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Tag: europa

La battaglia controegemonica sui social

La battaglia per un’informazione libera è una battaglia cruciale. Il vecchio soft power attraverso cui gli americani, a suon di film e serie Tv, hanno addomesticato e colonizzato le menti delle classi popolari europee, non sembra più bastare e stiamo tornando alla censura vecchio stile e, in generale, ad un controllo senza precedenti sul web e social media. Cosa possiamo fare per contrastare questa deriva? E quali mezzi alternativi abbiamo per cadere trappola della svolta neo-autoritaria? Con Lorna Toon, Alessandro Monchietto (Idee Sottosopra) e Francesco Mizzau (Poets & Sailors).

L’Europa in stand by attende ordini da Washington – ft. Danilo della Valle

Il voto all‘Europarlamento ha riconfermato Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione UE, mentre Kaja Kallas si prepara ad essere nominata Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Unione a sostituire il già pessimo Joseph Borrell. Il futuro degli organi europei, però, dovrà rispondere al vincolo esterno atlantista più che ai suoi cittadini: determinanti saranno le elezioni presidenziali a Washington il prossimo 5 novembre. Clara Statello e il Marru ne parlano con Danilo della Valle, europarlamentare del Movimento 5 Stelle.

La nuova guerra fredda contro Russia e Cina e la corsa alle armi globale – ft. Antonio Mazzeo

Gli USA schiereranno di nuovo gli Euromissili sul territorio europeo come strategia di deterrenza contro la Russia: il riarmo non interesserà solo due blocchi, ma anche le altre potenze challengers di Washington, prima fra tutti la Cina. Della nuova guerra fredda che si aggiunge ad una guerra calda di lunga durata, che la NATO combatte per procura contro Mosca, parliamo con il giornalista ed ecopacifista Antonio Mazzeo.

Il ritorno degli Euromissili in Germania avvicina l’armageddon nucleare

SM-6, Tomahawk, Dark Eagle, OpFires, PrSM: la lista delle nuove sigle da imparare è corposa, ma mi sa che ci toccherà cominciare a familiarizzarci un pochino. Quelli elencati sopra, infatti, sono i nomi in codice dei nuovi missili a raggio intermedio più o meno pronti a invadere la Germania e far precipitare definitivamente il vecchio continente nel conflitto aperto contro il gigante russo; lo hanno annunciato in un brevissimo comunicato congiunto i governi tedesco e statunitense mercoledì scorso, quasi come se niente fosse: “Gli Stati Uniti” si legge “inizieranno il dispiegamento episodico delle capacità di fuoco a lungo raggio della loro task force multi-dominio in Germania nel 2026, come parte della pianificazione per lo stazionamento duraturo di queste capacità in futuro. Una volta completamente sviluppate” continua la dichiarazione “queste unità convenzionali per il fuoco a lungo raggio includeranno” appunto “SM-6, Tomahawk e armi ipersoniche in via di sviluppo, che hanno una portata significativamente più lunga rispetto agli altri sistemi d’arma lanciati da terra attualmente presenti in Europa. L’esercizio di queste capacità” conclude la dichiarazione “dimostrerà l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della NATO e il suo contributo alla deterrenza integrata europea”. Insomma: bentornati Euromissili.

