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Tag: finanza

Musk, Trump e Buffet si stanno preparando per la più grande rapina del secolo?

Immàginati di investire 2.000 euro e, dopo 6 mesi, ritrovartene 500 mila: è esattamente quello che è successo a Elon Musk da quando ha fondato, nel maggio 2024, il comitato di azione politica a sostegno di Donald Trump America PAC; nei quattro giorni che hanno seguito l’oceanica vittoria di The Donald, solo le azioni Tesla sono passate da 231 a 331 dollari (+ 45%) ed è solo la punta dell’iceberg. Ieri, infatti, Trump ha annunciato la nascita di un nuovo ministero ad hoc: il Department of Government Efficiciency, il dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE, per gli amici). Un nome, un programma: manco fossimo in un remake di Idiocracy, DOGE infatti è il nome della criptovaluta più amata da Elon Musk, l’unica che da 2 anni può essere utilizzata per fare acquisti sui negozi online di Tesla e che nell’arco di di 48 ore è più che raddoppiata, raggiungendo una capitalizzazione di oltre 60 miliardi di dollari. A guidare il nuovo dipartimento, al fianco di Elon Musk ci sarà l’altro astro nascente delle oligarchie che si sono stufate di farsi rappresentare da politici – che, per quanto servili, risultano spesso troppo cauti e timidi – e hanno deciso di prendersi direttamente il governo del Paese; si chiama Vivek Ramaswamy e deve la sua popolarità, in particolare, a un best seller uscito nel 2021: Woke, Inc.: all’interno della truffa sulla giustizia sociale delle multinazionali americane. Come Musk (e come Trump), Ramaswamy ha capito una cosa fondamentale: nell’era del declino dell’egemonia neo-liberale e del politically correct, affermare in modo sguaiato che i froci, i negri e le zecche rosse hanno rotto i coglioni è un lasciapassare a prova di bomba per rapinare indisturbati i cittadini comuni, con il loro sostegno; mentre Ramaswamy, infatti, conduceva la sua popolare crociata contro la dittatura dell’ideologia woke, raddoppiava (nel giro di pochi anni) il suo patrimonio personale, fino a sfiorare quota 1 miliardo. Da un lato replicando in piccolo il modello BlackRock e Vanguard con il suo fondo di risparmio gestito Strive Asset Management (a sostenerlo, in particolare, Peter Thiel, co-fondatore e presidente di Palantir, che vede come primi azionisti, con oltre il 25% delle quote, proprio BlackRock e Vanguard); dall’altro, mentre insieme a Musk e Trump conduceva una crociata contro i vaccini Pfizer, con la sua Roivant Science con Pfizer firmava un corpulento accordo per la formazione di una nuova società focalizzata sulle malattie infiammatorie. D’altronde, nell’arte del doppio standard poteva vantare il maestro dei maestri: mentre continua a condurre la sua crociata contro l’ideologia green, Elon Musk, infatti, incarna l’esempio perfetto delle oligarchie che, in nome della transizione ecologica, incassano fiumi di denaro pubblico per gonfiare a dismisura il loro patrimonio privato; se Tesla produce qualche profitto, infatti, è solo ed esclusivamente grazie ai contributi pubblici, che vanno dal credito d’imposta concesso per i nuovi stabilimenti – come il miliardo e 3 ottenuto per la nuova gigafactory in Nevada – ai contributi per convincere i consumatori a sperperare i loro soldi acquistando un’auto che deve la sua fama interamente proprio all’ideologia green, ai 10 miliardi che Tesla ha guadagnato ad oggi vendendo ad altri produttori di auto crediti per veicoli a zero emissioni. Ed è solo la punta dell’iceberg perché, rispetto al patrimonio che ha accumulato, i profitti che genera Tesla sono spiccioli: a fare la ricchezza di Musk, infatti, in larghissima parte sono le azioni di Tesla, che valgono oltre 100 volte quello che Tesla produce in termini di profitto. Una bolla. E indovinate un po’ sostenuta da chi? Esatto: BlackRock, Vanguard e State Street che, con oltre il 16%, sono i principali azionisti; date queste premesse, con questo nuovo giocattolino creato ad hoc da Trump e messo interamente nelle loro mani, quanta fuffa e quanti doppi standard dovremo sorbirci? Prima di rispondere, vi ricordo di mettere mi piace a questo video e aiutarci così (anche oggi) a combattere la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi – sia quelli progressisti e democratici di YouTube che quelli populisti e sovranisti di X, entrambi uniti dal comune obiettivo di prenderci per il culo – e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social, compresi quelli del nostro spin8ff di divulgazione storica e filosofica Ottosofia, e anche di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un’icona qualsiasi del trumpismo a firmare un accordo miliardario con qualche monopolio finanziario rettiliano nel New World Order (alla facciaccia vostra), ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a provare a darvi le informazioni che vi servono per avere un’opinione fondata sui fatti invece che sugli slogan della propaganda.

