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Tag: dividendi

Crollo consumi e dividendi record: la doppia rapina di USA e oligarchie contro i lavoratori europei

Dividendi da record titolava entusiasta ieri Il Sole 24 Ore: “Le borse mondiali pagano 339 miliardi” e questo solo nei primi tre mesi del 2024; “Un nuovo massimo a livello globale” festeggia il giornale dell’1%. Se ne esistesse anche uno del 99% probabilmente festeggerebbe molto meno, soprattutto se si occupasse del 99% dei lavoratori europei. Come dimostra questo grafico pubblicato il giorno prima dal Financial Times, infatti, se i nostri azionisti ridono, le famiglie europee non c’hanno più nemmeno gli occhi per piangere: mentre il livello dei consumi delle famiglie USA, infatti, rispetto ai livelli prepandemia è cresciuto di ben oltre il 10%, il nostro è rimasto completamente invariato. Zero. Niente. Neanche un piccolo cenno di crescita; ed è solo l’antipasto. E il primo che ci stanno preparando sarà ancora più indigesto: questo ulteriore, gigantesco trasferimento di ricchezza dalle famiglie europee verso quelle USA, da un lato, e verso le oligarchie di entrambe le sponde dell’Atlantico dall’altro, infatti, non può che comportare un ulteriore svuotamento delle casse dello Stato alle quali, giustamente, non contribuiscono i cittadini USA, ma decisamente molto meno – giustamente, sempre di meno – anche le nostre oligarchie. Risultato: FMI, allarme sui conti come titolava ieri La Repubblichina; secondo il Fondo Monetario, riporta l’articolo, “Serve una manovra da 60 miliardi in due anni per sanare il bilancio” e, ovviamente, “bisogna fermare tutte le misure in deficit”. Eh, giustamente: chi ci crediamo d’essere, gli USA? Le misure in deficit sono una cosa da ricchi e su chi, alla fine, dovrà pagare il conto s’è scatenata una vera e propria guerra: Sorpresa redditometro titolava mercoledì La Stampa; “Torna lo strumento che stana gli evasori in base agli eccessi di spesa”. Strano: già 10 anni fa, infatti, Matteo Salvini aveva definito il redditometro “roba da regime comunista”; sostanzialmente, è una misura che dovrebbe permettere all’Agenzia delle entrate di andare a bussare alla porta di chi dichiara redditi al di sotto della soglia di sussistenza, ma poi, magari, ogni due anni si compra un SUV nuovo e non esce di casa senza un Rolex al polso. Insomma: lo zoccolo duro dell’elettorato della destra fintosovranista. Se la destra di governo arriva a introdurre una misura del genere – tra l’altro ad appena un paio di settimane da un appuntamento elettorale di tutto rilievo – vuol dire che sono veramente alla frutta; e, infatti, è bastato aspettare 24 ore ed ecco che, come titolava ieri La Repubblichina, Redditometro, marcia indietro del governo.
Insomma: se non siete tra quelli che hanno da parte montagne di azioni di qualche grande corporation e la scappatoia della piccola evasione proprio non vi riguarda perché le tasse, come a oltre il 70% dei lavoratori italiani, ve le prelevano di default dalla busta paga, ho come l’impressione che quelli che vi aspettano non siano esattamente tempi di vacche grasse. Oh, se poi pensate ne valga comunque la pena perché per difendere le democrazie liberali dall’invasione del plurimorto dittatore del Cremlino, dei cinesi e dei bambini palestinesi che c’hanno il terrorismo nel DNA, per carità, fate pure per carità; ma prima di provare a spiegarvi perché – probabilmente – non ne vale la pena, ricordatevi di mettere un like a questo video e aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi ai nostri canali social e attivare tutte le notifiche: è un’operazione che a voi costa meno tempo di quanto abbia impiegato il governo per fare retromarcia sul redditometro (o la tassa sugli extraprofitti delle banche), ma per noi fa comunque la differenza e ci permette di continuare a provare a costruire un vero e proprio media che, invece che dalla parte di Washington, delle oligarchie e degli svendipatria, sta dalla parte del 99%.
I lavoratori europei, da decenni, sono vittime non di una rapina, ma di due; e da quando gli USA e le oligarchie del Nord globale hanno dichiarato guerra al resto del mondo, il tasso di furti che subiamo quotidianamente ha raggiunto dimensioni mostruose. La prima rapina è raffigurata in modo chiaro in questo grafico pubblicato mercoledì scorso dal Financial Times:

