della controrivoluzione reaganiana, infatti, furono esclusivamente i più ricchi; e più ricchi erano, più ci avevano guadagnato a discapito di tutti gli altri (e anche degli USA, nel suo insieme, come Paese). La quota di reddito che finiva in tasca all’1% più ricco passò, in 8 anni, dal 10 al 15% e la quota di ricchezza dal 22 al 25%; quella detenuta dallo 0,1% passò dal 7 al 10% (e, cioè, da 700 a oltre 1700 miliardi): tutto merito della finanza e delle delocalizzazioni. Paradossalmente, però, questi due fattori – che, ovviamente, non possono che indebolire e rendere sempre meno sostenibile l’economia di un Paese, in quel caso aiutarono gli USA a rafforzare la loro egemonia – prima sul primo mondo e poi, quando alla fine l’Unione Sovietica implose, anche su tutto il resto del pianeta; ma se per le oligarchie USA questo avrebbe garantito altri 40 anni di dominio globale e la possibilità di guadagnare una quantità di quattrini senza paragoni nella storia dell’umanità (e senza fare, sostanzialmente, un cazzo), per tutti gli altri (e per il Paese nel suo insieme) si trattava di una vittoria di Pirro, e quelli erano bei tempi. Quando Reagan arriva alla Casa Bianca – come abbiamo visto – il manifatturiero USA era il 22% di quello globale; oggi è il 12, lo stesso 12 che raggiungevano Unione Sovietica e Cina messe insieme nel 1981; ora che l’Unione Sovietica non c’è più, Cina e Federazione Russa insieme pesano per il 32%, che è più di quanto producano i G7 messi assieme. Nel 1981 producevano oltre il 60% delle merci del globo. Insomma: per gli USA si trattava, molto semplicemente, di delocalizzare per vincere la lotta di classe contro i lavoratori in casa e di finanziarizzare per far fare un sacco di soldi alle proprie oligarchie (e alle oligarchie degli alleati), ma non c’era nessun rischio di ritrovarsi più deboli economicamente rispetto a quelli che consideravano avversari. Oggi la situazione è totalmente diversa: oggi gli USA si devono rimettere a produrre qualcosa, sennò altro che impero! Diventano una provincia secondaria, anche col supporto di tutti gli alleati; e il problema (che sembra irrisolvibile) è che, per farlo, dovrebbero azzoppare il dollaro e la bolla speculativa, un po’ come provò a fare Reagan nel 1985 con l’accordo del Plaza, quando costrinse gli alleati/vassalli ad apprezzare la moneta e a indebolire il dollaro per far ripartire un minimo le esportazioni. Peccato, però, che allora gli USA avevano una posizione finanziaria netta in passivo per qualche centinaio di miliardi; oggi hanno debiti con l’estero per 22 mila miliardi: indebolire il dollaro vuol dire darsi la zappata sui piedi definitiva. Allora, poi, la risolsero in buona parte aumentando a dismisura la spesa militare e, quindi, facendo altro debito, ma il debito non era nemmeno al 50% del PIL; oggi è quasi al 130. E se allora quella spesa garantiva comunque il primato militare mondiale, ora – almeno a giudicare dalle scoppole che le loro armi futuristiche prendono da 2 anni in Ucraina – la vedo leggermente più complicata.
