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TECNOFEUDALESIMO: come Apple, Google, Meta e Amazon si impossessano di tutto e distruggono il pianeta

Quasi nessuno se ne è accorto, ma il capitalismo è già morto da un pezzo ed è stato rimpiazzato da qualcosa di ben peggiore. Tecnofeudalesimo: così Yanis Varoufakis, uno dei più lungimiranti studiosi della nostra epoca, ha ribattezzato nel suo ultimo libro il sistema economico delle nostre società, sostenendo che in meno di vent’anni i proprietari delle big tech abbiano scalzato al vertice i vecchi industriali capitalisti e siano diventati i nuovi padroni del mondo occidentale; Google, Amazon, Meta, Apple e pochi altri, con l’aiuto della finanza internazionale hanno prima completamente privatizzato internet creando oligopoli e monopoli mai visti prima nella storia, e poi hanno esteso sempre di più il loro controllo sulle nostre vite e sulle leve politiche della nostra società. “Forse eravamo troppo distratti dalla pandemia” scrive Varoufakis, “dalle varie crisi finanziarie, o da tutti quei teneri e simpatici gattini su TikTok; in ogni caso, mentre ci preoccupavamo d’altro, un nuovo sistema economico ha preso il controllo. Da vent’anni, ormai, le basi sulle quali è stato costruito il capitalismo – il profitto e il mercato – non sono più fondamentali: il capitale tradizionale non è più al comando, ma è diventato vassallo di una nuova classe di padroni feudali, i proprietari del capitale cloud”.

Yanis Varoufakis

Fondamentalmente, sostiene l’economista greco, il capitale cloud ha demolito i due pilastri del capitalismo: i mercati e il profitto; da una parte i mercati sono stati rimpiazzati da piattaforme di trading digitale, dove gran parte della nostra vita e degli scambi commerciali si svolge, molto più simili ai vecchi feudi pre – capitalisti, dall’altra il profitto, che era il motore del capitalismo, è stato rimpiazzato dal suo predecessore feudale: la rendita. E, cioè, quella rendita che viene pagata dalle aziende e dai cittadini ai proprietari dei feudi digitali per poter accedere alle loro piattaforme e al mercato e ai servizi che queste ospitano; di conseguenza, riflette Varoufakis, il vero potere oggi non risiede nei proprietari di capitale tradizionale – come macchinari, edifici, reti ferroviarie e telefoniche, robot industriali; questi continuano certo a ricavare profitti dal lavoro salariato, ma non sono più al comando come un tempo e il loro posto è stato preso dai proprietari dei feudi cloud e dalle loro piattaforme, da cui i capitalisti produttori di merci e sevizi, ormai, dipendono quasi completamente.
Naturalmente, come la vecchia classe dominante, anche Amazon, Facebook, Apple e Google investono nella ricerca e nell’innovazione, in politica, in marketing, in tattiche antisindacali etc., ma lo fanno non per vendere merci per il massimo profitto, come nel vecchio capitalismo, ma al fine di riscuotere le rendite più alte dagli utenti e dai capitalisti che producono: “Immagina la scena seguente come uscita da un libro di fantascienza.” ci suggerisce Varoufakis; “Vieni teletrasportato in una città piena di persone che si occupano dei loro affari, commerciano in gadget, scarpe, libri, canzoni, giochi e film. All’inizio, tutto sembra normale. Fino a che non inizi a notare qualcosa di strano. Salta fuori che tutti i negozi, in realtà ogni edificio, appartengono a un tizio di nome Jeff. Può non essere il proprietario delle fabbriche che producono la merce in vendita nei suoi negozi, ma possiede un algoritmo che incassa una quota per ogni vendita e lui decide cosa può essere venduto e cosa no”. “In realtà” continua “è addirittura peggio rispetto a un mercato totalmente monopolizzato – lì, almeno, i compratori possono parlare tra loro, formare associazioni, magari organizzare un boicottaggio dei consumatori per costringere il monopolista a ridurre il prezzo o migliorare la qualità. Non vale lo stesso nel regno di Jeff, dove tutto e tutti sono intermediati non dalla disinteressata mano invisibile del mercato, ma da un algoritmo che lavora per il risultato di bilancio di Jeff e balla esclusivamente al ritmo della sua musica.” Ma questa trasformazione epocale ha davvero una qualche importanza per le nostre vite? Certamente, risponde Varoufakis; riconoscere che il nostro mondo è diventato tecnofeudale ci aiuta a risolvere piccoli e grandi rompicapi: dalla sfuggente rivoluzione delle energie rinnovabili, alla decisione di Elon Musk di comprare Twitter, alla nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, fino al modo in cui la guerra in Ucraina sta minacciando il regno del dollaro. Ma anche la grande inflazione e la crisi del costo della vita che sono seguite alla pandemia non possono essere comprese adeguatamente al di fuori di questo contesto.
In generale, come era prevedibile, possiamo dire che l’incredibile ritorno delle rendite dal passato pre – capitalista ha significato solamente una stagnazione ancora più grave e più tossica: “Gli stipendi vengono spesi dalla maggioranza che lotta per arrivare a fine mese. I profitti vengono investiti in beni capitali per mantenere la capacità di profitto dei capitalisti” afferma Varoufakis, “ma la rendita viene accumulata in proprietà (ville, yacht, opere d’arte, criptovalute ecc.) e si rifiuta ostinatamente di entrare in circolazione, di stimolare gli investimenti in beni utili e di rivitalizzare le flaccide società capitalistiche. E quindi inizia un circolo vizioso: ne consegue una stagnazione più profonda, che induce le banche centrali a stampare più moneta, consentendo più estrazione e meno investimenti, e così via.” Insomma: secondo l’economista greco, il tecnofeudalesimo sta aggravando le fonti di instabilità preesistente trasformandole in ancor più gravi minacce esistenziali. In questa puntata parleremo del modo in cui, secondo Varoufakis, le big tech in questi anni hanno conquistato le redini economiche del mondo occidentale, di come noi ci siamo ridotti ad essere delle specie di servi della gleba dei feudi digitali e di quanto questo condizioni la politica interna ed estera delle nazioni.
Centinaia di racconti, film e serie tv di fantascienza dipingono un mondo distopico in cui è avvenuta la cosiddetta singolarità, il momento in cui una macchina, o una rete di macchine, acquisisce una coscienza; a quel punto, di solito, le macchine calcolano che non siamo adatti ai loro scopi e decidono di eliminarci o ridurci in schiavitù. Il problema con questa narrazione è che, enfatizzando una minaccia non esistente, ci ha lasciato esposti a un pericolo molto più reale: i programmi come Alexa o ChatGPT sono infatti ben lontani dalla temuta singolarità e nel frattempo, invece, in combutta con il modo in cui le banche centrali e i governi hanno agito a partire dal 2008 (e, cioè, la più grande crisi finanziaria di sempre), i proprietari di internet sono diventati in parte i proprietari delle nostre economie e hanno rivoluzionato il mondo adattandolo ai propri scopi; come spesso è accaduto nella storia, una nuova e magnifica scoperta tecnologica, internet, ha generato una nuova forma di capitale, le piattaforme private del cloud, che vengono sfruttate da una nuova classe rivoluzionaria che mira a prendere il potere.

