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Tag: finanza

[LIVE LA BOLLA] Il Sud globale contro il genocidio e i paradisi fiscali – ft. Dall’Aglio, Lucidi e Faccio

Al contrario di quanto autorevolmente ritengono – infatti – Alessandro Sallusti e Ivan Grieco, questa settimana potrebbe non essere stata esattamente trionfale per il Nord globale. I paesi arabi e, più in generale, del mondo islamico ormai considerano i loro vecchi partner occidentali degli interlocutori minori e, quando c’è bisogno di negoziare qualcosa di veramente corposo, si rivolgono ai grandi player del nuovo ordine multipolare. Era successo per la storica stretta di mano tra sauditi e iraniani di qualche tempo fa ed è risuccesso questa settimana quando, per la prima volta da quando esistono i BRICS, hanno convocato un summit straordinario per mettere le pezze laddove USA e vassalli brancolano nel buio. Dopodiché è arrivato il turno del ritorno in grande stile di Vladimir Putin al G20. “Una vittoria della NATO” ha scritto Sallusti; “La Meloni zittisce Putin” ha rilanciato con encomiabile sprezzo per il pericolo quel bimbominkia di Ivan Grieco. C’è una buona probabilità che abbiano leggermente frainteso il senso politico della questione. Ma la settimana nera dell’egemonia del Nord globale, in realtà, era appena cominciata: giovedì – infatti – all’ONU, tutti i paesi che stanno al di fuori del giardino ordinato dell’uomo bianco hanno votato all’unanimità una risoluzione storica che consegna alle nazioni unite il mandato per elaborare un quadro normativo globale per le politiche fiscali che metta fine all’evasione e all’elusione fiscale e alla centralità che i paradisi fiscali rappresentano per l’imperialismo finanziario degli USA e dei suoi vassalli. “Per i paesi del Sud del mondo” ha esultato Alex Cobham, amministratore delegato del Tax Justice Network, “questa è una vittoria storica. Ma a beneficiarne non saranno soltanto loro, ma tutto il mondo. I paradisi fiscali e i lobbisti della finanza hanno avuto fino ad oggi troppa influenza sulla politica fiscale globale. Oggi iniziamo a riprendere il potere sulle decisioni che riguardano tutti noi”. Dalla denuncia dei doppi standard all’opposizione alle guerre per procura, passando per la lotta contro il genocidio e per finire con la lotta contro la pirateria economica dell’1%, la guerra di resistenza del Sud del mondo contro l’asse del male è sempre più chiaramente anche la nostra guerra, la guerra del 99%. Ne parliamo stasera con Andrea Lucidi, Francesco Dall’Aglio e, per la prima volta su Ottolina TV, con Tommaso Faccio – a capo della segreteria dell’ICRICT, la commissione indipendente per la riforma della tassazione internazionale delle corporation fondata e presieduta dal premio Nobel Joseph Stiglitz – che più di ogni altro si è battuto al fianco del Sud globale per raggiungere il risultato storico del voto di giovedì. A gestire la baracca insieme al Marru, come sempre, la mitica Clara Statello non mancate!

[LIVE OTTOVOLANTE] Italia, Germania e il Patto d’Acciaio per servire Washington – ft. Giacomo Gabellini

Tra la reintroduzione del Patto di Stabilità, la Mega – Truffa del MES e il semi – Golpe dell’Unione Europea, Italia e Germania stringono un’alleanza dove a vincere è soltanto Washington. Berlino si accontenta delle briciole e noi delle pedate nelle gengive, e il bello è che – ciononostante – anche Washington non è che se la passi poi così bene: l’asta dello scorso 9 novembre, per allocare qualche decina di miliardi di titoli di Stato è stata una debacle e, tra BRICS e Nazioni Unite, il Sud Globale – che ha a lungo cercato di corteggiare per sottrarlo alla sfera d’influenza di Russia e Cina con i nostri quattrini – non fa altro che continuare a prenderlo ostentatamente a pesci in faccia. Ne parliamo in questa puntata di Ottovolante con il Marru, Jack Gabellini, Giamba Cadoppi e Alberto Gabriele.

Il ritorno dell’austerity: come e perché a Bruxelles hanno deciso di uccidere l’Economia Europea

Venerdì scorso nella redazione de La Repubblichina era festa grossa: “Ue, l’Italia resta sola” titolavano entusiasti. La testata di punta del gruppo editoriale che, più di ogni altro, s’è speso negli anni per trasformare l’Italia in una doppia colonia – sia di Bruxelles che di Washington – sembra volerle provare tutte pur di far apparire perfino uno svendi-patria di professione come Giancazzo Giorgetti come uno statista tutto d’un pezzo. La partita è di nuovo quella della riforma del patto di stabilità, il quadro regolatorio inventato ad hoc per distruggere scientificamente l’economia reale del vecchio continente. “I governi europei” riportava La Repubblichina “raggiungono l’intesa sulle nuove regole di bilancio”.

Giancarlo Giorgetti

“Per il ministro Giorgetti” scrive Andrea Bonanni in uno dei due comizi propagandistici pubblicati dalla repubblichina a commento della vicenda “è una sconfitta cocente”. Che, più che per Giorgetti, sia una sconfitta non solo per l’Italia, ma ancora più in generale per le condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori e di imprese nel continente, in questa sfida a chi ha i requisiti migliori per candidarsi come curatore fallimentare del paese di fronte alle oligarchie finanziarie dell’Occidente collettivo, evidentemente è un aspetto del tutto secondario: come sottolinea lo stesso Bonanni, infatti, “la proposta iniziale della Commissione è stata corretta nel senso voluto dalla Germania” e, in particolare, dal falco della dittatura dell’austerity Christian Lindner, che vince la sua battaglia contro ogni tentativo di dotare l’Europa degli strumenti minimi necessari per provare a reagire alla gigantesca recessione che è già iniziata nel suo paese e che, a breve, distruggerà quel poco che è rimasto dell’economia europea. L’altro comizio propagandistico anti-italiano de La Repubblichina è affidato invece al solito Claudio Tito che sottolinea come “non si capisce più cosa voglia l’Italia”. Eh, davvero eh? Incomprensibile, proprio; le modifiche filo austerity volute dai falchi tedeschi, infatti, impongono una bella overdose di misure lacrime e sangue per ridurre il debito e riportare il deficit sotto controllo, esattamente l’opposto di quello che servirebbe durante una recessione e contro la nuova ondata di politiche protezioniste made in USA, dove – invece – il debito è esploso e esploderà ancora di più in futuro proprio per regalare una montagna di quattrini alle aziende e convincerle ad abbandonare il deserto europeo e andare a fare fortuna in America. Ora, che degli zerbini viventi come le firme di punta de La Repubblichina accolgano con entusiasmo scelte deliranti di politica economica come questa pur di sperare, un giorno, di prendere il posto dell’amministrazione coloniale attualmente in carica, ovviamente non dovrebbe sorprendere; quello che, invece, è già più complicato da spiegare è “ma perché mai le élite politiche europee hanno deciso di affossare definitivamente l’economia del vecchio continente?
Bye bye soglia del 3%! Per 15 anni abbiamo denunciato come aver imposto, da parte dell’Unione Europea, una soglia del 3% del rapporto tra deficit e PIL fosse stata una misura del tutto arbitraria che aveva il solo scopo di mettere in ginocchio le economie più deboli della periferia meridionale dell’Europa – a partire dall’Italia – per permettere a quelle più forti di fagocitarle; ora quel parametro finalmente viene rivisto. Peccato che sia in peggio: la bozza di riforma del patto di stabilità che ieri ha ricevuto il via libera dai ministri dell’economia e delle finanze dell’Unione Europea, infatti, prevede – come riportava venerdì La Stampa – “di portare il deficit ben al di sotto del 3%, con un margine di sicurezza la cui quantificazione esatta sarà oggetto dei negoziati nelle prossime settimane”. Una mossa geniale che, secondo Bonanni de La Repubblichina, potrebbe essere stata provocata dal fatto che nell’ultima manovra finanziaria italiana ci si è azzardati, contro il parere di Bruxelles, a introdurre qualche spicciolo di deficit in più rispetto al previsto; bazzecole, totalmente insufficienti anche solo a far finta di contrastare la recessione in arrivo e quasi tutte impiegate nella direzione sbagliata, ma abbastanza da far gridare allo scandalo i talebani dell’austerity che, da allora, farneticano che “l’idea che l’Europa veglierà a limitare le politiche di spesa delle destre al potere non dovrebbe essere una cattiva notizia” (Andrea Bonanni, La Repubblichina). Ha ragione: non è cattiva. E’ pessima, e non è l’unica: il nuovo patto, infatti, ripropone pari pari la necessità di svendere i gioielli di famiglia per ridurre il debito a tappe forzate. Certo, le tappe sono distribuite un po’ diversamente rispetto al vecchio patto, ma non certo perché siano cambiate filosofia e scopi di fondo; molto semplicemente, piuttosto, perché la riduzione del debito – come prevista dal vecchio patto – non era fattibile, tant’è che nessuno l’ha mai rispettata e, alla fine, si chiudeva un occhio.
La novità, adesso, consiste nel fatto che l’obbligo di ridurre il debito è sempre sufficiente per indebolire le economie nazionali ma, almeno, in modo che sia un po’ più realistico, e a questo giro – se si sgarra – le sanzioni arriveranno eccome. “Un totem irrinunciabile” scrive La Stampa “da dare in pasto all’opinione pubblica tedesca, poco incline a digerire trasgressioni”. Contro questo delirio Giorgetti, sin dall’inizio, ha cercato di portare a casa almeno una cosa: che dal computo venissero esclusi, perlomeno, una parte degli investimenti – almeno quelli del PNRR. Macché: l’unica eccezione possibile è per l’industria della difesa. D’altronde, per combattere la terza guerra mondiale, quella serve come il pane anche a Washington che, da solo, a tornare a produrre armi a sufficienza molto semplicemente non ce la può fare. E quindi su quello – e solo su quello – si potrà chiudere un occhio.

Giorgetti con il Segretario al Commercio degli Stati Uniti d’America Gina Raimondo

Dal punto di vista macroeconomico, molto semplicemente, tutto questo non ha nessunissimo senso: a causa delle scelte geopolitiche che l’Europa si è lasciata imporre dal padrone a stelle e strisce e che hanno, in primo luogo, completamente devastato il mercato dell’energia del vecchio continente, le nostre aziende già di default non sono più competitive. Ma se a questo ci aggiungiamo la valanga di quattrini che Washington ha messo a disposizione delle aziende che vanno a investire a casa sua, la deindustrializzazione del vecchio continente a favore del padrone d’oltreoceano diventa letteralmente inarrestabile.
Ma perché la classe dirigente europea sta optando per questo plateale suicidio? Sono scemi? In buona parte si: la classe politica, almeno, tanto tanto strutturata e illuminata effettivamente non è, ma loro sono il personale di servizio, diciamo. Chi controlla le fila tanto scemo ovviamente non è, solo che i suoi interessi non sono semplicemente diversi da quelli delle persone normali che campano del loro lavoro; sono esattamente antitetici e, nel caso di noi che viviamo nella periferia dell’Unione, il ragionamento va moltiplicato per due. Il primo schema, infatti, riguarda tutta l’economia europea nel suo insieme ed è quello che continuiamo a ripetere continuamente: l’interesse delle élite economiche europee per la crescita dell’economia reale è relativo. Passare da quella grossissima rottura di coglioni che è la produzione di beni e servizi non è più, da tempo, il modo più semplice per fare profitti; questo vale in generale perché, per fare profitti a mezzo di merci e di servizi, devi far lavorare la gente e la gente, quando lavora, poi avanza sempre strane pretese: diritti, aumenti salariali, addirittura democrazia. Ma vale ancora di più in questa fase dove le variabili sono tante, da quelle climatiche a quelle geopolitiche, e per far tornare le nostre aziende ad essere competitive ci sarebbe un sacco di roba rischiosa da fare: investire nelle infrastrutture, nella formazione, nell’innovazione e, addirittura, ogni tanto andare contro agli interessi di qualcuno più grande e grosso di te, come ad esempio riallacciare i rapporti con la Russia per tornare ad avere l’energia a dei prezzi ragionevoli.
Molto meglio estrarre quel poco di plusvalore che ancora i lavoratori europei sono in grado di produrre – nonostante la produttività sia crollata a causa dei mancati investimenti – e andare a investire quei quattrini nelle bolle speculative d’oltreoceano. Ma non solo: anche farsi dare in gestione dei monopoli naturali dallo Stato – dove i profitti sono garantiti da tariffe imposte con la forza dello Stato stesso e il rischio è zero – è sempre meglio che lavorare, e quindi una bella overdose di austerity che imponga agli stati di privatizzare ed esternalizzare tutto quello che è possibile è una bella scorciatoia per garantirsi profitti facili. E poi ha anche un’altra bella utilità: privatizzando ed esternalizzando, infatti, la gente comune – per garantirsi i servizi minimi essenziali – è costretta a mettere i quattrini nelle pensioni integrative e nelle assicurazioni mediche e quei soldi, poi, vengono gestiti dalle oligarchie finanziarie globali per continuare a gonfiare le bolle speculative che, quindi, ricevono sempre nuovi quattrini per continuare a gonfiarsi all’infinito ed eliminare ogni rischio. Ecco così che, al posto dei rischi dell’economia reale, ti ritrovi di fronte alle rendite sicure delle bolle speculative. E che fai, te ne privi?
Questo è il meccanismo globale – diciamo – e tocca un po’ a tutti, dai tedeschi agli italiani. Dentro questa logica, però, ce n’è anche un’altra gerarchicamente meno importante ma che permette ai tedeschi di imporre ai loro cittadini questo furto sistematico della loro ricchezza da parte dello 0,1% senza che si incazzino troppo ed è la logica, appunto, che attraverso misure di austerity permette ai capitali più forti di fare shopping a prezzi di saldo nei paesi più deboli, come è successo in Grecia ormai oltre 10 anni fa. E’ la logica che vede contrapposti gli interessi dell’Europa del nord, con i conti relativamente in ordine, rispetto a quelli dell’Europa meridionale, quelli che una volta chiamavamo PIGS: impedendo – attraverso misure lacrime e sangue – ai paesi dell’Europa meridionale di rafforzare la loro economia reale, l’Europa del nord rafforza il rapporto gerarchico a suo favore. Non è sufficiente per invertire il declino della loro economia, ma per lo meno ne rallenta il crollo e, con gli ultimi dati sull’andamento della produzione industriale in Germania, direi che ormai ne hanno sempre più bisogno, prima che il malcontento consegni il governo all’AFD o, magari – cosa che a noi andrebbe decisamente meglio ma alle élite tedesche probabilmente meno – alla nuova formazione politica di Sarah Wagenknecht.