Vivek Ramaswamy

“Ho il piacere di annunciare che il Grande Elon Musk” – dice proprio così, the Great Elon Musk – “insieme al Patriota Americano Vivek Ramaswamy, guiderà il DOGE, il dipartimento per l’efficienza governativa”: “insieme, questi due splendidi americani apriranno la strada alla mia amministrazione per smantellare la burocrazia governativa, tagliare l’eccesso di regolamentazione e gli sprechi, e ristrutturare le agenzie federali”; “diventerà, potenzialmente, il Progetto Manhattan della nostra epoca. Un governo ridimensionato, con più efficienza e meno burocrazia, sarà il regalo perfetto all’America per il 250esimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza. Sono sicuro che avranno successo”. Già in diverse occasioni abbiamo sottolineato come la sfida che si trova davanti l’amministrazione Trump ricorda molto da vicino quella che si trovò ad affrontare nel 1981 Ronald Reagan: una vera e propria rivoluzione non solo degli Stati Uniti, ma dell’intero sistema mondo sul quale rivendicano da sempre la totale egemonia; allora l’intero sistema era stato messo a rischio sul fronte interno dalla lotta di classe di un proletariato industriale galvanizzato da decenni di sviluppo industriale e, su quello internazionale, dalla debacle del Vietnam e dalla crescita dell’influenza del blocco sovietico in un mondo che lottava contro l’eredità coloniale. Oggi la sfida arriva sul fronte internazionale dall’asse delle potenze emergenti che pretendono la transizione a un nuovo ordine globale multipolare e, su quello interno, dell’insostenibilità di un’economia interamente fondata sul debito e sulle bolle speculative; nonostante l’enorme differenza tra i due contesti, in entrambi i casi il primo tassello della rivoluzione necessaria da annunciare ai quattro venti è sempre lo stesso: lotta alle burocrazie e ai fannulloni e massima libertà all’intraprendenza degli imprenditori statunitensi. E, in entrambi i casi, a disegnare il canovaccio sono sempre gli stessi: la Heritage Foundation, uno dei più importanti e influenti think tank reazionari a stelle e strisce; come ci ricorda Marco D’Eramo, infatti, furono proprio loro a mettere nero su bianco il piano dettagliato della rivoluzione reaganiana in un lunghissimo libro bianco di oltre 1000 pagine e che, alla fine del doppio mandato di Reagan, si vantavano “che il 60-65% delle sue raccomandazioni fosse stato fatto proprio dall’amministrazione, che nel corso di due mandati vantò tra i suoi membri 36 funzionari provenienti dal think tank” (Marco D’Eramo, Dominio: la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi).
Ed ora, rieccoli: nel marzo 2023, infatti, la stessa Heritage Foundation è tornata con un altro libro bianco di 900 pagine che segna i capisaldi della rivoluzione necessaria; “Nell’inverno del 1980” ricorda nella prefazione Paul Dans, direttore del progetto, “la nascente Heritage Foundation inoltrò al presidente eletto Ronald Reagan il suo testo Mandato per la leadership. Questo lavoro collettivo da parte dei principali intellettuali conservatori e di ex funzionari governativi, definiva le principali prescrizioni politiche, agenzia per agenzia, per il presidente entrante… E la rivoluzione che seguì molto probabilmente non sarebbe mai avvenuta, se non fosse stato per il lavoro di questi attivisti. Con questo testo ora siamo tornati al Futuro, e oltre. Ma” sottolinea Dans, ormai “non siamo più nel 1980. Adesso il gioco è cambiato. E” – alzate bene le antenne perché questo passaggio è notevole – “la lunga marcia del marxismo culturale all’interno delle nostre istituzioni ormai è avvenuta. E di fronte al trionfo del socialismo e dell’internazionalismo proletario, la missione storica di tutti noi sinceri conservatori non può che essere “invertire la tendenza, e ripristinare i valori fondativi della nostra Repubblica”, che è esattamente quello su cui s’è concentrato Trump in una delle sue prime dichiarazioni pubbliche dopo il voto: d’altronde, come sottolinea sempre Dans nell’introduzione al libro bianco “Il nostro obiettivo è mettere insieme un esercito di conservatori allineati, controllati, addestrati e preparati. Mettersi al lavoro fin dal primo giorno per decostruire” quello che definiscono “the administrative State”, lo Stato amministrativo – e cioè, appunto, la macchina distopica nella quale sarebbe stato trasformato l’apparato statale federale con l’affermarsi dell’egemonia del marxismo culturale. Una linea che viene ribadita e approfondita poi nell’introduzione affidata a Kevin Roberts, il presidente della Heritage Foundation: “44 anni fa” ricorda Roberts riferendosi al periodo immediatamente precedente l’inizio della controrivoluzione neo-liberale avviata da Reagan “gli Stati Uniti e il movimento conservatore versavano in gravissime difficoltà. Entrambi erano stati traditi dall’establishment di Washington e non avevano più punti di riferimento. Erano frammentati, e strategicamente alla deriva” e il tutto proprio mentre “eravamo assediati da avversari esistenziali, stranieri e domestici. La fine degli anni ’70 fu in assoluto uno dei momenti più bassi dell’intera storia americana, e della coalizione politica che avrebbe dovuto preservarne l’unicità in termini di libertà e prosperità umana”. “Oggi” continua Roberts “l’America e il movimento conservatore stanno attraversando un’era di divisione e pericolo simile alla fine degli anni ‘70”: “L’inflazione sta devastando i bilanci familiari, i morti per overdose continuano ad aumentare e i bambini subiscono la tossica normalizzazione dei diritti transgender con drag queen e pornografia che invadono le biblioteche scolastiche”, ma soprattutto “All’estero, una dittatura comunista totalitaria a Pechino è impegnata in una guerra fredda strategica, culturale ed economica contro gli interessi, i valori e le persone dell’America” che rappresenta una minaccia esistenziale per “i fondamenti morali stessi della nostra società”; “Eppure” continua Robert “gli studiosi di storia non possono fare a meno di notare come, nonostante tutte queste sfide, l’ultima parte degli anni ’70 alla fine si sia rivelata il momento in cui la destra politica si è riunificata, ha riunificato il Paese, e ha portato gli USA a una lunga serie di vittorie politiche, economiche e globali di portata storica”. Per replicare quello storico successo, la strada maestra è sempre la stessa: “Smantellare lo stato amministrativo e restituire il potere dell’autogoverno al popolo americano”; “molte persone perderanno il lavoro” ha chiarito Roberts in un’intervista all’Associated Press; “Molti edifici pubblici verranno chiusi. Però noi speriamo che queste persone possano comunque prosperare. Speriamo che possano essere riconvertiti all’industria privata”.
Formula vincente non si cambia, quindi: ma quanto fu veramente vincente quella controrivoluzione di Reagan? E se fu vincente, quanto questa vittoria fu dovuta a questa politica dei tagli per liberare gli spiriti animali del capitalismo? Nonostante i grandi tagli annunciati, durante i due mandati dell’amministrazione Reagan, in realtà, il deficit federale passò dal 2,5 al 5% del PIL; il debito, dal 32,5 al 50% nonostante il PIL, nel frattempo, fosse cresciuto (e anche assai) e il numero di dipendenti federali, invece che diminuire, aumentò dai 2,9 milioni del 1981 ai 3,1 del 1989. Un record. A pesare, sia per la spesa che per gli impiegati, furono in particolare gli investimenti nella difesa che, nell’arco di 8 anni, raddoppiarono: da 157 miliardi a oltre 300. Dopo il 1989 il numero di dipendenti federali subì gradualmente un piccolo ridimensionamento, a parte durante un’amministrazione: indovinate quale? Esatto: la prima amministrazione Trump, durante la quale i dipendenti federali aumentarono di oltre 100 mila unità (dai 2,8 milioni scarsi del 2017 agli oltre 2,9 milioni del 2021); da allora sono un po’ diminuiti, di circa una trentina di migliaia. Insomma: come sottolineiamo spesso, Biden è più trumpiano di Trump e Trump è più bideniano di Biden (a parte nella retorica che hanno scelto per spacciarci le loro vaccate). A determinare il successo della controrivoluzione reaganiana, quindi, sono state presumibilmente tante cose, ma di sicuro non la capacità di rendere più snella ed efficiente la macchina amministrativa; e così, a occhio, neanche il protezionismo: come Trump e soci, infatti, anche Reagan si riempiva la bocca con la tanto sbandierata difesa del made in USA e fece ricorso a misure protezioniste. Introdusse quote sull’importazione di autoveicoli giapponesi e riuscì a imporre delle restrizioni volontarie alle esportazioni di acciaio di vari Paesi, inclusi Giappone e Corea del Sud; inoltre, proprio come un Trump o un Biden, qualsiasi, applicò sanzioni e restrizioni commerciali contro l’Unione Sovietica e altre nazioni comuniste (giustificando tali misure con questioni di sicurezza nazionale), per non parlare, poi, degli accordi del Plaza e del Louvre, nei quali impose con la forza un rafforzamento delle valute dei Paesi concorrenti dal punto di vista della produzione industriale. Ma, ciononostante, i risultati non furono esattamente entusiasmanti: quando arrivò alla Casa Bianca, infatti, la produzione industriale rappresentava il 23% del PIL; a fine mandato era scesa al 20. Nel 1981 la produzione industriale USA rappresentava ancora circa il 30% della produzione globale; a fine mandato era scesa abbondantemente sotto il 25.
Il punto è che quando si sottolinea, giustamente, il grande successo della controrivoluzione reaganiana, bisognerebbe specificare per chi e per cosa: i vincitori della controrivoluzione reaganiana, infatti, furono esclusivamente i più ricchi; e più ricchi erano, più ci avevano guadagnato a discapito di tutti gli altri (e anche degli USA, nel suo insieme, come Paese). La quota di reddito che finiva in tasca all’1% più ricco passò, in 8 anni, dal 10 al 15% e la quota di ricchezza dal 22 al 25%; quella detenuta dallo 0,1% passò dal 7 al 10% (e, cioè, da 700 a oltre 1700 miliardi): tutto merito della finanza e delle delocalizzazioni. Paradossalmente, però, questi due fattori – che, ovviamente, non possono che indebolire e rendere sempre meno sostenibile l’economia di un Paese, in quel caso aiutarono gli USA a rafforzare la loro egemonia – prima sul primo mondo e poi, quando alla fine l’Unione Sovietica implose, anche su tutto il resto del pianeta; ma se per le oligarchie USA questo avrebbe garantito altri 40 anni di dominio globale e la possibilità di guadagnare una quantità di quattrini senza paragoni nella storia dell’umanità (e senza fare, sostanzialmente, un cazzo), per tutti gli altri (e per il Paese nel suo insieme) si trattava di una vittoria di Pirro, e quelli erano bei tempi. Quando Reagan arriva alla Casa Bianca – come abbiamo visto – il manifatturiero USA era il 22% di quello globale; oggi è il 12, lo stesso 12 che raggiungevano Unione Sovietica e Cina messe insieme nel 1981; ora che l’Unione Sovietica non c’è più, Cina e Federazione Russa insieme pesano per il 32%, che è più di quanto producano i G7 messi assieme. Nel 1981 producevano oltre il 60% delle merci del globo. Insomma: per gli USA si trattava, molto semplicemente, di delocalizzare per vincere la lotta di classe contro i lavoratori in casa e di finanziarizzare per far fare un sacco di soldi alle proprie oligarchie (e alle oligarchie degli alleati), ma non c’era nessun rischio di ritrovarsi più deboli economicamente rispetto a quelli che consideravano avversari. Oggi la situazione è totalmente diversa: oggi gli USA si devono rimettere a produrre qualcosa, sennò altro che impero! Diventano una provincia secondaria, anche col supporto di tutti gli alleati; e il problema (che sembra irrisolvibile) è che, per farlo, dovrebbero azzoppare il dollaro e la bolla speculativa, un po’ come provò a fare Reagan nel 1985 con l’accordo del Plaza, quando costrinse gli alleati/vassalli ad apprezzare la moneta e a indebolire il dollaro per far ripartire un minimo le esportazioni. Peccato, però, che allora gli USA avevano una posizione finanziaria netta in passivo per qualche centinaio di miliardi; oggi hanno debiti con l’estero per 22 mila miliardi: indebolire il dollaro vuol dire darsi la zappata sui piedi definitiva. Allora, poi, la risolsero in buona parte aumentando a dismisura la spesa militare e, quindi, facendo altro debito, ma il debito non era nemmeno al 50% del PIL; oggi è quasi al 130. E se allora quella spesa garantiva comunque il primato militare mondiale, ora – almeno a giudicare dalle scoppole che le loro armi futuristiche prendono da 2 anni in Ucraina – la vedo leggermente più complicata.
Insomma: se già nell’era Reagan la leggenda delle magnifiche sorti e progressive dello Stato minimo veniva smentita dalla realtà, oggi appare piuttosto chiaramente una barzelletta: e allora perché tutta questa enfasi sul DOGE, degna delle migliori scene di Idiocracy? Senza escludere a priori la possibilità che questa amministrazione sorprenda tutti e tiri fuori dal cilindro un’altra soluzione rivoluzionaria che perpetri l’eccezionalismo USA per qualche altro decennio, al momento la risposta più probabile, sinceramente, mi sembra un’altra: rapinare tutto il rapinabile prima che tutta la baracca affondi definitivamente. Da questo punto di vista, il compagno Trump potrebbe fare esattamente quello che tutti noi ci auguriamo da tempo: accelerare il declino fino alla catastrofe. Insomma: scenario Don’t look up dove, però, l’asteroide finedimondo sarebbe l’arsenale nucleare USA; d’altronde, per un’amministrazione che si riconosce pienamente nei deliri millenaristi della peggio feccia fascio-sionista, anche l’armageddon potrebbe essere una soluzione tutto sommato possibile. Intanto (proprio come Reagan), alla fine, invece che tagliare la spesa non fece che aumentarla, in gran parte per trasferire denaro pubblico nel grande complesso militare industriale; ora si tratterebbe di riempire le tasche di Musk & company. Uno dei primi obiettivi di Musk sarebbe senz’altro quello di azzerare pali a paletti che – in particolare da un anno a questa parte – gli pone la Federal Aviation Administration che, visto che il sito di lancio di SpaceX in Texas è situato accanto a una riserva naturale nazionale e a un parco statale, sta sempre lì a chiedere un sacco di analisi ambientali prima di ogni lancio, “Un processo che” sottolinea il New York Times “ha fatto infuriare il signor Musk, rallentando i suoi piani di portare l’uomo su Marte”; piani che ora, ovviamente, dovrebbero essere rilanciati on steroids dall’amico Trump in una nuova corsa allo spazio in stile Reagan, finanziata con soldi pubblici, ma destinata a tasche private. L’annuncio c’è già stato: “Faremo atterrare un astronauta americano su Marte” ha dichiarato Trump durante un comizio in ottobre. Un altro po’ di soldi dovrebbero arrivare dai programmi per portare la banda larga nelle aree rurali: Biden aveva escluso Starlink dai 42,5 miliardi di sussidi approvati dalla sua amministrazione; probabile che adesso il dossier venga riaperto. E poi c’è la partita del robotaxi, “il business da 1 trilione di dollari” che, ricorda il Financial Times, “è ostacolato anche dalle autorità di regolamentazione. A differenza di Waymo di Google, Tesla non è riuscita a ottenere l’approvazione per la classificazione più alta di guida autonoma, un grosso ostacolo alla promessa di Musk di avere robotaxi in California e Texas l’anno prossimo”. Con la sfacciataggine che lo contraddistingue, Musk aveva annunciato, durante l’ultima conference call con gli azionisti di Tesla, che “se esisterà un dipartimento per l’efficientamento governativo, cercherò di contribuire a farlo accadere” e, cioè, a legalizzare unilateralmente il robotaxi. E questi sono solo i principali business che già conosciamo, ma all’orizzonte ci potrebbe essere molto, molto di più.
Un paio di segnali: il Financial Times, l’altro giorno, riportava che “I bonus di Wall Street quest’anno si prevede possano aumentare fino al 35%”. La ragione è semplice: dopo 2 anni di stanca, tutti si aspettano che si apra una stagione imponente di Merger & Acquisition (fusioni e acquisizioni) e ogni operazione frutterà commissioni sostanziose agli intermediari di Wall Street, a partire da Goldman Sachs, dove si è fatto le ossa proprio Ramaswamy e dove ha lavorato una vita – te guarda, a volte, il caso – il neo nominato ministro delle finanze tedesco Joerg Kukies; sarà un caso che, dopo Tesla, Goldman Sachs è in assoluto il titolo che è cresciuto di più nei giorni successivi al trionfo di Trump? Ma ancora più di questi segnali, ce n’è un altro che per noi, cresciuti a pane e Wolf of Wall Street vecchia scuola, ci fa drizzare sempre le antenne: il fattore Warren Buffet, l’uomo che nella sua carriera ha battuta i mercati 140 a 1 e che ultimamente, mentre tutti si gongolavano con i titoli in continua crescita delle magnifiche 7, vendeva il grosso delle sue azioni di Apple e metteva in cassaforte una quantità di denaro liquido senza precedenti (325 miliardi). Perché? Per averli a disposizione per fare shopping! Insomma: con ogni probabilità siamo alla vigilia di una grande ristrutturazione del capitalismo statunitense e Elon Musk s’è posizionato nel migliore dei posti possibili per approfittarne al meglio mentre osserva il meteorite che si avvicina alla Terra; sarebbe il caso di osservare questi processi senza farci infinocchiare dal gossip e dalla propaganda che analfoliberali e analfosovranisti stanno smerciando in gran quantità per impedirci di vedere quanto sia marcio e compromesso il sistema che difendono. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che alla fuffa, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

L’establishment dichiara guerra a Trump: come la FED vuole ostacolare il tycoon – ft. Alessandro Volpi

Poteva forse mancare l’analisi dell’evento del momento – l’elezione di Donald Trump – del nostro amatissimo professor Volpi?

C’è poco da festeggiare: “Trump sarà una tragedia per il mondo!”

“C’è poco da festeggiare: Trump sarà una tragedia per il mondo intero”. Fabrizio Tonelli, professore di Scienze Politiche all’Università di Padova e grande conoscitore degli USA, non sale sul carro del vincitore e non fa l’errore di scambiare Trump per Pertini o Che Guevara come tanti presunti anti-sistema nostrani. A dire il vero, ci ha detto il professore in questa intervista che trovate solo su Ottosofia, i nordamericani rimarranno imperialisti come prima e lo strapotere della finanza resterà invariato. Al contempo, ci saranno diverse regressioni sull’ambiente, su molti aspetti culturali e sui diritti civili. Insomma: di che cosa stiamo parlando?