Nel suo libro Tecnofeudalesimo, Yanis Varoufakis ci racconta la storia di come tutto questo sia potuto accadere: il primo internet era una zona libera dal capitalismo; era una rete centralizzata, statale, non commerciale. Allo stesso tempo, possedeva elementi di liberalismo primigenio, quasi di anarco – sindacalismo, riflette Varoufakis: una rete senza gerarchia basata su un processo decisionale orizzontale e sullo scambio reciproco di doni, non scambi di mercato. In un quarto di secolo le cose sono, però, radicalmente cambiate e la nostra esperienza quotidiana di internet è oramai filtrata e controllata attraverso piattaforme private che ne hanno sostanzialmente assunto il controllo; nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, il potere di comando venne trasferito dai proprietari terrieri ai proprietari dei mezzi di produzione dell’industria e, affinché questo avvenisse, i contadini dovettero prima perdere l’accesso autonomo ai terreni comuni (il fenomeno delle cosiddette enclosure); allo stesso modo, nell’universo neoliberale che ha in odio tutto ciò che è comune e in cui gli algoritmi erano già diventati le ancelle dei finanzieri, il libero accesso a internet è stato sostanzialmente trasformato in una macchina da soldi per pochi tecnofeudatari. Nel XVIII secolo, con le enclosures originali, per spingere le masse tra le braccia dei capitalisti fu negato l’accesso ai terreni comuni; nel XXI secolo non si è trattato dell’accesso alla terra, ma si è trattato dell’accesso alla nostra stessa identità digitale.
La nostra identità digitale, infatti, non appartiene più né a noi né allo Stato: “Disseminata in innumerevoli regni digitali di proprietà privata, ha molti proprietari, nessuno dei quali siamo noi: una banca privata possiede i tuoi codici di identificazione e tutto il tuo registro di acquisti. Facebook ha un’intima dimestichezza con chi – e cosa – ti piace” scrive Varoufakis; “Apple e Google sanno meglio di te che cosa guardi, leggi, compri, chi incontri, quando e dove. Spotify possiede un registro delle tue preferenze musicali più completo di quello immagazzinato nella tua memoria cosciente.” E dietro di loro ce ne sono un’infinità di altri invisibili che raccolgono, monitorano, setacciano e scambiano le tue attività per ottenere informazioni su di te; ogni giorno che passa, una società basata sul cloud di cui non ti interesserà mai conoscere i proprietari, possiede un altro aspetto della tua identità. Nel mondo di internet due quindi, modellato dalle nuove enclosures, sei costretto a cedere la tua identità a una parte del regno digitale che è stata recintata, come ad esempio Uber o Glovo o qualche altra società privata: quando richiedi una corsa per l’aeroporto o ordini una pizza, il loro algoritmo manda un autista di sua scelta con l’obiettivo di massimizzare il valore di scambio che la società proprietaria dell’algoritmo estrae sia da te che dal conducente. Queste nuove enclosures hanno permesso il saccheggio dei beni comuni digitali che ha reso possibile l’incredibile ascesa del capitale cloud; ma è questo quello che rende il capitale cloud così fondamentalmente nuovo, diverso e inquietante. Il capitale è stato finora riprodotto all’interno di un mercato del lavoro – all’interno della fabbrica, dell’ufficio, del magazzino; sono stati i lavoratori salariati, aiutati dalle macchine, che hanno prodotto la merce che è stata venduta per generare profitto, che a sua volta ha finanziato le loro paghe e la produzione di più macchine; è così che il capitale si accumulava e riproduceva. Il capitale cloud, al contrario, può riprodurre sé stesso in modi che non coinvolgono alcun lavoro salariato, imponendo a quasi tutta l’umanità di partecipare alla sua riproduzione gratuitamente. “Pensa a ciò da cui è costituito il capitale cloud” riflette Varoufakis: “software intelligenti, server farms, torri cellulari, migliaia di chilometri di fibra ottica. Eppure tutto questo non avrebbe valore senza contenuti. La parte più preziosa dello stock di capitale cloud non sono le sue componenti fisiche ma piuttosto le storie postate su Facebook, i video caricati su TikTok e YouTube, le foto su Instagram, le battute e gli insulti su Twitter, le recensioni su Amazon o, semplicemente, il nostro movimento nello spazio, che permette ai nostri telefoni di segnalare a Google Maps l’ultima situazione del traffico.” Nel fornire queste storie, video, foto, movimenti, siamo noi che produciamo e riproduciamo – al di fuori di qualsiasi mercato – lo stock di capitale cloud”.