Il buon vecchio Tommaso Nencioni

In questo rapporto gerarchico di subordinazione, inoltre, c’è un’altra componente, come ricorda sempre il nostro buon vecchio Tommaso Nencioni: massacrando l’economia reale della periferia europea, infatti, la Germania impone in modo indiretto anche politiche restrittive a livello salariale, e siccome chi produce nella periferia dell’Europa – e in particolare in Italia – lo fa principalmente proprio come sub-fornitore delle industrie tedesche, questo permette di garantire margini di profitto un po’ più solidi. Di fronte a questo scempio l’Europa mediterranea e meridionale dovrebbe gridare all’unisono vendetta, se solo esistesse: in Portogallo il presidente ha sciolto il parlamento, la Spagna è senza governo e sull’orlo di una guerra civile e la Grecia, dopo il trauma della crisi dei debiti sovrani, è così sottona che al governo ci sono dei falchi più falchi dei liberali tedeschi, e all’opposizione un rampollo della finanza speculativa che manco parla greco.
Per quanto paradossale possa sembrare, l’avanguardia della resistenza progressista contro i piani distopici di Bruxelles – paradossalmente – è proprio Giancazzo Giorgetti. Cioè, rendiamoci conto, Giancazzo Giorgetti! E i media mainstream della galassia liberaloide gli fanno la guerra, sì, ma da destra, e non è proprio facilissimo. Se Giorgetti ora punta i piedi, infatti, non è certo per difendere l’economia reale italiana; semplicemente, si vuole garantire qualche margine per distribuire un po’ di prebende ai prenditori parassitari italiani tipo Bonomi che, nonostante rappresenti imprenditori che hanno registrato profitti stellari e non hanno reinvestito un euro nell’economia reale, l’altro giorno ha avuto il coraggio di lamentarsi che, nella manovra, solo l’8% delle risorse sono regali alle aziende. Ma non solo, perché alla fine – infatti – sarebbe addirittura emerso che l’opposizione di Giorgetti in realtà sarebbe stata tutta e soltanto a favore delle telecamere: secondo la ministra spagnola Nadia Calvino, presidente di turno del Consiglio europeo – infatti – “durante gli scambi intensi che abbiamo avuto nelle ultime settimane” tutte queste osservazioni e critiche al nuovo patto di stabilità, in realtà, “non si sarebbero mai sentite”.
Insomma: come per la tassa fantasma sugli extraprofitti, sarebbe solo propaganda ad uso e consumo di quei pochi inguaribili ottimisti che ancora si illudono che questa destra di cialtroni svendi-patria abbia ancora davvero qualche componente così detta sociale. In realtà, ovviamente – come hanno ampiamente dimostrato con l’ultima manovra di bilancio – Giancazzo Giorgetti e il suo governo di svendi-patria finto-sovranisti, al progetto distopico di Washington e di Bruxelles di completo smantellamento delle basi produttive del vecchio continente e di finanziarizzazione forzata dell’intera economia ci ha aderito eccome; quello che chiede è, semplicemente, un po’ di margine per qualche prebenda in più – che è l’unica cosa che il suo governo ha da offrire al paese – e il pretesto per montare un po’ di teatrino e continuare con la pantomima del governo dei patrioti.
E la reazione isterica degli analfoliberali del sistema mediatico mainsteam è esattamente tutto quello che gli serve per portare avanti la pantomima mentre alla fine, come ammette anche La Stampa, “si continua a negoziare, e nei palazzi UE c’è ottimismo”. Come sempre, appena vai un millimetro sotto la superficie, anche a questo giro, l’agenda delle diverse fazioni del partito unico degli affari e della guerra sempre quella è.
Per smontargli il giocattolino abbiamo bisogno di un media che vada alla sostanza delle cose e che le racconti dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Cottarelli

CIA e Fondi Speculativi: l’assalto degli USA alle telecomunicazioni globali (a partire dall’Italia)

L’accelerazione della svendita degli asset strategici italiani ai padroni dell’impero è diventata la priorità assoluta del governo dei fintosovranisti che procedono a suon di blitz, e quello di lunedì scorso è stato letteralmente inquietante: senza passare dall’assemblea dei soci, con la piena collaborazione del governo, il Cda di TIM ha deciso di accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR per la vendita della sua rete fissa.

Sarah Bartlett

Probabilmente l’asset più strategico di tutti gli asset strategici e, probabilmente, il peggior acquirente possibile immaginabile: “The money machine”, la macchina da soldi, come aveva ribattezzato KKR Sarah Bartlett nel suo leggendario libro nell’ormai lontano 1991, aprendo gli occhi al mondo di fronte alle pratiche predatorie dei fondi che compravano a debito le aziende per spolparle e intascare plusvalenze stratosferiche. Ma non solo: KKR, infatti, è diventato un vero e proprio braccio armato delle mire egemoniche dell’impero e si sta ritagliando, acquisizione dopo acquisizione, un posto al sole nel mondo delle infrastrutture delle telecomunicazioni dall’India all’Olanda, passando per il Cile, Singapore, la Colombia. Roba che grande fratello scansate, soprattutto per la biografia di chi è al posto di regia: nientepopodimeno che un ex direttore generale della CIA. E’ il famigerato generale USA David Petraeus, già noto per il ruolo disastroso ricoperto nella carneficina irachena prima e in quella afghana poi; nel 2012, in seguito a uno scandalo a sfondo sessuale, lascia di punto in bianco la guida dell’intelligence USA ed eccolo approdare magicamente nella stanza dei bottoni di KKR che gli crea una nuova divisione ad hoc – il KKR Global Institute – specializzata nell’analisi macroeconomica e geopolitica. “Petraeus” sottolineava Il Sole 24 Ore nel 2013 “potrà aiutare KKR anzitutto ricorrendo alla sua rete di contatti con governi e autorità internazionali”. Direi che ha soddisfatto tutte le aspettative: consegnare infrastrutture strategiche – come le reti di telecomunicazioni – a un fondo speculativo che sa di CIA da mille miglia di distanza ovviamente è un’operazione che non ha niente a che vedere con il mercato, la concorrenza e l’interesse economico in genere. E’ una scelta politica di totale e palese sottomissione, è la ciliegina sulla torta della totale abdicazione a ogni minimo tentativo di ritagliarsi uno spazio, se pur minimo, di indipendenza e di sovranità e completare il processo che in 30 anni ha trasformato l’Italia nel 51esimo stato guidato da Washington.
La domanda è: ma perché? Perché una classe dirigente che è salita al governo grazie alla retorica della patria e del sovranismo sta facendo di tutto per passare alla storia come l’artefice più spregiudicata della morte definitiva dell’Italia come paese sovrano?
Quella che vi racconteremo oggi, con il prezioso contributo del mitico prof. Alessandro Volpi, è la grande storia di come le oligarchie finanziarie USA hanno trasformato, con la complicità delle oligarchie locali, tutti i paesi che definivano alleati in appendici dell’impero a stelle e strisce. E lo faremo a partire dall’ultimo sconcertante capitolo di questa lunga saga, l’incredibile blitz che lunedì ha portato il consiglio di amministrazione di TIM, col benestare del governo e senza manco passare da un’assemblea degli azionisti, ad accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR – che annovera nel suo top management nientepopodimeno che l’ex direttore della CIA David Petraeus -per l’acquisto di quello che è probabilmente in assoluto l’asset più strategico della compagnia e, in generale, del nostro paese: la rete fissa delle telecomunicazioni.

Prof. Alessandro Volpi: ““Perché l’operazione consiste, appunto, nella cessione di operazione della rete. Quindi, secondo me, c’è un primo elemento singolare in questa vicenda, che è la decisione del consiglio d’amministrazione che non passa all’assemblea dei soci, ritiene che il socio pubblico sia sostanzialmente irrilevante e affida a KKR la proprietà della rete. Ora, è vero che TIM aveva già una quota significativa di azionisti internazionali, il 44%, però è altrettanto vero che qui si passa dal 44%, più o meno frammentato di azionisti internazionali ad un unico soggetto che è KKR che diventa il riferimento. Perché, appunto, il fatto che il consiglio d’amministrazione abbia deliberato soltanto a vantaggio di KKR, accettando l’offerta di KKR, considerandola un’offerta che non ha parti correlate, vuol dire che c’è un unico compratore che si chiama KKR.”[…]E poi aggiungerei a questo il fatto che comprerà Sparkle, quindi le reti sottomarine. Quindi in Italia avremo un unico proprietario dei sistemi delle infrastrutture strategiche.”

Alessandro Volpi

Lo shopping, in realtà, era già iniziato oltre due anni fa, nell’aprile del 2021, quando KKR entra a gamba tesa nell’azionariato di Fibercop – la nuova società fondata da TIM – e alla quale ha consegnato le chiavi della rete in fibra ottica sviluppata dalla controllata Flash fiber. Un assaggino, diciamo; Fibercop, infatti, non è certo il monopolista dei nuovi cavi in fibra ottica che attraversano il paese. Anzi, il pezzo grosso di questo fondamentale asset strategico del paese in realtà è un’altra società: Openfiber, dove KKR non c’è. C’è Macquarie, il fondo speculativo protagonista assoluto del banchetto che gli svendipatria britannici hanno apparecchiato a favore delle oligarchie finanziarie cedendogli il controllo dell’acqua pubblica con gestori che, dopo le privatizzazioni, sono diventati enormemente più indebitati senza aver mai investito il becco di un quattrino, ma avendo distribuito dividendi in quantità. L’ultimo scampolo di concorrenza tutta giocata tra fondi speculativi della stessa identica natura e che a breve avrà finalmente fine: una volta conclusa l’acquisizione della rete TIM da parte di KKR, infatti, l’obiettivo è quello di fondere Openfiber con Fibercop creando, anche nel mondo della connessione in fibra, l’ennesimo monopolio privato. Ma non solo: al banchetto, infatti, al momento manca ancora una portata. Si chiama Sparkle ed è la controllata di TIM che gestisce i cavi sottomarini che collegano la rete italiana al resto del mondo: un altro asset strategico fondamentale, e non solo per l’Italia. Attraverso il nodo di Palermo, infatti, Sparkle è la porta d’ingresso in Europa via Mediterraneo sia per il sud-est asiatico che per il Medio Oriente; anche lei è in svendita e KKR aveva fatto la sua offerta. Fortunatamente, al momento è stata respinta: anche il governo dei fintisovranisti ha qualche limite? Macché. E’ solo un problema di quattrini: Sparkle è a disposizione. Basterà aggiungere qualche spicciolo in più ai miseri 600 milioni offerti in prima istanza.

Prof. Alessandro Volpi: “Perché il dato vero è che non è episodica questa cosa, non è che arriva KKR, vede un’opportunità in Italia e dice “mi butto su quella” secondo la logica dei fondi hedge. Qui non è così: qui c’è, probabilmente, un disegno per cui i grandi fondi si impossessano delle infrastrutture e delle telecomunicazioni e quindi anche in quell’ambito, che è un ambito fondamentale, fanno il monopolio. Cioè, la sostanza è la ricerca del monopolio e, in nome della favoletta del mercato, si giustifica la costruzione dei monopoli. Questo è ciò che veramente è inammissibile: se uno legge una dichiarazione dei ministri di fronte a questa vicenda, tratta anche con un certo silenzio, devo dire, di buona parte della sinistra perché – insomma – non mi sembra ci sia stata una sollevazione di scudi nei confronti di questo tipo di operazione. Alla fine, in nome della necessità – appunto – di garantire il mercato, poi alla fine si costruiscono dei monopoli che sono sempre più pesanti, sono sempre più pesanti e significativi.”[…] “Senza nessuna capacità – torno a dire – del potere politico, della politica, di interagire. Io ho letto le dichiarazioni del governo italiano rispetto all’acquisizione di KKR e sono sostanzialmente entusiaste. All’obiezione che gli ha fatto Vivendi, cioè la Francia, dicendogli “ma scusate, vi comprano la rete e fate decidere il Consiglio di amministrazione senza nessuna interlocuzione” loro hanno detto “vabbè, ma questa è un’operazione” usando questo termine, questa favoletta di mercato, e quindi bisogna lasciarla andare. In realtà, qui di mercato mi sembra che ci sia veramente poco: c’è ormai un monopolio di fatto che è evidentissimo nel meccanismo delle telecomunicazioni.”

Dopo aver abbandonato i monopoli pubblici in nome della concorrenza ecco così che, con la complicità della politica, l’industria delle telecomunicazioni torna più monopolistica di prima solo che, a questo giro, è tutto in mano ai privati e neanche ai gruppi industriali, ma ai fondi speculativi che puntano direttamente al dominio globale. Anche se l’Italia ha voluto conquistare il primo gradino del podio dei paesi in svendita, infatti, la campagna acquisti di KKR nel mondo delle telecomunicazioni non si limita certo a noi: nel giugno del 2020 KKR, insieme a un altro fondo USA e a uno britannico, annuncia l’acquisizione di Masmovil, il quarto operatore delle telecomunicazioni spagnolo; nel febbraio del 2021 KKR annuncia un accordo con Telefonica per l’acquisto al costo di 1 miliardo di dollari delle quote di maggioranza della controllata che si occupa di fibra ottica in Cile; 3 mesi dopo è stato il turno degli olandesi con un accordo tra KKR e T-Mobile per fondare insieme una nuova società dal nome Open Dutch Fiber, sempre appunto per la gestione della rete in fibra ottica; ancora, 3 mesi dopo, un altro accordo con Telefonica, questa volta per l’acquisizione della maggioranza della società che gestisce la fibra ottica in Colombia. E così via, acquisizione dopo acquisizione, per arrivare nel 2022 alla partnership con Vodafone per l’acquisizione di Vantage Towers, il colosso tedesco delle telecomunicazioni wireless, e finire giusto questo autunno con un’altra ondata di acquisizioni che va da Singapore alle Filippine, passando per i cavi sottomarini della Malesia. E KKR è solo la punta dell’iceberg.

Prof. Alessandro Volpi: Lo sta facendo in alcuni paesi dell’est europeo, cioè sta specializzandosi nell’acquisizione dei sistemi di telecomunicazione. Metterei questo fenomeno dentro un fenomeno più grande perché il fenomeno più grande è il fatto che gli azionisti, come sappiamo, di KKR sono i grandi fondi: Vanguard, Black rock, State street e una serie di altri quattro o cinque soggetti, che sono i proprietari della rete infrastrutturale e delle infrastrutture delle telecomunicazioni, a partire dagli Stati Uniti in giro per il mondo. Perché se noi prendiamo le principali società di telecomunicazioni – nel caso degli Stati Uniti la più importante di tutti che è T-Mobile, ma prendiamo poi Verizon, poi prendiamo Comcast e prendiamo AT&T, che sono i cinque colossi mondiali se ci togli casi cinesi (se ci togli China Mobile), questi sono i cinque più grandi possessori di telecomunicazioni, non negli Stati Uniti ma in giro per il mondo. Cioè, in queste società, Black rock, Vanguard, State street e 3 o 4 fondi minori che, in genere, vanno a strascico dei primi tre, hanno il 25%. Quindi noi stiamo assistendo a un processo di cui il caso Telecom, il caso TIM, è soltanto un pezzetto, cioè il processo di ri-articolazione del controllo delle telecomunicazioni in giro per il mondo nelle mani dei fondi finanziari. Ora questa non è la vicenda della vecchia privatizzazione; l’Italia ha scelto questa sciagurata strada della privatizzazione nel ‘97, con il governo Prodi.”

La prima conseguenza, palese e tangibile, di questo processo di appropriazione dell’industria delle telecomunicazioni nelle mani di un manipolo di fondi speculativi è la riduzione dei posti di lavoro e il trasferimento di una quota consistente di ricchezza dai salari ai profitti.

Prof. Alessandro Volpi: Infatti, l’altro dato interessante – e io mi sono andato a vedere questi numeri- è che, nel corso degli ultimi dieci anni, tutte le grandi compagnie di telecomunicazioni hanno ridotto il numero dei loro occupati dal 20 al 35%. Cioè da dove arrivano, ovviamente, i fondi, l’operazione diventa quella di garantire un rendimento azionario. Naturalmente tutte queste realtà che vengono comprate dai fondi sono quotate in Borsa, perché hanno interesse a seguire il dividendo azionario e, contestualmente a questo – come sta accadendo del resto nel settore tecnologico e hi tech – a fronte di dividendi significativi, di fatturati molto alti e di ricavi molto alti, si assiste a un licenziamento più o meno sistematico. Perché, appunto, anche nel caso delle telecomunicazioni come nel caso dell’hi tech, c’è stata una perdita del 20, 25, in alcuni casi del 30% della forza lavoro. Quindi la finanziarizzazione porta a una concentrazione che riduce gli spazi della sovranità – mi sembra abbastanza evidente – di natura strategica e, al tempo stesso, determina una distruzione del lavoro. Cioè, c’è evidentemente un meccanismo “finanza versus occupazione” che è marcatissimo.”

Nel caso delle telecomunicazioni, però, rispetto alla solita storia infinita di quotidiana ingordigia c’è un aggravante piuttosto consistente, grossa come una casa.