“Il dollaro ha rotto il cazzo”: Putin e i BRICS a Kazan la toccano pianissimo

Trentadue Paesi, mille delegati e ventiquattro capi di Stato: quello che di sicuro va in scena oggi a Kazan, nel silenzio dei nostri media, è il funerale in grande stile del sogno distopico della fine della storia e dell’eterno trionfo dell’unipolarismo neo-liberale guidato da Washington; ma riusciranno anche a celebrare il battesimo di un nuovo ordine più equo, democratico e inclusivo? Come ampiamente previsto e annunciato, il 16esimo summit dei BRICS+ che ha inizio oggi nella splendida capitale multiculturale e multietnica del Tatarstan e che corona l’anno di presidenza russa della più importante istituzione multilaterale del Sud globale, è probabilmente – in assoluto – il più ambizioso e importante dalla sua nascita, nel 2009. La scelta scellerata di Washington di sdoganare definitivamente l’utilizzo del dominio del dollaro e del monopolio che esercita sulle istituzioni finanziarie globali come arma di distruzione di massa contro chiunque osi rifiutarsi di sottomettersi completamente all’agenda dell’impero, potrebbe aver impresso un’accelerazione senza precedenti al piano più ambizioso e complicato delle economie emergenti: creare un’alternativa concreta e tangibile al sistema finanziario e monetario internazionale vigente. Quello su cui i 9 capi di Stato dei Paesi membri (e gli altri 23 Paesi presenti a titolo di osservatori) saranno chiamati a confrontarsi in questi giorni non è banalmente una qualche fumosa dichiarazione di principio, ma una roadmap concreta e dettagliata per costruire, passo dopo passo, le infrastrutture materiali e immateriali necessarie a svuotare dall’interno la rendita di posizione monopolistica della quale hanno goduto fino ad oggi gli Stati Uniti, a vantaggio delle sue oligarchie – e, in posizione subordinata, di tutte le altre oligarchie del pianeta complici della grande rapina – e a scapito degli interessi nazionali di tutti gli altri Paesi del pianeta e della loro sovranità e indipendenza, compresi quelli che degli Stati Uniti si considerano (inspiegabilmente) amici e alleati quando, come hanno reso palese questi ultimi tre anni di guerre economiche e guerre vere per procura, non sono altro che sudditi e vassalli. Questa roadmap è descritta nei suoi lineamenti fondamentali da questo lungo rapporto pubblicato la settimana scorsa e curato dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale della Federazione russa, un documento che mira a “rafforzare il multilateralismo per uno sviluppo globale più equo e per la sicurezza”: una diagnosi lucida e impietosa delle distorsioni che il monopolio del dollaro e di Washington impongono all’intera economia globale, seguito da un elenco dettagliato delle cose che i BRICS si impegnano a fare concretamente per creare delle alternative tangibili sul piano dei pagamenti internazionali, della circolazione dei capitali, del finanziamento allo sviluppo e dei meccanismi che garantiscono la stabilità finanziaria globale; un documento che, insieme al summit, è destinato a rappresentare, negli anni a venire, una pietra miliare di questa turbolenta fase di cambiamenti “mai visti in un secolo”, come sottolinea sempre Xi Jinping.
E’ per questo che a partire da oggi, per i prossimi 3 giorni, noi di Ottolina Tv insieme al Contesto di Giacomo Gabellini, a Dazibao di Davide Martinotti, a Stefano Orsi e a Francesco Maringiò abbiamo deciso di dedicare a questo evento storico due ore di diretta al giorno trasmessa a reti unificate su tutti i nostri canali per provare a dare quella copertura che i media mainstream sono troppo occupati per dare (e – tutto sommato – vedendo il livello di competenza e di onestà intellettuale, forse è anche meglio così). Ma ora, prima di addentrarci nelle 50 pagine del rapporto che descrive il piano dei BRICS per mettere fine alla dittatura del dollaro, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi, che sono talmente al servizio dell’imperialismo finanziario USA che ieri c’hanno pure demonetizzato il video, nonostante – a questo giro – non si citasse mai né il Libano, né Gaza e non ci fosse nessunissima scena di violenza: ormai per poter ambire a trasformare la creazione di contenuti per le piattaforme social in un mestiere retribuito, bisogna obbligatoriamente ridursi a parlare dello stesso niente che trovate sulle pagine dei giornali o nei programmi di Fabio Fazio; per questo, a maggior ragione, se ancora non lo avete fatto, oltre a invitarvi a iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche, vi ricordiamo anche che il modo migliore per sostenerci e garantire la nostra indipendenza e la nostra capacità di sottrarci alla mannaia della censura rimane quello di seguirci direttamente dal nostro sito. A voi costa meno fatica di quanta non ne serva al dipartimento del tesoro USA per emettere un nuovo pacchetto di sanzioni contro un Paese a caso, ma per noi fa davvero la differenza e forse un pochino, nel suo piccolissimissimo, anche al disastrato mondo dell’informazione italiana in generale.