Per fare ancora degli esempi di come funzionano i tecnofeudi, Varoufakis ne ricostruisce la genesi e la storia: come sappiamo tutti, quello che ha fatto fare la svolta ad Apple e l’ha trasformata in un’azienda da triliardi di dollari è stato l’iPhone; e questo non solo perché era un ottimo cellulare, ma anche perché ha consegnato ad Apple le chiavi per uno scrigno del tesoro totalmente nuovo – la rendita del cloud. Il colpo di genio che ha sbloccato la rendita del cloud per Steve Jobs è stata la sua idea rivoluzionaria di invitare “sviluppatori terzi/esterni” a utilizzare il software Apple gratuitamente e creare così applicazioni da mettere in vendita tramite l’Apple Store. In un colpo solo Apple aveva creato un esercito di lavoratori non retribuiti e vassalli capitalisti il cui duro lavoro ha prodotto una serie di funzionalità disponibili esclusivamente per i possessori di iPhone sotto forma di migliaia di app desiderabili che gli ingegneri di Apple non avrebbero mai potuto produrre da soli in una simile varietà e quantità; improvvisamente, un iPhone era diventato molto più di un telefono accattivante: era un biglietto di accesso a una vasta area di piaceri e poteri che nessun altro produttore di smartphone poteva fornire. Anche se un concorrente di Apple come Nokia, Sony o Blackberry fosse riuscito a rispondere rapidamente producendo un telefono più intelligente, più veloce, più economico e più bello, non sarebbe importato, afferma Varoufakis. Solo un iPhone, infatti, spalanca i cancelli dell’Apple Store: “Per essere competitivi, gli sviluppatori non pagati di Apple, essenzialmente partnership o piccole società capitaliste, non avevano altra scelta che operare attraverso l’Apple Store. Il prezzo? Un 30% di rendita a lungo termine, pagata a Apple su tutti i loro ricavi. Così una classe di vassalli capitalisti sorse dal terreno fertile del primo feudo cloud: l’Apple Store.”
Solo un’altra multinazionale è riuscita a convincere una considerevole porzione di quegli sviluppatori a creare app per il proprio store: Google; molto prima dell’arrivo dell’iPhone, il motore di ricerca di Google era diventato il fulcro di un impero cloud che comprendeva Gmail e YouTube e che, in seguito, avrebbe aggiunto Google Drive, Google Maps e una serie di altri servizi online. “Desiderosa di sfruttare il proprio capitale cloud già dominante, Google ha seguito una strategia diversa da quella di Apple” scrive Varoufakis: “Anziché produrre un cellulare in competizione con l’iPhone, ha sviluppato Android – un sistema operativo che poteva essere installato gratis sugli smartphone di qualsiasi costruttore, compresi Sony, Blackberry e Nokia, che hanno scelto di utilizzarlo.” È così che Google ha creato Google Play, l’unica alternativa seria all’Apple Store; il risultato è stato un’industria globale degli smartphone con due corporation dominanti- Apple e Google – con la maggior parte della loro ricchezza prodotta da sviluppatori terzi non retribuiti dalle cui vendite estraggono una quota fissa: questo non è profitto. È rendita cloud, l’equivalente digitale della rendita fondiaria. Nel frattempo, mentre Amazon stava intrappolando i creatori di prodotti fisici all’interno del suo feudo cloud, altre aziende hanno inglobato nei loro feudi cloud una vasta gamma di autisti, addetti alle consegne, addetti alle pulizie, ristoratori – perfino dog sitter – riscuotendo anche da questi lavoratori non retribuiti e a cottimo una quota fissa dei loro guadagni; in un tweet rivelatore, Elon Musk ha ammesso la sua ambizione di trasformare Twitter in una app di tutto: cosa intendeva con “app di tutto”? “Non intendeva niente di meno che una porta di accesso al tecnofeudalesimo, che gli permetterebbe di attirare l’attenzione degli utenti, modificare il loro comportamento di consumatori, ottenere manodopera gratis da loro come servi della gleba del cloud e, dulcis in fundo, far pagare ai venditori la rendita del cloud per vendere i loro prodotti.”