Prof. Alessandro Volpi: Mah, io penso che il sistema delle telecomunicazioni sia, evidentemente, un sistema di natura politica e anche di natura militare. Allora, io non sono un esperto di questi risvolti e quindi non mi voglio cimentare con analisi che non sono cose che conosco profondamente, però è chiaro che il controllo delle reti sottomarine, il controllo – appunto – delle strutture fisse attraverso cui passano i segnali telefonici, i segnali delle telecomunicazioni, la rete, sia quanto di più strategico – anche in termini di difesa o aggressione militare – sia possibile. Tra l’altro, si diceva prima, se uno prende le prime dieci compagnie di telecomunicazioni al mondo, le uniche che sono ancora di proprietà dello Stato sono quelle cinesi; cioè – appunto – China Mobile ha come azionista di riferimento lo Stato cinese ed è proprietario delle infrastrutture cinesi. Evidentemente in India l’assalto alle telecomunicazioni da parte delle grandi compagnie – e da parte dei fondi che sono dietro le grandi compagnie – è già partito, perché è evidente che in un modo nel quale il sistema delle telecomunicazioni è controllato – per quanto riguarda le strutture fisse e per quanto riguarda i cavi, per intenderci – da soggetti che sono soggetti di natura privata e finanziaria, vogliamo immaginare che questo non sia un elemento di pressione, di condizionamento delle politiche monetarie, delle scelte – anche strategiche – rispetto all’innalzamento dei prezzi dei prodotti? Cioè io voglio dire – sarà perché a frequentare Giuliano Marucci divento un po’ complottista – che però mi sembra abbastanza evidente che se io possiedo le telecomunicazioni, possiedo le agenzie di rating e possiedo i sistemi informativi, beh, alla fine poi posso anche veicolare le impennate di prezzo che scateno attraverso la vendita degli strumenti derivati. Cioè, è evidente che qui c’è un legame, e questo poi produce una conseguenza – come tu dicevi – geopolitica, perché se ci sono determinate aree di tensione in giro per il mondo, probabilmente questo sistema funziona decisamente meglio e avere il controllo strategico delle reti vuol dire anche, in qualche modo, condizionare gli equilibri di forza tra i vari paesi e quindi far immaginare determinati scenari. Io penso che anche qui – è quello che dicevo in apertura – cioè, si sottovaluti la delicatezza della concentrazione della proprietà, cioè qui non è che stiamo parlando di un mercato dove ci sono dei soggetti che si fanno concorrenza: in Italia, torno a dire, la rete – forse non è chiaro – non è nelle mani dei 44% di investitori che prima componevano, insieme al 20% di Vivendi, il grosso dell’azionariato di TIM; ora ce n’è uno solo che si chiama KKR il quale – torno a dire – è un pezzo di un sistema globale di controllo delle telecomunicazioni attraverso i fondi finanziari. Cioè questa roba mi sembra che abbia molto a che fare con la democrazia, con la sicurezza degli Stati, con le dinamiche conflittuali; cioè, in altri tempi, io faccio fatica a immaginare uno Stato che cedesse le proprie infrastrutture strategiche come la rete fissa o i cablaggi o i controlli di sottomarini a un soggetto finanziario che, peraltro, risponde a logiche di altri paesi e in particolar modo, ovviamente, ha a che fare con il governo degli Stati Uniti. Cioè mi sembra che siamo di fronte a un processo di finanziarizzazione esasperato che partorisce una concentrazione che toglie spazio evidentissimo alla politica, che toglie spazio alla sovranità, ma direi anche la stessa democrazia.”

E quindi qua si ritorna alla domanda di partenza: ma perché mai la nostra classe dirigente, sia politica che economica, si mette a disposizione di questo processo distopico di concentrazione del potere economico e politico nelle mani di una ristrettissima oligarchia che li considera, nella migliore delle ipotesi, camerieri servizievoli? Ovviamente una risposta sta nello strapotere militare e a livello di intelligence di Washington, in grado ancora di tenere sotto scacco mezzo pianeta, ma una risposta fondata solo sui bruti rapporti di forza rischia di essere solo parziale. Una macchina così ben funzionante non si può fondare esclusivamente sul puro dominio e sul monopolio della forza fisica; perché funzioni a dovere, qualche contropartita ci deve essere. Insomma: come al solito, tocca seguire i soldi.
Come fanno oggi le élite economiche a fare profitto? Concretamente, intendo. Passo numero 1: come sempre devi avere un’azienda che produce qualcosa e che, quando la rivende, ci ripaga i costi e ci fa un piccolo margine. A questo punto già c’è la prima biforcazione perché, nel capitalismo tradizionale, una buona fetta di quel profitto lo reinvesti per allargare la tua produzione e fare ancora più profitto; quindi, quando in un anno le aziende hanno registrato tanti profitti, dovresti vedere anche tanti investimenti. E però c’è qualcosa che non torna perché l’anno scorso, ad esempio, le aziende italiane i profitti li hanno fatti eccome, eppure tutta questa ondata di investimenti sinceramente io non l’ho vista (e non solo io).

Prof. Alessandro Volpi: […] perché, ovviamente, i grandi fondi non avrebbero subito grandi difetti, grandi danni da quella riduzione di liquidità, perché ce l’hanno. Quindi, per effetto di questo percorso per cui mettere i soldi nella finanza era vincente, ebbene questo meccanismo ha partorito una progressiva riduzione degli investimenti perché – e i numeri lo dicono con chiarezza anche pensando al nostro Paese – il volume complessivo degli investimenti, a cominciare dagli investimenti lordi fissi – parlando degli investimenti privati – si è significativamente ridotto, quindi perché, quando ci sono i margini favorevoli e ci sono gli utili, si decide di destinarli subito alla remunerazione del capitale, e magari si fanno dei ri-acquisti di titoli azionari, quindi senza nessun effetto sull’andamento reale dell’economia, per far salire il valore di quei titoli. Quindi, praticamente, è come se si comprasse carta su carta, per citare un’espressione sommaria dei grandi economisti.”[…] “Quindi vuol dire, evidentemente, che anche la partecipazione, là dove c’era un capitale pubblico disponibile, dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale – non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale – pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto diversificare, come si dice, il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce certamente.”

Capito eh, i furbacchioni… Ci raccontano che i profitti sono importanti, sennò poi come si fa a investire in innovazione, in ricerca, in marketing e chi più ne ha più ne metta, ma poi – in realtà – quando quei profitti arrivano, invece di reinvestirli li usano per speculare. Però, però, tendenzialmente qui c’è un problemino, perché investire in azioni o in prodotti finanziari – a regola – potrebbe essere abbastanza rischioso: e come faccio, allora, a convincere i miei cari imprenditori ad avventurarsi nel casino delle scommesse finanziarie invece che continuare a investire nel caro vecchio business di famiglia, che tanta fortuna gli ha portato fino ad oggi? Semplice: devo eliminare i rischi. Oddio, semplice… tanto semplice non è, però ecco, l’obiettivo è quello: eliminare i rischi, che – in termini finanziari – si dice anche ridurre la volatilità. E come si fa a ridurre questa benedetta volatilità? Bisogna trovare un modo affinché le bolle speculative non si sgonfino mai; si devono continuare a gonfiare gradualmente, sempre di più. Per farlo, c’è bisogno di una quantità di quattrini sostanzialmente illimitata, una quantità tale che permetta continuamente di iniettare nuovi soldi nelle vecchie bolle. E dove si trovano tutti questi soldi? Semplice: concentrando tutti i soldi che ci sono sempre di più nelle mani di pochi soggetti, che è esattamente quello che è successo.

Logo di BlackRock

Quei soggetti si chiamano asset manager e, in particolare, i tre giganti dell’industria della gestione patrimoniale: Blackrock, Vanguard e State street: la massima concentrazione di ricchezza mai vista nella storia dell’umanità. Con un patrimonio gestito che supera di diverse volte i prodotti interni lordi di interi paesi avanzati, i giganti dell’asset management garantiscono che le bolle continuino a gonfiarsi all’infinito a prescindere da cosa succede all’economia reale, ed ecco allora fatto il giochino: grazie ai monopolisti dei mercati finanziari, i camerieri servizievoli, quando ricevono i profitti delle loro aziende che ancora producono e vendono qualcosa, invece di rischiare reinvestendoli nell’economia reale non devono fare altro che buttarli nelle bolle speculative, sostenute dai monopolisti stessi, e fare soldi dai soldi. Da questo punto di vista non è difficile capire perché a questi camerieri ben remunerati, della sovranità che sarebbe necessaria per far ripartire l’economia non gliene può fregare di meno e sono ben felici di svenderla ai monopolisti della finanza, che soli gli possono garantire delle belle mance cospicue.

Prof. Alessandro Volpi: […] la produttività non cresce, non cresce certamente. Il problema è che l’attrattività e, paradossalmente, la riduzione del rischio che il monopolio finanziario sta generando, produce come effetto inevitabile la contrazione dei processi produttivi; cioè una volta, fino a 10-15 anni fa – ma del resto è, come dire, la crisi del 2008 avrebbe dovuto insegnare qualcosa – in realtà la percezione che si è maturata dopo il 2008 è che la concentrazione vera della ricchezza finanziaria nelle mani di pochissimi – che diventano anche i proprietari di un vastissimo spettro di attività – è lo strumento per ridurre la volatilità dei mercati, perché la volatilità la si affida totalmente alle decisioni di questi gruppi che, alla fine, la regolano come una sorta di rubinetto per comunque provare a garantire rendimenti finanziari a tutte quelle società che sono da loro partecipate. E quindi è ovvio che le imprese cercano di entrare dentro quel sistema di partecipazioni e di investimento, e il sistema produttivo e il modello industriale e manifatturiero di servizi – come noi ce lo immaginavamo in passato – viene meno, perché la differenza di rischio fra affidarsi al sistema finanziario e fare impresa è enorme. E quindi noi avremo sempre meno attività manifatturiera e sempre meno attività di impresa nei paesi dove prevale la struttura di natura finanziarizzata e questo mi sembra che i numeri ormai ce lo dicano con grande evidenza, ma perché è tornata la riduzione del rischio. E non è solo la riduzione del rischio perché, per una certa fase, le banche centrali hanno fornito talmente tanta liquidità che – alla fine – la finanza viaggiava agevolmente perché era facilmente liquida, ma anche e soprattutto perché c’è una regia di un monopolio che è in grado di determinare la volatilità e di farla più o meno oscillare […]”.

L’aspetto geniale di tutto questo meccanismo – più distopico della peggiore distopia hollywoodiana e che permette di guadagnarsi la collaborazione delle élite economiche dei paesi che vengono depredati – è che a fornire ai giganti della gestione patrimoniale una potenza di fuoco sufficiente per portare avanti il loro progetto di dominio globale sono, in buona parte, anche le vittime stesse di questo meccanismo che, alla fine, a volte ringraziano pure; buona parte dei quattrini gestiti da questi asset manager, infatti, sono proprio nostri, della gente comune come noi che campa sempre peggio del suo lavoro.
E’ il frutto delle scelte politiche del partito unico della guerra e degli affari che governa i paesi dell’Occidente collettivo da almeno 30 anni a questa parte, 30 anni durante i quali è stato smantellato sistematicamente lo stato sociale universalista che costituiva la spina dorsale delle democrazie moderne e che ci ha costretto a buttare sempre più quattrini in fondi previdenziali integrativi e assicurazioni mediche di ogni genere. Tutti quattrini che diventano armi di distruzione di massa che le oligarchie usano per devastare scientificamente l’economia reale che ci permette di sopravvivere, dandoci in cambio un contentino perché, se le bolle speculative continuano ad auto-alimentarsi e i quattrini della nostra pensione sono stati investiti in quelle bolle, qualche spicciolo in cambio ci torna pure a noi. Che culo. E’ un po’ lo stesso contentino che ci hanno garantito con le delocalizzazioni e le liberalizzazioni: hanno devastato la nostra qualità della vita a suon di precarietà e stagnazione dei salari, però ci hanno permesso di comprare a due lire un sacco di orrende t-shirt di plastica che prendono fuoco solo a vederle e, addirittura, di far finta di andarci a divertire nel weekend in qualche capitale europea grazie a un viaggio a due lire in un carro bestiame low cost e al soggiorno in qualche aribnb quasi esentasse grazie alla cedolare secca. Grazie, davvero. Non ce n’era bisogno. Stavo bene anche a casina mia col maglione fatto a mano da mia nonna, ma con qualche ora di tempo libero da dedicare alle cose che mi interessano e senza il patema di non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena dall’oggi al domani.

Carlo Bonomi

Ma come in tutte le storie distopiche, al danno – alla fine – si deve aggiungere sempre anche qualche beffa: l’ultima ce l’ha regalata il buon vecchio Carlo Bonomi, patron di Confindustria. Lo spunto gli è arrivato dai dati sull’inflazione della scorsa settimana: 1,8%, sotto il target della BCE. Un dato che ha fatto immediatamente gridare tutta la stampa di regime al miracolo. Una gigantesca presa per il culo: il dato, infatti, si riferisce all’inflazione di ottobre anno su anno, e cioè a quanto sono aumentati nell’ottobre 2023 i prezzi rispetto all’ottobre precedente; peccato, però, che nell’ottobre 2022 – causa la speculazione criminale sui prezzi dell’energia – i prezzi fossero letteralmente esplosi. E’ quello che, in gergo tecnico, viene definito un outlier – un valore anomalo – ma tanto è bastato a Bonomi per lanciare la sua ultima crociata; secondo Bonomi, infatti, di fronte a questi dati sull’inflazione bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno: i salari dei lavoratori italiani sono cresciuti troppo, soprattutto perché – nel frattempo – non è cresciuta la produttività. Ricchi e sfaticati: ecco come Bonomi vede i lavoratori italiani.

Prof. Alessandro Volpi: […] “quindi quel modello ha funzionato, si sono ridotti gli investimenti. Io trovo particolarmente singolare che il presidente di Confindustria dica “va beh, ma allora, visto che siamo in queste condizioni e, quindi, la produttività italiana è bassa, bisogna ridurre i salari” perché – appunto – il buon Bonomi sembra dimenticarsi che la produttività dipende in primo luogo dagli investimenti e dalla qualità degli investimenti; cioè senza che ci sia un investimento reale nel processo produttivo, senza che ci sia uno sforzo di migliorare la qualità del processo produttivo, è difficile che la produttività cresca. Se io destino gli utili che ho accumulato tramite operazioni finanziarie ad altre operazioni finanziarie e riduco il volume degli investimenti, poi non è che mi devo stupire che la produttività non cresca perché, evidentemente, la produttività avrebbe avuto bisogno – in determinati settori in particolare – di una maggiore mole di investimenti privati e una minore attenzione al rendimento finanziario: magari destinare gli utiliqualche anno al 70 – 80% al reinvestimento produttivo. In realtà questo non è avvenuto; è stato finanziarizzato, e la narrazione di Bonomi che veramente, da questo punto di vista, è un personaggio anche abbastanza singolare, è quella di dire “siccome non c’è produttività, i salari sono cresciuti troppo e ora li dobbiamo contrarre ulteriormente, e magari riduciamo ulteriormente il numero degli occupati” a meno che, dice Bonomi, “lo Stato non ci dia dei soldi” lamentandosi del fatto che c’èsolo 8% della legge di bilancio che è destinata agli incentivi alle imprese, senza appunto poi andare a verificare che nel nostro Paese – pur in presenzadelle tranches dei Pnr e quindi di un incentivo pubblico – gli investimenti privati si sono ridotti. Quindi vuol dire, evidentemente, che anche là dove c’era un capitale pubblico disponibile la partecipazione dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale (non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale) pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari, o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto, diversificare – come si dice – il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce”.

Ci pisciano addosso e i media mainstream all’unisono ci dicono che piove.
Mi sa che abbiamo bisogno di un media tutto nostro che, invece che alle barzellette di questi svendipatria, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Bonomi

Interviste Ottoline, Pino Arlacchi: declino USA, nuovo ordine multipolare e il suicidio dell’Europa

La qualità umana e intellettuale del personale politico del partito unico della guerra e degli affari che da almeno tre decenni nell’Occidente collettivo porta avanti l’agenda della controrivoluzione neoliberista guidata da Washington è di una mediocrità disarmante. E le eccezioni si contano sulle dita di una mano. Mozzata. Tra queste, un posto d’onore spetta senza nessun dubbio a Giuseppe Arlacchi, meglio noto come Pino: un rarissimo esempio di civil servant senza macchia, in grado nell’arco di oltre quarant’anni di rappresentare fin nel cuore delle massime istituzioni dell’ordine liberale in declino il punto di vista del 99%. Non dovrebbe sorprendere: Arlacchi infatti è il degno erede del migliore dei maestri, il nostro caro e intramontabile Giovanni Arrighi. Fu infatti proprio Arrighi a volerlo al suo fianco appena ventiseienne all’Università della Calabria, da dove insieme lanciarono una delle esperienze più entusiasmanti di indagine sociologica a tutto tondo della storia dell’accademia italiana. È la ricerca che nel 1980 portò alla pubblicazione di “Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strutture elementari del sottosviluppo”. Un testo monumentale che riuscì a portare le lande desolate del meridione più arretrato all’attenzione della grande accademia internazionale, a partire dal leggendario Eric Hobsbawm, che ne promosse la traduzione presso la prestigiosa Cambridge University Press. Non era una divagazione esotica. Sulla falsa riga dell’insegnamento di Arrighi, piuttosto, era il risultato di un approccio sistemico al capitalismo che superava la vulgata propagandistica secondo la quale la persistenza di aree arretrate sarebbe da attribuire appunto all’incompleto sviluppo capitalistico, ma al contrario, vedeva nel rapporto dialettico tra capitalismo avanzato e sottosviluppo il motore stesso del capitalismo reale Un approccio che Arlacchi avrebbe continuato a sviluppare in mille direzioni diverse negli oltre 40 anni successivi, mettendolo sempre nella condizione di svelare la falsità congenita della narrazione liberaloide e suprematista. È per questo che quando ho incrociato Pino pochi giorni fa a Samarcanda, mi è subito sembrato il luogo più naturale dove incontrarlo. Si stava svolgendo il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona. Un raro tentativo da parte dell’Italia migliore di continuare a tessere reti e relazioni con il nuovo mondo che avanza, mentre il resto del paese marcia deciso a suon di suprematismo misto a subordinazione verso l’autodistruzione. La chiacchierata che ne è scaturita, è probabilmente la migliore intervista che come Ottolina abbiamo mai portato a casa e che abbiamo ritagliato in fretta e furia per tenervi compagnia oggi.
Un’intervista dove Arlacchi ripercorre con una lucidità disarmante gli snodi cruciali del percorso analitico che come OttolinaTV proviamo a portare avanti da sempre: dal declino dell’impero militare USA, alle contraddizioni dell’impero finanziario fondato sugli interessi egoistici di una ristretta oligarchia totalitaria per passare all’ascesa di un nuovo ordine multipolare fondato sugli interessi comuni di stati sovrani che hanno adottato sistemi economici di carattere sviluppista e finire con il suicidio volontario degli alleati/vassalli degli USA. Buona visione.