Nel grafico viene confrontata la crescita dei consumi delle famiglie di USA, Eurozona e Gran Bretagna a partire dall’ultimo trimestre del 2019, vale a dire dall’inizio della crisi pandemica. Le linee tratteggiate indicano l’andamento che i consumi delle rispettive famiglie avrebbero dovuto avere se fosse stata confermata la crescita media registrata nei 6 anni precedenti e, già qui, abbiamo una rappresentazione chiara della prima rapina che i consumatori europei subiscono da quelli USA ormai da decenni: fatto 100 il consumo delle famiglie nell’ultimo trimestre del 2019, infatti, se avessimo continuato con il business as usual, nel 2024 i consumatori europei avrebbero raggiunto appena quota 106; quelli USA, 112. Insomma: i consumi statunitensi crescono a un ritmo doppio rispetto a quelli europei o, per dirla meglio, a discapito di quelli europei, un trend che – come abbiamo sottolineato decine di volte su questo canale – procede invariato da quasi 20 anni e, cioè, da quando l’economia mondiale è stata travolta dalla crisi finanziaria innescata dagli USA che ha segnato l’inizio di quella che l’amico Vijay Prashad definisce la terza grande depressione (col paradosso che chi ha scatenato la crisi in realtà non ha fatto che arricchirsi, mentre a pagare il conto ci pensavamo noi). Chi segue questo canale il dato lo conosce ormai benissimo, ma visto che – nonostante gridi vendetta – i media mainstream si scordano sistematicamente di riportarlo, è sempre bene ribadirlo: se infatti, ancora nel 2007, i paesi dell’Eurozona in media (e l’Italia in particolare) avevano un reddito e un patrimonio pro capite di poco inferiori a quelli statunitensi, oggi siamo a meno della metà.
La buona notizia è che ci sarebbe potuta andare peggio, che è esattamente quello che è successo dalla crisi pandemica in poi: nonostante il nostro trend di crescita, infatti, fosse già in partenza decisamente meno ambizioso, magicamente siamo riusciti a non cogliere manco quello; anzi, manco ad avvicinarci. A 4 anni di distanza, infatti, siamo sempre allo stesso identico punto: i nostri consumi non sono cresciuti di una virgola; quelli USA, di oltre il 10%. La prima differenza macroscopica risale immediatamente al periodo pandemico durante il quale, ovviamente, a crollare sono stati i consumi su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma con un’entità parecchio diversa: fatto 100 il consumo nell’ultimo trimestre 2019, il picco più basso raggiunto nei mesi successivi è stato di 90 negli USA, ma addirittura di meno di 85 nell’Eurozona. Dopodiché, se gli USA hanno raggiunto di nuovo il livello di consumo prepandemico subito all’inizio del 2021, noi abbiamo dovuto aspettare 6 mesi di più e da lì in poi, mentre noi ci siamo arenati, gli USA hanno continuato a correre ancora per alcuni mesi a ritmi cinesi; com’è possibile? Molto semplice: nonostante anche nell’Eurozona, per un periodo, si sia sospeso il delirante patto di instabilità e decrescita e, una volta tanto, gli Stati abbiano fatto quello che dovrebbero fare sempre gli Stati (e, cioè, mettere mano al portafoglio in periodi di crisi), l’euro comunque rimane l’euro e il dollaro rimane il dollaro; il che significa, banalmente, che gli USA si possono indebitare quanto gli pare senza mai pagare dazio, che tanto, grazie all’egemonia del dollaro, l’inflazione che generano stampandolo all’infinito mal che vada la possono sempre scaricare sugli altri. Poi è arrivato l’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina contro la Russia e contro l’economia europea e l’esorbitante privilegio del dollaro – come lo definiva l’ex presidente francese Giscard d’Estaing – s’è fatto sentire ancora di più: per tenere a freno l’inflazione che l’immissione di una quantità massiccia di soldi pubblici aveva scatenato, la Federal Reserve ha iniziato la lunga corsa all’aumento dei tassi di interesse e tutti gli altri le sono andati dietro.
Per cercare di spiegare quanto la corsa al rialzo dei tassi di interesse fosse la peggiore delle strategie possibili immaginabili per contrastare l’inflazione, nel corso di questi due anni e passa abbiamo speso ore e ore di video: l’inflazione in questa fase, infatti, oltre che alla liquidità in circolazione, aveva ovviamente a che fare non solo con le tensioni geopolitiche, ma anche con la speculazione che su queste tensioni ha trovato il modo di farci una montagna di quattrini e anche con quella che, con Isabella Weber, abbiamo imparato a chiamare greedflation e, cioè, l’inflazione che le aziende hanno contribuito ad alimentare aumentando i prezzi ancora di più di quanto non fossero aumentati i costi, approfittando del fatto che la concorrenza è morta e ormai il capitale privato, in quasi tutti i settori, è oligopolistico (se non, addirittura, monopolistico) e garantendosi così una montagna di profitti. La lotta all’inflazione a colpi di aumenti dei tassi, quindi, da questo punto di vista (come spesso accade) più che una vera motivazione, appare più che altro una scusa buona per gli analfoliberali e le bimbe di Cottarelli ed Elsa Fornero e che, stringi stringi, ha rappresentato un’altra arma nell’arsenale del rapinatore a stelle e strisce: con l’esplosione del debito registrata per contrastare gli effetti della pandemia, infatti, l’impennata dei tassi significa dover sborsare una quantità gigantesca di quattrini solo per pagare gli interessi sul debito e mentre gli USA – di nuovo per l’esorbitante privilegio del dollaro – se ne possono tranquillamente sbattere, per le semicolonie europee rappresenta un bel problemone, soprattutto dal momento che il patto di instabilità e decrescita non è che è stato cestinato per adottare una politica economica più realistica e ragionevole, ma