Vladimir Putin

BCBPI (Brics Cross-Border Payment Initiative), tradotto: iniziativa per i pagamenti transfrontalieri dei BRICS; è questo l’acronimo che descrive il sistema per le transazioni commerciali internazionali elaborato nell’arco degli ultimi 12 mesi dai Paesi BRICS sotto la presidenza annuale della Federazione russa e che verrà discusso, a partire da oggi, a Kazan nell’ambito del sedicesimo summit annuale della più importante organizzazione multilaterale del Sud globale. L’obiettivo, ovviamente, è quello di emanciparsi dal ricorso (più o meno obbligato) al dollaro come valuta di riferimento per i pagamenti internazionali, obiettivo reso sempre più urgente dal fatto che negli USA approfittare di questo “esorbitante privilegio” monopolistico per danneggiare economicamente qualsiasi avversario è diventato un vero e proprio sport nazionale, con almeno un terzo del pianeta al momento sottoposto a sanzioni unilaterali illegali e illegittime, a partire soprattutto dal 60% dei Paesi a reddito basso e medio-basso. Per emanciparsi da questo opprimente monopolio, uno degli aspetti più urgenti consiste nel costruire un’alternativa concreta allo SWIFT, il sistema di messaggistica che oggi gode di una posizione di monopolio nell’ambito delle transazioni interbancarie internazionali e che, essendo totalmente in mano alla finanza USA, viene utilizzato per minacciare e colpire i Paesi che non si adeguano ai dictat di Washington; ma la parte più complicata poi – ovviamente – è costruire un network di operatori sufficientemente ampio che questo sistema alternativo – e la possibilità di utilizzarlo per fare pagamenti transfrontalieri in diverse valute – lo renda operativo concretamente. Questo, sottolinea il rapporto, può avvenire in molti modi diversi, non necessariamente in contrapposizione tra loro: il primo è appunto, banalmente, creare un network internazionale di banche commerciali che sostengano la possibilità di effettuare i pagamenti transfrontalieri in diverse valute locali; il secondo è mettere in connessione tra loro direttamente le Banche Centrali, che farebbero da terminale a reti domestiche di banche commerciali. Ma l’opzione che viene più a lungo analizzata, in realtà, è un’altra: il ricorso a una piattaforma DLT, che sta per Distributed Ledger Techonology, e che è un modo un po’ più generico e astratto per definire – in soldoni – una blockchain.
Al centro della proposta dei BRICS ci sono le CBDC, le valute digitali che però – al contrario dell’utopia ultra-liberista del mondo delle criptovalute – sono emesse dalle Banche Centrali: quindi non uno strumento per togliere agli Stati nazionali quel poco di sovranità che ancora riescono ad esercitare attraverso le politiche monetarie a favore del capitale privato, ma – al contrario – uno strumento per permettere agli Stati sovrani di esercitarne di più, appunto, creando un’alternativa al monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie del Washington Consensus; una trasformazione decisamente ambiziosa che, per essere realmente implementata, nella migliore delle ipotesi impiegherà svariati anni, ma per la quale – sottolineano i BRICS – non siamo all’anno zero. Da alcuni anni, infatti, procedono le sperimentazioni di un progetto pilota che si chiama mBridge che, oltre alla Banca Centrale cinese, quella tailandese e l’autorità monetaria di Hong Kong, coinvolge anche la Banca Centrale degli Emirati Arabi Uniti che, con Dubai, si sta ritagliando un posto al sole come piazza finanziaria di primissimo ordine per tutto il Sud globale. Durante la sperimentazione (che va avanti ormai da 3 anni) sono state processate in tutto 164 transazioni per un valore complessivo di 22 milioni di dollari e, a fine 2023, il sistema ha raggiunto la fase di Minimum Viable Products, che significa che le funzioni di base sono state ottimizzate e che ora si tratta di allargarne la portata e il numero di soggetti coinvolti. Intanto nel 2023, per la prima volta, la Cina ha visto lo yuan superare il dollaro come valuta utilizzata per i suoi scambi commerciali transfrontalieri; Russia e Cina hanno dichiarato di aver condotto i loro commerci bilaterali utilizzando 90 volte su 100 valute locali, e progetti ufficiali per tentare di ampliare l’utilizzo delle valute locali sono stati avviati in Africa, in America Latina, ma – soprattutto – negli ASEAN, che è una delle aree economicamente più dinamiche del pianeta. E che il monopolio del dollaro come valuta per le transazioni commerciali internazionali non sia più quello di una volta è dimostrato palesemente da come la Federazione russa, dopo 10 anni di sanzioni e 3 di sanzioni on steroids, non sembra esattamente sull’orlo del collasso.
Ma rompere il monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie che regolano le transazioni monetarie internazionali è solo la cima dell’iceberg: la proposta che il ministero delle finanze e della Banca Centrale russa hanno messo sul tavolo, infatti, mira a intervenire anche nel settore degli investimenti che, tradotto, significa nei flussi di capitali che, fino ad oggi, hanno permesso all’imperialismo finanziario USA di sottrarre risorse gigantesche a tutto il resto del pianeta per alimentare la sua bolla speculativa, a discapito dell’economia reale. L’imperialismo finanziario USA si fonda sulle istituzioni del Washington Consensus, che sono state create e delineate nei loro aspetti fondamentali quando ancora gran parte del Sud globale era colonizzato: si tratta quindi, a tutti gli effetti, di istituzioni coloniali il cui obiettivo è, appunto, perpetrare il rapporto di subordinazione tra Nord e Sud globale anche dopo che i Paesi in questione hanno conquistato formalmente l’indipendenza; basti pensare che gli Stati Uniti sono l’unico Paese che ha potere di veto in entrambe le istituzioni principali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) e che, come ricorda Ben Norton, “esiste un accordo tacito per cui ogni presidente della Banca Mondiale è un cittadino statunitense e ogni direttore generale del FMI è europeo. Finora, questo schema è continuato, anche se l’economia globale è cambiata in modo molto significativo”. Stessa questione per le quote che determinano il peso specifico dei singoli Paesi all’interno dell’FMI: a parità di potere d’acquisto, infatti, le economie dei BRICS hanno da tempo superato quelle dei Paesi del G7; ciononostante, nell’ambito dell’FMI i Paesi BRICS hanno appena il 13,5% delle quote con diritto di voto; i G7 il 41,3%, uno squilibrio talmente evidente che anche i Paesi sviluppati hanno fatto finta di essere pronti ad accettare qualche cambiamento. Peccato che, per due volte di fila, si sia risolto in un clamoroso buco nell’acqua: nel 2020, dopo mesi di dibattito, si decise che era meglio rinviare la revisione delle quote; 3 anni dopo, nel 2023, le quote vennero effettivamente riviste, ma solo per essere aumentate in generale, senza toccare minimamente i pesi relativi.
Riformare l’FMI e dare più voce in capitolo ai Paesi emergenti, invece, è una questione vitale e, per capire quanto, bisogna fare un bel passo indietro. 1944, Bretton Woods; come tutti saprete benissimo, sul tavolo c’erano due proposte: da un lato quella che faceva capo al buon vecchio John Maynard Keynes e, cioè – come ricorda lo stesso sito del Fondo Monetario Internazionale – l’istituzione di “una banca globale, denominata International Clearing Union o ICU, che avrebbe emesso la propria valuta, denominata bancor, basata sul valore di 30 materie prime rappresentative, tra cui l’oro, convertibili con valute nazionali a tassi fissi”. L’altra, invece, era di prendere il dollaro, fissare una quantità di oro che ne definisse il valore (che, nello specifico, venne stabilita in 35 dollari per oncia) e nominare ufficialmente il dollaro, invece che una valuta internazionale creata ad hoc, valuta di riserva globale: questo significa che ogni altra valuta viene scambiata a un tasso fisso con il dollaro. La differenza è gigantesca: nel sistema proposto da Keynes, infatti, erano previsti incentivi specifici che spingevano i Paesi che avevano un surplus commerciale – e che, quindi, esportavano più di quanto non importassero – a introdurre correttivi per ri-bilanciare la bilancia dei pagamenti e quindi, gradualmente, diminuire il gap tra Paesi più e meno sviluppati industrialmente. Nell’altro caso, invece, i Paesi economicamente più forti avevano tutto l’interesse ad accumulare quante più riserve in dollari possibili; e quindi l’incentivo era, quello stesso gap, ad aumentarlo sempre di più: per dirla in altri termini, da un lato si introduceva uno strumento di governance globale che mettesse un argine alle distorsioni intrinseche all’accumulazione capitalistica (che spinge a dare sempre di più a chi ha già di più e sempre di meno a chi ha già di meno) mentre, dall’altro, queste stesse distorsioni venivano accelerate e amplificate. Insomma: lo strumento perfetto per perpetuare le gerarchie tra Paesi colonizzatori e Paesi colonizzati anche dopo la fine ufficiale del colonialismo e la prova provata che l’essere umano, stringi stringi, non capisce un cazzo; l’incentivo a fare a chi c’ha il surplus commerciale più grosso, infatti, era stata la causa principale che nei trent’anni precedenti aveva portato non a una guerra mondiale, ma addirittura a due, anche se – tutto sommato – possono essere considerati due capitoli di una sola, separata da un bell’intermezzo che aveva permesso l’affermarsi del nazifascismo come prodotto d’eccellenza dei “veri valori fondamentali dell’Europa e dell’Occidente”. Ciononostante l’ipotesi di Keynes venne scartata con sufficienza e la dittatura del dollaro divenne la colonna portante del sistema finanziario globale.
Eppure, visti con gli occhi di oggi, potremmo senza dubbio ricordare gli anni successivi a Bretton Woods come i bei tempi andati: anche allora, infatti, gli USA si erano dotati di uno strumento di dominio globale che imponeva al resto del mondo di finanziare il deficit statunitense, ma – perlomeno – l’entità di questo debito che si andava accumulando e che gravava sulle spalle dell’intero pianeta era limitata dall’ancoraggio del dollaro all’oro, che limitava la libertà di stampare dollari a piacere; limite che, come chi segue Ottolina sa fin troppo bene, è definitivamente saltato, a partire dal 1971, con la fine della convertibilità del dollaro in oro introdotta dall’amministrazione Nixon, l’atto fondativo del sistema superimperialistico in cui siamo immersi oggi. Da allora, non solo gli USA fanno pagare il loro deficit al resto del mondo, ma questo stesso deficit non ha sostanzialmente limiti e viene finanziato con il rastrellamento di tutti i capitali che servirebbero al resto del mondo per svilupparsi da parte degli USA – che assumono, così, il ruolo di rapinatore a mano armata dell’intera economia globale. Ora, se le potenze emergenti volessero ricalcare le orme della superpotenza USA, ovviamente dovrebbero aspirare a imporre le loro valute come nuove valute di riserva globale corrispondenti ai nuovi rapporti di forza economici e produttivi che si sono andati delineando; in particolare la Cina, ovviamente, che si è affermata come la vera unica superpotenza manifatturiera globale (esattamente come gli Stati Uniti alla vigilia di Bretton Woods), che è quello che sembrano auspicare anche tanti appartenenti all’area cosiddetta del dissenso: la sostituzione del dollaro con lo yuan. Fortunatamente, però, la Cina e gli altri Paesi BRICS sembrano essere molto più ispirati dalle intuizioni del buon vecchio Keynes che non dalla volontà di potenza fine a se stessa dell’impero USA; ed ecco, così, che invece di scatenare una guerra per chi sarà la prossima potenza egemone che, come gli USA negli ultimi 80 anni, riuscirà a far pagare le sue bollette al resto del pianeta, si sono messi in testa proprio di riformare dalle fondamenta l’architettura finanziaria globale proprio per permettere una nuova governance globale, in grado di mitigare le distorsioni intrinseche dell’accumulazione capitalistica e garantire un futuro (più o meno) pacifico e di sviluppo per tutti. E, con una bella dose di realismo politico, propongono di farlo a partire da quello che già c’è.
Di fronte alle palesi distorsioni di un sistema fondato sull’unipolarismo valutario del dollaro, infatti, lo stesso Fondo Monetario Internazionale, nonostante sia diretta emanazione dell’imperialismo USA, ha provato a introdurre dei correttivi che vanno proprio nella direzione auspicata dal buon vecchio Keynes: si chiamano diritti speciali di prelievo e sono, appunto, un tipo di valuta di riserva internazionale creata e gestita proprio dall’FMI; il valore dei diritti speciali di prelievo si fonda su un paniere di valute che, al momento, include il dollaro, l’euro, la sterlina, lo yen giapponese e, dal 2016, anche lo yuan cinese. A emetterla è, appunto, l’FMI stesso che poi l’assegna ai vari Paesi membri a seconda della quota di partecipazione al fondo stesso; i singoli Paesi, così, hanno una valuta universalmente riconosciuta e stabile diversa dal dollaro per rimpinguare le proprie riserve. C’è solo un piccolissimissimo problema: rappresentando i diritti speciali di prelievo – in qualche misura – quello che gli USA avevano già scongiurato con ogni mezzo necessario a Bretton Woods, e comandando gli USA a bacchetta nell’FMI, sono stati introdotti scientemente tutti i paletti necessari per impedire che diventasse qualcosa di veramente significativo. Primo punto: quattro delle cinque valute del paniere sono valute di ex potenze coloniali, con gli USA che sono gli unici veramente sovrani e gli altri che fanno da vassalli e adottano politiche monetarie sempre in linea con la FED e gli interessi USA, come – ad esempio – è avvenuto a partire dal 2022, quando all’unisono hanno scelto tutti di aumentare rapidamente i tassi di interesse con la scusa di combattere l’inflazione, anche se il grosso dell’inflazione (come abbiamo dimostrato n-mila volte) era dovuta a fattori che con le politiche monetarie non c’incastravano niente; a partire dalla greedflation e, cioè, l’inflazione imposta dalle aziende che hanno posizioni di mercato oligopolistiche (se non addirittura proprio monopolistiche), il che significa che il prezzo lo fissano loro e non c’è concorrenza in grado di fargli cambiare idea. Se le Banche Centrali che emettono i quattro quinti delle valute del paniere decidono all’unisono di aumentare i tassi di interesse, questo significa che le valute di tutti gli altri Paesi si indeboliscono e, quindi, rimborsare un eventuale debito denominato in diritti speciali di prelievo diventa più costoso, Ovviamente, siccome siamo in un mondo libero e democratico, ogni Paese, in realtà, ha sempre la possibilità di scegliere – e, in questo caso, può scegliere molto liberamente di aumentare anche lui i tassi di interesse per contrastare l’indebolimento della sua valuta; peccato che questo comporti causare una recessione o, comunque, una botta decisiva alla crescita economica, ovviamente imposta da altri. E questo è solo il primo dei problemi. Il secondo è che i diritti speciali di prelievo non vengono utilizzati nell’economia reale: non ci puoi comprare il petrolio o le banane o i microchip; per comprarci qualcosa, li devi convertire in una valuta. Ma nessuno obbliga nessuno ad accettare diritti speciali di prelievo in cambio della sua valuta: si può fare soltanto a seguito di accordi bilaterali consensuali, i famosi VTA (Voluntary Trading Arrangements); ergo, rischi di avere, tra le tue riserve, valuta che poi non puoi usare per fare quello che ti serve quando ti serve.
Il messaggio dei BRICS, allora, è molto chiaro: se volete che la nostra ascesa economica avvenga comunque all’interno di queste istituzioni, dovete darci il potere di voto che ci spetta e la possibilità di utilizzare il potere di voto che ci spetta per risolvere tutti i problemi che oggi affliggono i diritti speciali di prelievo per trasformali, finalmente, in una valuta di riserva internazionale realmente utile; altrimenti, vorrà dire che ce ne facciamo un’altra da noi. L’eventuale “mancato riequilibrio delle azioni con diritto di voto causerebbe un danno significativo e irreparabile alla credibilità del FMI come istituzione” si legge nel rapporto, e costringerebbe i Paesi emergenti a “sviluppare una struttura alternativa la cui funzionalità le consentirebbe di svolgere il compito originariamente previsto dal FMI” a partire, appunto, dai diritti speciali di prelievo per i quali “bisogna aumentare la convertibilità nelle diverse valute, andando oltre il meccanismo dei Voluntary Trading Arrangements”, promuoverne “l’utilizzo nel commercio internazionale, per fissare il prezzo delle commodities, e come unità di conto” ed “emettere più asset finanziari denominati in diritti speciali di prelievo come veicoli per gli investimenti”. Intanto si sono portati avanti aumentando a dismisura le riserve direttamente in oro che, così, è passato da poco più di 1.600 dollari l’oncia di inizio 2022 agli oltre 2.700 dollari l’oncia attuali, cosa che farà sicuramente molto felici – ad esempio – gli amici del Burkina Faso che, recentemente, hanno annunciato l’intenzione di nazionalizzare le loro miniere d’oro. Ma non solo: i due principali Paesi produttori di oro al mondo, infatti, sono – pensate un po’ – Cina e Russia, entrambi con una produzione all’incirca doppia rispetto a quella degli Stati Uniti e 60 volte superiore a quella della Svezia, che il principale produttore europeo di oro. Aumentare le riserve in oro, quindi, per i BRICS è un ottima opportunità e un ottimo affare, ma è un pannicello caldo: l’oro infatti, per fare un esempio, rappresenta appena il 4 – 5% al massimo delle riserve estere cinesi; il 65 – 70% è composto da valuta estera e il 20 – 25% da titoli di Stato esteri – e tra questi, ovviamente, a fare (di gran lunga) la parte del leone sono i dollari e i titoli del tesoro USA. L’obiettivo, quindi, è aumentare la quota di valuta estera e di titoli del tesoro in valuta locale emessi da Paesi emergenti; peccato sia più semplice da dire che da fare: nonostante la crescente solidità economica dei Paesi emergenti, infatti, il mercato internazionale dei titoli di Stato emessi in valute locali è ancora sostanzialmente inesistente anche per un colosso come la Cina, nonostante garantisca rendimenti reali tre volte superiori a quelli garantiti dai titoli del tesoro USA.
Il problema è che stabilità e livello di internazionalizzazione di una valuta e capacità di allocare sul mercato titoli di Stato emessi nella propria valuta locale sono, ovviamente, due aspetti intimamente legati tra loro: un’ampia diffusione di titoli di Stato emessi in valuta locale è un elemento essenziale per rendere stabile la propria valuta, e avere una valuta stabile è essenziale per riuscire a vendere titoli di Stato in quella valuta senza pagare una cifra spropositata di interessi; la sfida dei BRICS consiste – appunto – nell’unire le forze per riuscire a spezzare questa spirale perversa. Ad oggi infatti – sottolinea il rapporto – i Paesi emergenti, nonostante abbiano triplicato lo scambio commerciale tra loro, quando si tratta di investire continuano a portare il grosso dei loro capitali verso le economie più sviluppate e in particolare, ovviamente, verso i mercati finanziari USA e verso i titoli di Stato USA (nonostante abbiano spesso un rendimento inferiore all’inflazione): questo, da un lato, nell’immediato impedisce a quegli stessi capitali di cogliere le opportunità migliori che ci sono nel mercato (magari proprio dietro casa loro) e, dall’altro, impedisce appunto di cominciare a mettere le basi affinché gradualmente, in prospettiva, questo vero e proprio furto di risorse da parte delle economie più sviluppate a danno dei Paesi emergenti un bel giorno termini o, almeno, si affievolisca. Gli elementi che ostacolano l’emancipazione da questa spirale perversa sono numerosi e i BRICS si propongono di affrontarli tutti: uno, molto banale (ma decisamente importante), è che ad oggi anche quando un Paese emergente vuole investire in un altro Paese emergente, in realtà passa sempre da uno dei principali hub finanziari globali – e cioè, fondamentalmente, da Londra o da New York. Raggiungere un altro Paese emergente quindi, sottolinea il rapporto, è un lungo viaggio in due tappe, spesso costose, al quale naturalmente si preferisce ancora troppo spesso il semplice viaggio diretto: una volta che sono arrivato a Londra e New York, chi me lo fa fare di partire per un altro viaggio? La compravendita di titoli finanziari di ogni genere, infatti, avviene in quelli che vengono definiti Central Securities Depositories, come sono i nostri Euroclear e Clearstream, rispettivamente in Belgio e Lussemburgo; la proposta è quello di crearne uno ad hoc dei BRICS, denominato BRICS Clear System. Ovviamente, strappare quote di mercato a istituzioni più consolidate non è una passeggiata, ma c’è un incentivo che potrebbe accelerare il processo: a differenza dei Clear System che oggi dominano la compravendita dei titoli finanziari su scala globale e che, sempre più spesso, abbiamo visto essere utilizzati dagli USA e dai loro vassalli per congelare arbitrariamente i fondi dei Paesi che si azzardano a non obbedire ai loro dictat, il BRICS Clear System opererebbe sulla base di un regolamento condiviso che potrebbe essere cambiato esclusivamente con un voto di tutti all’unanimità; quello che è potenzialmente ancora più importante è che questo BRICS Clear System non si dovrebbe limitare a funzionare da piazza alternativa per lo scambio di prodotti già esistenti, ma dovrebbe promuoverne altri, a partire da hub finanziari su tutti e 3 i continenti coperti da membri dei BRICS che siano in grado di raccogliere capitali da altri Paesi BRICS – e, più in generale, da Paesi emergenti – per impiegarli nello sviluppo di infrastrutture strategiche e per finanziare i campioni nazionali che oggi, come abbiamo spiegato qualche tempo fa, sono costretti a pagare interessi più alti rispetto ai competitor occidentali, anche se sono aziende enormemente più efficienti, solide e produttive.
Un altro aspetto che influisce è il monopolio delle agenzie di rating statunitensi, ma “Un’approfondita ricerca in questo campo” sottolinea il rapporto “mostra che esiste una costante distorsione del rating che favorisce i Paesi sviluppati e sfavorisce i mercati emergenti, a partire dalla valutazione proprio dei titoli di stato sovrani”; questo bias neocoloniale contro i Paesi emergenti nel loro complesso, a cascata poi influenza anche le singole aziende di quei Paesi perché, appunto, anche in caso di aziende con “fondamentali finanziari solidi”, “i rating sovrani del Paese dove operano influenzano anche il loro rating come aziende”, al punto che “un abbassamento del rating del credito delle obbligazioni sovrane” comporta automaticamente “un declassamento di tutti gli altri strumenti del debito di quel Paese” e comporta, quindi, un costo del denaro per le aziende che ne compromette la competitività – cosa che, ad esempio, noi italiani conosciamo benissimo rispetto alla Germania, che ha utilizzato pro domo sua questo stesso identico principio per farci concorrenza sleale e cannibalizzare il nostro sistema produttivo per 30 anni. La proposta dei BRICS, quindi, è rafforzare il coordinamento tra le agenzie di rating già presenti nei Paesi aderenti – dalla cinese Dagong alla russa ACRA, passando per l’indiana Care Ratings – standardizzando i parametri e adeguandoli alle specificità delle economie emergenti più deboli finanziariamente, ma decisamente più promettenti per quanto riguarda la capacità di creare ricchezza attraverso l’economia reale. Creare enti di valutazione del credito alternativi a quelli del Nord globale è essenziale, in particolare, per favorire la crescita di investimenti tra Paesi BRICS in un settore in particolare, che nell’area del dissenso sta creando un po’ di confusione: la transizione ecologica, che i BRICS definiscono – udite udite – addirittura esistenziale: “Il tema del cambiamento climatico” sottolinea il rapporto “ha assunto il posto che spetta di diritto in cima all’agenda internazionale”; e il problema non è tanto che non esiste nessun cambiamento climatico di radice antropica, quanto – appunto, ad esempio – che “le esigenze dei Paesi in via di sviluppo saranno tra le 10 e le 20 volte superiori ai flussi finanziari disponibili” e che questo è, in buona parte, da attribuire alle “carenze causate dall’attuale stato del sistema monetario e finanziario mondiale”. Insomma: incredibile ma vero, anche per la Federazione russa e gli altri BRICS il problema non sono gli ecologisti e i gretini, ma la grande finanza internazionale a guida USA, compresa quella legata al business delle fonti fossili che, da decenni, foraggia a suon di centinaia e centinaia di milioni la peggior propaganda antiscientifica e negazionista.
Per favorire l’arrivo di capitali in grado di accelerare la transizione nei Paesi in via di sviluppo, i BRICS si pongono, prima di tutto, l’obiettivo di rompere il sostanziale monopolio che una singola società di rating s’è conquistata nel mercato della valutazione dell’impatto ambientale, sociale e di governance degli investimenti e, quindi, dirottare un po’ dove gli pare la gigantesca mole di capitali che oggi cercano di darsi una piccola spruzzatina di verde: si chiama MSCI e, da sola, copre il 60% del mercato. E, ovviamente, ha come principali azionisti BlackRock, Vanguard e State Street; ne avevamo parlato, in passato, in questo video qua, dove ricordavamo alcuni degli esempi più eclatanti di valutazioni di sostenibilità dati alla cazzo di cane: da JP Morgan, che è la più grande banca privata e la più grande finanziatrice del fossile al mondo, ad addirittura Mc Donald’s. Insomma: l’unico criterio che MSCI sembra adottare davvero è quello che siano grandi gruppi fortemente partecipati dai suoi azionisti di riferimento; attraverso la creazione di agenzie di valutazione indipendenti dell’impatto ambientale, sociale e di governance dei singoli strumenti finanziari, i BRICS si propongono di creare uno strumento più trasparente, basato su una definizione condivisa dei parametri e degli obiettivi e che sia utile per combattere il greenwashing e far arrivare i capitali laddove servono sul serio, tenendo conto anche delle specificità dei percorsi di ogni singolo Paese e, quindi, restituendo un’idea realistica e pragmatica degli obiettivi di sostenibilità che i singoli Paesi possono davvero perseguire senza cadere in rovina per fare contenti gli elettori di Annalena Baerbock e dei suoi amici eco-imperialisti.
Vista la portata della sfida della transizione ecologica, però, avere enti di valutazione indipendenti più trasparenti e razionali di sicuro non basta; serve anche mobilitare investimenti pubblici in grado, poi, di sfruttare la finanza privata come moltiplicatore: ed ecco qui che entra in gioco un altro tassello fondamentale della proposta dei BRICS, la New Development Bank, la banca di sviluppo multilaterale dei BRICS. La proposta sul tavolo è prima di tutto, banalmente, di aumentare considerevolmente la sua dotazione finanziaria e, per aumentarla, la proposta è quella di dotarla di quello che viene definito DIA, il BRICS Digital Investment Asset, cioè un asset digitale supportato, a sua volta, da asset fisici messi a disposizione dai singoli Paesi BRICS. Insomma: riassumendo il tutto, emanciparsi da un’architettura finanziaria costruita e consolidata nell’arco di decenni è un’operazione titanica; e chi fa annunci roboanti è un ciarlatano alla ricerca di seguaci in modalità setta e di like. Ciononostante, la parte economicamente più dinamica del pianeta – nonostante le millemila diversità – sembra essersi definitivamente coalizzata perlomeno su un aspetto, che è centrale: l’unipolarismo USA e la dittatura del dollaro non sono solo sistemi di dominio iniqui e ingiusti, ma sono anche – molto banalmente – arretrati e disfunzionali, storicamente inadeguati rispetto a un mondo che è già enormemente cambiato. E quando a chiedere il conto non è l’opinione di qualche avanguardia più o meno illuminata, ma la storia, te ti puoi inventare tutti i voli pindarici e i castelli in aria che ti pare, ma alla fine soccombi, che è il motivo per il quale, ormai, la propaganda suprematista – sia quella analfoliberale che quella analfosovranista – se vista con un po’ di distacco, non fa manco più incazzare: fa semplicemente ridere. Per orientarci nel nuovo mondo che cambia abbiamo bisogno di un media indipendente, ma di parte, che dia voce al 99%, compreso quello che vive nel Sud globale. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