Sergey Ryabkov

A 5 anni dall’uscita unilaterale degli USA dal Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF per gli amici) che nel 1987 aveva messo fine a quella che probabilmente è stata la più pericolosa corsa al riarmo dell’intera storia dell’umanità, la guerra per procura provocata dagli USA in Ucraina contro la sicurezza nazionale russa e ogni velleità sovranista del vecchio continente fornisce la scusa perfetta per trasformarci, di nuovo, nell’avamposto della guerra imperialista contro ogni tentativo di emancipazione dei popoli dalla dittatura delle oligarchie finanziarie transnazionali: “Questa” ha commentato il viceministro degli esteri russo Sergey Ryabkov “è l’ennesima prova tangibile della politica di destabilizzazione intrapresa dagli USA nell’era post Trattato INF”; “Dopo che Washington ha deliberatamente distrutto il Trattato INF” ha ribadito Ryabkov “gli americani hanno chiaramente dichiarato la loro intenzione di posizionare armi precedentemente proibite dal trattato in diverse regioni del mondo. E con il sostegno incondizionato dei loro alleati, ora passano alla fase attiva dei loro piani”. Ryabkov ha poi sottolineato come, ovviamente, “Le azioni degli Stati Uniti e dei loro satelliti che creano ulteriori minacce missilistiche alla Russia non rimarranno senza la dovuta risposta da parte nostra” e ha ricordato come Putin abbia già parlato apertamente della necessità di “riconsiderare la moratoria unilaterale della Russia sullo schieramento di missili terrestri a raggio intermedio” che impegnava la Russia, almeno formalmente, a continuare a rispettare i parametri del trattato: “Le agenzie russe” ha continuato Ryabkov, sono state costrette ora a avviare “il lavoro sullo sviluppo di contromisure compensative, e continueranno questo lavoro in modo sistematico”; “La dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Germania” ha insisstito Ryabkov “avrà conseguenze distruttive per la sicurezza regionale e la stabilità strategica”, “ma purtroppo” ha concluso, era tutto ampiamente “previsto”. Per chi ancora si illude che il sempre più probabile cambio di guardia alla Casa Bianca il prossimo novembre potrebbe rappresentare una svolta nell’escalation bellicista di Washington e dei suoi vassalli, è bene ricordare che il ritiro unilaterale degli USA dal Trattato INF è stata proprio una scelta della prima amministrazione Trump; l’esigenza strutturale delle oligarchie USA di dichiarare guerra a chiunque anche solo accenni ad avanzare critiche alla dittatura globale del dollaro, delle differenze di narrazione utilizzate dalle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari, molto banalmente, se ne sbatte completamente i coglioni e continua a procedere con il pilota automatico qualunque sia il pupazzo temporaneamente elevato al ruolo di commander in chief.
Il ritorno ai missili a medio-lungo raggio precedentemente proibiti dal trattato stracciato da The Donald ha già un precedente: nell’aprile scorso, infatti, per la prima volta l’esercito statunitense aveva inviato all’estero elementi del suo nuovissimo sistema missilistico terrestre noto col nome di Typhon, in grado – appunto – di lanciare sia missili da crociera Tomahawk che missili multiuso SM-6; la destinazione, manco a dirlo, era stata The next Ukraine, la prossima Ucraina dell’Asia-Pacifico, la non tanto ex colonia USA delle Filippine. “L’arrivo di Typhoncommentava il 15 aprile The War Zone “invia un segnale forte a Pechino e in tutta la regione”; la corsa a riempire nuovamente il globo di sistemi d’attacco a medio e lungo raggio in grado di minacciare gli obiettivi sensibili delle grandi potenze ribelli del pianeta è talmente strategica che ha imposto una riorganizzazione complessiva delle forze armate USA, sintetizzata in un libro bianco pubblicato lo scorso 28 febbraio: al primo punto del piano c’è il completamento della creazione di 5 task force multi-dominio che dovranno includere unità di difesa aerea e missilistica nonché, appunto, “unità dotate di nuovi sistemi missilistici a lungo raggio, compresi quelli ipersonici”. “Per quasi vent’anni” sottolinea il libro bianco “la struttura delle forze dell’Esercito ha rispecchiato l’attenzione alle operazioni di contro-insurrezione e antiterrorismo che hanno dominato dopo gli attacchi dell’11 settembre… Ma alla luce del cambiamento del contesto di sicurezza e dell’evoluzione del carattere della guerra, l’Esercito si sta concentrando nuovamente sulla conduzione di operazioni di combattimento su larga scala contro potenze militari tecnologicamente avanzate”: il sistema Typhon inviato nelle Filippine è stato esattamente assegnato alla prima di queste task force; l’arrivo anche nel cuore del vecchio continente era, ovviamente, esclusivamente questione di tempo. Nel novembre del 2021 infatti, ben prima della fantomatica invasione dell’Ucraina da parte del plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino, l’esercito americano in Germania aveva ufficialmente riavviato il famigerato 56esimo comando di artiglieria; come ricostruisce The War Zone, si tratta dell’unità che, tra il 1963 e il 1991, aveva il mandato di comandare battaglioni armati con missili balistici con testate nucleari Pershing e Pershing II: L’esercito rilancia l’unità missilistica nucleare della Guerra Fredda per schierare nuove armi a lungo raggio in Europa, titolava allora la testata.