soltanto temporaneamente sospeso per poi essere reintrodotto. Risultato: mentre noi ci ritroviamo a tagliare ulteriormente la spesa pubblica con l’accetta in ossequio ai deliranti parametri di Maastricht, gli USA continuano a crescere grazie a un deficit pubblico che fa letteralmente paura e, grazie a questo deficit, non solo continuano a pompare artificialmente la loro economia bollita, ma hanno una montagna di quattrini da regalare alle aziende che decidono di abbandonare l’Eurozona e andare a investire nella terra ri-promessa, al punto da creare più domanda di lavoro (in particolare qualificato) di quanto sia disponibile negli USA – in particolare dopo 40 anni di finanziarizzazione che ha distrutto tutto il know how possibile immaginabile. Ed ecco, così, che mentre da noi mancano gli investimenti e il top a cui ambire è fare la stagione in qualche località balneare con stipendi inferiori al vecchio reddito di cittadinanza (che, nel frattempo, abbiamo cestinato), gli investimenti multimiliardari – come quello di TMSC per costruire nuove fabbriche per riportare negli USA la produzione di microchip – vengono rinviati perché non si trova abbastanza manodopera qualificata e ovviamente quella poca che c’è, giustamente, ha tutti gli strumenti per farsi pagare a peso d’oro, come gli operai dell’automotive che hanno strappato aumenti da capogiro. Risultato, appunto: i consumi delle famiglie USA volano e i nostri sono al palo. “Povertà a livelli mai toccati da 10 anni” denuncia l’ultimo rapporto ISTAT pubblicato la settimana scorsa; nell’arco di un decennio, l’incidenza della povertà assoluta è passata dal 6,9 al 9,8%: un italiano su 10 è tecnicamente povero, anche se lavora. Tra gli operai, i poveri sono passati dal 9 al 14,6% e “tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde in Italia è diminuito del 4,5% mentre nelle altre maggiori economie dell’Ue27 è cresciuto a tassi compresi tra l’1,1% della Francia e il 5,7% della Germania”.
Fortunatamente, però, chi – invece che del suo lavoro – campa di rendita, se la passa decisamente meglio perché, se continua imperterrito questo trasferimento di risorse da una parte all’altra dell’Atlantico, all’interno dei singoli paesi – allo stesso tempo – procede impunita un’altra rapina: quella che vede trasferire risorse da chi ha poco o niente a chi ha già troppo. “Dopo il 2023 da record” riportava ieri, infatti, Il Sole 24 Ore “il valore dei versamenti effettuati agli azionisti dalle società quotate ha registrato un nuovo massimo anche nei primi tre mesi del nuovo anno”; in particolare, come previsto, “la spinta al rialzo è arrivata sopratutto dal settore bancario”. Chi l’avrebbe mai detto? Grazie all’aumento dei tassi di interesse, infatti, le banche prendono i soldi dei correntisti (ai quali non riconoscono manco mezzo euro di interessi) e li depositano nelle banche centrali che, invece, gli riconoscono interessi del 4,5%: un furto con scasso talmente palese che anche la Giorgiona nazionale, qualche mese fa, aveva fatto finta di volere per lo meno tassare; dopo un paio di giorni i titoloni sui giornali, però, sono scomparsi insieme alla tassa e così oggi “I dividendi staccati dalle società del credito hanno rappresentato un quarto della crescita globale del primo trimestre, con un aumento del 12%”. E’ l’ultimo tassellino di un trend che va avanti, inesorabile, da oltre 40 anni: “Dagli anni ‘80” ricorda il nostro buon vecchio Andrea Roventini su Il Fatto, “la fetta del PIL che va al 50% più povero è in discesa mentre l’1% e lo 0,1% più ricco stanno incamerando una frazione sempre maggiore del reddito”. E il problema non è soltanto per quello che ci mettiamo in tasca noi persone comuni direttamente, ma anche per tutto quello che ci mettiamo indirettamente – e, cioè, quello che dovrebbe garantirci lo Stato – perché il 5% più ricco non si limita a incassare più quattrini, ma, in piena violazione del dettato costituzionale, più è ricco e meno tasse paga: “Il sistema fiscale italiano” continua infatti Roventini “è già piatto sostanzialmente per tutte le classi di reddito, e quando arriviamo al 5% più ricco diventa addirittura regressivo”. Insieme ad altri 134 economisti, il buon Roventini, allora, ha presentato una semplice proposta di una tassa sui grandi patrimoni; in soldoni, si tratterebbe di introdurre tre novità: la prima, una tassa progressiva sul patrimonio dello 0,1% più ricco, a partire dalle montagne di titoli azionari che i super-ricchi concentrano nelle loro mani e che sottraggono risorse all’economia. Poi si tratterebbe di aumentare le tasse su successioni e donazioni oltre una certa soglia, dal momento che – sottolineano gli economisti – “siamo una sorta di paradiso fiscale per le successioni”; e, infine, di introdurre nuovi scaglioni IRPEF che, negli anni, sono passati dai 32 del 1974 (quando l’Italia era ancora una democrazia moderna e cercava di applicare il dettato costituzionale) ai 3 di oggi.
Peccato che, invece dei nostri 134 economisti, al governo ci sia la peggiore destra svendipatria fintosovranista e vera amica di oligarchie ed evasori e che la delega fiscale – che è proprio adesso in fase di attuazione – vada ancora in senso diametralmente opposto. Insomma: invece che prima gli italiani, prima i padroni d’oltreoceano e poi gli italiani sì, ma esclusivamente ultraricchi. Contro la doppia rapina, è arrivata l’ora di tornare ad alzare la testa: per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della sinistra ZTL e della destra fintosovranista, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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La grande rapina: economia europea al collasso mentre gli USA corrono e in borsa è record dividendi