L’Italia si compra la Germania: cosa si nasconde dietro alla scalata di UniCredit a Commerzbank

Gli italiani si comprano le banche tedesche, di nuovo: Mercati in festa, tedeschi basiti titola Libero ostentando un po’ di sano orgoglio italico; il riferimento è all’operazione che mercoledì scorso, senza che nessuno se lo aspettasse, ha portato la milanese UniCredit ad acquisire il 9% di Commerzbank, la quinta banca tedesca per patrimonio gestito. UniCredit ha approfittato della svendita di una parte delle azioni della banca detenute dallo Stato tedesco, che aveva salvato l’istituto dal default durante la grande crisi finanziaria nel 2008 e che, a operazione finita, nella migliore delle ipotesi avrà perso 2,5 miliardi di euro dei contribuenti per metterli direttamente nelle tasche della grande finanza privata; e potrebbe essere solo l’inizio: lo Stato tedesco rimane infatti ad oggi il principale azionista, ma è intenzionato a liberarsi di tutto. D’altronde, dall’Italia alla Germania, funziona così: prima si socializzano le perdite e poi si privatizzano i profitti; lo Stato al servizio dei ricchi. L’amore di UniCredit per cruccolandia non è una novità: già nel 2005, in piena era Profumo, l’istituto milanese si era accattato Hypo Vereinsbank, HVB per gli amici. E gli amici sono tanti: era, ed è tutt’ora, la quinta banca del paese. Se UniCredit, come pare abbastanza probabile (anche se non scontato), portasse a termine l’acquisizione di Commerzbank, darebbe vita al primo polo bancario del paese in mano all’Italia, ma non certo nell’interesse degli italiani: la notizia shock dell’ascesa della finanza italiana nel cuore della principale potenza economica del vecchio continente, infatti, è il primo timido tentativo di dare vita concretamente ai propositi del Rapporto Draghi sulla Competitività dell’Europa, una competitività che – recita la sacra dottrina neoliberista – può essere raggiunta soltanto attraverso lo strapotere del capitalismo privato. La creazione di colossi bancari transcontinentali è la scorciatoia individuata per creare quel mercato unico dei capitali che non siamo riusciti a creare attraverso le istituzioni; e quel mercato unico dei capitali è il requisito minimo necessario di cui avremmo bisogno per dare vita a dei campioni continentali in grado di competere con i colossi globali (in particolare cinesi e statunitensi) nei settori più promettenti dell’economia del futuro, mentre tutto il resto dell’economia – quella che dà da mangiare e la speranza di una vita quasi dignitosa alla stragrande maggioranza dei cittadini europei – verrà gradualmente privata dell’accesso al credito (che solo una rete diffusa di banche locali fortemente vincolate al territorio può garantire) e se ne potrà andare beatamente affanculo. E visto che la Germania è il primo cliente dell’export italiano, alla fine a pagare il conto saremo, di nuovo, anche noi. Ma prima di addentrarci nei particolare di questa intricata vicenda che anticipa l’Europa che verrà nel prossimo futuro, vi ricordo di mettere un like a questo video per permetterci anche oggi di combattere la nostra piccola guerra quotidiana con un monopolio che c’è già (quello degli algoritmi al servizio della propaganda dell’impero) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghino i monopoli finanziari a licenziare qualche decina di migliaia di bancari per far schizzare le azioni in borsa, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a far conoscere a sempre più persone il lato oscuro delle magnifiche sorti e progressive della grande concentrazione capitalistica.