Insomma: se già nell’era Reagan la leggenda delle magnifiche sorti e progressive dello Stato minimo veniva smentita dalla realtà, oggi appare piuttosto chiaramente una barzelletta: e allora perché tutta questa enfasi sul DOGE, degna delle migliori scene di Idiocracy? Senza escludere a priori la possibilità che questa amministrazione sorprenda tutti e tiri fuori dal cilindro un’altra soluzione rivoluzionaria che perpetri l’eccezionalismo USA per qualche altro decennio, al momento la risposta più probabile, sinceramente, mi sembra un’altra: rapinare tutto il rapinabile prima che tutta la baracca affondi definitivamente. Da questo punto di vista, il compagno Trump potrebbe fare esattamente quello che tutti noi ci auguriamo da tempo: accelerare il declino fino alla catastrofe. Insomma: scenario Don’t look up dove, però, l’asteroide finedimondo sarebbe l’arsenale nucleare USA; d’altronde, per un’amministrazione che si riconosce pienamente nei deliri millenaristi della peggio feccia fascio-sionista, anche l’armageddon potrebbe essere una soluzione tutto sommato possibile. Intanto (proprio come Reagan), alla fine, invece che tagliare la spesa non fece che aumentarla, in gran parte per trasferire denaro pubblico nel grande complesso militare industriale; ora si tratterebbe di riempire le tasche di Musk & company. Uno dei primi obiettivi di Musk sarebbe senz’altro quello di azzerare pali a paletti che – in particolare da un anno a questa parte – gli pone la Federal Aviation Administration che, visto che il sito di lancio di SpaceX in Texas è situato accanto a una riserva naturale nazionale e a un parco statale, sta sempre lì a chiedere un sacco di analisi ambientali prima di ogni lancio, “Un processo che” sottolinea il New York Times “ha fatto infuriare il signor Musk, rallentando i suoi piani di portare l’uomo su Marte”; piani che ora, ovviamente, dovrebbero essere rilanciati on steroids dall’amico Trump in una nuova corsa allo spazio in stile Reagan, finanziata con soldi pubblici, ma destinata a tasche private. L’annuncio c’è già stato: “Faremo atterrare un astronauta americano su Marte” ha dichiarato Trump durante un comizio in ottobre. Un altro po’ di soldi dovrebbero arrivare dai programmi per portare la banda larga nelle aree rurali: Biden aveva escluso Starlink dai 42,5 miliardi di sussidi approvati dalla sua amministrazione; probabile che adesso il dossier venga riaperto. E poi c’è la partita del robotaxi, “il business da 1 trilione di dollari” che, ricorda il Financial Times, “è ostacolato anche dalle autorità di regolamentazione. A differenza di Waymo di Google, Tesla non è riuscita a ottenere l’approvazione per la classificazione più alta di guida autonoma, un grosso ostacolo alla promessa di Musk di avere robotaxi in California e Texas l’anno prossimo”. Con la sfacciataggine che lo contraddistingue, Musk aveva annunciato, durante l’ultima conference call con gli azionisti di Tesla, che “se esisterà un dipartimento per l’efficientamento governativo, cercherò di contribuire a farlo accadere” e, cioè, a legalizzare unilateralmente il robotaxi. E questi sono solo i principali business che già conosciamo, ma all’orizzonte ci potrebbe essere molto, molto di più.
Un paio di segnali: il Financial Times, l’altro giorno, riportava che “I bonus di Wall Street quest’anno si prevede possano aumentare fino al 35%”. La ragione è semplice: dopo 2 anni di stanca, tutti si aspettano che si apra una stagione imponente di Merger & Acquisition (fusioni e acquisizioni) e ogni operazione frutterà commissioni sostanziose agli intermediari di Wall Street, a partire da Goldman Sachs, dove si è fatto le ossa proprio Ramaswamy e dove ha lavorato una vita – te guarda, a volte, il caso – il neo nominato ministro delle finanze tedesco Joerg Kukies; sarà un caso che, dopo Tesla, Goldman Sachs è in assoluto il titolo che è cresciuto di più nei giorni successivi al trionfo di Trump? Ma ancora più di questi segnali, ce n’è un altro che per noi, cresciuti a pane e Wolf of Wall Street vecchia scuola, ci fa drizzare sempre le antenne: il fattore Warren Buffet, l’uomo che nella sua carriera ha battuta i mercati 140 a 1 e che ultimamente, mentre tutti si gongolavano con i titoli in continua crescita delle magnifiche 7, vendeva il grosso delle sue azioni di Apple e metteva in cassaforte una quantità di denaro liquido senza precedenti (325 miliardi). Perché? Per averli a disposizione per fare shopping! Insomma: con ogni probabilità siamo alla vigilia di una grande ristrutturazione del capitalismo statunitense e Elon Musk s’è posizionato nel migliore dei posti possibili per approfittarne al meglio mentre osserva il meteorite che si avvicina alla Terra; sarebbe il caso di osservare questi processi senza farci infinocchiare dal gossip e dalla propaganda che analfoliberali e analfosovranisti stanno smerciando in gran quantità per impedirci di vedere quanto sia marcio e compromesso il sistema che difendono. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che alla fuffa, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Federico Rampini