Colonna portante di Ottolina Tv e canonica compagnia mattutina della rassegna stramba del giovedì, a leggere fatti e misfatti del mainstream, c’è Clara Statello.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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LA GRANDE TRUFFA DELL’AUTO ITALIANA – Che fine hanno fatto i 220 miliardi regalati agli Agnelli?

“La famiglia miliardaria degli Agnelli, che con la sua casa automobilistica negli anni ‘70 impiegava oltre 170 mila persone” scrive il Financial Times “è stata una regalità industriale italiana per oltre un secolo, corteggiata da tutti i governi che si sono succeduti, attraverso incentivi e politiche di favore”; “adesso, non più”. Dopo la sfuriata contro gli extraprofitti delle banche, la Giorgiona nazionale, per la seconda volta, trova il coraggio di dire apertamente quello che ogni italiano che non abbia subito una lobotomia totale ha sempre pensato e – per la prima volta nella storia dei primi ministri di questo paese – si scaglia contro la stirpe più parassitaria della storia italiana contemporanea. Nel caso degli extraprofitti delle banche non finì proprio benissimo, diciamo: dopo una bella overdose di retorica da è finita la pacchia, giusto il tempo di far incassare qualche decina di milioni agli speculatori al ribasso ed ecco che la tassa veniva già abbondantemente ridimensionata fino a ridursi a una minchiata tale da non trovare neanche più spazio nella legge di bilancio; non c’è motivo di credere che, a questo giro, possa andare meglio. Ciononostante, inveire contro gli eredi di una stirpe che, da oltre un secolo, viene sommersa da aiuti e incentivi pubblici di ogni genere senza restituire mai una seganiente è sempre un esercizio benefico e liberatorio e quindi, con grande gioia, ci uniamo a gran voce al coro: GLI AGNELLI CI HANNO ROTTO IL CAZZO. Stellantis aveva promesso il ritorno a 1 milione di veicoli prodotti in Italia: sono fermi a 750 mila. Nel 2022 ha registrato profitti record e nei primi sei mesi del 2023 ancora un altro record: li hanno distribuiti come dividendi e c’hanno ricomprato le azioni, e non hanno investito un euro – manco per la carta igienica; a maggio a Pomigliano i lavoratori si sono dovuti fermare due ore perché, come riportava addirittura Bloomberg, “Lo stabilimento è sporco, i bagni puzzano e mancano pure le tute da lavoro: i lavoratori devono aspettare mesi per sostituire quelle vecchie e logore”. Nel frattempo non hanno fatto altro che elemosinare altri incentivi e altri favori e quando la nostra Giorgiona, giustamente, li ha mandati a cagare, Tavares su Bloomberg ha risposto con le minacce: “Se non si danno sussidi per l’acquisto di veicoli elettrici, si mette a rischio il mercato italiano e i nostri impianti, a partire da Pomigliano e Mirafiori”. Detto fatto: a marzo 2260 operai di Mirafiori se ne andranno in cassa integrazione e potrebbe non essere una cosa passeggera; erano impiegati nelle linee della Maserati e dell’unico veicolo elettrico del gruppo costruito in Italia, la 500e. Per i nuovi modelli Maserati bisognerà aspettare anni e la 500e non è competitiva; senza un altro modello di grande consumo – è l’opinione unanime di tutti gli analisti – Mirafiori è spacciata.