L’Italia si compra la finanza tedesca a buon mercato: questa prima parte della scalata a Commerzbank è costata in tutto 1,5 miliardi; per UniCredit spiccioli. Con la corsa al rialzo dei tassi di interesse, le banche negli ultimi due anni hanno guadagnato cifre spropositate facendosi pagare una montagna di interessi dai debitori, senza riconoscere il becco d’un quattrino a chi, per pigrizia o per paura, lasciava i quattrini a svalutarsi sul conto corrente e con la complicità dei governi che, a un certo punto, per placare la rabbia popolare hanno annunciato tasse sugli extraprofitti, ma poi si sono scordati di applicarle sul serio perché c’avevano judo. E UniCredit è stata forse la banca che c’ha guadagnato di più in assoluto: oltre 20 miliardi di euro in due anni; per un’azienda che in borsa vale poco più di 55 miliardi, uno sproposito. Giusto per farsi un’idea, equivalgono ai profitti registrati da aziende come Pepsico, Cisco o Philip Morris o, per rimanere nel settore finanziario, a giganti come Allianz, Royal Bank of Canada o Morgan Stanley, tutte aziende ordini di grandezza più grandi e con capitalizzazioni di borsa che sono dalle tre alle quattro volte quella di UniCredit; ed ecco, così, che ora UniCredit si ritrova con una bella carta di credito illimitata per fare shopping in grande stile, tanto da presentarsi all’asta indetta dallo Stato tedesco con talmente tanta liquidità da sbaragliare la concorrenza di competitor del calibro di ING e BNP Paribas. D’altronde, Orcel, l’amministratore delegato della banca milanese, era in cerca di acquisizioni da tempo: prima aveva puntato gli occhi su MPS, ma aveva chiesto garanzie talmente pesanti che anche degli svendi-patria di professione come i meloniani di palazzo Chigi sono stati costretti a soprassedere. Poi era stato il turno di Banco BPM, un’operazione che però, evidentemente, a più di qualcuno non andava molto a genio: nel bel mezzo della trattativa c’è stata una fuga di notizie che ha fatto esplodere le quotazioni della banca che, a quel punto, non era più appetibile.
La svendita delle quote pubbliche della Commerzbank era l’occasione d’oro che stava aspettando e che aveva preparato da tempo: UniCredit, infatti, aveva già fatto una prima campagna acquisti in Germania nel 2005 con Alessandro Profumo, quando aveva scalato la proprietà di HVB che, in termini di asset, è la quinta banca del Paese, ma in termini di sportelli è la terza – che è anche il motivo per il quale ai sindacati tedeschi la scalata di UniCredit non piace manco un po’: a differenza dei concorrenti ING e BNP Paribas infatti, ovviamente (e giustamente) vedono all’orizzonte massicce sforbiciate di personale approfittando delle sinergie possibili tra Commerz e HVB. L’idea di una fusione tra UniCredit e Commerzbank, poi, era stata rispolverata da Orcel pochi mesi dopo la sua nomina, a fine 2021, ma poco dopo la guerra in Ucraina aveva fatto saltare il tavolo e non era manco la prima volta: già prima di Orcel “A provare ad affondare il colpo” ricorda Il Sole 24 Ore “era stato l’ex CEO Jean Pierre Mustler che, a più riprese, tra il 2015 e il 2019 aveva tentato di intavolare una trattativa con il governo tedesco che però era finita nel nulla anche proprio a causa della riottosità dei sindacati tedeschi”. Altri tempi. Ora però, dopo il Rapporto Draghi, l’idea è che le concentrazioni non possano più attendere e che quei conservatori dei sindacati si devono attaccare al tram. Il sindacato Ver.di (che non c’entra niente con i talebani dell’ecologismo imperiale in stile Anna Baerbock) comunque c’hanno provato e hanno “esortato il governo a interrompere la vendita e a bloccare qualsiasi potenziale acquisizione da parte di UniCredit”; la fusione tra Commerzbank e HVB darebbe vita al primo polo bancario del paese e a una ristrutturazione che pagherebbero i lavoratori: “Se i sogni di gloria di Orcel sono grandi” commenta il Sole, “la strada è in salita”.
Fortunatamente per Orcel, però, è una salita dorata: il titolo di Commerzbank mercoledì, infatti, ha guadagnato in una botta sola il 17%; anche se dovesse fallire la scalata, si sarebbe comunque trattato di un tentativo piuttosto redditizio pagato dai contribuenti tedeschi. Che uno dice: bene, ci godo, una volta tanto; peccato che i soldi non andranno in tasca di altri cittadini europei derubati dall’Europa ordoliberista a trazione tedesca. Indovinate un po’, invece, a chi andranno in tasca? Esatto, proprio a loro: le Big Three che, a questo giro, sono soltanto due; BlackRock e Vanguard, infatti, non sono solo i due azionisti principali di UniCredit, ma anche (subito dietro al governo tedesco) di Commerzbank. Almeno fino a ieri, quando – appunto – il secondo azionista è diventato UniCredit che però, a sua volta, significa principalmente BlackRock e Vanguard. Insomma: come la rigiri la rigiri, quel bel +17% di ieri guarda caso va in tasca ai grandi monopoli finanziari a stelle e strisce; come operazione per salutare la svolta eurosovranista annunciata dal Piano Draghi non c’è malaccio, diciamo. E quel +17% è solo la punta dell’iceberg: “Bene che andrà” ricorda infatti il Sole, “i contribuenti tedeschi subiranno una perdita secca di circa 2,5 miliardi di euro”; a tanto, infatti, ammonta la perdita per le casse tedesche che si registrerà quando sarà finita la svendita anche del restante 12% di Commerzbank che, per ora, è rimasto nelle casse del Fondo per la stabilizzazione del mercato finanziario, un eufemismo gentile per indicare un fondo pensato per rubare soldi ai contribuenti e metterli in tasca agli oligarchi. Per salvare la banca nel 2008 lo Stato, infatti, aveva sborsato oltre 5 miliardi; se rivendesse tutte le sue quote ai 13,20 euro per azione sborsati mercoledì da UniCredit, ne incasserebbe in tutto 2,5.
Nel 2008 l’operazione Commerzbank stava dentro a un operazione molto più grossa, dove lo Stato si comprava, a prezzi che non avevano niente a che vedere con i prezzi reali di mercato, il 25% dell’intera industria del credito tedesco “per evitare il contagio e proteggere così l’intero 100%” (Il Sole 24 Ore); subito dopo l’acquisto, le azioni pagate 26 euro sono crollate a un quinto del valore e non hanno mai ripreso il volo. Per questo sbarazzarsi delle sue quote per il governo si è sempre rivelata una mission impossible: come lo giustifichi il fatto di aver regalato qualche miliardo a degli oligarchi mentre la tua economia cade letteralmente a pezzi perché, in ossequio al rigore di bilancio, sono 20 anni che non fai un euro di investimenti? Ma non solo. Lo Stato tedesco con Commerzbank s’è comportato come il più intransigente dei padroni e ha portato avanti una cura da cavallo a forza di tagli e ridimensionamenti del personale; aggiungici il biennio d’oro per l’intero comparto bancario europeo innescato dalla corsa al rialzo dei tassi di interesse ed ecco che la ristrutturazione è avvenuta: Commerzbank è tornata ad essere redditizia e ha cominciato a portare un po’ di quattrini nelle casse dello Stato. E proprio adesso vuoi vendere? Ma sei scemo? Fortunatamente, però, adesso è arrivata l’occasione d’oro: per chiudere il budget statale del 2025 alla Germania gli mancano svariati miliardi; ovviamente, non è che mancano davvero, ma esclusivamente perché si continua a venerare il Dio dell’austerity senza nessuna motivazione razionale concreta. Ma il lavaggio del cervello sistematico della propaganda è riuscito a diffondere questa religione in buona parte del popolo tedesco, che ora è addirittura disposto a veder regalare qualche miliardo di soldi suoi ai finanzieri piuttosto che vedere infrangere il tabù del pareggio di bilancio; l’unica speranza è che il lavaggio del cervello non sia stato così profondo da impedire alle persone in carne ed ossa di battersi per difendere almeno i loro interessi concreti immediati.
In virtù del sistema di governance duale che vige in Germania, infatti, i rappresentanti dei lavoratori siedono direttamente nel consiglio di sorveglianza di Commerzbank, da dove qualche strumento per ostacolare l’operazione ce l’avrebbero pure. E i motivi per opporsi sono parecchi: basta guardarsi indietro. Quando UniCredit nel 2005 s’è comprata HPV, nel giro di poche settimane ha subito annunciato tagli per migliaia di posti di lavoro: “Non abbiamo bisogno di un altro disastro come quello che abbiamo visto con Hypo” ha dichiarato a Bloomberg uno dei sindacalisti che siede nel CdA di Commerzbank; “Non abbiamo bisogno che gli italiani vengano e facciano saltare le banche tedesche tradizionali”. E il problema non riguarda solo i posti di lavoro diretti: il processo di concentrazione bancaria infatti, al contrario delle vaccate spacciate dagli analfoliberali, non è solo e semplicemente un processo di efficientamento da affrontare come un problema tecnico; è un problema eminentemente politico. Le fusioni infatti, ovviamente, non rispondono tanto a criteri di carattere industriale, ma prevalentemente a criteri speculativi: sono solo i mega-gruppi, infatti, a spartirsi la torta della capitalizzazione in borsa. Peccato, però, che le banche non sono aziende come tutte le altre: sono il cuore di ogni sistema industriale moderno ed hanno il compito di iniettare nell’organismo il sangue e, cioè, la liquidità, i piccioli; ma mega-gruppi totalmente scollegati da qualsiasi forma di insediamento territoriale – e totalmente orientati alla rendita finanziaria e a pompare a dismisura e senza sosta il prezzo delle azioni attraverso la spartizione del mercato tra pochi colossi oligopolistici – non sono minimamente in grado di garantire al sistema produttivo di medie e piccole aziende di un territorio l’afflusso di sangue necessario. La battaglia dei sindacati contro le fusioni che creano la rendita in borsa, ma distruggono la capacità di creare valore reale, non è quindi solo una sacrosanta battaglia in difesa del loro lavoro e della loro dignità, ma una battaglia in difesa del lavoro e della dignità di tutti. Sarebbe importante ricordarselo: in Europa, infatti, spuntano come funghi forze politiche che si autodefiniscono sovraniste e si auto-rappresentano come in profondo conflitto con le oligarchie globaliste; e grazie a questa retorica, comprensibilmente, fanno il pieno di voti tra le fasce popolari. Peccato che poi, però, se minimamente ti prendi la briga di andare a vedere le loro proposte di politica economica, ti accorgi che sono più liberiste di Reagan, della Thatcher e di quel pagliaccio di Javier motosega Milei messi assieme; e che quando elencano le élite globaliste che vogliono radere al suolo, non ci sono i membri della nuova aristocrazia come Elon Musk o Jamie Dimon (che, nella loro fantasia, i soldi se li sono guadagnati col sudore, alla faccia dell’invidia di voi zecche comuniste), ma i sindacati. E non alcuni specifici sindacati, giustamente accusabili di essere troppo accondiscendenti nei confronti delle élite, ma proprio dei sindacati in quanto tali – che, quindi, vanno annientati tout court – ed eliminare così ogni ostacolo residuo ad operazioni come questa mega-fusione dove gli unici che possono eventualmente fare qualcosa, appunto, sono proprio i sindacati (che così si ritrovano a combattere da soli sia contro finto-sovranisti che contro veri analfoliberali).
La propaganda della sinistra ZTL, infatti, è spietata: La Repubblichina sottolinea come “Un’integrazione con Commerzbank creerebbe economie di scala e sinergie nel ramo imprese e Pmi in Germania, dove Commerz è già oggi leader, e l’Italia è il primo partner dei tedeschi nell’import-export”. Insomma: sempre la solita vecchia minestra riscaldata della contrapposizione tra lavoratori conservatori, che guardano solo al loro ombelico, e le magnifiche sorti e progressive della tecnocrazia turbo-liberista. La Repubblichina vuole spacciare fusioni che guardano esclusivamente alla borsa e alla rendita finanziaria come occasioni d’oro per lo sviluppo dell’economia reale, che poi però, guarda caso, non arriva mai (mentre i dividendi, quelli sì che arrivano sempre: puntuali come un orologio svizzero). Te guarda la sfortuna, alle volte…Lo sa bene il governo spagnolo che da mesi è messo sotto pressione dalle oligarchie atlantiche (e dalla propaganda che gli fa da portavoce) nel tentativo di convincerlo a mettere sul piatto della grande mangiatoia delle fusioni transfrontaliere europee fiori all’occhiello del sistema bancario spagnolo come BBVA : “La mossa di UniCredit” insiste quindi la Repubblichina “è importante proprio perché rilancia le fusioni transfrontaliere”.
Che il processo di fusione e di creazione di giganti bancari transfrontalieri presenti decisamente più rischi di quanto gli innamorati delle magnifiche sorti e progressive de La Repubblichina siano in grado di concepire, sembra essere un’idea che va ben oltre i confini del mondo Ottolino e anche di quello dei sindacati: secondo tutti i commenti dei grandi media finanziari, ad essere stati colti di sorpresa sarebbero stati per primi proprio gli stessi funzionari del governo che, scrive Bloomberg, “si aspettavano che un gran numero di diversi investitori avrebbero acquistato le azioni della Commerzbank, mantenendo la quota di ciascuno a livelli modesti”, cosa che – continua l’articolo – “avrebbe contribuito a garantire che la banca rimanesse indipendente e continuasse a concentrarsi sui prestiti alle imprese di medie dimensioni nel suo mercato interno”; “La Germania” avrebbe ribadito un funzionario al Financial Times “ha bisogno di banche nazionali per finanziare la propria economia, il Mittelstand” (e cioè, appunto, le piccole e medie aziende che rappresentano il cuore del tessuto produttivo tedesco) “e la Commerzbank da questo punto di vista è fondamentale. Questo accordo” avrebbe concluso “non è solo un accordo finanziario, è un accordo politico”. Fabio De Masi, membro del Parlamento europeo tra le fila del neonato partito di Sahra Wagenknecht e vecchio amico di Ottolina, ha sottolineato come “L’economia tedesca è attualmente esposta a grandi shock e quindi abbiamo bisogno più che mai di finanziatori affidabili per le piccole e medie imprese” ma, appunto, questa operazione va vista inquadrata in un contesto più ampio.
Il contesto più ampio dove inquadrare anche la scalata tedesca di UniCredit è, appunto, quello che è stato delineato dal rapporto sul futuro della competitività dell’Europa di SanMarioPio da Goldman Sachs: “Curiosamente” ricorda, ad esempio, Paul Davies su Bloomberg “proprio questa settimana, l’ex premier italiano ha aperto un potenziale percorso che consentirebbe finalmente a gruppi bancari realmente paneuropei di emergere”; l’idea sostanzialmente è – dopo che in 31 di Maastricht non s’è fatto mezzo passo in avanti verso una vera unione bancaria – provare a percorrere la scorciatoia di un’unione bancaria di fatto limitata ai grandi gruppi, che dovrebbero infrangere il tabù della fusione tra istituti di paesi diversi e usare il loro peso specifico per forzare i limiti che ancora oggi ostacolano la libera circolazione dei capitali. “UniCredit” scrive sempre Davis su Bloomberg “è un buon caso di studio per capire quali sono oggi gli ostacoli e perché questa forzatura è necessaria. La banca milanese è già presente oggi in Germania con HVB, ma la natura frammentata della finanza europea fa sì che i depositi e i capitali rimangano sostanzialmente intrappolati in Germania e non possano arrivare alla sede centrale di Milano per essere distribuiti tra i soci sotto forma di dividendi”; ovviamente, nell’ottica predatoria del capitale, questi ostacoli – benché non abbiano impedito ai soci di UniCredit, come delle altre banche, di accumulare una quantità spropositata di profitti – impediscono la nascita di gruppi continentali in grado di tenere il passo con i grandi concorrenti internazionali. “L’Europa” aveva sottolineato lo scorso novembre proprio dagli schermi di BloombergTV Orcel in persona “ha bisogno di banche con capitalizzazioni di mercato superiori a 100 miliardi di dollari se vogliamo che questo blocco economico regga nei confronti degli Stati Uniti o della Cina”, con una piccolissima differenza: in Cina, infatti, le grandi banche sono controllate dallo Stato e le politiche che adottano devono adeguarsi agli obiettivi politici dettati dal governo; che se quindi, per fare un esempio, decide che nella provincia soncazzoio spersa nel deserto del Gobi bisogna dare benzina alle aziende locali per ridurre il divario con le parti più sviluppate del Paese, le banche – di riffa o di raffa – sono costrette a muoversi. Insomma: l’economia reale e le finalità politiche che, attraverso lo sviluppo delle forze produttive, si vogliono raggiungere, hanno la priorità assoluta. Nel caso delle mega-banche private, l’unica finalità rimane sempre e soltanto la massima remunerazione del capitale possibile immaginabile, che si ottiene concentrando sempre più quattrini laddove ce ne sono già in abbondanza (e quindi aumentando a dismisura le differenze, invece che ridurle). Che è, appunto, esattamente la logica del Piano Draghi: concentrare le risorse in mano a pochi campioni continentali in grado di competere sui mercati internazionali – e che siano quindi in grado di garantire anche alle nostre oligarchie i super-profitti che garantiscono i mercati speculativi d’oltreoceano – mentre il resto dell’economia (e quindi tutti noi) se ne possono – appunto -allegramente andare affanculo.
Quindi, riassumendo, grazie ai soldi che UniCredit ha fregato ai correntisti negli ultimi 2 anni (e che Giorgia la Madre Cristiana ha deciso di lasciargli in cassaforte senza chiedere niente in cambio), UniCredit fa un’operazione che distrugge direttamente posti di lavoro nel settore bancario in Germania e, in prospettiva, contribuisce a distruggerne molti di più nell’industria, che è il primo cliente dei produttori italiani che quindi, dopo essere stati scippati in banca, si troveranno pure senza lavoro. Mentre BlackRock, Vanguard e le oligarchie che rappresentano guadagnano una marea di quattrini per ognuno di questi passaggi. E quindi, insomma, per rispondere alla domanda iniziale: no, non è l’Italia che si compra la Germania, ma sono le oligarchie transatlantiche rappresentate da BlackRock e Vanguard che si comprano l’Europa e lasciano i cittadini europei, a partire da quelli italiani, in mutande. E meno male che il Piano Draghi ci doveva dare la sveglia… Qui ce l’ha data la sveglia: sui denti! Speriamo almeno mi colga bene, così magari me li raddrizza un po’… Mi sa che se ci vogliamo dare una sveglia, tocca pensarci da soli e, per farlo, ci serve come il pane un vero e proprio media che, invece che fare da megafono agli interessi delle oligarchie finanziarie, dia voce agli interessi di quegli zozzoni conservatori e ottusi dei lavoratori e del 99%. Aiutaci a a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elsa Fornero