Pino Arlacchi: “Il sistema americano è basato su due grandi gambe il militarismo e la finanza. Il militare si è rivelato un clamoroso fallimento. Hanno perso quasi tutte le guerre che hanno fatto negli ultimi quarant’anni, quindi non fanno più paura a nessuno. Queste cifre sul complesso militare industriale si fanno paura in termini che chiunque pensa a che cosa si potrebbe fare in alternativa con quelle cifre. Ma poi sul piano militare, dove? Che hanno vinto è anche politico, militare. È stato un fallimento totale. Dal Vietnam in poi, in Iraq hanno fatto una guerra contro Saddam Hussein. Perderemmo armi di distruzione di massa che non aveva. E per installare un governo filo iraniano in Afghanistan ci sono i talebani più forti di vent’anni fa in Siria, hanno scatenato una guerra civile contro Assad e Assad è più forte di prima.

In Libia hanno mandato in totale rovina un Paese con la complicità degli europei, dall’altra Libia, un Paese che all’Italia importa molto. E ora c’è un po di stabilità in Libia, ma il Paese è distrutto e tutti si chiedono per quale ragione hanno buttato giù Gheddafi. Quindi il potere finanziario resta la loro principale risorsa. Loro controllano i mercati finanziari in un modo eccezionale, ma dobbiamo tener conto che nel mondo grande c’è già una potenza non finanziaria, ma una potenza dell’economia reale, una potenza industriale commerciale alternativa agli Stati Uniti, più forte degli Stati Uniti in termini di potere di acquisto che è la Cina. E io direi, oltre che la Cina, l’intera Asia, l’intero Estremo Oriente è più o meno il modello economico e la Cina non è un’eccezione. Il cosiddetto Developmental state, cioè uno Stato che è il regista dei mercati e il regista dell’economia, che stabilisce le direzioni dell’economia, che fa gli investimenti che le singole imprese non possono fare e che usa i risparmi della popolazione per finanziare lo sviluppo. Questo sistema è sempre più forte dal punto di vista economico. E quindi il problema di come mantenere questo dominio sul mondo anche sul piano finanziario è il principale problema che loro hanno. Perché molta di questa ricchezza va a finire. Indebitamento: c’è un limite alla quantità di dollari che si possono stampare? È solo questione di tempo, perché il simbolo del loro potere, e cioè il dollaro, comincia a scricchiolare. Tutti dicono sì, però il dollaro, chissà quanti decenni ancora può durare, è sempre la moneta e la valuta di riferimento di tutti gli scambi e così via. È vero. Il dubbio può durare ancora un po’. Però quando la sterlina, che era il predecessore del dollaro come moneta di riferimento, ha cominciato a declinare con l’Impero Inglese la sostituzione dalla sterlina al dollaro è stata rapidissima, non più neanche dieci anni. Ora i cinesi non vogliono fare questo. La strategia dei cinesi non è quella di sostituire il renminbi al dollaro. Lo hanno detto in cento modi: se lo avessero voluto l’avrebbero fatto perché bastava farsi pagare tutte le loro importazioni, esportazioni in renminbi e il gioco era fatto. Non lo fanno perché non hanno intenzione di fare questo, in quanto impelagarsi adesso nel sistema finanziario internazionale che è governato da Wall Street e degli americani per loro significa autodistruggersi. Loro preferiscono un sistema a più voci, più valute. La Banca Centrale Cinese ha fatto una proposta già dieci anni fa cinque valute con un paniere di valute che sostituisce il dollaro, in cui c’è anche la loro valuta. La posizione, la loro diffidenza nei confronti della finanza è totale. La chiusura del mercato finanziario cinese alla finanza internazionale fa parte di una strategia precisa la finanza in Cina deve essere mantenuta al servizio dell’economia e non viceversa. Mentre negli Stati Uniti e in Europa è la finanza a governare l’economia, perfino le grandi imprese industriali si sono finanziarizzazione. Una fabbrica di automobili, la Fiat, i guadagni non li fa sulle automobili, li fa sui prestiti. È una finanziaria che ha stravolto le cose, non porta sviluppo, non porta occupazione, non porta crescita delle risorse neanche tecnologiche. Perché sono soldi che si accumulano sui soldi senza in realtà avere nessun effetto reale, mentre sono tassi di profitto molto alti perché dominano il sistema finanziario. Profitti del 10/20% sono la norma del sistema industriale di grandi imprese. Così vi è un profitto del 2% o del 3% è già una grande cosa. E chiaro che con queste differenze nei tassi di profitto, tutta l’attenzione dei mercati e degli investitori si sposta dal lato finanziario, ma è già avvenuto della storia del mondo.
Questa è la quinta fase di sostituzione ai vertici dell’Occidente, della potenza dominante. Ed è nata sempre così, dice Braudel, che quando c’è la fine del dominio della finanza è il segno che l’autunno è arrivato. L’Olanda è partita come una potenza manifatturiera commerciale e poi è diventata una potenza finanziaria per poi cedere il passo all’Inghilterra, che è partita con l’officina del mondo nell’800 e si è poi trasformata in un centro finanziario mondiale. Agli Stati Uniti sta accadendo la stessa cosa. Partiti come potenza industriale fino grossomodo agli anni ’70, finché non è partita l’ondata neoliberista e neo finanziaria, gli Stati Uniti stanno percorrendo lo stesso percorso. Ora c’è la Cina che parte da sé, che segue questa progressione storica. Per inciso, comunque, siamo stati noi italiani i primi. Tra iI ‘300 e iI ‘500, le città-stato italiane erano così. Erano le potenze commerciali trasformatisi poi con la Firenze dei Medici e con la Genova dei finanzieri, i genovesi di potenza finanziaria. Abbiamo iniziato noi questo ciclo che che a quanto pare è ferreo. Siccome c’è una dimensione spaziale in questo ciclo, non è detto che con il dominio globale del pianeta degli Stati Uniti questa ascesa della Cina segua il modello americano. Il più grande errore che si può fare quando si affronta il problema della Cina è di pensare che loro seguano il modello americano. Sono in un certo senso l’opposto. Non è vero e quindi non è affatto detto che ci sarà un mondo a guida cinese. È molto più probabile già nei fatti. Un mondo multipolare in cui la Cina è uno dei grandi player di un mondo diventato più giusto e più e più democratico.”

Marrucci: “E con questo torniamo un po’ all’inizio del discorso. Quindi non è soltanto la corsa a sostituire il vecchio egemone con un nuovo egemone, ma è anche la possibilità, per lo meno lo spiraglio che si apre di un ordine più democratico. Insomma, dove non ci sia un unico egemone. E però, appunto, quello che dicevamo all’inizio, questo percorso qua che appunto noi dipinge noi per primi, come Ottolina dipinge sempre come una grande speranza, una cosa da sostenere in tutti i modi. Poi si arriva che scoppiano tre guerre. Per ora siamo a due.”

Arlacchi: “Un paradosso, ma la storia va avanti anche quando va avanti con paradossi. Quindi gli Stati Uniti sanno di declinare. Sanno che sono nel declino: quello che cercano di fare è di rallentare questo declino. Il problema è che un declino cruento o no, perché la tentazione dell’élite americana di usare lo strumento militare è molto grande. L’altro strumento che è costretto a finanziare con le sanzioni lo stanno usando abusando al massimo. E anche lì sono arrivati praticamente al limite. Ma il punto interrogativo è lo strumento militare, in questo caso un’élite davvero alla frutta può anche tentare di usarlo in modo ancora più forte che in passato, anche se appena ho detto prima che hanno sempre perso militarmente. Ma ora sono convinti di no e ripetono sempre la stessa politica, la stessa strategia fallimentare e a meno che non si affermi negli Stati Uniti una linea di politica estera più pacifica, più loro la chiamano isolazionista, isolazionisti che vivono in Trump. Pensano che i guai dell’America sono cominciati ogni volta che ha cercato di andare fuori in cerca di nemici. E che l’America dovrebbe concentrarsi sulla sua grande forza di una potenza continentale e non immischiarsi in guerre e in alleanze militari esterne. Perché la politica americana dalla seconda guerra mondiale in poi è stata quella di creare alleanze militari con la Nato. Ma ci sono anche altre che obbligano i contraenti del contratto a sostenersi l’un l’altro nel caso di attacco. Questo significa che nel caso della Georgia, quando la Georgia attaccò la Russia, questo significa che gli Stati Uniti avrebbero dovuto intervenire a difesa della Georgia per perdere contro la Russia, rischiando la guerra nucleare. Quindi la politica cinese non è questa. Loro non fanno alleanze militari? Assolutamente no. Fanno una forte alleanza di fatto con la Russia che loro non vogliono trasformare in un’alleanza militare. Proprio per questa ragione, per mantenere una flessibilità dei rapporti in un mondo multipolare che giova a tutti, consente nei Brics di avere posizioni molto diverse. l’India Posizioni diverse dalla Cina sono anzi dei competitori piuttosto accesi del continente, ma non vuol dire che ci sia una guerra all’interno. Significa soltanto che c’è una articolazione di rapporti, che significa che ogni Paese va per la sua strada. E non è affatto detto che qualunque scontro conflitto debba trasformarsi in una guerra. Anche perché nei Brics il sistema economico è lo stesso. Se guardiamo la struttura economica: Cina, India, Russia, Sudafrica e Brasile condividono lo stesso sistema.
C’è uno Stato che dirige, che pianifica, che governa l’economia e la porta a crescere in maniera straordinaria.”

Marrucci: “E questo certo è perché il problema è che il capitalismo finanziario usato, non l’obiettivo, non è la crescita. L’obiettivo è la.”

Arlacchi: “Concentrazione della ricchezza nel famoso 1% esatto. Questo è un fattore di instabilità, è un fattore di disagio sociale immenso che penso proprio che comincerà a manifestarsi presto.”

Marrucci: “Infatti poi c’è il punto dell’instabilità. Appunto parlavi di spinte negli Stati Uniti, a cambiare in qualche modo paradigma. Ma è una cosa fattibile. Cioè esistono rapporti di forza concreti dentro la società, per cui quella in cui si trova gli Stati Uniti non sono un vicolo cieco e hanno una possibilità di uscita più o meno turbolenta quanto ti pare, però comunque pacifico.”

Arlacchi: “Dipende da quanto si approfondirà la crisi. Fino a che punto arriverà la crisi, Quindi può succedere di tutto perché loro stanno camminando molto velocemente lungo la china. Sono nella fase terminale del loro dominio. Quindi tutto dipende da quanto la velocità di questa e questa discesa.”

Marrucci: “E per quello l’ultima cosa per quello che riguarda noi alleati che più che alleati ormai mi sembra si possa dire vassalli contro i propri interessi con una pura agenda imposta da fuori. Qual è la nostra soglia di sopportazione e perché è così alta?”

Arlacchi: “Bella domanda questa. Noi avevamo l’Europa e l’Europa, era l’idea di fondo per la creazione di un nuovo Occidente non americano. Questa idea ha avuto una grande popolarità negli anni 70 e 80 e poi è stata messa da parte. Noi abbiamo creato l’euro per questa ragione l’euro, con tutti i disastri che ha fatto per la popolazione dei paesi dell’Europa del Sud, essendo nient’altro che un marchio svalutato, però era stato creato proprio per essere un’alternativa al dollaro.Per un po ha funzionato finché è arrivato ad avere il 30% degli scambi internazionali. Poi però gli americani hanno tirato il freno a mano, tirato il freno e hanno detto agli europei Guardate che sei d’accordo, ma non vuoi. Dovevate essere complementari al dollaro, non alternativi al dollaro.E poi l’intera architettura dell’Unione europea. Io sono stato in Parlamento europeo e so di che cosa parlo. Non può funzionare, non può funzionare perché le sue basi sono un tentativo di creare gli Stati Uniti d’Europa. Questa è l’idea l’Europa che diventa un sistema federale, un governo federale come gli Stati Uniti. Questa idea non funziona, non può funzionare. Uno. Non siamo più nei tempi delle grandi federazioni. Due l’Europa è fatta di Stati che hanno, ma lavoro possono benissimo condividere spazi comuni, coordinarsi e così via, senza avere bisogno di un governo comune. Tanto è vero che gran parte delle politiche europee nei diversi Paesi sono le stesse. Non c’è bisogno di creare questo potere sovranazionale, questa burocrazia che poi può compiere degli errori terribili che è condizionabile molto di più che i governi dei singoli Paesi. Quindi proprio bisogna ripensare le basi del discorso dell’Europa. “

Marrucci: “Cioè, paradossalmente, per ritrovare un pochino di autonomia strategica europea bisognerebbe investire sulla sovranità degli Stati che non su una struttura sovranazionale.”

Arlacchi: “Noi abbiamo creato istituzioni assurde dal punto di vista europeo. La Corte europea dei diritti dell’uomo è l’esempio più scandaloso. Le sentenze di questa Corte non valgono la carta su cui sono scritte paesi europei hanno un sistema di garanzie dei diritti dei cittadini molto forte, che sono i più avanzati del mondo. Che bisogno c’era di creare che l’ha creata? Soros? È stato Soros che ha creato questa istituzione che è paradossale il 40% dei suoi membri non ha soldi, non sono giudici, non sono neanche avvocati. Sono ex attivisti di Soros che sono stati presentati dai vari paesi dell’Europa orientale dove lui è forte e sono arrivati alla Corte che fa delle sentenze abnormi molto spesso contro l’Italia.

Sempre contro la Russia e contro i più deboli del sistema. Quindi il vantaggio qual è stato? Nel mondo contiamo molto di meno di quanto contavano i singoli Stati europei. Questo ha detto Prodi interessa i singoli europei. Nel mentre il Medio Oriente sullo Scacchiere contavano quel poco che contavano molto di più 20 o 30 anni fa. E quanto contano adesso? Quindi nessun risultato politico, nessun risultato economico.”
Questa intervista è il primo di una serie di contenuti che vi proporremo nei prossimi giorni a partire dal lavoro che abbiamo svolto durante il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona che si è tenuto a Samarcanda gli scorsi 2 e 3 Novembre. È stata in assoluto la prima trasferta di OttolinaTV. Siamo convinti sia stata una scelta azzeccata e che speriamo soddisfi anche le vostre aspettative su quale dovrebbe essere il lavoro che deve svolgere un media che si propone di dare voce al 99% in questa complicata fase di transizione dell’ordine globale dall’unipolarismo USA al fantomatico nuovo ordine multipolare. Il forum infatti non era un meeting di forze antimperialiste. Il focus non era il multipolarismo per come vorremmo che fosse. Era il multipolarismo per come sarà, anzi, per come in buona parte già è a prescindere dalla nostra volontà. È il nuovo mondo che avanza, con tutte le sue opportunità, ma anche con tutte le sue contraddizioni. Per osservarlo e provare a capirlo, la vecchia propaganda suprematista dell’occidente collettivo serve a poco.
Serve un vero e proprio nuovo media, in grado di dare voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)
E chi non aderisce è Maurizio Sambuca Molinari.

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

La grande rapina: come le oligarchie ci hanno rubato tre stipendi e hanno reintrodotto la schiavitù.

Questa sui media di sicuro non la troverete. Eppure è l’informazione che probabilmente più ha impattato sulle vostre vite da qualche anno a questa parte.

Nel 2022, infatti, la vita degli italiani è stata letteralmente devastata da un’ondata di crimini senza precedenti. Una nutrita banda di insospettabili, organizzati in modo scientifico e sostenuti dalle più alte cariche dello Stato, s’è armata di passamontagna e di piedi di porco, ha fatto irruzione nelle case degli italiani e gli ha fottuto circa un quarto di tutti i loro averi.