Elon Musk

La storia dell’ascesa del capitale cloud comincia sulla scia del crollo del 2008, quando il denaro di Stato ha iniziato a essere stampato in grande quantità dalle banche centrali di tutto il mondo; nei quindici anni successivi i banchieri centrali hanno stampato denaro e lo hanno convogliato ai finanzieri, di loro spontanea volontà: a loro avviso, hanno salvato il capitalismo. In realtà, lo hanno stravolto, contribuendo a finanziare l’emergere del capitale cloud: “Questa specie di socialismo a favore dei finanzieri” come lo chiama Varoufakis “fece sorgere un altro agglomerato di sovrani della finanza in combutta con cloudalisti; le tre aziende statunitensi BlackRock, Vanguard e State Street che oggi, di fatto, posseggono il capitalismo americano. Queste comprendono le maggiori compagnie aeree americane (American, Delta, United Continental), gran parte di Wall Street (JPMorgan Chase, Wells Fargo, Bank of America, Citigroup) e produttori di automobili come Ford e General Motors.” Inoltre, i Big Three sono anche i maggiori azionisti di quasi il 90% delle aziende quotate alla Borsa di New York, comprese Apple, Microsoft, ExxonMobil, General Electric e Coca-Cola. Per dare un senso a questi numeri: gestiscono un patrimonio che equivale al reddito nazionale degli Stati Uniti, o alla somma dei redditi nazionali di Cina e Giappone; da allora, l’ascesa al potere finanziario supremo è stata quasi ineluttabile e, ora che sono lì, i Big Three godono di due vantaggi insormontabili: un potere monopolistico senza precedenti su interi settori – dalle compagnie aeree e bancarie all’energia – e alla Silicon Valley.
Ma è durante la pandemia che, secondo Varoufakis, il passaggio al tecnofeudalesimo è stato completo: “Mentre l’economia degli Stati Uniti perdeva 30 milioni di posti di lavoro in un solo mese, Amazon andò in controtendenza, apparendo agli occhi di una fetta di americani” scrive Varoufakis “come un ibrido tra la Croce Rossa, che consegnava beni di prima necessità ai cittadini confinati, e il New Deal di Roosevelt, con l’assunzione di 100.000 dipendenti in più e il pagamento di un paio di dollari in più all’ora.” Vero, le big tech hanno investito il denaro delle banche centrali e questo ha creato posti di lavoro, ma i lavori che hanno creato erano quelli del proletariato del cloud e gli investimenti erano atti a incrementare il loro capitale cloud.
Nella seconda parte di questa analisi del testo di Varoufakis vedremo in che modo il tecnofeudalesimo stia distruggendo la democrazia, il modo in cui sta influenzando la guerra fredda tra Usa e Cina, il diverso modo in cui il governo di Pechino si rapporta alle piattaforme online e le possibili soluzioni che Varoufakis prospetta per cambiare questo stato di cose. Nel frattempo, se anche tu credi che i nuovi tecnofeudatari dovrebbero fare la stesse fine dei vecchi signori feudali, aiutaci a costruire un media completamente libero e indipendente che rappresenti il 99 per cento e che combatta il loro potere e la loro avidità. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elon Musk

ADDIO CONTRO-INFORMAZIONE!! Ecco come META vuole CENSURARE la politica dai SOCIAL

L’annuncio è stato lanciato nei giorni scorsi come se niente fosse, come se si trattasse di robetta da nulla, ma si tratta in verità di una svolta storica nel mondo dei social e della libera informazione: stando alle dichiarazioni ufficiali del capo di Instagram Adam Mosseri, Instagram, Threads e Facebook, – le piattaforme che fanno capo al gruppo Meta limiteranno fortemente la diffusione di contenuti politici sulle proprie piattaforme; non solo i post politici non compariranno più nelle sezioni Esplora e Reels e le pagine che li pubblicano non verranno più suggerite nel Feed, ma gli account che postano contenuti prevalentemente politici rischiano di essere cancellati per sempre. In questo modo, decine di migliaia di associazioni e di canali di informazione indipendente – come Ottolina Tv – rischiano di scomparire per sempre costringendo le persone ad informarsi solo attraverso i media ufficiali, nel frattempo sempre più controllati da un ristrettissimo numero di editori di regime e fondi di investimento. E le giustificazioni date da Mosseri per salvarsi la faccia e non dichiarare apertamente il proprio collaborazionismo con il potere dominante, sono state ridicole: in pratica, ha sostenuto di farlo per il nostro bene adducendo le solite motivazioni paternalistiche sulla trasparenza e sulla migliore esperienza utente; in verità, la decisione sembra soprattutto riconducibile ad una fase politica dove la realtà non fa che sbugiardare continuamente in modo plateale le narrazioni ufficiali e, per evitare la minaccia di un risveglio collettivo, bisogna sempre di più stringere i cordoni della libera circolazione delle idee.

