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Tag: deumanizzazione

LA STORICA SENTENZA CONTRO ISRAELE: se il SudAfrica sconfigge per le seconda volta l’Apartheid

Una giornata storica.
Lo scorso venerdì i giudici del tribunale della Corte Internazionale di Giustizia hanno deciso di respingere la richiesta di archiviazione di Israele rispetto all’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica, hanno riconosciuto la plausibilità che alcuni atti commessi da Israele in questi mesi violino la convenzione ONU sul genocidio e hanno ritenuto che vi sia sufficiente urgenza per ordinare misure provvisorie contro Israele. Contrariamente alle richiese del Sudafrica, purtroppo, non si fa riferimento ad un cessate il fuoco a Gaza, ma viene comunque ordinato a Tel Aviv di “prendere tutte le misure per prevenire qualunque atto di genocidio”. Non solo. La presidente della Corte Donoghue ha inoltre fatto richiesta a Tel Aviv di riferire alla Corte entro un mese e ha affermato che dovranno essere adottate misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e l’assistenza umanitaria necessaria ai palestinesi della Striscia.

Triestino Mariniello

È impossibile minimizzare la portata politica di questa presa di posizione, che ridà speranza a milioni di palestinesi di vedere finalmente riconosciute e condannate le atroci violenze che il governo israeliano sta compiendo non solo in questi giorni, ma in tutti questi anni, e che ridà dignità ad una Corte sulla carta imparziale ma che, negli scorsi decenni, era sembrata solo l’ennesimo strumento nelle mani delle mire egemoniche occidentali. “A mia memoria mai uno strumento del diritto internazionale ha avuto tanto sostegno e popolarità” ha dichiarato Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool; “Quello che sta succedendo all’Aja” ha continuato “ha un significato che va oltre gli eventi in corso nella Striscia di Gaza. Viviamo un momento storico in cui la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha anche la responsabilità di confermare se il diritto internazionale esiste ancora e se vale alla stessa maniera per tutti i Paesi, del Nord e del Sud del mondo”. Ma oltre al profondo significato simbolico e politico, questa decisione storica potrebbe avere anche delle conseguenze immediate sulla vita dei palestinesi, perché se è vero che il processo vero e proprio comincia soltanto adesso e che per il verdetto finale ci vorranno forse anni, il tribunale – intimando al governo israeliano di “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire atti genocidiari – esercita una pressione politica tale su Tel Aviv che, probabilmente, lo indurrà a cambiare il suo modo di condurre la guerra. Adesso la palla passerà, con ogni probabilità, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e vedremo se gli Stati Uniti perderanno definitivamente la faccia mettendosi di traverso alle decisioni della Corte. In ogni caso, potremo pensare a venerdì 26 gennaio 2024 come a un giorno di parziale vittoria – forse il primo di tanti – nella storia della resistenza e dell’indipendenza nazionale del popolo palestinese. In questa puntata vedremo le reazioni di Israele a questa decisione della Corte, analizzeremo nel dettaglio l’impianto accusatorio del Sudafrica e quello della difesa israeliana e, infine, parleremo anche di un altro filone processuale che potrebbe aprirsi – questa volta alla Corte di Giustizia Penale Internazionale – alla quale Messico e Cile hanno fatto richiesta di indagare sugli esponenti del governo Israeliano per genocidio e crimini contro l’umanità.