La base del comando ha il suo centro operativo a Mainz-Kastel, il castello di Magonza, dove appunto sta prendendo forma anche la seconda divisione multi-dominio dell’esercito e sin da subito è stato chiaro che, oltre ai sistemi Typhon, l’obiettivo era equipaggiarli con il Precision Strike Missile, l’ultimo arrivato della famiglia dei missili balistici e, soprattutto, con il Dark Eagle, l’arma ipersonica a lungo raggio che l’esercito sta sviluppando come parte di un programma congiunto con la marina americana; secondo The War Zone “La Dark Eagle dovrebbe essere in grado di colpire obiettivi ad almeno 1.725 miglia di distanza” che percorrerebbe “lungo una traiettoria di volo atmosferica, ad una velocità fino a Mach 17”. E la Germania è solo la punta dell’iceberg: tra i vari eventi secondari tenutesi durante l’ultimo Summit NATO, particolare rilevanza – anche se non da parte dei media mainstream – ha avuto il quadrilaterale tra Francia, Germania, Italia e Polonia durante il quale è stata firmata una lettera di intenti per lo sviluppo dell’ELSA, lo European Long Range Strike Approach, la risposta tutta europea al ritorno – appunto – al dispiegamento di missili a lungo raggio che mira a “sviluppare, produrre e fornire capacità nell’area degli attacchi a lungo raggio, che sono estremamente necessarie per scoraggiare e difendere il nostro continente”, come recita il thread su X pubblicato per l’occasione dall’ambasciata francese negli USA. Insomma: finalmente l’era post Trattato INF, inaugurata dal compagno Trump ben prima che la guerra per procura in Ucraina deflagrasse definitivamente, si sta concretizzando in una corsa al riarmo missilistico generalizzato nel vecchio continente e ora, come sottolinea The War Zone, rimane solo da attendere “di vedere esattamente che tipo di risposta arriverà dalla Russia”. A lanciare l’allarme, sempre interrogato da The War Zone, ci pensa Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project presso il think tank della FAS, la federazione degli scienziati americani, che sottolinea come “è inevitabile che la Russia reagisca con annunci sui propri missili a lungo raggio, compresi missili potenzialmente balistici”; l’idea, infatti, è che la reazione russa non preveda solo l’installazione di nuovi sistemi d’arma in grado di raggiungere i punti sensibili di tutto il vecchio continente, ma anche direttamente “obiettivi simili negli Stati Uniti” e “in questo caso, l’arma preferita sarebbero probabilmente i missili balistici intercontinentali con testate nucleari, potenzialmente multiple”: come sottolinea sul suo profilo X l’analista militare filo-atlantista Pavel Podvig “Se vi piacevano gli SS-20, amerete gli RS-26”.
Gli SS-20, appunto, sono i missili balistici sovietici a raggio intermedio che rappresentavano il cuore della deterrenza nucleare durante la Guerra Fredda, prima dell’entrata in vigore del Trattato INF che aveva acceso una luce di speranza decretandone la distruzione; l’RS-26, invece, è sostanzialmente il suo erede diretto: come ricorda sempre The War Zone “Il recente status dell’RS-26 è piuttosto poco chiaro, con rapporti risalenti al 2018 secondo i quali il programma sarebbe stato sospeso a favore di altre armi strategiche, comprese quelle ipersoniche”, ma “i recenti sviluppi potrebbero portare a un ripensamento”. “Un’arma del genere” conclude The War Zone “reintrodurrebbe nel teatro europeo una dinamica ben nota, con un missile balistico russo con capacità nucleare, la cui gittata è ottimizzata per colpire le capitali dell’Europa occidentale e obiettivi militari chiave. In questo modo, l’RS-26 potrebbe diventare un analogo dell’SS-20 e potrebbe avere lo stesso impatto sulla situazione di sicurezza strategica del continente”. E se questo bel quadretto non vi basta, eccovi la ciliegina: Robert C. O’Brien è stato uno dei più ascoltati consiglieri per la sicurezza nazionale della seconda parte dell’amministrazione Trump e tra gli architetti del ritiro unilaterale dal Trattato INF e dalle pagine di Foreign Affairs fa una proposta inquietante; “Si vis pacem, para bellum” – se vuoi la pace, preparati alla guerra – rilancia nell’incipit dell’articolo e, per prepararsi alla guerra, suggerisce che “Gli Stati Uniti devono mantenere la superiorità tecnica e numerica rispetto agli arsenali nucleari cinesi e russi combinati” e “per fare ciò, Washington deve testare l’affidabilità e la sicurezza delle nuove armi nucleari nel mondo reale per la prima volta dal 1992, non solo utilizzando modelli computerizzati”. “Un’idea terribile” ha commentato sul New York Times Ernest Moniz, che da segretario per l’energia durante l’amministrazione Obama aveva l’incarico di supervisionare l’arsenale nucleare a stelle e strisce: “Nuovi test ci renderebbero meno sicuri” avrebbe affermato, perché “Non possono essere separati dalle ripercussioni globali”; “Una detonazione statunitense” ricorda il Times “violerebbe il Trattato sul divieto totale degli esperimenti nucleari, a lungo considerato una delle misure di controllo degli armamenti di maggior successo. Firmato dalle potenze atomiche del mondo nel 1996, mirava a frenare una costosa corsa agli armamenti che era andata fuori controllo”.
Negli ultimi mesi mi sono scontrato spesso con persone che sostenevano che la certezza della mutua distruzione in caso di escalation nucleare continuava ad essere un deterrente sufficientemente potente da tenerci al sicuro; sarò catastrofista, ma mi sembra una gigantesca puttanata, il classico bias che ci impedisce di ragionare razionalmente su scenari eccessivamente catastrofici. Al contrario, a me sembra palese che, giorno dopo giorno, la necessità dell’impero fondato sul dollaro e sullo schema Ponzi della finanza speculativa di arrestare la transizione a un nuovo ordine multipolare renda verosimili anche gli scenari più catastrofici; se volete approfondire le ragioni profonde che ci hanno portato a questa lettura della fase che stiamo attraversando, abbiamo provato a ricostruirle in questo breve pamphlet che riassume oltre due anni del nostro sforzo quotidiano per orientarci tra – come dice sempre Xi Jinping – “trasformazioni che non vedevamo da 100 anni”. Secondo la nostra analisi, in realtà, l’unico modo per mettere al sicuro la sopravvivenza della nostra specie è cacciare a pedate (una volta per tutte) dai posti di comando tutti i fedeli servitori del partito unico della guerra e degli affari e, per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un vero e proprio media che smonti la retorica suprematista e guerrafondaia delle oligarchie e dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Quale è il piano USA? – Fondamenti della geopolitica americana