Adam Mosseri

Fino ad oggi, la soluzione adottata delle piattaforme era – banalmente – quella del rincoglionimento di massa attraverso la promozione seriale di contenuti stupidi, alternata all’iperinformazione, che impedisce di distinguere tra dati veri e fasulli e, quindi, di mettere in fila i puntini; ciononostante, proprio a causa del divario sempre più profondo tra narrazione ufficiale e vita vissuta, nel tempo la realtà è riuscita comunque a emergere anche nelle bacheche dei social, come ad esempio sta accadendo in modo eclatante con il genocidio di Gaza. Ecco, allora, perché Meta ha deciso di tagliare la testa al toro: le piattaforme avranno esclusivamente il compito di aumentare i nostri deficit cognitivi e la politica sarà tenuta rigorosamente alla larga; d’altronde, è una vera e propria emergenza. Il 2024, infatti, per gli interessi dell’impero dei doppi standard e delle ex democrazie – ormai anche ex liberali – sarà un anno decisivo: nei prossimi mesi andranno al voto quasi 3 miliardi di persone in quasi 80 paesi e come produrre consenso per le forze politiche amiche di Washington, prima, e presentare al pubblico i risultati delle urne poi, sarà una questione di vitale importanza. Le informazioni date da Mosseri sono ancora poche e confuse e Meta deve ancora chiarire esattamente quando e in che modo questa censura mascherata verrà messa in atto, ma quel che appare sicuro è che il processo – che va avanti da anni – di restringimento degli spazi della libera informazione sta subendo una fortissima accelerata, in maniera direttamente proporzionale alla caduta del consenso popolare per i regimi neoliberisti e americanocentrici.
I liberali, con meno senso del pudore, giustificano questa ennesima torsione autoritaria con la scusa che, alla fine, parliamo di piattaforme private e che quindi hanno tutto il diritto di fare un po’ quello che vogliono, ma come spiega in modo magistrale Yannis Varoufakis nel suo libro “Tecno – feudalesimo”, i gestori di queste sono gestori di un monopolio naturale, di una tecnologia pubblica; sostenere che ci possano fare cosa vogliono è un po’ come dire che quando una multinazionale gestisce la nostra rete idrica, ha – in fondo – tutto il diritto di metterci dentro anche il cianuro: insomma, una questione che non ha veramente nulla di privato e che ha, invece, molto a che fare con la trasformazione sempre più rapida delle società occidentali in una sorta di regimi oligarchici neo – feudali. Nella puntata di oggi approfondiremo le parole di Mosseri, cercheremo di capire tutte le conseguenze che questa nuova forma di censura 2.0 potrà avere sulle nostre vite e di come tutto questo si colleghi ai caratteri del nuovo capitalismo tecnofeudale descritto da Varoufakis.
Meta sta soffocando le voci a sostegno dei palestinesi di Gaza, in un momento in cui subiscono sofferenze indicibili e avrebbero più bisogno del sostegno internazionale: così dichiarava Deborah Brown, direttrice associata per il settore Tecnologia e diritti umani di Human Rights Watch, a conclusione di un’indagine e di un rapporto di 51 pagine pubblicato dall’associazione, e non è certo la prima volta che le piattaforme vengono accusate di censura sistematica e collaborazionismo con l’agenda politica dei più potenti tra i gruppi di potere americani. Da dieci anni, ormai, i social sono nell’occhio del ciclone per l’influenza diretta o indiretta che esercitano sulla politica; Facebook, in particolare, ha dovuto affrontare processi mediatici – e non solo – riguardo alla profilazione degli utenti, agli algoritmi che favorirebbero la disinformazione, all’hate speech, alle cosiddette filter bubbles e alla censura intenzionale dell’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, bandito per due anni dalle piattaforme di Meta: il bavaglio a Trump, in particolare, ha intensificato notevolmente le pressioni politiche su Zuckerberg e compagni, accusati di indebita ingerenza sui meccanismi democratici. Insomma: da una parte la politica occidentale diventa sempre più insofferente alla libertà di espressione e informazione e si inventa parole come Hate speech, Fake news e incitamento all’odio e al terrorismo per limitarla il più possibile, dall’altra i proprietari dei social network si sono stancati di resistere a tutte queste pressioni dall’alto e, visto l’annuncio di Mosseri degli scorsi giorni, pur di evitare altri scandali e tagliare la testa al toro hanno preferito semplicemente chiudere gli spazi di discussione, lasciandoci la libertà di vedere 1000 reel al giorno di gente che si tuffa dagli scogli o di vecchi che giocano a paddle, ma non quella di farci una libera opinione su quello che riguarda le nostre vite e il nostro futuro.