Il Piano Draghi è un manifesto ideologico e a pagare il conto sarà l’Italia – ft. Alessandro Volpi

Il rapporto sul futuro della competitività in Europa di Mario Draghi è l’ennesimo manifesto Ideologico del partito unico neoliberista ed è costretto ad ammettere la situazione catastrofica nella quale ci hanno scaraventato 20 anni di mercatismo ordoliberista esasperato, ma come soluzione non è in grado di proporre altro che una dose ancora più massiccia della vecchia medicina; e non bisogna lasciarsi illudere dalle parole in favore dell’intervento dello Stato: al contrario di quanto afferma la vulgata analfoliberale, il neoliberismo da sempre prevede un ruolo dello Stato, ma esclusivamente come facilitatore degli affari dei grandi monopoli capitalistici privati. La beffa che va oltre il danno del riproporre, ancora una volta, la solita vecchia ricetta consiste nel fatto che per trovare le risorse che permettano allo Stato di servire al meglio le oligarchie servirebbe un po’ di debito comune europeo. E per superare i dubbi che i paesi frugali hanno espresso sin da subito, il compromesso che ha in mente Draghi è quello di offrirgli su un piatto d’argento una nuova ondata di austerity e di riduzione del debito da parte dei paesi della periferia. A partire dalla sua Italia dove, per quanto profondamente odiato da tutte le classi popolari, Draghi continua ad essere venerato come una divinità da tutte le élite. E alle divinità non si può negare niente!

Italiani rapinati: perché il governo Meloni ha deciso di regalare il nostro tfr alla finanza USA

Il Sole 24 Ore, 21 agosto: Panetta al meeting di Rimini: il problema cruciale rimane la riduzione del debito pubblico. La Verità, 23 agosto: Ai fondi pensione il 25% del tfr. Domani, 23 agosto: Stellantis scappa da Torino. Libero, 24 agosto: Giorgetti a Rimini: il PNRR mi ricorda i piani quinquennali dell’Unione Sovietica. Non c’è che dire: se eravate alla ricerca di indizi su quanto tutte le famiglie politiche della classe dirigente italiana siano impegnate giorno e notte nel rendere il declino economico del paese il più rapido e irreversibile possibile, l’ultima settimana dovrebbe avervi lautamente ricompensati; dal ritorno dell’austerity alla sottomissione forzata dei lavoratori italiani alle logiche della grande finanza, passando per l’incedere inesorabile della deindustrializzazione e il culto fuori tempo massimo delle magnifiche sorti e progressive del mercato che si autoregola, bisogna ammettere che non ci siamo fatti mancare assolutamente niente. Ad aprire le danze c’ha pensato, appunto, il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta con un intervento che sembrava arrivare direttamente dal 2009, quando tutto l’establishment economico dell’Occidente collettivo parlava di austerità espansiva prima di scoprire, conti alla mano, che l’austerità non solo distrugge l’economia, ma alla fine inevitabilmente fa anche aumentare il debito. Tutto rimosso: “Il debito elevato” afferma Panetta con un contorsionismo da psichiatria “sottrae risorse alle politiche anticicliche”; cioè Panetta stesso – che c’avrà sì anche lui i suoi limiti, ma non al livello di uno youtuber di Liberi Oltre o un giornalista de Il Foglio – riconosce ovviamente che quando l’economia va di merda, a intervenire dev’essere lo Stato per aumentare, facendo spesa in deficit, la domanda aggregata. Al che uno pensa che quindi ammetterà che ora c’è bisogno di allentare i cordoni della borsa; d’altronde, gli ultimi dati confermano che il valore della produzione industriale in un anno è diminuito di un altro 4% e che in 4 anni i salari reali degli italiani più fortunati (quelli che hanno un contratto regolare) hanno perso circa il 10% del loro potere d’acquisto, ad essere generosi: più crisi di così, cosa vuoi? Una carestia? Eppure – non si capisce bene in base a quale logica – Panetta sostiene che proprio ora i cordoni della borsa è il caso di stringerli il più possibile, così magari in futuro, quando arriverà un’altra crisi, avremo sufficienti margini di manovra per fare un po’ di spesa pubblica. Tipo il 32 agosto del duemilacredici o dopo che saremo tutti morti per un olocausto nucleare. Evidentemente c’è qualcosa che non torna e quello che non torna è che a brevissimo bisognerà cominciare a mettere mano alla manovra economica; e la direzione deve essere chiara: non cominciate a venir fuori con idee strampalate su come far ripartire produzione e consumi in Italia, che qui ancora questi zucconi conservatori tirchioni degli italiani non hanno capito che i loro risparmi devono essere dati in mano ai grandi gestori di patrimoni per gonfiare la principale fonte di rendita di chi i soldi ce li ha già, e cioè la bolla finanziaria.
Ed ecco così che arriviamo al secondo indizio, che è il più succulento: la proposta di legge della Lega che introdurrebbe l’obbligo di destinare almeno il 25% dell’accantonamento del tfr ai fondi pensione; da anni, tutti – e quando dico tutti intendo letteralmente tutti, di sinistra, di destra, di sopra, di sotto – provano a convincere gli italiani ad aderire ai fondi integrativi, ma con risultati non esattamente del tutto soddisfacenti. Non rimane quindi che la via di imporlo con la forza anche se, come sostiene ad esempio Alberto Brambilla, già sottosegretario al lavoro e alle politiche sociali del secondo governo Berlusconi (e quindi non esattamente un pericoloso bolscevico), “Imporre ai lavoratori di impegnare parte della loro retribuzione in un fondo pensione non è costituzionale. L’adesione alla previdenza integrativa non può che essere volontaria”. D’altronde, però, a mali estremi, estremi rimedi e qui c’è bisogno di garantire ai nostri giovani pensioni dignitose per il futuro, soprattutto dal momento che ormai un lavoro vero, con un contratto vero full time a tempo indeterminato e con un salario superiore alla soglia di povertà, è un lusso per pochi. L’unica speranza, allora, è affidare quei pochi risparmi che mettiamo da parte – a partire dal tfr – a qualcuno che li investe in borsa e che li sa far fruttare come si deve: come ribadisce Gianluca Baldini, l’obiettivo della misura non può che essere “garantire soprattutto ai giovani lavoratori pensioni migliori” e “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre” (e sottolineo SEMPRE) “di più rispetto a lasciare il tfr in azienda”. Ma è proprio così?