Gli Usa hanno ereditato dagli inglesi l’idea di essere l’unica nazione indispensabile al mondo con il compito di esportare la propria cultura e sfera di influenza in tutto il pianeta. Strategicamente, da quando sono diventati una superpotenza cercano in tutti i modi di impedire un’alleanza strutturale tra Europa Russia e Asia che gli toglierebbe il primato mondiale. Questi e altri aspetti fondamentali della cultura e geopolitica americana ci permettono forse di prevedere meglio le loro mosse e strategie future. Ne abbiamo parlato con Marco Ghisetti.

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L’Europa dichiara guerra commerciale alla Cina!

La Commissione europea ha annunciato che a partire da luglio aggiungerà provvisoriamente nuovi dazi per i veicoli elettrici cinesi, una mossa che da il via ad una guerra commerciale tra la Cina e l’Europa: in questo video partiamo dai dati per poi passare ad alcuni commenti e, infine, qualche cenno alla riunione dei ministri degli esteri dei BRICS che c’è stata questa settimana, nella quale si è discusso di una ulteriore espansione del blocco verso la Turchia e la Thailandia!

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La destra fintosovranista scatena la guerra commerciale per procura dell’Europa contro la Cina

Rassegna stramba in edizione speciale con l’amatissimo Dazibao (Davide Martinotti)

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Disastro G7: l’Europa a guida Meloni prende ordini da Biden e dichiara guerra a Russia, Cina ed Euro