Mark Zuckerberg

Pur essendo piattaforme private, anche in Italia i social network hanno assunto un ruolo pubblico fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica; dopo la televisione, per il 42% degli italiani i social sono la fonte primaria di informazione: tra questi, Facebook e Instagram risultano le due fonti preferite, rispettivamente, per il 44% e il 20% degli utenti: questi dati, da soli, danno la misura dell’importanza di Meta nella produzione del consenso e dovrebbero scoraggiare ogni tentativo di minimizzare la portata del mutamento in atto. Mosseri ha tentato di gettare acqua sul fuoco assicurando che i post politici verranno comunque mostrati sul Feed degli utenti che già seguono la pagina, ma questo non è molto rassicurante: quel che Mosseri dimentica di dire, infatti, è che già oggi l’utente medio si perde il 70% dei contenuti del Feed, ovvero i contenuti pubblicati dagli account che segue; ciò significa che una pagina politica, probabilmente, non riuscirà a raggiungere i propri follower neanche lì. Come scrive Laurent Ferrante in un articolo de La Fionda “Considerato che l’algoritmo di Instagram cerca attivamente di distogliere gli utenti dal proprio Feed – suggerendo contenuti ad alto potenziale di distrazione cuciti sui nostri gusti personali – e che la maggior parte di queste esche sono Reel che portano dritti alla sezione interdetta alla politica, il quadro si fa decisamente tetro.” Non è ancora chiaro, poi, se verranno bersagliati i singoli contenuti o gli account e se ci sarà un certo numero di contenuti “politici” tollerati prima di censurare un intero profilo; certo, Meta avrà buon gioco a dire che a nessuno viene impedito di pubblicare nulla, ma questo è vero solo perché la censura non si abbatte sul messaggio, quanto sulla sua distribuzione: insomma, su Facebook e Instagram potrai sempre dire ciò che vuoi purché nessuno ti senta, e a subire tutto questo saranno, come sempre, le realtà più deboli e con meno intrecci con il potere, perché se è vero che anche la sorte dei giornali tradizionali e politici di professione sulle piattaforme potrebbe essere segnata, si apre – in verità – l’inquietante ma più che verosimile scenario che costoro, pagando magari decine di migliaia di euro per comprarsi account esclusivi, supereranno il blocco.
Quello che è sicuro è che ad essere colpite a morte saranno le centinaia di migliaia di pagine di attivisti, associazioni e canali di informazione indipendenti come il nostro che, non avendo il culo parato e altri spazi di visibilità, semplicemente rischiano di scomparire: “I social non sono solo una porta di accesso all’informazione” scrive Ferrante “ma un luogo in cui i movimenti di opinione si formano, crescono e tentano di raggiungere la massa critica. Uno spazio che senz’altro non è mai stato completamente libero ma che offriva ancora notevoli opportunità di aggregazione e costruzione del consenso dal basso. Un’opportunità vitale per tutti i movimenti militanti e contro – culturali che tentano di sfidare il pensiero unico dominante, come anche per i piccoli partiti ignorati dalla stampa.” E, paradosso dei paradossi, dietro la maschera sempre inclusive e friendly che presenta al pubblico, Meta sta infatti compiendo un’operazione che non potrebbe essere più politica, ossia decidere sulla base di parole e argomenti cosa è politico e cosa non lo è, ciò che si può dire e ciò che non si può dire, chi ha diritto di parlare di un tema e chi invece no; il tutto, ovviamente, riflette Ferrante, da quella prospettiva tecnocratica – e quindi falsamente neutrale – che tanto bene abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni. Attualizzando, possiamo già immaginarci una roba tipo: post di commemorazione delle vittime del 7 ottobre va bene perché non è politica; attivista ONU che parla delle migliaia di bambini palestinesi morti sotto le bombe non va bene perché è politica; la moglie di Navalnij che piange il marito morto e chiede giustizia non è politica; Human’s Rights Watch che si lamenta delle condizioni di Assange in carcere è politica.
Abbiamo come l’impressione che i casi di ipocrisia e doppi standard occidentali potrebbero subire una tale impennata che persino Carlo Calenda potrebbe decidersi ad aderire alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV, anche perché sia chiaro: una definizione univoca di cosa sia politica e cosa non lo è non esiste e non è mai esistita. Anzi, è da più di 3 mila anni che l’umanità – con i suoi più grandi filosofi e scienziati – la sta cercando senza successo, ma Adam Mosseri, Head in chief di Instagram, ha sostanzialmente dichiarato di aver sciolto questo enigma. E se è vero che, in linea teorica, si tratta di aziende private che possono legittimamente decidere a quali contenuti dare priorità, è anche vero che oggi una manciata di attori privati controlla le vie di accesso alle informazioni online di miliardi di persone esercitando un potere di influenza enorme sulla libertà di espressione e di informazione; questa situazione è stata finalmente riconosciuta dall’Unione Europea con l’approvazione nel 2022 e l’applicazione nel 2024 di due regolamenti: il Digital Services Act e il Digital Markets Act, che inquadrano le responsabilità pubbliche delle piattaforme online; Meta, Google, Apple, TikTok, Microsoft e Amazon sono stati riconosciuti come gatekeeper, ovvero custodi delle chiavi delle attività online e, come tali, sono stati costretti ad assicurare una serie di servizi/diritti ai propri utenti, tra cui “il diritto alla libertà di espressione e di informazione”. Come scrive Ferrante: “All’interno di questo quadro giuridico, non sarebbe impensabile immaginare un intervento degli Stati o delle istituzioni europee per impedire ai gatekeeper di comprimere la libertà di espressione e di informazione e la libertà dei media e il loro pluralismo”, ma è molto più probabile che, in ossequio alla proverbiale ipocrisia e servilismo delle istituzioni europee, ad essere tutelate saranno solo le posizioni politiche collaborazioniste con l’occupante americano e, in generale, amiche dello status quo.
Il tecnofeudalesimo di cui parla Varoufakis, insomma – e che approfondiremo sicuramente in un video a parte – è già realtà: sempre meno proprietari di spazi digitali, sempre più ricchi, che governano insieme al governo di turno una plebe sempre meno informata, povera, rincoglionita e priva di potere politico; il potere tecnofeudale a guida americana vorrebbe farci scomparire e la censura 2.0 potrebbe presto abbattersi (più di quanto già non faccia) sulla nostra pagina e su tutti i nostri contenuti. Per sopravvivere, abbiamo bisogno del tuo aiuto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Adam Mosseri

META ha davvero deciso di CENSURARE TUTTO? ft Laurent FERRANTE | Live martedì 20 febbraio ore 13.30

Meta ha deciso di dare un taglio drastico ai contenuti politici (salvo poi ritrovarci le bacheche inondate di spot partitici durante le campagne elettorali…). Non è una novità: sia noi che altri media indipendenti hanno visto crollare il numero di utenti raggiunti sulle piattaforme social più conosciute ed utilizzate.

Meta si giustifica con nuove politiche di engagement, di distribuzione dei contenuti e rispetto di linee guida. Ma davvero possiamo considerare le piattaforme social sono un’affare “privato”? Ne parliamo martedì 20 febbraio alle 13.30 con Laurent Ferrante de “La fionda”.

IL GRANDE MONOPOLIO DEI MEDIA – Come hanno cercato di lavarci il cervello e come, forse, hanno fallito