Sono gli azionisti delle 2000 principali aziende italiane, dove i dipendenti, nell’arco di un anno, hanno visto crollare il potere d’acquisto dei loro salari del 22%.

Ripeto: non il 5% o il 10%, come ipotizzavamo scandalizzati qualche settimana fa. Il 22%

Un quarto del vostro stipendio. Come se oggi arrivasse qualcuno e vi dicesse che da qua a gennaio niente più stipendi. Zero. Solo file alla Caritas.

“Vabbè, ma c’è la crisi”.

Complottista. Nessuno ha rubato niente. È tutta colpa dell’inflazione…”

Sì, colcazzo.

Perché proprio mentre i lavoratori perdevano il 22% del loro salario reale, i profitti continuavano ad aumentare. Di quanto? Esatto: proprio del 22%. Né un punto in meno, né un punto in più.

A tanto ammonta l’aumento del margine operativo netto delle oltre duemila principali aziende italiane nel 2022.

E non lo dice qualche pericoloso bolscevico, lo certifica l’area studi di Mediobanca. Lo annuncia come un vero e proprio trionfo: “In conclusione”, si legge nel report, “le imprese italiane mostrano oggi profili finanziari maggiormente adatti a fare fronte all’inflazione rispetto a quanto accadde negli anni ‘80”. Quando evidentemente rapinare sfacciatamente i propri dipendenti ancora non era considerata una virtù.


C’è un grande mistero che da qualche mese pervade tutto il vecchio continente. Dopo decenni di controrivoluzione neoliberista ci siamo abituati a credere che il mondo nel quale viviamo giri tutto attorno a un feticcio: la crescita economica.

D’altronde, è quello che ci raccontano continuamente: sei preoccupato perché il tuo lavoro è sempre più instabile e precario? È necessario per tornare a crescere.

Le istituzioni sono sempre più verticistiche, e gli spazi di democrazia scompaiono uno dietro l’altro? È indispensabile per la governabilità che è indispensabile per crescere.

Le scuole, gli ospedali e il tuo conto all’INPS vengono demoliti? È per mettere in ordine i conti e tornare a crescere.

Fino a quando un bel giorno ai piani alti decidono di gettarci anima e cuore in una guerra diretta contro il nostro principale fornitore di energia, devastando la competitività della nostra industria. Ma non solo, come se non bastasse, decidono pure di adottare una spericolata politica monetaria che toglie risorse all’economia.

Le conseguenze, ovviamente, non tardano ad arrivare.

Ci aspettiamo che l’eurozona nel terzo trimestre di quest’anno entri definitivamente in recessione”, avrebbe dichiarato il capo economista della Hamburg Commercial Bank a Bloomberg. “Il nostro indice, che incorpora gli indici PMI”, avrebbe affermato, “indica un calo dello 0,4% rispetto al secondo trimestre“.

Come vi raccontiamo ormai da mesi, era del tutto scontato. Ma allora, questo benedetto feticcio della crescita che fine ha fatto? Vabbè, ma celokiedono gli USA.

Ok, sì, ci sta. Che lo stato metta davanti, almeno temporaneamente, la necessità di essere fedele ai diktat del padrone a stelle e strisce agli interessi immediati della sua economia, è un’ipotesi del tutto plausibile.

Ma le imprese? Le imprese mica sono think tank di geopolitica. La loro logica dovrebbe essere piuttosto chiara, e lineare: vogliamo che l’economia cresca. Com’è allora che di fronte al suicidio scientificamente programmato dell’economia europea, se ne rimangono in silenzio? Mute proprio.

È un mistero mica da poco. O almeno, lo era. Fino a quando i compagni di Mediobanca non si sono messi a investigare. Hanno preso i conti delle principali 2150 aziende italiane alla ricerca di qualche indizio e quello che hanno scoperto è AGGHIACCIANTE. Da un lato infatti, hanno scoperto che le scelte suicide dei governi i lavoratori le hanno pagate molto più care di quanto ipotizzate anche dai più pessimisti, a partire proprio da noi.

La forza lavoro”, scrive Mediobanca, “è la componente maggiormente penalizzata in termini di potere d’acquisto, con una perdita stimata intorno al 22% per l’anno 2022

Scusate se ripetiamo questo dato all’infinito. Ma è una cosa talmente scandalosa che noi per primi abbiamo riletto il rapporto dieci volte prima di farcene una ragione. Per capire l’entità, basta fare un confronto con il 1980, ovvero l’ultima volta che l’inflazione era cresciuta a doppia cifra. Allora, ricorda sempre Mediobanca, nell’arco di un anno il costo totale del lavoro aumentò di poco meno del 17%, nonostante il numero assoluto dei lavoratori si fosse ridotto di quasi l’1%. Significa che quel 99% che il lavoro se l’era conservato, aveva guadagnato in media appunto oltre il 17% in più rispetto all’anno precedente. Una cifra più che sufficiente per veder aumentato il suo potere d’acquisto, nonostante un’inflazione certificata del 13,5%. A questo giro invece l’occupazione è aumentata dell’1,7%, ma il costo del lavoro è rimasto sostanzialmente al palo, mentre il fatturato delle aziende aumentava addirittura di oltre il 30%.

Che fine hanno fatto tutti questi quattrini in più? Semplice, sono andati in tasca agli azionisti, tutti quanti. “Il margine operativo netto”, riporta entusiasta Mediobanca, “è avanzato del 21,9%. il risultato netto”, addirittura “del 26,2%”.

E graziarcazzo che le aziende non si sono ribellate al suicidio del governo. Non era un suicidio, ma un genocidio: dei lavoratori, per fregargli il malloppo e consegnarlo nelle mani degli azionisti. Che te frega a te sei il paese va allo scatafascio, se per tutto il bottino che comunque rimane ti lasciano mano libera di fare la più grande rapina a mano armata della storia repubblicana?

Vabbè, potrebbe obiettare giustamente qualcuno, consoliamoci almeno col fatto che questi quattrini sono andati nelle tasche di gente benestante, che ci avrà pagato sopra il massimo scaglione dell’IRPEF, che al momento è al 43%. Non sarà il 72% che si applicava ai più ricchi quando ancora andava di moda rispettare la costituzione italiana, ma sono comunque dei bei soldoni per garantire i servizi essenziali anche ai più disgraziati. Magari. Quei profitti infatti in larga misura diventano dividendi da pagare agli azionisti.

In due anni la Borsa di Milano ha pagato dividendi per quasi 140 miliardi di euro”, ricorda il nostro sempre puntualissimo Alessandro Volpi, e “sono tassati al 26 per cento. Se i beneficiati hanno residenza fiscale all’estero non pagano neppure quello”.

Le aziende armate di piede di porco e di passamontagna, quindi, non si sono limitate ad andare a svaligiare le case dei loro dipendenti, ma anche di tutto il resto degli italiani.

Ma la catena infernale non è ancora finita. Perché a questo punto uno potrebbe dire, vabbè, consoliamoci almeno col fatto che i nostri imprenditori hanno un sacco di quattrini da reinvestire nella nostra economia e rendere le loro aziende sempre più competitive.

Anche qui, magari. In realtà, purtroppo, la destinazione finale è tutt’altra. I quattrini che gli azionisti con la residenza fiscale all’estero hanno rubato ai lavoratori e sui quali non hanno pagato manco un euro di tasse non ci pensano proprio, infatti, di rinfilarsi nelle beghe degli investimenti nell’economia reale. Vanno tutti direttamente a produrre altri soldi tramite soldi. E il luogo per eccellenza dove si produce il grosso dei soldi attraverso altri soldi è uno solo: gli Stati Uniti e tutte le bolle speculative che continua a gonfiare proprio grazie a questa iniezione infinita di capitali rubati alla gente normale in tutto il resto del pianeta.

Capito ora perché non protestano? Capito perché i giornali, le tv e tutti gli altri mezzi di produzione del consenso, di loro proprietà, ci raccontano una serie infinita di fregnacce per indorare la pillola a costo di scadere continuamente nel ridicolo?

Comunque, per chiudere definitivamente il cerchio, rimane un problemino. Perché va bene che della crescita te ne frega il giusto, ma se tiri troppo la corda e la gente poi rimane senza il becco di un quattrino per comprare i tuoi prodotti e i tuoi servizi, alla fine quel profitto iniziale che ti permette di vivere una vita in vacanza tra le bolle speculative a stelle e strisce, da dove lo tiri fuori?

Ed ecco allora che la soluzione arriva dalla Grecia. In tema di devastazione e furto sistematico della ricchezza, una specie di piccola Italia che ce l’ha fatta. Pochi giorni fa infatti il governo reazionario di Mitsotakis ha presentato al Parlamento una proposta di riforma della legge sul lavoro da far invidia alle colonie schiaviste dei Caraibi dell’800: il tuo lavoro full time non ti permette più di mettere assieme uno stipendio sufficiente per sopravvivere? Che problema c’è: da oggi potrai liberamente e felicemente aggiungere un secondo lavoro, per un totale di tredici ore giornaliere. Sei giorni la settimana. Fino a 74 anni.

E se quando a 70 anni vuoi fare lo sborone e per mangiare inizi a fare un secondo lavoro che però dimostri di non essere in grado di svolgere in modo produttivo, nessun problema: entro un anno ti potrò licenziare senza preavviso, né retribuzione. E se da lurida zecca comunista, quale sei, stai pensando a organizzare una qualche forma di protesta, forse è il caso se ci ripensi: per i lavoratori che creano qualche blocco durante uno sciopero e impediscono ai colleghi di farsi sfruttare fino alla morte liberamente, in serbo ci sono una bella multa da cinquemila euro e sei mesi di carcere. D’altronde, ha affermato Mitsotakis, questa misura è indispensabile per combattere il fenomeno del lavoro nero e, ovviamente, “tornare a crescere”.

Un modello che piace moltissimo a quelli che la propaganda chiama mercati, ma che altro non sono sempre il solito manipolo di oligarchi di cui sopra. E anche ai loro giornali.

Come scrive Veronica De Romanis su La Stampa, infatti, grazie alle riforme di Mitsotakis, la Grecia crescerà il doppio dell’Italia nel biennio 2023-2024. E i mercati la premiano. Nonostante un debito di 30 punti superiore al nostro, continuano a pagare uno spread molto inferiore: 130 punti contro i nostri 180. “L’economia italiana”, sottolinea ovviamente la De Romanis, “è molto diversa da quella greca per dimensioni e forza produttiva. Tuttavia”, suggerisce, potremmo ispirarci al “percorso di cambiamento” che ha intrapreso. Questa idea vetusta che in un paese sviluppato non ci dovrebbe essere la schiavitù, suggerisce la De Romanis, è una patetica velleità. Ce lo chiedono i mercati: per tornare a crescere.

Contro la propaganda delle oligarchie che tifano per il ritorno alla schiavitù, oggi più che mai abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo.

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E chi non aderisce è Matteo Renzi.


Un gigante contro le oligarchie: La storia di Michael Hudson, il più grande economista vivente

Micheal hudson nasce nel 1939 a minneapolis, “l’unica città trotzkista al mondo”, l’ha definita.

Ma i legami con Trotzky di hudson andavano oltre minneapolis.

I suoi genitori avevano lavorato direttamente con lui in messico e tornati a Minneapolis, si erano messi alla testa del leggendario sciopero generale degli autotrasportatori del 1934 che bloccò l’intera logistica di dell’upper midwest per oltre tre mesi.

Sei anni dopo, il padre di Michael pagherà il suo attivismo con il carcere, grazie all’entrata in vigore del famigerato smith acts che nell’arco di un paio di decenni consentì l’arresto per motivi ideologici di oltre duecento militanti comunisti e socialisti.

“Quindi”, ricorda Hudson, “sin da piccolo ho avuto a che fare quotidianamente con i vecchi membri dei partiti comunisti americano, tedesco… passavano tutti per casa mia, e mi raccontavano continuamente storie legate alla rivoluzione. E così ero quasi predestinato a guidarne una, se mai se ne fossero riscontrate le condizioni. Il mio interesse è sempre stato capire quali fosse quelle condizioni”

Il padre di Michael, si mormora, aveva il quoziente intellettivo più alto di tutto il sistema penitenziario USA, così si convinsero che anche michael fosse fatto della stessa pasta e lo introdussero a un percorso di studi per bambini savant. A 20 anni era già laureato: filologia germanica e storia della cultura. Nonostante, in realtà, in quegli anni avesse dedicato il grosso del tempo alla sua vera passione, la musica. Sarebbe voluto diventare direttore d’orchestra:

Andò anche a New York, per seguire i corsi di Dimitri metropolis, il direttore della New York philarmonic. Poco dopo però, morì la vedova di Trotzky, Natalia, e l’esecutore del suo testamento assegnò ad hudson tutti i diritti d’autore.

Dato che ero il figlioccio di trozky, avrei dovuto creare una casa editrice”. Riesce ad ottenere anche i diritti d’autore da George Lukacs, ma non riesce a trovare nessuno disposto a pubblicare le loro opere. In compenso però, conosce Terence McCarthy. Si stava occupando della traduzione in inglese del celebre manoscritto marxiano sulla teoria del plusvalore.

Passammo un intera nottata”, ricorda Hudson, “a discutere su come il ciclo dell’attività magnetica solare stava impattando sul livello delle acque in america, e avrebbe causato una carestia che a sua volta avrebbe portato al drenaggio di denaro dal mercato azionario e obbligazionario, causando una crisi finanziaria. trovai questo ragionamento così bello, così estetico, che decisi immediatamente che avrei dedicato la mia vita allo studio dell’economia”.

Hudson allora si iscrive alla New York university. Prende una seconda laurea in economia, e trova lavoro presso la saving banks trust company, “che era l’unica banca commerciale in cui tutti i risparmiatori mettevano i loro depositi”, ricorda Hudson.

Il suo lavoro consisteva nel tracciare l’andamento dei risparmi nella città di New York, e confrontare questo andamento con quello della concessione di mutui ipotecari

E “ho visto”, ricorda Hudson, “che il grafico dei depositi sembrava quello del battito cardiaco. i depositi avevano uno sbalzo ogni 3 mesi, quando venivano pagati i dividendi. Ho capito che sostanzialmente le persone lasciavano i loro soldi in banca perché crescessero automaticamente, in modo esponenziale con gli interessi. E ho visto come questi soldi, che si accumulavano esponenzialmente, venivano reinvestiti nel mercato immobiliare per spingere al rialzo il prezzo delle case”.

Per hudson quello diventerà un vero e proprio pallino.

“Nei libri di testo sembra che le banche prestino denaro all’industria. Ma le banche non prestano un centesimo all’industria per investire in beni capitali e assumere persone. Magari li prestano per acquistare un’industria che c’è già, e poi cannibalizzarla, ma non per creare capitale. L’80% dei prestiti bancari in realtà, sono prestiti immobiliari. Ma il mercato immobiliare non viene insegnato in nessun corso di economia”, anzi, se ti azzardi a parlarne, ti segano.

Ho dovuto seguire un corso di economia monetaria tenuto da un professore che non aveva mai lavorato in una banca in vita sua”, ricorda Hudson. “Sosteneva che il ciclo economico consistesse in banche di risparmio che mettono i loro soldi in banche commerciali, che a loro volta prestano soldi all’industria. Io provai a spiegargli che quello che lui chiamava sistema bancario commerciale in realtà era una sola banca, quella dove lavoravo io, e che noi non facevamo nessun prestito all’industria. Con i soldi, molto banalmente, compravamo obbligazioni. All’esame mi dette c+. Non avevo capito l’economia dei libri di testo, però avevo capito quello che c’è scritto nei libri di testo ha poco a che vedere con il funzionamento reale dell’economia”.

I libri di testo descrivono un universo parallelo, dove la distribuzione del reddito è giusta, tutti ottengono ciò che meritano, e non esiste reddito che non sia stato onestamente guadagnato. Tutto funziona alla perfezione e devi accettare il mondo così com’è. Ma io”, ammette il nostro guru, “il mondo così com’è non l’ho mai accettato”.

Dopo l’istruttiva parentesi alla saving banks trust company, Hudson decide di approfondire il tema della bilancia dei pagamenti: “un altro tema”, sottolinea hudson, “che non viene trattato dai corsi di economia. o meglio, un tema che per come viene trattato, sarebbe meglio non lo fosse del tutto”.Per capire come funziona davvero, riesce a farsi assumere come analista dalla chase manhattan bank di david rockfeller, il fondatore del gruppo bildelberg e della commissione trilaterale. Hudson viene incaricato da rockfeller di fare uno studio sul saldo dei pagamenti dell’industria petrolifera.