Gli Agnelli

Però, in realtà, un investimento in Italia gli Agnelli l’hanno fatto: si sono comprati il gruppo GEDI. A differenza di Stellantis non produce profitti, ma ne vale la pena: tra Repubblica e La Stampa dell’addio all’Italia di Stellantis non c’è traccia. Al suo posto, questa roba vergognosa qua: “La nuova Lancia riparte dall’Italia”; “I nostri valori sono la storia, il design e una visione ambiziosa per il futuro”: è l’informazione mainstream ai tempi dell’editoria in mano agli oligarchi, una fabbrica di armi di distrazione di massa, opuscoli promozionali al posto delle notizie. Di fronte alla rivoluzione dell’elettrico l’automotive europeo si è fatto trovare completamente impreparato e, inevitabilmente, il primo anello a saltare è quello più debole: ci accontenteremo delle sparate inconcludenti della Meloni come per gli extraprofitti delle banche o, a questo giro, ci diamo finalmente una svegliata e ci prepariamo a vendere cara la pelle?
Nel 2023 produzione ferma a 750 mila veicoli titolava in prima pagina ieri Il Sole 24 Ore: “L’obiettivo del milione rischia di essere archiviato”. Lo smantellamento dell’automotive italiano, programmato scientificamente da Stellantis con la copertura dei media comprati ad hoc dalla famiglia Agnelli, procede inesorabile: la quota del milione di veicoli prodotti, infatti, non è stata fissata a caso; è la massa critica minima necessaria per tenere in piedi tutto il settore che, con poco oltre 160 mila persone impiegate in oltre 3 mila aziende, è il cuore di quel poco che rimane del nostro manifatturiero. “Siamo nati al fianco della FIAT nel 1980” ha dichiarato il fondatore e amministratore delegato della Promax Spa Nicola Pino al Sole “e grazie a loro ci siamo internazionalizzati, ma questi volumi produttivi ci mettono in ginocchio”: tra Melfi e il Piemonte, la Promax, che produce sedili, occupa circa 1000 persone; erano 1.600 giusto una quindicina di anni fa. Tutto merito di Stellantis che copre il 60% delle commesse: “Un milione di veicoli è la cifra minima per provare almeno a risalire la china, anche se i buoi sono già scappati, e il terreno perso è difficilmente recuperabile”; “La questione” sottolinea Il Sole 24 Ore “è emersa con drammaticità a Melfi, dove le aziende della componentistica e le imprese dei servizi sono nate intorno allo stabilimento ex FIAT, e che ora si trovano a corto di commesse”.
A fare una bella e utile cronologia del massacro, sempre su Il Sole 24 Ore, ci pensa il sempre ottimo e puntualissimo Paolo Bricco; la sua ricostruzione parte dal 2004: all’epoca, ricorda Bricco, “la FIAT era tecnicamente decotta. E quando arriva Sergio Marchionne, il gruppo perde due milioni al giorno”. Dopo 5 anni arriva l’acquisizione di Chrysler, la più malconcia delle Big Three di Detroit: “L’operazione funziona” sostiene Bricco “ma il nuovo gruppo, FCA, è frastagliato, sconnesso, disomogeneo. E di sicuro il baricentro non è più italiano”; d’altronde, come sottolineava Marchionne, è “la fusione di due società povere”e, per risalire la china, non trova di meglio che cominciare a staccare dei pezzi che si spostano “a Londra per la migliore fiscalità” e “ad Amsterdam per i vantaggi asimmetrici assegnati a chi controlla le società attraverso il voto plurimo”. Questo è un aspetto fondamentale che molto spesso non viene citato: il codice civile olandese, infatti, stabilisce che una società per azioni può stabilire liberamente il numero di voti per ogni azione detenuta da determinati soci che, ovviamente, rappresenta un vantaggio gigantesco per gli azionisti più forti perché gli permette di controllare la società anche senza maggioranza, un altro dei dispositivi tecnici che, negli ultimi decenni, ha favorito la concentrazione del potere economico nelle mani di pochissimissimi. “IVECO – CNH, che fa trattori e macchine movimento terra” ricorda Bricco “è la prima”; seguiranno poi FCA, Exor, Ferrari e Magneti Marelli, il gioiello della componentistica che poi sarà ceduto al fondo KKR, quello che recentemente s’è comprato pure la rete digitale di Telecom grazie al lavoro diplomatico dell’ex direttore della CIA David Peatraues. Nel frattempo, ricorda Bricco, “in Italia accadono due cose”: la prima risale al 2010, quando viene annunciato il piano Fabbrica Italia – mica pizze e fichi, ma, come scrivevano nero su bianco Marchionne e John Elkann in una lettera agli azionisti, “Il più straordinario piano industriale che il nostro Paese abbia mai avuto”, così straordinario che dopo poco più di un anno, senza che nel frattempo si fosse mossa foglia, veniva ritirato. Per la seconda tappa bisognerà poi aspettare il 2016 quando, sempre in pompa magna, viene annunciato il fantomatico Polo del lusso che, a partire dalla sinergia tra Alfa Romeo e Maserati, doveva attirare altri marchi internazionali di prestigio come Audi e Mercedes e proiettare nel futuro l’Italia dell’auto, ma – ricorda Bricco – “anche il polo del lusso non va bene. E un pezzo alla volta inizia a ridursi la base manifatturiera italiana”.

Gli italiani

Poi, appunto, c’è la vendita di Magneti Marelli: è il 2018 e FCA incassa la bellezza di 6,2 miliardi; i fondi speculativi sono predatori, ma a volte pagano bene. Sarebbero stati dei bei soldini per provare a rilanciare la produzione in Italia, ma è troppa fatica; gli azionisti di maggioranza di FCA, grazie anche proprio al voto multiplo permesso in Olanda, impongono una scelta lungimirante: i quattrini vengono spartiti come super dividendi, e dall’automotive finiscono chissà dove. Di fronte a questa cronologia impietosa, sostiene Bricco, quelli che oggi si scandalizzano per l’indifferenza degli Agnelli rispetto alle sorti dell’Italia (e che sono rimasti muti negli ultimi 15 anni) fanno abbastanza ridere; la storia degli Agnelli, da decenni, è – come titola il suo prezzo Bricco – una storia alla Prendi i soldi e vendi. Ma quanti soldi hanno preso? Una stima che circola spesso sono 220 miliardi, ma “probabilmente” sottolinea Bricco “sono molti di più”; nessuno, però, lo saprà mai perché, continua Bricco, “è impossibile conoscere i veri numeri sugli incentivi alla ricerca e alla innovazione e soprattutto sono una sorta di segreto di Stato i veri numeri dei pensionamenti e dei prepensionamenti con cui l’industria privata (e non solo la FIAT) si è più volte ristrutturata a spese del bilancio dell’INPS”. Di sicuro, conclude Bricco, c’è “che il Paese ha dato molto. E il bilancio è del tutto a favore della fu FIAT”. Con la fusione con PSA, ovviamente, le cose non potevano che peggiorare: mentre la Francia diventava un socio forte direttamente con le azioni detenute dallo Stato, a rappresentare gli interessi dell’Italia rimanevano, appunto, solo gli Agnelli; non esattamente una botte di ferro, diciamo, e in una fase che per il decotto automotive europeo – totalmente incapace di reggere la concorrenza cinese dove, nella transizione e nell’elettrificazione, si investono cifre spropositate da anni e anni e dove si sono raggiunte un’economia di scala e un’efficienza ineguagliabili – è di per se un discreto bordello. Risultato: quel poco che si mette sul tavolo per difendere gli insediamenti produttivi tradizionali va a tutelare la produzione francese, e quella italiana viene abbandonata. La nuova 600 elettrica si produce in Polonia, la Panda elettrica in Serbia, ma l’assemblaggio finale – per provare a reagire alla concorrenza cinese – non basta, ed ecco così che arriva la goccia che fa traboccare il vaso: come riporta Bloomberg, Stellantis avrebbe inviato una lettera ai suoi fornitori italiani nella quale segnalava le straordinarie opportunità di investimento in Marocco.
Non è un paese a caso; 11 novembre, South China Morning Post: “La Cina punta sul Marocco mentre la nazione nordafricana diventa il centro della rivoluzione dei veicoli elettrici”; “La vicinanza del Marocco all’Europa, l’abbondanza di minerali essenziali e gli incentivi fiscali” scrive la testata di Hong Kong “hanno posto il Marocco al centro del settore dei veicoli elettrici”. “Nell’ambito della tendenza globale al nearshoring” continua “per accorciare le catene di approvvigionamento le aziende cinesi si stanno ora schierando nel Paese nordafricano”: come vi abbiamo raccontato svariate volte negli ultimi mesi – al di là delle tesi strampalate di chi avversa l’elettrico perché gli piace il rombo del motore e altre segate varie – l’automotive del prossimissimo futuro è elettrico e l’unica speranza che ha l’Europa di non venire completamente esclusa dai giochi – come avvenuto con i microchip e le piattaforme digitali e come sta avvenendo di nuovo, in modo ancora più preoccupante, con l’intelligenza artificiale – è trovare il modo di integrare le catene del valore con l’unica superpotenza manifatturiera mondiale, e cioè la Cina; il resto sono chiacchiere, soprattutto da quando gli USA hanno deciso che per giocarsi la loro partita era tornato il tempo del protezionismo più feroce, e se le istituzioni e la politica europea non fanno i conti con questo dato materiale incontrovertibile, vorrà dire che i produttori europei l’integrazione coi cinesi la faranno fuori da casa nostra. E in questo processo l’Italia, che è l’anello debole del vecchio continente, non poteva che fare da apripista.