Il termine genocidio è stato coniato dopo la seconda guerra mondiale dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin; la sua campagna per il riconoscimento di questo crimine nel diritto internazionale portò all’adozione della Convenzione ONU sul genocidio nel dicembre del 1948. Lo scorso dicembre il Sudafrica ha accusato il governo di Netanyahu di fronte alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja di aver violato l’articolo 2 di questa convenzione, ossia di avere commesso atti con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale e, cioè, i palestinesi di Gaza: “Come popolo che ha assaggiato i frutti amari dell’espropriazione, della discriminazione, del razzismo e della violenza sponsorizzata dallo Stato, siamo chiari sul fatto che staremo dalla parte giusta della storia”, ha detto il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. Data l’urgenza e la gravità della situazione, il Sudafrica aveva chiesto alla Corte, in attesa del processo, di adottare alcune misure cautelari che, come abbiamo visto, ad esclusione dell’immediato cessate il fuoco sono state in gran parte accolte: le reazioni non si sono fatte attendere: il Sudafrica ha esultato parlando di una riaffermazione dello stato di diritto, e persino l’Unione Europea ha chiesto che le misure vengano rispettate. Netanyahu ha invece definito “oltraggioso” il comportamento della Corte e il suo il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir ha definito, tanto per cambiare, i giudici dell’Aja antisemiti, affermando che le loro decisioni “dimostrano ciò che era noto da tempo: il tribunale non cerca la giustizia ma solo di perseguitare il popolo ebraico”. Non essendoci possibilità di appello, sta allo Stato ebraico decidere se rispettare queste misure; nel caso, però, che non si attenga alla sentenza, spetterà al Consiglio di Sicurezza dell’ONU decidere se intervenire affinché Israele applichi effettivamente la decisione della Corte: a quel punto, data per scontata l’adesione degli altri membri del Consiglio alle decisioni del tribunale, bisognerà vedere cosa decide di fare Washington. Sì: avete capito bene. Non sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti si avvalgono del proprio diritto di veto al Consiglio di Sicurezza per proteggere Israele, ma sarebbe comunque la prima volta in assoluto che lo eserciterebbero contro una decisione precedentemente presa dalla Corte Internazionale di Giustizia. Staremo a vedere.
Per quanto riguarda il prosieguo del processo, per l’accusa l’elemento più difficile da provare sarà il cosiddetto intento speciale, e cioè l’effettiva volontà di voler distruggere del tutto o in parte i palestinesi di Gaza in quanto tali, ossia in quanto palestinesi e in quanto abitanti di Gaza: “È l’elemento più difficile da provare, ma credo che il Sudafrica in questo sia riuscito in maniera solida e convincente.” ha dichiarato il giurista internazionale Mariniello in un’intervista rilasciata alla testata Altraeconomia. La prova di questa intenzione sarebbero gli omicidi di massa, le gravi lesioni fisiche e mentali e l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere i palestinesi, come l’evacuazione forzata di circa due milioni persone, la distruzione di quasi tutto il sistema sanitario della Striscia e l’assedio totale dall’inizio della guerra con la privazione di beni essenziali per la sopravvivenza come acqua, viveri ed elettricità. Nella memoria di 84 pagine presentata dal Sudafrica vi sono anche le innumerevoli dichiarazioni esplicite dei leader politici e militari israeliani che proverebbero tale intento, come quella di Netanyahu che, all’inizio delle operazioni, ha invocato la citazione biblica di Amalek che, sostanzialmente, significa “Uccidete tutti gli uomini, le donne, i bambini e gli animali”, o la dichiarazione del ministro della difesa Yoav Gallant che ha dichiarato che a Gaza sono tutti animali umani e che l’esercito israeliano avrebbe agito di conseguenza: “Queste sono classiche dichiarazioni deumanizzanti, e la deumanizzazione è un passaggio caratterizzante tutti i genocidi che abbiamo visto nella storia dell’umanità” afferma Mariniello.