Non più di 20 anni fa, negli USA si era scatenata una gigantesca polemica sul fatto che l’intera industria dei media fosse ormai diventata un monopolio; a partire dagli anni del governo Reagan, una gigantesca ondata di liberalizzazioni, come sempre, invece che a più mercato e più concorrenza aveva portato a una gigantesca ondata di fusioni ed acquisizioni: nel 1989 era stato il turno della fusione tra Sony e Columbia Pictures; nel 1990 della fusione tra Time e Warner che, sei anni dopo, si erano comprati pure la Turner Broadcasting – che è l’editore della CNN – e, nel 2004, c’era stata la fusione tra la NBC e la Universal Studios. E così, alla fine dei giochi, 6 soli gruppi controllavano sostanzialmente tutta l’industria cinematografica e televisiva statunitense e, quindi, buona parte di quella globale – quelli che noi definiamo i mezzi di produzione del consenso.
“Uno scandalo” tuonavano gli esperti del settore più critici; “La fine della democrazia” rilanciavano i più catastrofisti: visti da oggi, in realtà, erano “Bei vecchi tempi” come titola il suo speciale, questo mese, The Nation. Oggi infatti – sottolinea il titolo – “a dominare il business dei media” le aziende rimaste sono soltanto 2 e gli azionisti di entrambe sono esattamente gli stessi. Indovinati quali? Ovviamente Vanguard, BlackRock e State Street; le due aziende in questione, ovviamente, sono Netflix e Disney – i padroni assoluti dell’immaginario dell’intera popolazione mondiale.
E non è stato l’unico processo di concentrazione feroce dei mezzi di produzione del consenso a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni: per ripercorrere la storia, sempre The Nation riparte addirittura dal 1883 “quando”, scrive Zephyr Teachout della Fordham University, “furono gettati i semi della stampa popolare che definì il giornalismo americano per gran parte della vita del paese”; il riferimento è alla comparsa per la prima volta per le strade di New York di The Sun che, ricorda la Teachout, “costava appena un centesimo, e a differenza dei grandi giornali finanziari, che stavano in piedi economicamente grazie agli abbonamenti, aveva la sua principale fonte di entrate nella pubblicità”. “Per i 180 anni successivi” sottolinea la Teachout “questa formula fu replicata per migliaia di testate locali in giro per tutto il paese”, nessuna delle quali era in grado di esercitare un’influenza significativa oltre il suo ristretto angolo di paese. A partire dai primi anni 2000, invece, “Le società di social media, guidate da Facebook e Google, hanno iniziato ad acquisire aziende tecnologiche al ritmo di una la settimana. E si sono create così un ecosistema digitale dove chiunque volesse seguire le notizie doveva passare da loro”; fino ad arrivare al 2017, quando Facebook e Google, da sole, si sono intascate il 99% – ripeto, il 99% – delle entrate pubblicitarie dell’intero internet mentre, nel frattempo, il personale impiegato dalle testate giornalistiche USA passava dai 365 mila del 2005 a poco meno di 100 mila oggi (che uno potrebbe anche dire ma saranno un po’ stracazzi degli americani). Purtroppo però, ovviamente, non è così semplice, e non solo perché se gli americani si riempiono la testa di stronzate poi a pagare il conto siamo anche noi, ma perché se siamo una colonia da tanti punti di vista, dal punto di vista dell’informazione e dell’ideologia siamo colonia al cubo.
Eppure, in questo schema distopico, c’è qualcosa che deve essere sfuggito di mano: nonostante la macchina propagandistica, ricorda The Free Press, “Secondo un sondaggio di Harvard, il 51% degli americani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ritiene che Hamas fosse giustificato negli attacchi terroristici del 7 ottobre contro i cittadini israeliani”. Com’è possibile? Semplice: basta “guardare cosa fa TikTok”.
A lanciare l’allarme è Mike Gallagher, un parlamentare repubblicano del Wisconsin ossessionato dalla Cina: “L’app” scrive “è Fentanyl digitale prodotto dalla Cina. E sta facendo il lavaggio del cervello ai nostri giovani contro il nostro Paese e i nostri alleati”. Avrà anche dei difetti? Sempre impegnati a perculare i protagonisti più improbabili della propaganda suprematista e analfoliberale di casa nostra, troppo spesso trascuriamo le perle che arrivano da oltreoceano, in quella patria del declino cognitivo dell’uomo bianco che sono gli Stati Uniti d’America; a questo giro, però, ne vale decisamente la pena.

Mike Gallagher

Lui si chiama Mike Gallagher: ha servito il paese in Iraq e in Siria tra le fila dell’intelligence militare e dopo aver contribuito attivamente alla disfatta militare degli USA ha deciso di contribuire anche a quella del Congresso. Nell’arco di due mandati ha sostenuto calorosamente tutti peggio deliri del trumpismo: dalla “mossa geopolitica geniale” di comprarsi la Groenlandia dalla Danimarca al permesso di attaccare l’Iran senza passare dal Congresso, passando per l’autorizzazione all’omicidio del generale Soleimani in Iraq; in politica estera, l’unica volta che si è opposto a Trump è quando The Donald ha deciso di ritirare le truppe dalla Siria. E la politica estera non è nemmeno il suo lato peggiore: Gallagher, infatti, ha votato contro l’aumento del salario minimo federale a 15 dollari, a favore dello smantellamento della legge che metteva un limite alle speculazioni delle banche che avevano portato alla crisi del 2008, e anche contro la proposta che avrebbe permesso al governo federale di negoziare con Big Pharma prezzi più ragionevoli per i farmaci finanziati attraverso il Medicare. E, da un paio di anni a questa parte, s’è fissato sulla Cina e su quel pericolo esistenziale che arriva dalla Cina e che si chiama TikTok; ed ecco così che quando è iniziata la guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza e qualcuno gli ha fatto notare che su TikTok giravano un sacco di contenuti pro Palestina, gli si è partito l’embolo e c’ha regalato questa perla di narrativa contemporanea, un vero classico dell’era della post verità: 8000 caratteri senza nemmeno un’informazione reale. Un record.
Il punto di partenza è quello che vi abbiamo già anticipato: il sondaggio di Harvard secondo il quale “il 51% degli americani di età compresa tra i 18 e i 24 anni ritiene che Hamas fosse giustificato nei suoi brutali attacchi terroristici contro innocenti cittadini israeliani il 7 ottobre”. “Ho letto quella statistica” scrive “in un momento in cui pensavo di aver perso la capacità di scioccarmi. Per settimane” sottolinea “avevo visto e letto le storie di prima mano che documentavano le atrocità di Hamas: corpi bruciati, bambini decapitati, donne violentate, bambini legati insieme ai loro genitori, cadaveri mutilati”: eppure, di fronte a questo fiume in piena di fake news, i giovani americani continuano a credere che, dopo 70 anni di occupazione militare, che tu sia un po’ incazzato è comprensibile. “Come siamo arrivati al punto in cui la maggioranza di giovani americani ha una visione del mondo così moralmente fallimentare?” si chiede Gallagher: “La risposta” scrive “si chiama TikTok”; “Oggi” sottolinea “TikTok è il principale motore di ricerca per più della metà della generazione Z ed è controllato dal principale avversario dell’America: il partito comunista cinese”. “Modificando l’algoritmo di TikTok” spiega Gallagher “il PCC può influenzare gli americani di tutte le età, può determinare quali fatti considerano accurati, e quali conclusioni traggono dagli eventi mondiali”; “Sappiamo per certo che il partito comunista cinese utilizza TikTok per promuovere la sua propaganda” continua. Insomma, “nella migliore delle ipotesi TikTok è uno spyware del partito comunista. Nella peggiore” conclude “è forse l’operazione di influenza maligna su larga scala mai condotta”.