Un vero e proprio rompicapo.

Hudson decide di concentrarsi in particolare sulla standard oil, vista la vicinanza a rockfeller

Ma spulciando i conti, c’è qualcosa che non gli torna. Non riesce a capire da dove standard oil tragga i suoi profitti.

Guadagna estraendo petrolio? Raffinandolo? Distribuendolo alle pompe di benzina? Dai documenti, non si riusciva a capire, fino a che il tesoriere di standard oil non gli svela l’arcano: “i soldi li guadagnamo proprio qui, nel mio ufficio”.

Ecco come Hudson ha capito il ruolo fondamentale ricoperto dai paradisi fiscali. Sostanzialmente, standard oil aveva le sue succursali in Paesi come Panama o la Liberia. che non erano veri e propri Paesi. Non avevano nessuna sovranità, e avevano adottato il dollaro, in modo da non rappresentare rischi sul versante del tasso di cambio della valuta. Queste filiali non facevano altro che una piccola operazione contabile. Compravano petrolio dai produttori a prezzi ridicoli, e lo rivendevano ai raffinatori a prezzi decuplicati. Sia produttori che raffinatori, non facevano un euro di profitto. Tutto il profitto lo facevano le succursali nei paradisi fiscali. Oggi è l’intera economia internazionale a funzionare così, ma oltre 50 anni fa, per hudson, fu una vera e propria rivelazione.

E non solo per Hudson…

Verso la fine del 1967, viene affiancato in ascensore da uno sconosciuto, che gli porge un fascicolo:

“È un rapporto del dipartimento di stato. Vorrebbero che tu ci aiutassi a calcolare quanti soldi potremmo ottenere se creassimo filiali bancari in questo tipo di paesi e diventassimo la banca per tutto il capitale criminale del mondo”, ricorda Hudson.

Non avrei potuto chiedere di meglio”, sottolinea sarcasticamente “avevo la massima collaborazione da parte di tutte le persone legate al governo, che i spiegavano come la cia lavorava con il traffico di droga e i criminali per raccogliere denaro. stavo diventando un vero specialista in riciclaggio”.

Dopo l’anno vissuto intensamente tra paradisi fiscali e riciclaggio di denaro alla chase Manhattan, per approfondire l’applicazione delle sue teorie sulla bilancia dei pagamenti, hudson decide di andare a lavorare alla Arthur Andersen. All’epoca era una delle big five, le cinque principali aziende di consulenza e di revisione degli USA. Era anche la società che doveva controllare la veridicità dei bilanci della Enron, cosa che evidentemente non faceva troppo meticolosamente: nel 2001, dopo dieci anni di crescita tumultuosa, durante i quali la Enron aveva più che decuplicato il suo fatturato diventando così addirittura la settima più importante multinazionale usa in assoluto, si scoprì che era tutta fuffa, e che l’unica cosa che i dirigenti Enron facevano, era creare una quantità esorbitante di società fittizie nei paradisi fiscali. Quasi 900 in tutto. 600 soltanto alle isole Cayman.

L’anno dopo anche la Andersen, dopo 9 decenni abbondanti vissuti al massimo, fu costretta a chiudere i battenti. Da dipendente della Andersen, Hudson si accorge che l’intero deficit della bilancia commerciale USA per tutti gli anni ‘60, era interamente dovuto alle spese militari all’estero: “il settore privato del commercio e degli investimenti era esattamente in equilibrio”.

Hudson ricorda di aver consegnato il frutto del suo lavoro a William Barsanti, uno dei principali soci della andersen, nonché fondatore della filiale italiana del gruppo:“temo che dovremo licenziarti”, fu il commento di Barsanti tre giorni dopo.

Hudson ricorda che Barsanti gli raccontò di aver inviato la bozza del dossier nientepopodimeno che a Robert McNamara in persona, l’allora potentissimo Segretario di Stato dell’amministrazione Kennedy prima e Johnson poi e che da lì a breve sarebbe diventato ancora più potente nel ruolo di Presidente della banca mondiale per tredici lunghi anni.

Ci ha detto che se pubblichiamo questo rapporto, la Arthur Andersen non otterrà mai più un contratto governativo”, avrebbe detto Barsanti ad Hudson. “In tutti i documenti del pentagono che sono stati resi pubblici successivamente”, sottolinea Hudson, “non c’è alcuna discussione sui costi del saldo dei pagamenti della guerra del vietnam”.

Una mancanza non da poco: era proprio quella voragine che di lì a poco avrebbe messo definitivamente fine all’era del gold standard. In Vietnam infatti, che era un’ex colonia francese, le banche esistenti erano tutte francesi. Soldati ed esercito USA le riempivano di dollari. e quando i dollari arrivavano in Francia, De Gaulle aveva dato mandato di convertirli subito in oro.

Con molto meno clamore, la Germania intanto stava facendo la stessa cosa. Incassava dollari dalle esportazioni, e poi li convertiva tutti immediatamente in oro

Alla fine”, ricostruisce Hudson, “gli usa hanno abbandonato la convertibilità del dollaro in oro nel 1971. e allora io ho messo insieme tutti gli articoli che avevo scritto sul tema, ed ecco come nasce il mio primo libro”.

E’ “Superimperialismo”, in assoluto uno dei testi di economia politica più importanti di tutto il ventesimo secolo. Con dovizia di particolari, prima ancora che il funzionamento dell’imperialismo finanziario usa entrasse a pieno regime, Hudson dimostra come la fine del Gold Standard imporrà nei decenni a venire ai Paesi che incassano dollari grazie all’attivo commerciale di investirlo in larghissima parte in titoli del tesoro a stelle e strisce.

Quindi gli USA fanno deficit mostruosi per imporre il loro presunto strapotere militare a tutto il pianeta, ma i dollari che spendono vengono inevitabilmente reinvestiti da chi gli incassa per rifinanziare proprio quel debito. Un gigantesco schema ponzi, tenuto in piedi però dall’uso spregiudicato della forza da parte dell’esercito più grande e costoso della storia dell’umanità.

Hudson l’aveva capito nel 1972. I liberioltristi, compresi quelli che magari hanno una cattedra di economia in qualche università blasonata, per digerirlo dovranno attendere ancora qualche generazione.

Tra quelli che invece capirono subito la portata delle intuizioni di Hudson, c’era anche un certo Hernan Khan, l’uomo che avrebbe ispirato il personaggio del dottor stranamore di Kubrick.

Khan aveva da poco lasciato il suo posto alla Rand Corporation per fondare l’influentissimo Hudson Institute. E dopo aver sentito Hudson presentare il suo libro in una conferenza dedicata agli operatori di Wall Street, lo volle immediatamente al suo fianco. Nei mesi successivi, Hudson e Khan girarono il pianeta per illustrare le idee di Michael su come avrebbe funzionato da lì in avanti la bilancia dei pagamenti.

Ma gli mancava ancora un pezzetto.

Perchè ora che Bretton Woods e la convertibilità in oro erano saltati, come avrebbero fatto gli USA a imporre al resto del pianeta di continuare a usare sempre e soltanto dollari come valuta di riserva globale?

La risposta arrivò poco dopo

Rientrati da uno dei loro infiniti tour in giro per il mondo, Hudson e Khan vengono vengono invitati alla Casa Bianca per una riunione sul petrolio e la bilancia dei pagamenti.

Al tesoro era stato nominato George Schultz, che svelò ad Hudson l’arcano. Poco prima, gli USA avevano fatto in modo che il prezzo del grano aumentasse a dismisura per finanziare una parte dell’avventura vietnamita. L’opec guidata dai sauditi aveva reagito aumentando più o meno allo stesso modo il prezzo del petrolio. Schultz però non sembrava esserne più di tanto contrariato:

Più alto è il prezzo del petrolio, più le compagnie americane avrebbero guadagnato sul petrolio domestico”, avrebbe detto Schultz ad Hudson.

Ma sopratutto, l’unica condizione che aveva posto ai sauditi era che dovevano prezzare il petrolio esclusivamente in dollari, utilizzare solo dollari per i pagamenti, e “riciclare tutti i dollari che incassavano negli stati uniti”. Altrimenti, “è un atto di guerra”.

Ma cosa ci puoi comprare negli usa con i dollari?

Di sicuro “non puoi comprare le aziende americane”, ci puoi solo comprare un po’ di azioni, senza acquisire il controllo delle aziende, e soprattutto tante tante obbligazioni.

E così finalmente eccomi qui”, scrive Hudson, “nel bel mezzo della comprensione di come funziona davvero l’imperialismo. peccato che non sia quello che viene raccontato nei libri di testo”. Per seguire la tappa successiva dell’incredibile avventura del nostro economista preferito, bisogna spostarsi in Canada.Il Governo cercava qualcuno che conoscesse a fondo il mercato azionario e obbligazionario americano Volevano capire dove avrebbero potuto trovare i soldi necessari per finanziare un ambizioso piano di investimenti interni per aumentare la produttività della loro economia. Hudson gli presentò uno studio che li lasciò basiti: “avevo scritto uno studio che dimostrava che il Canada per investire internamente a livello provinciale, non aveva necessariamente bisogno di prendere denaro in prestito dall’estero. Potevano semplicemente creare la loro stessa moneta. in pratica, era il primo esempio di ciò che oggi viene chiamata modern monetary theory. il succo è che i Paesi sovrani creano la loro moneta, che è il loro credito, e non hanno bisogno di una copertura”. Non è l’unica avventura canadese di Hudson.

Il suo rapporto suscitò grande interesse tra tutti i banchieri del regno Fino a che uno dei più autorevoli analisti finanziari dell Royal bank decise che Hudson lo doveva aiutare a portare avanti la sua grande battaglia culturale. “Mi disse che a suo avviso gli economisti in buona parte avevano un problema di personalità, e che non riescono a capire come funziona concretamente il mondo. sono affetti da una sorta di autismo che gli permette di pensare esclusivamente in termini del tutto astratti, senza riuscire ad avere un senso della realtà economica nella sua concretezza”.

Hudson si ritrova così a fare da consulente al Segretario di Stato del Canada, che è responsabile anche dell’istruzione, della cultura e dell’industria cinematografica.

Nel frattempo Hudson era diventato anche consulente economico dell’unitar, l’istituto delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca. Aveva curato alcuni rapporti sul debito dei Paesi del terzo mondo denominato in dollari, e su come questo stesse destabilizzando le loro economie

Fino a che l’allora presidente del Messico non organizzò una conferenza a Città del Messico, ed ebbe la pessima idea di invitare Hudson. Affermò pubblicamente che non c’era modo che i debiti del terzo mondo potessero essere davvero pagati: “quando lavoravo per Chase Manhattan”, ricorda Hudson, “mi ero occupato di calcolare quante esportazioni potevano potenzialmente effettuare paesi come argentina, Brasile o Cile. L’idea era che tutti i guadagni delle esportazioni dovessero essere utilizzati per pagare gli interessi sui prestiti ricevuti dalle banche americane”

Quindi prima si calcolava quanti quattrini avrebbero potuto pagare ogni anno come servizio sul debito grazie al surplus commerciale, e poi si trovava il modo di convincerli per indebitarsi per la cifra corrispondente

In questo modo i Paesi non avrebbero mai avuto la possibilità di ripagare oltre agli interessi anche il debito stesso, e sarebbero rimasti eternamente in pugno delle oligarchie finanziarie USA. “Alla conferenza in messico mi limitai a dire che visto che proprio per come erano stati architettati questi debiti oggettivamente non potranno mai essere ripagati, e che quindi molto semplicemente non sarebbero dovuti essere ripagati”.

Come venne tradotto questo semplice concetto durante la conferenza stampa che seguì la riunione?

Il giornalista che presiedeva la conferenza stampa”, ricorda Hudson, affermò che “il dottor Hudson ha presentato un rapporto dicendo che i Paesi del terzo mondo dovrebbero esportare di più per pagare i loro debiti”.

Peccato che non tornino le date, altrimenti avrei affermato con sicurezza che si trattava per forza di Federico Rampini.

Da lì in poi questa sarebbe diventata la nuova fissazione di Hudson. “Mi resi conto”, ricorda, “che l’idea che i debiti potessero non essere pagati era così controversa, che decisi di scrivere una storia delle cancellazioni del debito”. Hudson comincia così a scavare a ritroso. Prima arriva al Medio Evo. poi all’Impero romano, poi alla Grecia e alla fine a Babilonia e ai sumeri.

Mi resi conto che non esisteva una storia economica dei sumeri e di Babilonia. c’era molto materiale sulla religione e sulla cultura, ma niente su quello che mi interessava davvero: la storia delle cancellazioni del debito”.

Tramite un amico, Hudson presenta il suo piano di ricerca all’allora direttore del Peabody museum, il prestigioso museo di archeologia ed etnologia dell’università di Harvard.

““questo è fantastico”, mi disse subito con entusiamo, “nessuno sta lavorando su questo””.

Hudson diventa così ufficialmente membro del Peabody museum per l’archeologia babilonese.

Dedicherà a questa ricerca i successivi tre anni della sua vita.

Quello che Hudson riesce a ricostruire è che la maggior parte dei debiti in realtà non erano il risultato di prestiti. “La maggior parte dei debiti”, ricostruisce “si verificava quando i raccolti fallivano, e i coltivatori non potevano pagare le tasse da un alto, e gli altri beni e servizi che avevano consumato nel frattempo dall’altro”.

Secondo Hudson infatti il denaro sostanzialmente nasce così: altro non è che la misura contabile di beni e servizi consumati, che poi ripaghi una volta che arriva il momento del raccolto. Se il raccolto c’è.

Ma la cosa straordinaria che ha scoperto Hudson è che, per chi non riusciva a ripagare i debiti con i raccolti successivi, “per mille anni, ogni sovrano, quando saliva al trono, iniziava il suo Regno cancellando i debiti. Una vera e propria amnistia”.

Il sovrano era interessato ad annullare i debiti per permettere all’economia di ripartire. Senza debiti sulle spalle, i sudditi potevano tornare tranquillamente a lavorare la loro terra, pagare le tasse, e nel tempo che gli avanzava prestare la loro manodopera per i lavori di corvé e nell’esercito. Ma l’interesse del sovrano si scontrava contro gli interessi degli altri creditori. Loro non avevano nessun interesse affinchè l’economia ripartisse e i sudditi ritrovassero un loro equilibrio. Al contrario, il loro interesse era proprio che i sudditi non riuscissero a ripagare i debiti e per pareggiare i conti fossero costretti a cedergli i loro terreni e a fare al loro posto i lavori imposti dal palazzo facendoci la cresta sopra. “La tensione nella storia, dal terzo secolo avanti cristo coi sumeri, all’impero bizantino”, scrive Hudson, “è la tensione tra il palazzo che vuole raccogliere le tasse e avere manodopera per i lavori pubblici e per l’esercito, e ricchi creditori che vogliono avere manodopera indebitata da far lavorare al loro posto, ottenendo un surplus economico pagato direttamente a loro. Il modo per ottenere il surplus economico, non era quello che Marx ha descritto come peculiare del capitalismo, e cioè impiegare manodopera per produrre beni da rivendere ricavando un profitto, ma attraverso il debito, con il prelievo degli interessi e alla fine il pignoramento delle terre, che era l’obiettivo reale”. Non è questione di filologia.

Quel conflitto tra l’interesse pubblico di permettere alle persone di contribuire concretamente alla creazione della ricchezza e l’interesso delle oligarchie finanziarie a rendere le persone schiave attraverso l’indebitamento, è esattamente quello che ci ritroviamo di fronte oggi dopo cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista e di finanziarizzazione totale dell’economia in tutto il nord globale. Un conflitto che, come ci insegna Hudson, oggi ha assunto una dimensione anche geopolitica, perché la nuova guerra fredda è in fondo proprio guerra tra due sistemi contrapposti: lo sviluppo delle forze produttive dell’economia reale da un lato, e il parassitismo delle oligarchie finanziarie dall’altro.

Se oggi abbiamo gli strumenti per leggere lo scontro tra sud e nord globale come la partita decisiva del conflitto tra il 99% e l’1%, lo dobbiamo in buona misura proprio a lui.

Michael Hudson, il più grande economista vivente.

Del quale però, incredibilmente, non esiste nemmeno un testo tradotto in italiano.

Tra i millemila progetti futuri di OttolinaTV c’è anche questo: la pubblicazione per la prima volta in italiano per lo meno delle opere principali tra le decine e decine di capolavori prodotti da Hudson in questi cinquanta e passa anni.