Negli ultimi giorni ne sono successe di ogni: proviamo ad andare, più o meno, in ordine cronologico. Lunedì scorso l’Arabia Saudita ha ufficialmente messo fine all’accordo, siglato ormai ben 50 anni fa, con gli USA che, in cambio della protezione militare a stelle e strisce, le imponeva di prezzare e commerciare petrolio esclusivamente in dollari; abbandonata la convertibilità in oro su cui si era fondata la centralità del dollaro da Bretton Woods in poi, la nascita dei petrodollari era stata la principale garanzia che gli USA avrebbero potuto stampare denaro all’infinito – e tutti i problemi che questo creava potevano essere agilmente scaricati sul resto del mondo. L’emancipazione del mercato del petrolio dalla dittatura del dollaro era già in corso dal tempo, ma – fino ad oggi – era ostacolata da questo accordo e si fondava su vari sotterfugi; con questo ultimo atto formale, il processo di dedollarizzazione subisce un’accelerazione (anche simbolica) epocale e comincia a rivelarsi in tutta la sua irreversibilità. Mercoledì scorso, invece, la Commissione europea ha annunciato la sentenza preliminare a seguito dell’indagine sugli aiuti di stato cinesi all’industria dell’automotive elettrico e che prevede l’introduzione di dazi aggiuntivi fino al 38,1% sui veicoli elettrici cinesi importati a partire da luglio. Come denuncia il Global Times “Questa cosiddetta indagine si è fondata sin dal principio sulla presunzione di colpevolezza, ed è stata condotta con modalità che non rispettano le regole del WTO”; nonostante questo, “L’industria automobilistica cinese ha collaborato attivamente all’indagine”, ma “la parte europea ha scelto selettivamente le società campione, ha ampliato arbitrariamente la portata dell’indagine e ha gravemente distorto i suoi risultati”. Come si spiega tanta manipolazione, soprattutto visto che l’industria dell’auto europea si opponeva a questa conclusione? Semplice: come sapete, meno di un mese fa papà Biden aveva deciso di superare in protezionismo i toni della campagna elettorale di Trump e aveva inaspettatamente aumentato, di punto in bianco, le tariffe sui veicoli elettrici cinesi dal 25 al 100%; l’Europa senza sovranità e senza dignità ha messo il pilota automatico, ha recepito il messaggio e si è affrettata a fare altrettanto, con la differenza che negli USA, comunque, hanno il dollaro e finanziano la reindustrializzazione a suon di mille miliardi di nuovo debito ogni 100 giorni. Noi invece c’abbiamo l’euro. E l’austerity.
L’euro arretra a livello globale titolava ieri Milano Finanza: “Nel 2023” sottolineava l’articolo “le banche centrali hanno ridotto di 100 miliardi gli asset in moneta unica”. La notizia è particolarmente grave visto che, nonostante la crisi economica, la BCE ha mantenuto tassi di interesse altissimi; ovviamente, tassi di interesse alti dovrebbero attirare capitali e, invece, il capitale continua a migrare tutto contento verso il nostro carissimo alleato a stelle e strisce, che rilancia: come riportava, sempre ieri, il Financial Times infatti, “I funzionari della Federal Reserve americana hanno annunciato che prevedono di tagliare i tassi di interesse solo una volta quest’anno, assumendo una posizione aggressiva sull’inflazione”. Quindi, come da mesi ormai sottolineiamo insieme ad Alessandro Volpi, al contrario delle aspettative del mainstream la guerra dei tassi continua e le vittime