El Kann

Ingaggiare qualche dissing contro gli Agnelli, che ormai l’Italia l’hanno abbandonata da mo’, sicuramente fa sempre piacere e sicuramente – giustamente – esalta un pezzo di elettorato, ma se continui a fare lo zerbino di Bruxelles e di Washington nella loro guerra ideologica contro Pechino, finito il piacere per l’industria italiana, a casa, comunque, non hai portato nulla, esattamente come per la tassa sugli extraprofitti delle banche. Il mondo sta cambiando alla velocità della luce: da una parte, al netto di tutte le contraddizioni, ci sono pace, investimenti e sviluppo; dall’altra, oligarchie predatorie e venti di guerra e, al di là di qualche battuta anche simpatica, la Giorgiona nazionale da che parte sta l’ha sempre fatto capire piuttosto chiaramente. Contro la sua propaganda abbiamo bisogno di un vero e proprio media che perculi gli Agnelli come Giorgia e più di Giorgia, ma che al contrario di Giorgia stia dalla parte del mondo nuovo che avanza e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann

DOVETE RIDARCI IL DENARO – il Rapporto Oxfam sul furto dei Super Ricchi che inchioda gli USA

Disuguaglianza, il potere al servizio di pochi: il titolo dell’ultimo rapporto di Oxfam dedicato al furto sistematico di ricchezza da parte degli uomini più ricchi dell’impero non poteva essere più chiaro; “Dall’inizio di questo decennio” sottolinea il rapporto “la ricchezza dei cinque miliardari più ricchi del mondo è più che raddoppiata, mentre quella del 60% più povero, non ha registrato nessuna crescita”. Ancora peggio è andata ai più poveri in Italia, dove “La ricchezza detenuta dal 20% più povero della popolazione” sottolinea il rapporto “nell’ultimo anno si è addirittura dimezzata” con il risultato che oggi l’1% dei più ricchi da solo possiede 84 volte il loro patrimonio. La conclusione di Oxfam è da veri ottoliner: “Siamo davanti a un bivio” scrivono; da una parte “un’era di incontrollata supremazia oligarchica” e dall’altra un “potere pubblico che riacquista centralità promuovendo una società più equa e coesa ed un’economia più giusta e inclusiva”. Il rapporto è stato presentato durante la giornata inaugurale dell’appuntamento annuale del World Economic Forum a Davos, dove era presente anche il nostro ministro Giorgetti col piattino in mano nel tentativo di convincere quelle stesse oligarchie a comprarsi un pezzetto di paese che hanno deciso di mettere in svendita; secondo voi, per quali delle due opzioni stanno lavorando?