A vedere da questo grafico pubblicato da Morningstar ormai oltre un anno fa, a dire il vero, tutto sommato, sembrerebbe di no: per quanto riguarda il 2022 ad esempio (secondo il grafico), mentre chi aveva i soldi in un fondo pensione si è visto svalutare il suo patrimonio del 9,8 o addirittura del 10,7% – a seconda che si trattasse di fondi riservati ai lavoratori di determinati settori o di fondi aperti a tutti – quei tirchioni cacasotto che li avevano lasciati fermi immobili nel tfr se li sono visti rivalutare dell’8,3%. Eh vabbeh, direte; stai a fa il solito cherry picking. Sei andato a scegliere proprio l’anno del tracollo dei titoli azionari legato alla crisi pandemica. E’ vero, solo che proprio quell’anno lì è bastato da solo a smontare, dati alla mano, l’idea che appunto “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre di più rispetto a lasciare il tfr in azienda” che quindi, molto banalmente, è una fake news bella e buona, una pubblicità ingannevole al servizio della grande finanza; a causa dell’annus horribilis 2022, infatti, chi ha lasciato i suoi soldi nel tfr ha guadagnato rispetto a chi li ha dati in affidamento ai fondi anche se allarghiamo la finestra temporale: nell’arco degli ultimi 3 anni, infatti, chi ha messo i soldi nei fondi ha perso dallo 0,7 allo 0,8%, mentre il tfr si rivalutava del 4,3%. E nell’arco degli ultimi 5 la differenza diminuisce un po’, ma il senso non cambia: il patrimonio messo nei fondi si è rivalutato dallo 0,2 allo 0,4%, mentre quello rimasto a dormire nel tfr del 3,3. E per quanto effettivamente il 2022 sia stato un anno anomalo per l’andamento dei titoli azionari, il punto è che questi anni anomali, nel tempo, sono diventati sempre più frequenti: per trovare un altro caso, infatti, non bisogna risalire al 1929, ma basta tornare al 2008, o al 2001, o al 1987.
Quindi – sostanzialmente – la politica economica del governo Meloni consisterebbe nel fatto di scommettere al Casino con i pochissimi quattrini che un’economia in declino da 40 anni ancora ci ha lasciato in tasca, ma c’è di più, perché almeno questa roba servisse a dare un po’ di risorse finanziarie alle nostre PMI messe in ginocchio dalla crisi economica e dai tassi di interesse da usura… Macché: in realtà, anche da questo punto di vista è una gigantesca fregatura; da un lato, infatti, dei soldi che affidiamo ai fondi solo il 16% rimane in Italia, mentre oltre il 60% viene trasferito direttamente oltreoceano senza passare dal via. Dall’altro, in questo modo colpiamo direttamente la liquidità proprio delle nostre PMI che – soprattutto in questa fase, dove le banche di finanziamenti ne concedono pochini e quelli che concedono se li fanno pagare a peso d’oro – hanno visto nel tfr accantonato in azienda una fondamentale ancora di salvezza; insomma: si tolgono con la forza soldi ai lavoratori e alle aziende italiane per darli alla grande finanza d’oltreoceano. Per un governo di patrioti – bisogna ammettere – niente male, e gli effetti si vedono eccome: Frena il mercato del lavoro titolava La Repubblichina martedì scorso: “Forte aumento a luglio delle richieste di cassa integrazione e dell’utilizzo dei fondi di solidarietà da parte delle aziende”; in totale, riporta l’ultimo Osservatorio dell’INPS, le ore di cassa integrazione autorizzate a luglio sono state 36,6 milioni, segnando un + 3,71%, ma soprattutto un insostenibile + 27,9% rispetto al luglio del 2023 . A fare ancora più impressione è il dato disaggregato relativo alla sola industria, dove le richieste di ore di cassa integrazione durante i primi 6 mesi del 2024 hanno visto un aumento di un incredibile 51,3% rispetto all’anno precedente.
E – indovinate un po’ – tra i settori che soffrono di più, “incredibilmente” c’è l’automotive: “Stellantis dà il bentornato in fabbrica agli operai dello stabilimento di Pomigliano annunciando altri 5 giorni di cassa integrazione a settembre” riporta Il Fatto Quotidiano. E non è solo un problema degli operai: come ricordava venerdì scorso Maurizio Pagliassotti su Domani, il tramonto ormai è arrivato anche – ad esempio – per lo storico centro ricerche FIAT di Orbassano che a partire dagli anni ‘70 si era imposto come “uno dei cuori pulsanti della ricerca in campo automobilistico in tutto il vecchio continente”; nel tempo, ha sfornato la bellezza di oltre 3000 brevetti – dal motore turbodiesel multijet a iniezione diretta al common rail. Ancora nel 2002 impiegava oltre 1000 dipendenti super-specializzati, che poi sono diventati 770 nel 2012 e 500 nel 2021; oggi sono poco più di 150, troppo pochi per tenerlo ancora in vita. Ma FIAT a parte, la vera tragedia si sta abbattendo su scala ancora maggiore su tutto l’indotto che da FIAT dipendeva e, anche qui, paghiamo lo scotto della nostra sottomissione a Washington e della guerra che i suoi vassalli sono stati costretti a dichiarare alla Repubblica Popolare cinese: lo ha spiegato in modo sorprendentemente chiaro ed esplicito Federico Visentin, il presidente di Federmeccanica, in occasione del lungo viaggio della Meloni a Pechino a fine luglio scorso; in una breve (ma molto significativa) intervista al Corriere della Sera, Visentin spiega in maniera esemplare quello che sosteniamo continuamente da oltre un anno. Primo punto: per tenere in piedi la filiera dell’automotive italiano bisogna che vengano prodotti in Italia almeno 1 milione e mezzo di autoveicoli. Due: questi numeri non si possono sostenere producendo solo auto di alta gamma o costose; bisogna produrre utilitarie economicamente accessibili. Tre: “Gli unici in questo momento con le tecnologie adatte a produrre utilitarie elettriche a basso costo, dai 10 ai 12 mila euro, sono i cinesi”; altro che le vaccate della propaganda imperialista e guerrafondaia sulle politiche commerciali scorrette della Cina, tanto che anche l’intervistatore del Corriere deve essere rimasto un po spiazzato e chiede: “Ma allora davvero i cinesi sono più avanti sull’auto elettrica?”. “lo sono” risponde perentorio Visentin “e dovremmo avere l’umiltà di ammetterlo. Sulle batterie sono arrivati alla quinta generazione”.
Ma noi nel frattempo eravamo troppo impegnati a capire come far arrivare i nostri quattrini sui mercati finanziari d’oltreoceano dove, invece che alla quinta generazione di batterie, sono arrivate alla quindicesima di prodotti finanziari che non fanno altro che rendere più ricco l’1% e destinare alla miseria tutti gli altri. Cosa concretamente si potrebbe e si dovrebbe fare per tornare a creare ricchezza in questo paese non è un mistero: per farlo, però, ci dovremmo prima di tutto liberare dal partito unico degli zerbini di Washington e delle oligarchie finanziarie e dai loro organi di propaganda. Costruire un vero e proprio media che dia voce agli interessi del 99% è il primo indispensabile passo; aiutaci a portarlo a termine: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Da Bernie Sanders alla Lega: il partito unico si inginocchia alla dittatura della grande finanza

Dalla convention democratica di Chicago al rientro dalle ferie dei parlamentari leghisti, l’autunno bollente non è ancora cominciato che già le due fazioni del partito unico della guerra e degli affari fanno a gara a chi compiace di più il gotha della finanza globale. Ne abbiamo parlato, come sempre, con il nostro Alessandro Volpi. Buona visione!

La crisi sta arrivando: crolla la borsa, sfiducia nel dollaro, debito USA – ft. Vadim Bottoni

Oggi il nostro Gabriele Germani ha intervistato Vadim Bottoni (economista) con cui ha analizzato la situazione economica e finanziaria odierna. Cosa denota la recente crisi borsistica del 5 agosto? Siamo davanti a un cigno nero o a un qualcosa di più grande e strutturale? Cosa aspettarsi dal futuro? E in che modo i fondi speculativi e la politica USA reagiranno alla situazione odierna? Buona visione!

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Economia di guerra e crisi del liberismo – con Vadim Bottoni e Alessandro Volpi

Oggi presentiamo il panel Economia di guerra e crisi del liberismo con relatori Alessandro Volpi e Vadim Bottoni e moderato dal nostro Gabriele Germani. Nel panel si è parlato di finanziarizzazione, del potere dei fondi e di cosa si intende per economia di guerra. L’Unione europea con le sue attuali regole ha realmente la possibilità di perseguire un’economia di guerra? Cosa è necessario cambiare? E perché politicamente è mancata e manca la volontà di farlo? L’euro è un ostacolo o un’opportunità? Buona visione!

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Gli USA spaccati: Kamala vuole la guerra – ft. Giacomo Gabellini

Oggi i nostri Giuliano e Gabriele hanno intervistato il sempre preparato Giacomo Gabellini attorno alle strategie messe in campo dai due diversi candidati alle presidenziali USA di novembre. Mentre sembra ormai solo questione di formalità la conferma della candidatura di Kamala Harris, Trump solleva problemi di legittimità attorno la sua figura. Mentre i Democratici puntano allo scontro attorno al mondo, i Repubblicani sembrano prediligere una strategia pragmatica che, nell’immediato, scaricherebbe i costi della difesa sui singoli scenari ai partner europei e asiatici. Buona visione.

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L’Europa è morta di troppa austerità!

Dall’ultimo meeting tenuto dal gruppo nel 2012 a Rimini, la MMT torna in Italia in grande stile e con una nuova credibilità; se nel 2012, i suoi sostenitori erano associati a fantasiose teorie complottiste o populismi, oggi le ricette espansive ed eterodosse sembrano le uniche possibili per salvare l’Occidente dalla de-industrializzazione e dalla sicura sconfitta nel conflitto multipolare. Lo Stato deve tornare a svolgere un ruolo attivo nella vita economica del paese e per farlo deve ricorrere a tutti gli strumenti nel cassetto degli attrezzi, tra cui la politica monetaria. La presenza di Warren Mosler è quindi un momento cruciale di riconoscimento della caparbietà e coerenza alla fine premiata; così, a distanza di oltre un decennio, Draghi, Monti e rettiliani vari sono costretti a fare autocritica, mentre il gruppo del MMT continua a predicare la lieta novella inascoltato. Le istituzione europee svoltano a destra e diventano monopolio del dogmatismo del PPE, ma negli USA è ormai chiarissimo chi avesse ragione quindici anni fa. L’Unione europea si sta suicidando di austerità assistita.  Buona visione!

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