Logo del Maligno

Ovviamente ognuno ha i suoi Maurizio Gasparri e questo potrebbe anche essere, semplicemente, il delirio di un ex soldato traumatizzato in stato confusionale; in realtà, però, questa narrazione che neanche i manifesti della DC degli anni ‘50 sui comunisti che mangiavano i bambini, è più credibile e diffusa di quanto si possa credere: come riporta FAIR, un osservatorio indipendente sui media statunitensi, dopo l’articolo di Gallagher si sono uniti al suo appello per la messa al bando immediata di TikTok la senatrice del Tennessee Marsha Blackburn, l’ex candidato alle primarie repubblicano Marco Rubio, il senatore repubblicano Josh Hawley e anche tutto il comitato di redazione del New York Post. C’è stato anche un gruppo di 90 altissimi dirigenti della Silicon Valley che ha firmato una lettera indirizzata all’amministratore delegato di TikTok dove chiedeva alla piattaforma di mettere un freno alla propaganda pro – palestinese e anti – israeliana.
La prova che TikTok spinga la causa palestinese? Per ogni video con hashtag #standwithisrael ce ne sarebbero addirittura 54 con, invece, hashtag filo – palestinesi, da #standwithpalestine a #freepalestine: il problema, però, è che i video su TikTok non li carica l’amministratore delegato di TikTok, immagino; li caricheranno gli utenti, credo. Quindi si fa un po’ fatica a capire concretamente di cosa stiano parlando.
Il punto è che non ci sono abituati: sono talmente abituati ad avere il pieno controllo dei messaggi che filtrano attraverso media e piattaforme che se c’è una piattaforma che non fa assolutamente niente per favorire una posizione piuttosto che un’altra, non gli torna; e se poi questa posizione non è esattamente quella che condividono tra loro a livello di una ristrettissima élite, gli va proprio in palla il cervello. Com’è possibile che abbiamo fatto di tutto per concentrare tutta l’industria dei media nelle mani di una manciata di attori – che poi fanno capo tutti a una manciata ancora più ristretta di azionisti – e ciononostante non solo c’è ancora tanta gente che la pensa diversamente da noi, ma addirittura c’è una piattaforma nella quale diventano addirittura maggioritari? Com’è possibile che, di fronte allo sterminio di una popolazione civile inerme sottoposta a un regime di apartheid da 70 anni, noi raccontiamo che – alla fine – si tratta semplicemente di diritto alla difesa e una bella fetta dei nostri giovani non ci crede? E c’ha anche un luogo dove dirlo apertamente? So’ delusioni, io li capisco eh? Il progetto distopico di concentrare i mezzi di produzione del consenso nelle mani di una manciata di soggetti è stato perseguito con tale fervore che rendersi conto che, dopo tutta quella fatica, non ha funzionato al 100% non deve essere semplice; forse, però, un po’ di responsabilità ce l’hanno anche loro, diciamo. Cioè, da un certo punto di vista sono stati geniali, diciamo: ci hanno riempito di sempre più contenuti tecnicamente ineccepibili che ci inchiodano davanti agli schermi a giornate e ci danno un’ottima alternativa all’utilizzo costruttivo delle nostre capacità cognitive e, in più, hanno concentrato la proprietà dei mezzi di produzione del consenso e dell’immaginario in pochissime mani, mettendosi al riparo dai rischi di qualsiasi forma di pluralismo. Però – ecco – forse si sono fatti prendere un po’ troppo la mano: le serie delle grandi piattaforme sono tutte uguali e, dopo un po’, fracassano i coglioni e il cinema – ormai – è diventato una barzelletta; come ricorda The Nation, alla fine degli anni 10, per 4 anni consecutivi, Disney s’è assicurata la bellezza del 33% del mercato USA con appena 10 nuovi titoli, 9 dei quali erano sequel di vecchi franchise. I primi 10 film al botteghino nel 2022 sono stati, di nuovo, tutti sequel e franchise e si sono pappati – da soli – oltre metà del botteghino USA.
Insomma: anche nell’intrattenimento (che, nel capitalismo, rappresenta lo strumento principale per il governo del consenso e l’appiattimento ideologico), il capitalismo più selvaggio – alla fine – oltre che essere disumano, è pure estremamente noioso; che una fetta sempre più consistente di supergiovani cerchino qualcosa di meno artefatto nei video apologetici sulla resistenza armata palestinese su TikTok, alla fine è abbastanza inevitabile. Piuttosto che sorbirsi l’ennesimo film di supereroi o l’ennesima serie woke su Netflix, c’è addirittura chi si guarda i video su Ottolina Tv; aiutaci a fornirgli sempre più materiale per uscire dalla bolla artificiale del monopolio dei media: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Walt Disney