Israel Katz

L’impianto difensivo di Israele si basa, invece, su tre punti fondamentali: il fatto che quello di cui lo si accusa è stato in verità eseguito da Hamas il 7 ottobre; il concetto di autodifesa, cioè che quanto fatto a Gaza è avvenuto in risposta a tale attacco e, infine, che sono state adottate una serie di precauzioni per limitare l’impatto delle ostilità sulla popolazione civile. ”Non vi è alcuna base per le affermazioni del Sudafrica contro Israele. Anzi. Non è stata presentata alcuna prova a riguardo, solo l’evidenza di una guerra difensiva” aveva dichiarato il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz al termine delle arringhe del team di difesa all’Aja, ma questa narrativa – che è anche la narrativa dominante nei media e nei palazzi del potere del nostro paese – secondo la quale Israele si starebbe semplicemente difendendo contro un attacco da parte di un’organizzazione terroristica, oltre che politicamente insensata per chiunque abbia un minimo di buon senso, appare anche giuridicamente molto debole in quanto presuppone di ignorare completamente la storia e il contesto dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi: “Esiste sempre un contesto per il diritto penale internazionale e l’autodifesa, per uno Stato occupante, non può essere invocata” chiarisce Mariniello; Israele, insomma, per appellarsi all’autodifesa dovrebbe completamente cancellare la propria storia di potenza colonizzatrice – più volte denunciata da decine di Stati e organizzazioni internazionali – e il suo status giuridico di potenza occupante. Dovrebbe, insomma, provare che le 500 pagine scritte da Human Rights Watch e Amnesty International che descrivevano dettagliatamente il sistema di apartheid sui palestinesi e pubblicate due anni prima dell’attacco del 7 ottobre, non esistono, e dovrebbe provare anche che non esistono le decine di risoluzioni ONU che ne hanno condannato, in questi anni, il comportamento a Gaza e in Cisgiordania.
Come scrive Francesca Albanese nel suo ultimo libro J’Accuse, anche il processo di deumanizzazione dei palestinesi – supporto retorico e ideologico alla loro eliminazione – non è certo un fatto nuovo, ma va avanti ormai da decenni: “Questa definizione di animali umani” scrive “in realtà, è il prodotto ultimo di un processo di disumanizzazione del quale il popolo palestinese è vittima da tempo. I sostenitori di Israele hanno elaborato narrazioni che ritraggono i palestinesi come una minaccia esistenziale per il popolo ebraico e le rivendicazioni palestinesi per il riconoscimento dei propri diritti individuali e collettivi, sanciti da trattati internazionali universali e da centinaia di specifiche risoluzioni dell’ONU sulla questione israelo – palestinese, come una sfida diretta alla vita stessa di Israele.”; “Come spiegano gli studiosi Neve Gordon e Nicola Perugini” continua Albanese “Israele giustifica l’uso della forza contro i palestinesi, compresi i bambini, presentando l’intero collettivo palestinese come una minaccia intrinsecamente terroristica.” In ogni caso, il Sudafrica ha anche chiarito – se mai ce ne fosse stato bisogno – che anche in caso di autodifesa è comunque legalmente e moralmente vietato commettere un genocidio. Insomma: la reazione generale degli studiosi di diritto è stata critica verso la performance giuridica degli avvocati israeliani: “Il team israeliano ha mostrato debolezza giuridica” ha detto Mariniello; “si è concentrato su narrazioni politiche perché la posizione giuridica è indifendibile. ”Anche l’altro elemento sottolineato dal team israeliano riguardo le misure messe in atto per ridurre l’impatto sui civili, è sembrato più retorico che altro: il numero esorbitante di vittime civili, comprese donne e bambini – più di 25 mila in poco più 110 giorni di guerra – smentisce infatti in modo plateale tali dichiarazioni.
Nel frattempo, altri Stati stanno decidendo di costituirsi a sostegno di una o dell’altra parte: la Germania, ad esempio, che pure dovrebbe essere una dei massimi esperti di genocidio ma che ha, evidentemente, un incredibile fiuto per schierarsi sempre dalla parte sbagliata della storia, ha detto che sosterrà Israele; il Brasile, i paesi della Lega Araba, molti stati sudamericani (ma non solo) si stanno invece schierando con il Sudafrica. L’Italia non appoggerà formalmente Israele; la Francia rimarrà neutrale. Si può dire che i paesi del Global South stanno costringendo quelli del Nord globale a verificare la credibilità del diritto internazionale: vale per tutti o è un diritto à la carte? Ma i guai per Israele non sembrano finire qui: Cile e Messico hanno infatti chiesto alla Corte Penale Internazionale, che si occupa invece delle responsabilità penali individuali, di indagare sui crimini commessi dagli esponenti del governo e dell’esercito israeliano in questi mesi di guerra; in una dichiarazione rilasciata il 18 gennaio, Messico e Cile hanno dichiarato che il loro deferimento alla Corte era “dovuto alla crescente preoccupazione per l’ultima escalation di violenza, in particolare contro obiettivi civili, e la presunta continua commissione di crimini sotto la giurisdizione della Corte”.
Il deferimento presentato da Cile e Messico fa seguito a quello di Bolivia, Sudafrica, Gibuti e Comore che, a novembre, si erano rivolti alla Corte chiedendo al procuratore capo Karim Khan di indagare sulla commissione di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio in Palestina: anche prima degli attacchi in corso su Gaza, iniziati il 7 ottobre, le organizzazioni palestinesi per i diritti umani avevano ripetutamente invitato Khan a rilasciare dichiarazioni preventive “per scoraggiare la commissione di ulteriori crimini” da parte dell’Occupazione; queste richieste, insieme a quelle per accelerare le indagini, sono però state ignorate. Vedremo nelle prossime settimane come evolveranno queste indagini; quello che è sicuro è che dopo 3 decenni di sostegno incondizionato da parte di tutto l’Occidente collettivo e delle istituzioni internazionali all’apartheid israeliano, qualcosa si è irreversibilmente cominciato ad incrinare e che questo è stato reso possibile dalla determinazione di un paese – e una classe dirigente – che la battaglia contro l’apartheid l’ha vissuta direttamente sulla sua pelle vincendola già una volta. Il XXI secolo passerà alla storia come il secolo della Grande Decolonizzazione, quando finalmente le masse sterminate del Sud globale misero definitivamente fine al dominio di una piccola minoranza sul resto del mondo attraverso il ricorso sistematico alla violenza; abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte giusta della storia. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu

La fine dell’exit strategy: come Hamas costringe gli USA a impantanarsi di nuovo in Medio Oriente

La regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto lo sia mai stata negli ultimi vent’anni”. Con questa illuminante profezia, Jake Sullivan è finalmente riuscito a spodestare Piero Fassino e si è consacrato come il più grande raccoglitore di figure di merda dell’intero globo. Era soltanto il 29 settembre scorso e, appena una settimana dopo, quel Medio Oriente pacificato sognato da Sullivan tornava ad infiammarsi come non accadeva da diversi lustri, rendendo ancora più fitte, cupe e indecifrabili le nubi che ci separano dal nostro futuro. E quel che è più grave è che Sullivan, per portare il pane a casa e pure il companatico, e pure parecchi extrabonus in più, fa nientepopodimeno che il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA. Che se minimamente davvero ci tengono non dico alla nostra, di sicurezza – che la risposta la sappiamo già – ma anche solo alla loro, i suoi consigli farebbero bene a non ascoltarli proprio proprio pedissequamente, diciamo. “L’Asia occidentale potrebbe essere diretta verso una guerra su larga scala che si estenderà ben oltre la striscia di Gaza e Israele”, ammoniva enfaticamente ieri Hasan Illaik dalle pagine di The Cradle; “La guerra è iniziata”, si intitola l’articolo. E’ la stessa previsione nefasta condivisa anche da Suzanne Maloney dalle pagine di Foreign Affairs: vice presidente del Brooking Institute, quando si parla di Medio Oriente la Maloney è una delle voci più ascoltate di Washington, a prescindere da chi sia ai posti di comando. “Ciò che è iniziato”, scrive, “quasi inesorabilmente è la prossima guerra. Una guerra che sarà sanguinosa, costosa e terribilmente imprevedibile nel suo corso e nei suoi esiti”. Per tutti i nuovi adepti di ogni schieramento politico della teoria postfascista, secondo la quale la colpa delle ritorsioni degli occupanti ricade sulle spalle dei resistenti, ovviamente, la responsabilità è tutta di Hamas, che come un Putin qualsiasi ha agito senza essere manco stata provocata.