Non saranno i quattrini di qualche oligarca a consentirci di colmare questa incredibile lacuna

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E chi non aderisce è Federico Rampini

Wall street consensus: come la Finanza trasforma la crisi climatica in guerra contro i poveri

È possibile essere a favore della transizione ecologica senza odiare i poveri?

Di fronte alla polarizzazione del dibattito sulla crisi climatica, tra chi la nega perché una volta sul manuale delle medie ha letto che Annibale ha attraversato le Alpi di gennaio in scooter con l’infradito e chi invece si indigna quando quei cafoni delle pevifevie s’incazzano se la benzina gli costa il doppio, effettivamente, il dubbio viene.

D’altronde, è uno dei dispositivi di dominio in assoluto più potenti dell’egemonia neoliberista: riuscire a spostare il dibattito in una puntata di Ciao Darwin tra due fazioni diverse, ma uguali di destra reazionaria, mentre dietro le quinte oligarchie finanziarie dedite al greenwashing e cari vecchi petrolieri si gonfiano le tasche.

Non è che per caso c’è un modo per mandare a cacare entrambi?

Shkusi, signor miliardario, che me la farebbe mica un poco di transizione ecologica?

L’appecoramento agli interessi dell’oligarchia finanziaria che sta determinando le modalità con le quali l’élite politica del Nord Globale sta affrontando la transizione ecologica, è senza pari: con la mano sinistra si fa finta di aderire senza se e senza ma alle indicazioni che arrivano dalla comunità scientifica; con la destra però poi si pone una condizione che è destinata inesorabilmente a far fallire miseramente ogni tentativo di cercare una soluzione ovvero va bene la transizione, ma solo se non mette in discussione il dominio delle oligarchie finanziarie. Anzi, è pure peggio di così: va bene la transizione, ma solo se riusciamo a trasformarla in un ulteriore gigantesco trasferimento di ricchezza nelle tasche della finanza. Nell’epoca dell’egemonia neoliberista, la guerra culturale tra scienza e superstizione viene trasformata senza ritegno in un altro capitolo della guerra dell’1% contro il 99%: se vuoi piegare le esigenze della transizione ecologica agli interessi della finanza, sei un illuminato progressista; se pretendi che la transizione non venga fatta sulla pelle del 99%, eccoti infilato automaticamente nel calderone del negazionismo più becero.

E il bello è che in questa dicotomia ci casca anche il grosso del 99%!

Invece di rivendicare con forza il fatto che la transizione è necessaria e che per effettuarla veramente, e non solo a chiacchiere, a guidarla non possono essere gli interessi economici immediati dell’1%, si nega la scienza. Per l’1%, è un doppio regalo: da un lato continuano tranquillamente a fare una montagna di quattrini con il fossile e il modello di sviluppo vecchio, e dall’altro si apprestano a imporre la transizione, che è inevitabile, alle loro condizioni.

Non deve per forza andare così.

Come scrive da anni l’economista Daniela Gabor infatti, ci sono sostanzialmente due modi per organizzare la transizione a un’economia a basso tasso di carbonio. Il primo, più efficace, lo chiama Green New Deal e “delinea un programma radicale di trasformazione ecologica ed economica guidato dallo Stato”. Secondo la Gabor: “questo comporta massicci investimenti in attività a basse emissioni di carbonio – politiche industriali verdi sostenute da politiche fiscali e monetarie verdi, garantendo al contempo che la decarbonizzazione avvenga in modo giusto. Fondamentalmente questo richiede la demolizione dell’ordine politico del capitalismo finanziario: annullare la sua avversione ideologica all’attivismo fiscale e all’intervento statale, il suo impegno per l’indipendenza” delle banche centrali e il potere politico dei finanziatori del carbonio”. Proprio come il New Deal di Roosevelt, insomma, presuppone uno spostamento del potere dal capitale al lavoro e allo Stato e, proprio come per il New Deal – contro il quale l’oligarchia finanziaria si è costruita a sua immagine e somiglianza lo Stato neoliberale in cui siamo immersi – anche a questo giro la risposta è già pronta. E visto che lo Stato neoliberale c’è già e il potere politico le oligarchie finanziarie ce lo hanno già, non ci sarà manco da aspettare che si organizzino per reagire: ogni alternativa è uccisa nella culla.
Sostenuta involontariamente da chi invece che giocarsi questa partita, preferisce negare la scienza, questa alternativa neoliberista al Green New Deal la Gabor l’ha chiamata Wall Street Consensus, e “promette che”, specifica la Gabor, “con la giusta spinta, il capitalismo finanziario può realizzare una transizione a basse emissioni di carbonio senza cambiamenti politici o istituzionali radicali”. Il mantra del Wall Street Consensus è creare le condizioni affinché sia possibile “sfruttare il capitale privato per lo sviluppo“.

Un po’ quello che dicono i cinesi insomma.

Peccato che nel nostro caso i rapporti di forza siano invertiti e ad essere sfruttato sia il miraggio dello sviluppo per favorire il capitale privato. “I finanziatori del carbonio”, infatti, scrive la Gabor, “vedono sempre più la crisi climatica non come una minaccia, ma come un’opportunità per realizzare profitti elevati, attraverso il greenwashing sovvenzionato”.

Greenwashing sovvenzionato: quanto amo la Gabor!

Significa in sostanza che creiamo le condizioni affinché la transizione sia una gigantesca opportunità di guadagno per le oligarchie finanziarie, ma senza manco pretendere che poi questa transizione la facciano davvero: basta che lo dicano! Ad esempio, attraverso il rating ESG, che sta per “Environment, Social and Governance”, e cioè la pagella delle aziende non in base agli indicatori economici e finanziari, ma appunto alla loro sostenibilità ambientale, sociale e di governance: una gigantesca presa per il culo!

Non tanto per il principio in sé, ovviamente – che sarebbe cosa buona e giusta – ma proprio perché in mano al mondo della finanza privata, e senza nessuna capacità da parte del potere politico di mettere dei paletti, e di controllare che vengano rispettati, s’è inevitabilmente trasformato in una barzelletta.

Il mercato delle agenzie di rating e dei fondi ESG è il cuore del greenwashing globale.

Se per anni ci siamo scandalizzati per lo strapotere di tre sole agenzie di rating finanziario, Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, ecco, calcolate che quando si parla di rating di sostenibilità, una società da sola, MSCI, pesa per oltre il 60% del mercato globale e le sue valutazioni hanno dell’incredibile.

Nel 2021 fece scalpore la vicenda McDonald che, cuore di un modello economico incredibilmente insostenibile e predatorio, era stata promossa proprio da MSCI, nonostante generasse più gas serra di Stati come il Portogallo o l’Ungheria e le sue emissioni nell’arco di quattro anni fossero salite ulteriormente del 7%. McDonald ora ha un rating tripla B, che equivale ad una bella sufficienza. Ma niente al confronto con quello di JP Morgan, la più grande banca privata del mondo: nonostante con quattrocentotrentaquattro miliardi in sette anni sia in assoluto il più grande finanziatore al mondo di progetti legati al fossile, per MSCI s’è guadagnata una bella A, un bel sette in pagella. Non dovrebbe sorprendere. MSCI infatti, non valuta l’impatto che la singola azienda ha sul clima, ma l’impatto che il clima ha sui conti dell’azienda: cioè, puoi anche contribuire a devastare il pianeta, ma se il tuo modello di business ti permette di continuare a fare profitto anche in un pianeta ambientalmente devastato, sei promosso. Così se nel 2021 MSCI ha migliorato il rating di 155 grandi corporation, soltanto 1, RIPETO 1, aveva effettivamente registrato una diminuzione delle emissioni.

Ma non è ancora finita perché se MSCI pesa per il 60% del mercato, anche il restante 40% ha ovviamente il suo peso e la sua utilità che principalmente consiste nel fatto che se cerchi per una qualsiasi azienda un’agenzia disposta a dare un buon rating, la trovi

Qualche tempo fa fece scalpore il caso Enbridge. Era riuscita a farsi concedere un finanziamento di 1 miliardo di dollari, legato proprio alla sostenibilità: serviva per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose.

Cosa significa?

Lo raccontava magistralmente il buon vecchio Andrea Barolini in un articolo su Valori.it , “Istruzioni per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose. Per raggiungere gli strati di sabbia ricchi di bitume, radete al suolo le foreste sovrastanti; trasportate tonnellate di sabbia all’impianto; utilizzate enormi quantitativi di acqua e solventi per estrarre il bitume; raffinatelo consumando altra energia; e alla fine ottenete del petrolio un po’ scadente da bruciare allegramente, con un ciclo che produce tra le 3 e le 4 volte le emissioni che si ottengono quando si estrae petrolio con tecniche tradizionali”.

E così, dopo Enbridge, nel tuo fondo “sostenibile” ci puoi mettere letteralmente cosa ti pare.

Blackrock di fondi sostenibili, ad esempio, ne ha quanti ne vuoi e Larry Fink nel 2020 era salito alla ribalta per la sua famosa rituale lettera annuale agli investitori, che a questo giro annunciava una decisa svolta green. Tutt’ora Blackrock investe 85 miliardi in società che producono energia col carbone.

Quindi non è altro che greenwashing?”, chiedevano sempre gli amici di Valori un po’ di tempo fa a Tariq Fancy, un ex pezzo grosso proprio di Blackrock poi pentito.

Complessivamente sì, è assolutamente greenwashing”, è stata la risposta.

Per evitare queste distorsioni qualche anno fa il mondo della finanza ha messo in piedi uno strumento innovativo: si chiama TNFD, che sta per Taskforce on Nature-related Financial Disclosure. Si fonderà su dei report dettagliati, che però funzionano esattamente come il rating di MSCI: “i rapporti che le aziende saranno chiamate a stilare non riguardano direttamente l’impatto che la loro attività ha sulla natura”, scriveva nell’agosto scorso il nostro Lorenzo Tecleme. “Viceversa”, continuava, “alle corporation è richiesto di spiegare se il loro modello di business è messo in qualche modo a rischio da fattori legati alla natura. O, all’opposto, se dal rapporto con gli ecosistemi possano nascere nuove opportunità economiche”.

Non era il primo esperimento in questo senso.

L’anno precedente infatti era entrata in funzione un’altra taskforce, la taskforce on climate-related financial disclosure. A capo c’era un ambientalista senza macchia: Michael Bloomberg, il settimo uomo più ricco del pianeta. Siccome evidentemente questi sistemi di valutazione privati non servono a una sega-niente, le istituzioni hanno cominciato a elaborare i loro, in particolare l’Europa. Per farlo, indovinate chi hanno assunto come consulente? Blackrock.
Nel caro e vecchio tradizionale capitalismo di rapina, i ricchi dovevano investire quattrini per fare lobbying presso le istituzioni; ora le istituzioni li pagano. Alla luce di queste evidenze, la guerra civile tra ambientalisti delle ZTL e negazionisti dei bassifondi può essere riqualificata come una guerra tra due negazionismi: i secondi negano la realtà scientifica sul clima, i primi quella sul capitalismo, e – visto che per quanto complesso, per capire il capitalismo tutto sommato non servono complessissime equazioni differenziali non lineari – tra i due, se proprio vogliamo trarre le somme, le più capre sono abbastanza chiaramente i primi.

Lo scozzo un po’ si riequilibra però quando al discorso sul potere della finanza, ci aggiungiamo anche quello geopolitico. Gli ambientalisti delle ZTL infatti sono di fronte a un dilemma esistenziale straziante: sono carichissimi per la guerra che il Nord globale ha finalmente deciso di ingaggiare contro l’asse delle autocrazie; peccato però che quella guerra, significa fare “ciao ciao” con la manina alla tanto agognata transizione.

Mentre l’Occidente infatti si crogiolava nella sua manifesta superiorità, i cinesi la transizione cominciavano a farla concretamente e soprattutto, costruivano i presupposti per portarla a termine.

Ancora nel 2007 infatti l’Europa era il principale hub manifatturiero per l’industria solare al mondo con circa un terzo della capacità produttiva globale di pannelli. Da allora, i cinesi -che evidentemente non leggevano La Verità – come per l’auto elettrica, hanno investito una quantità clamorosa di soldi per diventare i primi della classe. E li hanno investiti bene: non regalandoli a pioggia ai petrolieri privati e ai finanzieri che si improvvisavano avanguardie delle rinnovabili, ma facendo trainare tutta la conversione dallo Stato.

Tre anni dopo, erano già diventati i primi della classe. Noi, da bravi amanti del libero mercato, abbiamo reagito con dazi che si avvicinavano al 50%. Conseguenza: la svolta green di Europa e USA si sono fermate, senza fare grosso danno alla Cina. Abituati a essere i maggiordomi della finanza, i politici europei non hanno calcolato che in un Paese dove a guidare la carretta è lo Stato, non sarà qualche scaramuccia commerciale a far sviare da quello che viene considerato un obiettivo strategico, e così, nonostante i dazi, dal 2011 a oggi la Cina nell’industria solare ha investito 50 miliardi: 10 volte l’Europa. Grazie a questi investimenti, oggi la Cina produce pannelli in modo incommensurabilmente più efficienti ed economici che chiunque altro al mondo, mentre l’Europa e gli USA, si limitano a provare a limitare i danni: regalando quattrini ai privati.

L’obiettivo ora in Europa sarebbe arrivare a prodursi da sola il 40% dei pannelli che le servono per fare la transizione. Auguri!

Non possiamo scalare abbastanza rapidamente per soddisfare la domanda europea“, avrebbe affermato al Financial Times Steven Xuereb, direttore del Photovoltaik-Institut Berlin. “Tutti sono entusiasti del nuovo impianto [Enel] in Sicilia, che produrrà 3GW. I colossi cinesi stanno annunciando nuove fabbriche da 20GW”.

Riprendersi un pezzo del mercato, oltre a costare una quantità di quattrini spropositata, e quindi rallentare la transizione, potrebbe in realtà essere proprio infattibile perché nel tempo la Cina non ha conquistato soltanto il quasi monopolio dei prodotti finiti, ma anche di tutti i prodotti intermedi che servono per farli.

Il grafico pubblicato qualche settimana fa dal Financial times è piuttosto impietoso: divide la filiera dei pannelli in quattro stadi: produzione di polisilicio, produzione di wafer di silicio, produzione di celle e infine di pannelli veri e propri. Se per gli ultimi due stadi, celle e pannelli, la Cina oggi controlla circa l’80% del mercato, ma già nel 2010 era sopra il 50%, per il polisilicio è passata in 12 anni dal 25 a oltre il 90% del mercato, e per i wafer di silicio è diventata sostanzialmente l’unico produttore al mondo.

Recuperare è impossibile e forse anche solo provarci. La produzione di polisilicio e quella dei wafer infatti è enormemente energivora e l’energia in Cina costa la metà che da noi, senza contare gli incentivi.

Difficile credere”, conclude il Financial Times, “che qualcuno investirà miliardi senza la sicurezza di prezzi competitivi e prevedibili dell’energia”.

Ed ecco così che dopo il negazionismo climatico e quello economico, abbiamo il terzo negazionismo che impedirà di farla davvero sta transizione: quello che nega il fatto che il Mondo Nuovo ci sta facendo un culo così!

Contro il negazionismo, la finanza che ci banchetta sopra e la politica e l’informazione che assistono senza avere niente da ridire, quello di cui abbiamo bisogno è sempre di più un media che dia voce al 99%.

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E chi non aderisce è Michael Bloomberg.

Privatizzare la Natura: : il piano delirante del capitale per salvare il pianeta

Il piano delirante del capitale per salvare il pianeta: far naufragare definitivamente ogni residua speranza di un’efficace transizione ecologica affidandola a un petroliere, per poi costringerci ad accettare l’unica soluzione che il capitale sa immaginare per salvare il pianeta ossia privatizzare e finanziarizzare anche la Natura.

Sembra il plot dell’ennesimo blockbuster post apocalittico, ma in realtà è esattamente quello che sta succedendo sotto ai nostri occhi.

Nonostante la COP28 si terrà soltanto il prossimo novembre, i preparativi sono già in corso. Ad ospitare capi di stato, diplomatici, attivisti e uomini d’affari di quasi 200 paesi a questo giro toccherà a Dubai e la regia del tutto sarà affidata a lui: il Sultano Al Jaber, una scelta che sa di trollata.