Le “elevate e crescenti disuguaglianze di ricchezza che si riscontrano in tanti Paesi, a partire dal nostro” scrive Oxfam nell’introduzione al rapporto “rappresentano un tratto tristemente distintivo dell’epoca in cui viviamo”, ma non ci sarebbe niente di più erroneo – sottolineano – che “considerarle un fenomeno causale ed ineluttabile”. Piuttosto, continuano, sono la conseguenza ineluttabile di “scelte politiche” precise: da bravi ottoliner gli amici di Oxfam vanno dritti al cuore della questione e senza perdersi in moralismi astratti puntano il dito contro “la dinamica del potere”, quel potere materiale e concreto che ha accompagnato, attraverso la finanziarizzazione, una concentrazione mai vista della ricchezza che, a sua volta, ha inesorabilmente “incrementato le rendite di posizione e indebolito il potere contrattuale dei lavoratori”. “Una vera e propria redistribuzione alla rovescia” scrive ancora Oxfam “con un trasferimento continuo di risorse da lavoratori e consumatori a titolari e manager di grandi imprese monopolistiche, con conseguente accumulazione di enormi fortune nelle mani di pochi”. Pensavamo fosse il rapporto di una ONG; era uno dei nostri pipponi: la gallina dalle uova d’oro dei super-ricchi, spiega Oxfam, sono le grandi corporation che “in media, nel biennio 2021-2022 hanno registrato un aumento dei profitti addirittura dell’89% rispetto al periodo 2017-2020” e non era che un antipasto. I “nuovi dati relativi ai primi mesi del 2023” ricorda infatti Oxfam “mostrano come l’anno appena conclusosi sia destinato a superare ogni record, attestandosi come il più redditizio di sempre”. Complessivamente, infatti, 148 tra le più grandi società del mondo – e cioè quelle per le quali si hanno i dati – avrebbero realizzato circa 1.800 miliardi di dollari di profitti tra giugno 2022 e giugno 2023, un bel 52,5% in più rispetto al profitto medio registrato nel quadriennio che va dal 2018 al 2021.
Tra queste, in particolare, spiccano “Undici aziende farmaceutiche che hanno aumentato i propri profitti di quasi il 32% nel 2022 rispetto alla media del periodo 2018-2021, registrando profitti in eccesso per 41,3 miliardi di dollari nel 2022; ventidue società del settore finanziario che hanno aumentato i propri profitti del 32% rispetto alla media del periodo 2018-2021 e hanno realizzato profitti in eccesso per 36 miliardi di dollari nel 2023; due marchi di lusso i cui profitti hanno visto un incremento del 120% rispetto alla media del periodo 2018-2021 e quattordici compagnie petrolifere e del gas i cui profitti sono aumentati del 278% rispetto alla media del periodo 2018-21, registrando profitti in eccesso per 144 miliardi di dollari nel 2022 e 190 miliardi di dollari nel 2023”. Questa impennata senza precedenti proprio mentre l’economia cadeva a pezzi e l’inflazione dava una mazzata definitiva al potere d’acquisto dei comuni mortali – come prova a spiegare da due anni Isabella Weber – è stata resa possibile proprio “dalla concentrazione del mercato, che assicura posizioni monopolistiche, consentite dai governi”; il rapporto ricorda infatti come “A livello globale, nel corso di appena due decenni, tra il 1995 e il 2015, 60 aziende farmaceutiche si sono fuse in 10 colossi del Big Pharma. Due multinazionali controllano oggi più del 40% del mercato globale delle sementi (25 anni fa erano 10)”, e a dominare il mercato digitale sono una manciata di Big Tech con i “tre quarti dei ricavi globali dalla pubblicità online che arrivano nelle casse di Meta, Alphabet e Amazon, e oltre il 90% delle ricerche online che viene effettuato tramite Google”. Risultato: “Appena lo 0,001% delle imprese più grandi incamera quasi un terzo di tutti i profitti societari globali”. Lo 0,001%, e lo chiamano libero mercato.
Da un certo punto di vista, però, è libero davvero; di non pagare le tasse. Come ricorda il rapporto infatti “L’aliquota legale media sui redditi societari nei Paesi OCSE è a passata dal 48% del 1980, al 23,1% del 2022”: meno della metà (quando le pagano); come ricorda il rapporto, infatti, “Si stima che circa 200 miliardi di dollari vengano persi ogni anno a causa dell’elusione fiscale delle imprese multinazionali, con i paesi del Sud del mondo che tendono ancora una volta a subirne in maniera prevalente i contraccolpi”. I patrimoni sterminati dei supermegaricchi arrivano esattamente da qui: “nel 2022” ricorda infatti il rapporto “i 50 miliardari statunitensi più ricchi detenevano il 75% della propria ricchezza in azioni delle società da loro guidate”, vale a dire tutte; “L’1% più ricco al mondo” sottolinea infatti il rapporto “possiede attualmente il 59% dei titoli finanziari a livello globale”. Alla faccia dell’azionariato popolare.
I grandi azionisti, poi, hanno approfittato di questa gigantesca ondata di profitti da rendita di posizione monopolistica per aumentare la loro presenza nell’azionariato delle big corporation in modo spropositato: “Per ogni 100 dollari di profitti realizzati tra luglio 2022 e giugno 2023 da 96 tra le più grandi società al mondo” riporta infatti Oxfam “82 dollari sono andati agli azionisti sotto forma di dividendi o buyback azionari, consolidando così le posizioni di persone che occupano già, nella stragrande maggioranza dei casi, le posizioni apicali nelle nostre società”.
Nel frattempo, vista dall’altra estremità della piramide, la situazione appariva decisamente meno florida: secondo Oxfam, infatti, 791 milioni di lavoratori distribuiti su 52 paesi, nel biennio 2021 – 2022 “hanno visto un calo del monte salari in termini reali di 1.500 miliardi di dollari, equivalenti a poco meno di una mensilità per ciascun lavoratore”. Il rapporto poi si concentra sul caso italiano, ma la dinamica è esattamente la stessa: “Dall’inizio della pandemia” sottolinea Oxfam “il numero di italiani presenti nella lista dei miliardari di Forbes è passato da 36 a 63”; 63 persone che hanno visto il loro patrimonio passare da 149 a 217 miliardi, un bel +46%. Ma i più ricchi tra i super-ricchi potrebbero non essere gli unici a pensare che pandemia, guerre e inflazione hanno fatto anche cose buone: il numero di italiani titolari di un patrimonio superiore ai 5 milioni, infatti, è passato da poco meno di 81 mila a quasi 93 mila, e tutti insieme hanno visto il loro patrimonio crescere di 178 miliardi di dollari in termini reali; loro, l’urgenza di far ripartire la crescita e di riportare la pace in Europa mi sa che non l’avvertono poi più di tanto.
Il processo comunque è in corso già da prima, in particolare – te guarda a volte il caso – proprio dal 2008, la data ufficiale di inizio di quella che abbiamo imparato a definire la Terza Grande Depressione del Capitalismo Globale: prima di allora infatti, per un decennio – riporta Oxfam – “la quota di ricchezza del percentile più ricco degli italiani aveva registrato un calo” come, d’altronde, aveva subito una diminuzione consistente anche il famoso coefficiente di Gini, il più classico tra i misuratori della disuguaglianza. Dopodiché il disastro: lo 0,1% più ricco degli italiani, poco più di 50 mila persone, ha visto la sua quota di ricchezza – rispetto al totale nazionale – passare dal 5,5 al 9,4% e lo 0,01 addirittura dall’1,8 al 5. Triplicata. Nel frattempo, i redditi reali delle famiglie italiane si riducevano in media di un bel 5,3%; chissà perché non mi stupisce per niente…