e i feriti sul campo siamo noi europei; ed è solo l’antipasto: le agenzie di stampa che ieri provenivano dal G7, infatti, davano come sostanzialmente conclusa la partita del furto degli asset congelati russi. Congelati sin dall’inizio del conflitto, 325 miliardi di asset russi generano ogni anno 3 miliardi di dollari di interessi: ora questi 3 miliardi dovrebbero essere usati per prendere un prestito da 50 miliardi da dare all’Ucraina per prolungarne un po’ l’agonia; il punto, però, è che – caso più unico che raro – questi 325 miliardi di asset russi non stanno negli USA o nel Regno Unito, ma nell’Unione europea, in Belgio per l’esattezza. Dimostrare, dati alla mano, che se porti le tue riserve in Europa e non sei simpatico a Joe Biden poi l’Europa li usa per armare i tuoi nemici, potrebbe non essere esattamente la migliore pubblicità possibile per attrarne di altri; quindi, riassumendo, proprio mentre c’è una gigantesca fuga dall’euro dovuta alle politiche monetarie del nostro alleato USA, noi decidiamo di accelerare ulteriormente la fuga dall’euro per rimanere fedeli alla guerra voluta dagli USA stessi contro la Russia e contro l’Europa. E – è bene sempre sottolinearlo – a prendersi il merito di questo capolavoro è stata la regina dei patrioti e dei sovranisti, Giorgia Meloni, fresca fresca di un più che buono risultato alle urne che ha deciso di spendere subito per essere eletta reginetta della svendita degli interessi dell’intero continente al padrone che non solo è statunitense, ma pure democratico; ci siamo lamentati per decenni di quanto fossero fessi gli elettori di sinistra che continuavano a votare il partito della lotta di classe dall’alto contro il basso per eccellenza come il PD, convinti di votare l’erede del PCI e della sinistra DC, ma bisogna ammettere che, rispetto agli elettori patrioti e nazionalisti che continuano a votare la più grande svenditrice della patria di sempre, erano comunque dei dilettanti allo sbaraglio.
Nel frattempo, Nikkei Asia ieri c’ha graziato con un’altra notizia bella succulenta; nel primo trimestre del 2024, infatti, gli USA sono diventati la prima destinazione delle esportazioni dei paesi dell’ASEAN, sorpassando la Cina e manco di poco: 67 miliardi contro 57. Oh, lo vedi? Decoupling e friendshoring funzionano! Beh, se continuano a crederci a noi certo non ci dispiace, perché la realtà è diametralmente opposta; la settimana precedente, infatti, erano usciti i dati sull’export cinese: Il boom dell’export cinese verso il Sud globale continua titolava il solito David Goldman su Asia Times; “Il meme occidentale sulla sovracapacità cinese” scrive Goldman “non funziona bene nel Sud del mondo, dove la domanda di infrastrutture di telecomunicazioni cinesi, veicoli elettrici a basso costo, pannelli solari e acciaio è in crescita”. Il processo suicida messo in moto dal suprematismo del centro imperiale – e dai fintisovranisti europei che gli vanno dietro – lo abbiamo raccontato svariate volte e ogni giorno che passa si consolida di più: in sostanza gli USA, invece che importare dalla Cina, importano merci cinesi (o che comunque contengono una marea di componentistica cinese) dai paesi che considerano amici, ma che, giustamente e inevitabilmente, più che essere amici dell’imperialismo USA sono semplicemente amici di se stessi. L’esempio del Vietnam è paradigmatico, come si vede da questo grafico:

da quando Trump ha avviato le politiche protezionistiche, l’import USA dal Vietnam è esploso, ma quello vietnamita dalla Cina è esploso ancora di più e ancora più rapidamente; risultato? Il Vietnam è ancora più legato alle catene del valore cinesi e la Cina non ha fatto che aumentare la sua influenza economica.
Un’altra notizia piuttosto succulenta che dà un segno preciso dei tempi riguarda Apple: da poco Apple, infatti, aveva annunciato che tutti i suoi mega investimenti nel campo dell’intelligenza artificiale non avevano portato, sostanzialmente, a una sega niente; questo fallimento si andava a sommare al crollo sui mercati cinesi, al che Warren Buffet – che è un finanziere, si, ma un po’ old school e investe fondamentalmente in aziende che crede abbiano ampi margini di crescita, come dimostra la sua partecipazione nel colosso cinese dell’automotive elettrico BYD – ha venduto un po’ di azioni. Ma il mondo non funziona più come è abituato a pensare Warren Buffet: nonostante il doppio fallimento, le azioni di Apple, alla fine, sono tornate a crescere; com’è possibile? Le risposte sono due: lo Schema Ponzi della finanza USA e il regime monopolistico del tecno-feudalesimo. Lo Schema Ponzi funziona che non importa se sei un’azienda del cazzo che non ne coglie una e butti via più soldi del Corpo Forestale in Calabria: i monopoli finanziari hanno deciso che le tue azioni devono valere tot e le tue azioni quello valgono, anche se sei sull’orlo della bancarotta. Il regime monopolistico del tecno-feudalesimo, invece, funziona che proprio grazie alla quantità senza senso di risorse finanziarie che ti vengono garantite dai fondi, se qualcosa non la sai fare (o, almeno, non sei all’altezza di competere), molto semplicemente te la compri, che è proprio quello che ha annunciato Apple: non siamo in grado di sviluppare intelligenza artificiale in modo competitivo come azienda? Vorrà dire che compreremo quella di OpenAI; che problema c’è? La differenza tra Apple e il servizio informatico del comune di Pizzo Calabro, stringi stringi, è che c’hanno li sordi; anzi, meglio ancora: manco gli servono li sordi. Come ricordava ieri Bloomberg, infatti, “Apple pagherà OpenAI per ChatGPT attraverso la distribuzione, non in contanti”: cioè, siccome c’hanno il monopolio delle app con gli App store proprietari, se vuoi conquistare il mercato devi passare da loro e paghi il dazio, come il fiorino in Non ci resta che piangere, un sistema feudale che bisogna difendere con ogni mezzo necessario.
Nel week end, subito dopo il G7 pugliese, in Svizzera si terrà il fantomatico Summit per la Pace in Ucraina, un summit piuttosto eccentrico dal momento che non vedrà la partecipazione di una delle due parti in causa e, a cascata, di nessun paese che più o meno è allineato a quello che Bloomberg ieri definiva l’asse della resistenza russo-cinese. Ovviamente i paesi del Nord globale parteciperanno, ma (a quanto ci è dato sapere) tra questi paesi la pace c’è già; a cosa dovrebbe servire quindi? Come sottolinea su Asia Times Jon Richardson della Australian National University, “Il principale target dell’Ucraina dovrebbero essere tutti gli altri paesi del Sud del mondo” e, cioè, quelli non più o meno esplicitamente schierati con Mosca, vale a dire la stragrande maggioranza. L’idea, appunto, sarebbe quella di provare a strappare un po’ di sostegno ai paesi che fino ad oggi hanno optato per farsi gli stracazzi loro e, laddove era possibile, hanno approfittato della situazione per strappare qualche fornitura di petrolio a prezzi di saldo, oppure hanno fatto qualche spicciolo triangolando merci e beni altrimenti preclusi ai russi: ora si tratterebbe di spiegargli che le sanzioni secondarie – cioè quelle che gli USA impongono con la forza del loro imperialismo finanziario a tutto il mondo contro la sua volontà – diventeranno mano a mano sempre più severe e inaggirabili; convincerli che Putin – come titolava ancora ieri il suo articolo Dan Altman della Georgia State University su Foreign Affairs – comunque perderà e che questa è l’ultima chance per salire sul carro del vincitore. A quanto pare, però, questa narrazione non è risultata esattamente molto convincente: “Non è chiaro” infatti, sottolinea sempre Richardson, “quanti dei maggiori attori, come Brasile, India, Indonesia, Turchia e Sud Africa, saranno rappresentati – o se invieranno funzionari anziché leader o ministri. E ci sono indicazioni che l’Arabia Saudita e il Pakistan, tra gli altri, non saranno presenti, il che non potrà che deludere amaramente l’Ucraina”.
Insomma: come abbiamo sottolineato milioni di volte, gli USA, a parte l’arroganza dei monopoli finanziari, non hanno più niente da offrire; nel Sud del mondo lo sanno e a fatica, giorno dopo giorno, cercano (e a volte di più, a volte di meno, trovano) il modo di sganciarsi. Se in Europa ci fosse una classe dirigente minimamente rappresentativa dei nostri interessi, sarebbe un’occasione straordinaria per cominciare ad emanciparci come mai siamo riusciti fino ad ora; certo, con patrioti come la Meloni e progressisti come Elly Schlein e alleati verdi e sinistri, diciamo che questo è un piano sul quale proprio non si arriva nemmeno concettualmente. Figurarsi concretamente! Per costruire dal basso una classe dirigente all’altezza dei tempi bisogna studiare, discutere e lottare e, per farlo, c’è bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Walter Veltroni

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Al G7 Giorgia riceve l’incarico da Biden di trascinare l’Europa in guerra contro la Cina

Colonna portante di Ottolina Tv e canonica compagnia mattutina della rassegna stramba del giovedì, a leggere fatti e misfatti del mainstream, c’è Clara Statello.

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Doomsday clock – La strategia USA fallisce su tre fronti – Guerrilla Radio

Per la rubrica Doomsday clock intervistiamo Roberto Iannuzzi, autore nel 2014 di Geopolitica del collasso e nel 2017 di Se Washington perde il controllo – crisi dell’unipolarismo americano nonché curatore del sito e della newsletter di politica internazionale Intelligence for the people. Una panoramica sulla crisi
geopolitica che spazia dal teatro mediorientale a quello europeo, fino al confronto strategico nel Mar Cinese, dove la strategia USA sembra arrancare tra nuovi attori globali emergenti e vecchi partner locali che cercano il modo di perseguire i propri interessi all’ombra del potere imperiale.

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