Al Jaber infatti è nientepopodimeno che l’amministratore delegato dell’Abu Dhabi National Oil Corporation, il dodicesimo più grande produttore al mondo di gas e petrolio, e il quattordicesimo più grande produttore di emissioni climalteranti del pianeta. Sotto la sua direzione, ancora lo scorso autunno, il colosso emiratino delle fossili aveva annunciato un piano di espansione molto ambizioso, anticipando di 5 anni, dal 2030 al 2025, l’obiettivo di arrivare a estrarre 5 milioni di barili di greggio al giorno. “Il secondo piano più aggressivo di espansione dell’industria energetica mondiale”, denunciano oltre 400 organizzazioni ambientaliste in una lettera di protesta inviata alle Nazioni Unite, “che”, continua la lettera, “rende i suoi piani del tutto incompatibili con lo scenario disegnato dell’agenzia internazionale dell’energia, che chiarisce come per provare a raggiungere l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura sotto gli 1,5°C non ci possano essere ulteriori aumenti di estrazione di gas e petrolio”. Nella lettera, le associazioni ricordano come “anche prima della nomina di Al Jaber, gli Emirati Arabi Uniti” abbiano“ampiamente dimostrato di non prendere sul serio l’obiettivo dell’eliminazione graduale delle fonti fossili”. “Durante la COP27 dello scorso novembre” infatti, ricorda la lettera, “oltre 630 lobbisti delle fonti fossili si registrarono per partecipare ai negoziati sul clima e la delegazione degli Emirati era in assoluto quella col numero più alto di lobbisti”.

Ora sembra che la situazione si stia ribadendo. Al cubo.

A sette mesi dal fischio d’inizio, secondo quanto riportato da Bloomberg sarebbero già emersi numerosi casi di consulenti e membri dello staff di COP28 pagati direttamente dalla Abu Dhabi National Oil Corporation. “È davvero incredibile quanto sia andato in lungo e in largo, comprese alcune persone molto anziane” avrebbe dichiarato Sandrine Dixson-Declève riferendosi ai quattrini dispensati dalla corporation emiratina.

Al Jaber sul fronte delle mancate promesse in tema di rinnovabili ha già accumulato un curriculum di tutto rispetto. Dopo aver conseguito una laurea in business administration alla California State University di Los Angeles e aver terminato un dottorato in economia alla Coventry University in Gran Bretagna, era tornato a casa con un progetto visionario: voleva costruire un’intera città ecosostenibile da 50 mila abitanti a due passi dall’aeroporto di Abu Dhabi e convinse il governo a dargli la bellezza di 15 miliardi. Si sarebbe dovuta chiamare Masdar City; era il 2008. Quindici anni dopo, ci sono giusto una manciata di edifici semideserti e sono pure alimentati in gran parte con gas naturale! “Il grosso delle zone di sviluppo dopo 15 anni sono ancora completamente vuote”, scrive Bloomberg, “e la deadline è stata spostata al 2030.  Inizialmente era al 2016”.

In compenso, a capo della Abu Dhabi National Oil Corporation Al Jabar non ha saputo neanche tenere il passo nemmeno di altri killer del clima come Saudi Aramco e Exxon Mobil, che per lo meno vantano una trasparenza dei dati sulle emissioni aggregate decisamente migliore. D’altronde, Al Jabar non è esattamente un paladino della trasparenza e della libertà di informazione: da presidente del Consiglio Nazionale per i Media, secondo fonti raccolte da Bloomberg che avrebbero chiesto l’anonimato per timore di ritorsioni, “Al Jaber si occupa direttamente di mantenere uno stretto controllo sui media locali e sulle partnership con Sky News e CNN per i contenuti in lingua araba”.

Le organizzazioni ambientaliste lamentano giustamente che nessuna COP supervisionata da un pezzo grosso dell’industria fossile potrà mai essere ritenuta legittima e che le regole non possono essere scritte dai grandi inquinatori o sotto la loro influenza.

“Anno dopo anno”, scrivono nella lettera “la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite non è riuscita a fornire l’azione necessaria per porre fine all’era dei combustibili fossili e passare rapidamente e in modo equo a un nuovo sistema globale”.

In compenso però, le COP sono diventate un’ottima occasione per vendere. “Il vertice sul clima della Nazioni Unite”, ammette financo Bloomberg, “è ormai un raduno annuale per aziende che hanno un punto di vista sulla transazione energetica e un modo per venderlo; in pratica, una fiera”. E in grande stile: per la COP 28 Gli Emirati Arabi Uniti prevedono di ospitare un record di 70.000 partecipanti e il prodotto più in voga quest’anno, è roba da far accapponare la pelle.

Facciamo un balzo indietro. 9 novembre 2021. Un titolo sulla piattaforma online di scienze ambientali Mongabay recita: “Le comunità del Borneo sono rimaste incastrate in un accordo sul carbonio per 2 milioni di ettari di foresta di cui non sono a conoscenza”. Una storia allucinante, altro che land grabbing. Siamo nello Stato di Sabah, nel Borneo malese e secondo l’articolo, le autorità governative avrebbero firmato un accordo con un misterioso partner privato per lo sfruttamento del così detto “capitale naturale” di un’area di foresta grande quanto la Slovenia della durata di 100 anni, tenendo completamente all’oscuro le popolazioni indigene locali.

L’accordo sarebbe un così detto “nature conservation agreement”, un accordo sulla conservazione della Natura. L’obiettivo è ripristinare gli ecosistemi, per poi vendere crediti sui mercati finanziari, a partire da quelli sulle emissioni di carbone, ma non solo. Il meccanismo sicuramente lo conoscete già: io imprenditore con la fabbrichetta di bulloni nella provincia bresciana dovrei investire per abbattere le mie emissioni, ma visto che c’ho un’azienda che sta in piedi a malapena grazie a un po’ di evasione e qualche regola sulla sicurezza sul lavoro non rispettata, non me lo posso permettere. Allora come si fa? Si fa che tu, imprenditore anonimo che ti nascondi dietro una società anonima registrata nelle Isole Vergini britanniche corrompi qualche amministratore di qualche angolo del Sud globale, ti fai regalare un pezzo di terra dove vive qualche popolo indigeno, ci pianti qualche alberello che assorbe un po’ di carbonio ed ecco fatto che l’abbattimento delle emissioni l’hai fatto tu al posto mio. E che ce vo’?

Sembra una barzelletta o un film distopico, ma è esattamente quello che hanno fatto in questo caso o almeno, quello che hanno provato a fare su una scala gigantesca.

Secondo Al Jazeera, un affare da 80 miliardi. I carbon credit infatti, in prospettiva sarebbero soltanto uno dei tanti prodotti finanziari da costruire sulla conservazione e la rivitalizzazione degli ecosistemi: lo stesso meccanismo a breve dovrebbe essere applicato anche ad altri servizi ecosistemici, come l’approvvigionamento idrico, la riforestazione sostenibile e la conservazione della biodiversità. Per una società senza nessun curriculum e sulla quale è impossibile trovare informazioni, un obiettivo piuttosto ambizioso: la società infatti si chiama Hoch Standard e nessuno fino ad allora l’aveva mai nemmeno sentita nominare.

Il vice primo ministro dello Stato di Sabah, Jeffrey Kitingan, ha provato a rassicurare: la Hoch Standard è una startup con 10 milioni di capitale sociale e alle spalle fondi globali multimiliardari, ma i documenti visionati di Mongabay dimostrerebbero che in realtà allora il capitale sociale della società ammontava ad appena 1000 dollari. D’altronde, avere le spalle solide potrebbe non essere così necessario. Secondo l’accordo infatti, mentre il governo della Stato di Sabah non avrebbe il diritto di rescindere il contratto, Hoch Standard sarebbe liberissima di trasferire a terzi i diritti acquisiti sul capitale naturale.  Insomma, un mero faccendiere, creato ad hoc soltanto per capitalizzare rapporti privilegiati con la politica che gli garantiscono una rendita monopolistica su un pezzo gigantesco del pianeta e che è pronto a rivenderla al miglior offerente non appena dai pezzi di carta si deve passare al lavoro vero, facendoci sopra una bella cresta senza aver mai mosso foglia.

A fare da mediatore per l’accordo, un personaggio misterioso: Stan Lassa Golokin, che secondo i Panama papers in passato è stato associato a ben 4 società anonime registrate nelle Isole Vergini britanniche. Tra gli anni ‘80 e ‘90, Stan Lassa Golokin è stato coinvolto insieme al vice primo ministro Kitingan nello scandalo della Sabah Foundation: si sarebbe dovuta occupare di regolare la deforestazione dell’isola per fare spazio alla produzione dell’olio di palma, ma in 20 anni registrò un inspiegabile buco da 1,6 miliardi di dollari, mentre la ricchezza personale di Kitingan raggiungeva, altrettanto inspiegabilmente, la cifra esorbitante di 1 miliardo di dollari. Una quantità di zone d’ombra eccessiva anche per un territorio dove la resistenza delle popolazioni indigene è completamente sovrastata dall’intreccio tra politica e affari.

Dopo che con il suo scoop Mongabay ha portato alla luce l’accordo tenuto fino ad allora completamente segreto, la storica attivista dei diritti delle popolazioni indigene locali Anne Lasimbag è riuscita a mettere in piedi una vasta coalizione di organizzazioni indigene che hanno avviato una battaglia legale che è arrivata a coinvolgere i massimi vertici delle Nazioni Unite. Da allora l’accordo è precipitato in una sorta di Limbo, con il procuratore generale dello Stato di Sabah che ha affermato pubblicamente che “nella sua forma presente l’accordo è impotente dal punto di vista legale, e non potrà entrare in vigore a meno che non siano soddisfatte determinate disposizioni”, anche se esattamente quali siano queste disposizioni nessuno sembra averlo ancora capito; ma come si dice sempre in queste occasioni, ormai il re è nudo. Come scrive John Bellamy Foster, docente di sociologia all’università dell’Oregon e storico direttore della Monthly Reviewl’accordo di Sabah è un gigantesco e inquietante campanello d’allarme su come si sta concretizzando la corsa all’oro globale per assicurarsi i diritti di sfruttamento del capitale naturale”. Foster ricorda come “appena poche settimane prima dalla firma dell’accordo, il New York Stock Exchange e l’Intrinsic Exchange Group avevano annunciato la creazione di un’intera nuova categoria di società denominate Natural Asset Companies”, NAC per gli amici, che, “creano e commerciano veicoli finanziari per la proprietà, la gestione e il controllo delle risorse del capitale naturale mondiale”. Un mercato gigantesco. Come ricorda esplicitamente il sito dell’Intrinsic Exchange Group, “Le persone spesso dicono che la Natura non ha prezzo, con l’intenzione di indicare quanto sia preziosa. Sarebbe più corretto dire che nel sistema economico odierno il valore della Natura semplicemente non viene conteggiato”. Loro lo hanno fatto: “il valore finanziario della biodiversità è stimato tra 598 e 824 miliardi di dollari all’anno, il cambiamento climatico a circa 5 mila miliardi di dollari all’anno e la transizione verso un’economia più sostenibile, resiliente ed equa, ancora ordini di grandezza maggiori”. L’idea è semplice: la Natura e tutto quello che gli ecosistemi producono sono un fattore indispensabile della produzione e come ogni fattore della produzione vanno trasformati in merci, gli va dato un valore nominale e vanno scambiati sui mercati finanziari. “La trasmutazione del cosiddetto capitale naturale in valore di scambio negoziabile”, scrive Foster, “nell’ultimo decennio è vista come un’apertura di opportunità quasi illimitate per le società e i gestori di denaro”.

Già nel 2012, durante il Corporate EcoForum, un gruppo di venti corporation multinazionali, da Coca-Cola a Nike, avevano pubblicato un report, dove sottolineavano come si stimi “che 72 mila miliardi di dollari di beni e servizi” gratuiti “associati al capitale naturale globale e ai servizi ecosistemici siano monetizzabili ai fini di una crescita più sostenibile”. Il rapporto sottolineava inoltre le enormi opportunità di “leva” del debito rappresentate da “mercati di capitali naturali emergenti come il commercio della qualità dell’acqua, il sequestro naturale del carbonio e la conservazione delle zone umide e delle specie minacciate”. Di conseguenza, era imperativo “dare un prezzo al valore della Natura” o, in altre parole, “un valore monetario a ciò che la Natura fa per… le imprese”. “Il futuro dell’economia capitalista”, scrive Foster, “sta nel garantire che il mercato paghi “per servizi ecosistemici una volta gratuiti”, che potrebbero quindi generare nuovo valore economico per quelle società in grado di convertire i titoli in capitale naturale in attività finanziarie”. Tradurre le funzioni degli ecosistemi in quantità di denaro, permette di scambiarli tra loro: stermino i panda nelle foreste dell’Asia centrale? E che problema c’è? Mal che vada avrò causato un danno quantificabile, mettiamo in 100. Ora basta che mi compri un credito equivalente da una società che ha espropriato qualche tribù indigena dell’Amazzonia per permettere il ripopolamento dell’armadillo gigante, e siamo tutti contenti!

Come sottolinea Bellamy Foster, “la continua distruzione della Natura, conseguenza ineluttabile dell’accumulazione di capitale, può essere così compensata dalla valorizzazione di un altro servizio fornito da un altro ecosistema altrove”.

Non è un’interpretazione complottista: è proprio un fine dichiarato.

Come scrive il Nobel per l’economia Robert Solow infatti, “La storia ci dice un fatto importante, ovvero che beni e servizi possono essere sostituiti l’uno con l’altro. Se non mangi una specie di pesce, puoi mangiare un’altra specie di pesce. Non esiste un oggetto specifico che l’obiettivo della sostenibilità ci imponga di lasciare intatto… La sostenibilità non richiede la conservazione di una particolare specie di pesci o di un particolare tratto di foresta “. Purtroppo però la Natura non funziona esattamente così: ogni specie e ogni ecosistema è unico e insostituibile, e la sua estinzione è irreversibile. La logica della vita, anche in questo caso, soprattutto in questo caso, è incompatibile con la logica intrinseca dell’accumulazione del capitale.“Monetizzare l’ambiente”, scrive Bellamy Foster, “significa in ultima analisi trascinarlo nel mercato e sottoporlo alla dinamica incontrollabile dell’accumulazione. I sistemi di produzione ed evoluzione naturali saranno sostituiti sempre di più da sistemi basati sul mercato, il cui unico obiettivo è l’espansione del capitale. I beni comuni globali saranno sminuzzati e monopolizzati da pochi interessi privati, che li trasformeranno in attività finanziarie di ogni genere. Quello di cui stiamo parlando” continua Foster, “è dare le chiavi del mondo naturale alla City di Londra. Cosa mai potrebbe andare storto?”.

Il fallimento di ogni negoziato globale su come invertire la catastrofe ambientale, da questo punto di vista, non può essere considerato semplicemente un incidente, o il frutto di incapacità e incompetenze varie; va invece visto chiaramente per quello che è: uno strumento in mano al capitale per creare anche sul fronte dei servizi ecosistemici quella scarsità che facilita l’ingresso a gamba tesa della finanziarizzazione come unica soluzione possibile.

Se la politica non è in grado di tutelare il bene comune, trasformarlo in merce da contrattare sui mercati finanziari ci verrà spacciato facilmente come il minore dei mali possibili. È la famosa cura Friedman, che in passato è stata applicata a tutti i servizi pubblici essenziali: devastare scientemente la capacità del pubblico di fornire i servizi in modo efficiente a forza di tagli e taglietti, per poi spacciare le privatizzazioni come unica soluzione realistica possibile e chi c’ha da ridire è un rosicone, vittima di un’ideologia stantia. L’ideologia del dominio totale delle logiche del capitale su ogni aspetto della vita invece è sempre fresca come una rosa, anche quando ormai, dati alla mano, è sotto gli occhi di tutti che l’impresa privata e la dittatura del profitto, se lasciate a se stesse, non creano mai maggiore efficienza e competizione, ma solo monopoli da cui estrarre valore a piacimento a discapito di tutto il resto per poi costruirci sopra una bella bolla speculativa, che le statistiche trasformeranno magicamente in aumento della ricchezza prodotta: più un manipolo di oligarchi si appropria della nostra vita e riduce in miseria gli uomini e il pianeta, più il PIL procede a gambe levate!

Per capire le prossime mosse a questo punto non ci rimane che aspettare la prossima COP di Dubai.

Durante quella di 2 anni fa uno spavaldo Golokin, il faccendiere dell’accordo truffa di Sabah, era stato accolto in pompa magna col suo piano per mettere a reddito il capitale naturale del Borneo. “Lazy assets”, li aveva definiti. beni pigri: è l’ora che la Natura la pianti di ozieggiare come un percettore del reddito di cittadinanza qualsiasi e si metta finalmente a disposizione del capitale!

Se al contrario di Golokin, anche tu ami la vita, la natura e l’ozio, ultime frontiere della resistenza al dominio della tristezza mortifera del capitale, aiutaci a costruire il primo media che dà voce al 99%. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe e su PayPal

E chi non aderisce è Milton Friedman.