E qui ecco che riparte la ramanzina del Marru; d’altronde, vi ho avvisato più volte: questa cosa la ripeterò all’infinito, fino a che non la capiscono anche i muri – o meglio, probabilmente non si tratta tanto di capirla (che non c’ho da insegnare niente a nessuno, e ci mancherebbe pure); si tratta di cominciare a darle tutto il risalto che merita perché è la chiave per capire tutto, senza la quale si continua a brancolare nel buio. Il grande furto delle oligarchie e l’era della diseguaglianza, infatti, hanno senz’altro millemila concause – e anche Oxfam ne elenca una lunga serie, tutte importanti; dalle politiche fiscali, al welfare, alle politiche del lavoro, ma ce n’è una che non cita e che invece, a nostro avviso, sovradetermina tutte le altre: la strategia che il superimperialismo USA ha adottato per contrastare il suo declino relativo a partire dall’inizio della Terza Grande Depressione. A quel punto – come ha dovuto ricordare anche uno non particolarmente sveglio come Federico Fubini sul Corriere della Serva la settimana scorsa – la quota di ricchezza globale detenuta dai paesi dell’Europa a 27 era più o meno allo stesso livello di quella USA; oggi l’economia USA è più grande di quelle europee di oltre il 50%, e il grande trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto in Italia e negli altri paesi europei – e quello epocale dall’Europa agli USA – non sono due fenomeni distinti e paralleli. Non sono nemmeno, semplicemente, collegati; sono letteralmente, almeno in buona parte, LA STESSA IDENTICA COSA, e messi insieme sono esattamente la risposta al più grande dei misteri che ci attanaglia da due anni a questa parte: come è mai possibile che le élite europee si facciano prendere a calci nei denti da quelle di oltreoceano senza proferire parola? Ecco perché: perché con la protezione del superimperialismo USA i capitali li portano negli USA via paradisi fiscali e poi li moltiplicano a dismisura senza fare assolutamente una seganiente, affidandoli ai giganti del risparmio gestito a stelle e strisce che li usano per gonfiare a dismisura le bolle speculative dello schema Ponzi della finanza USA; quindi noi che campiamo del nostro lavoro – e i capitali li possiamo esportare al massimo da Grottaferrata a Monte Porzio Catone – paghiamo le conseguenze dell’economia che ci collassa davanti. Quello scioperato del figlio cocainomane del nostro datore di lavoro, invece, via Isole Vergini Britanniche dà i suoi soldini a un fondo predatorio di private equity e accumula profitti – più o meno detassati – su profitti; quindi non è lui a prendere i calci nei denti dalle élite di oltreoceano: a prendere i calci nei denti siamo solo noi.
Certo, nel grande gioco del capitalismo globale anche lui non è altro che il bimbo scemo ma viziato da tenere buono con tanti bei regalini milionari, ma tutto sommato mi ci cambierei, come dire… E, soprattutto, non posso certo aspettarmi che sia lui ad alzare la testa al posto mio, che non solo come lui non conto e non posso contare una seganiente politicamente, ma che invece che regali milionari continuo a ricevere buste paga da terzo mondo. Ecco: fissarsi bene in testa il funzionamento del grande meccanismo complessivo che spiega tanto il rapporto di Oxfam come l’articolo di Fubini, come i tedeschi che si fanno radere al suolo un’infrastruttura strategica da un atto terroristico senza battere ciglio, come la Meloni che giocava a fare la sovranista e ora manda Giorgetti col cappello in mano a fare l’elemosina a Davos, di per sé ovviamente non cambia niente, ma magari ci aiuta a chiarire cos’è che esattamente dovremmo cominciare a pretendere, e cioè che ci restituiscano il nostro denaro, niente di più, niente di meno. Noi rivogliamo il nostro denaro. Se lo rivuoi anche te, aiutaci a costruire il primo media che dà voce a tutti quelli che sono stati derubati e ora pretendono di riavere indietro il maltolto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lorenzo Tosa (sì, cioè lo so, non c’entrava un cazzo qui Tosa, ma ho realizzato che in due anni non l’abbiamo praticamente mai offeso e ci siamo detti che era arrivato il momento di rimetterci un po’ in pari).