Fortunatamente però c’è ancora qualcuno che non si è completamente bevuto il cervello, come Jonathan Cook, che dalle colonne di Middle East Eye prova disperatamente a ricordarci una cosa che a me pareva abbastanza ovvia, ma evidentemente non lo era: “Va detto”, scrive, “che la popolazione di Gaza stava lentamente e nel disinteresse di tutti affrontando un lento e apparentemente tranquillo percorso verso la cancellazione definitiva”.
Con il consenso e la complicità di sostanzialmente tutto il resto del mondo, nonostante politiche che Cook non fatica a definire esplicitamente genocide, “negli ultimi 16 anni il sostegno occidentale a Israele non ha mai vacillato, nonostante Israele stesse trasformando Gaza, dalla più grande prigione a cielo aperto del mondo, in una raccapricciante camera di tortura dove i palestinesi sono stati sottoposti a una lunga serie di esperimenti: cibo razionato, beni essenziali negati, accesso all’acqua potabile gradualmente rimosso e cure mediche impedite”. In queste condizioni, continua Cook, “i politici europei non si sono limitati a non fare niente per intervenire, ma anzi hanno premiato Israele con un sostegno infinito e incondizionato di carattere finanziario, diplomatico e anche militare. La verità è che senza un sostegno così incondizionato della politica occidentale, e senza la complicità dei media che ribrandizzano i furti di terre da parte dei coloni e l’oppressione da parte delle forze armate israeliane come una sorta di “crisi umanitaria”, Israele non sarebbe mai riuscita a farla franca con i suoi crimini. Sarebbe stato costretto a raggiungere un accordo adeguato con i palestinesi, e sarebbe stato costretto a normalizzare davvero i rapporti con i vicini arabi senza costringerli ad accettare una pax americana in Medio Oriente”.

Una pax americana che – dagli e ridagli – alla fine aveva convinto finanche i sauditi ad ingoiare la pillola: come ricorda Spencer Ackerman su The Nation infatti, “A nessuno, men che meno i palestinesi, sfugge che nel 2002 l’allora principe ereditario saudita Abdullah bin Abdul Aziz condizionava il riconoscimento di Israele a quello dello stato palestinese. Ora”, invece, “il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha rimosso tale condizione. Durante un’intervista del 20 settembre con Bret Baier di Fox News, ad esempio, si è impegnato solo per “una buona vita per i palestinesi”, parole che molti dei miei interlocutori hanno interpretato come l’accettazione di Riyadh dell’occupazione a tempo indeterminato”.

Per quanto oggi siate turbati, la verità è che il vostro turbamento negli ultimi 20 anni non aveva impedito ad Israele, con il sostegno di tutto l’Occidente e anche del mondo arabo, di portare sostanzialmente a compimento il suo progetto genocida: “una politica di incessante escalation” – come la definisce lucidamente Cook – “venduta dai media occidentali come “calma” e “tranquilla”, almeno fino a che i palestinesi non si azzardano a tentare di reagire ai loro aguzzini. Solo allora si parla di escalation. Sono sempre e solo i palestinesi ad “intensificare le tensioni”. E a quel punto la riproposizione su scala allargata delle oppressioni permanenti inflitte da Israele può essere rietichettata come ritorsione”.

“Quello che ci si aspetta dai palestinesi”, conlcude Cook, “è che soffrano in silenzio”. Ma intrappolare nel silenzio la rabbia di un popolo fiero e ostinato, evidentemente, è più complicato del previsto.

La fine della exit strategy degli USA dal Medio Oriente”: così ha intitolato il suo lungo articolo apparso martedì su Foriegn Affairs Suzanne Maloney, secondo la quale “l’assalto di Hamas ha messo fine alle illusioni di Washington. Ad essere finita, almeno per chiunque abbia voglia di ammetterlo, l’illusione che gli Stati Uniti possano districarsi da una regione che ha dominato l’agenda della sicurezza nazionale americana nell’ultimo mezzo secolo”. L’idea del ritiro, suggerisce la Maloney, sarebbe maturata gradualmente, mano a mano che si cominciavano a fare i conti con i fallimenti in Iraq e Afghanistan, e si faceva avanti l’idea che le gigantesche risorse che erano state investite con scarsi risultati in quest’area erano ormai diventate indispensabili per fronteggiare adeguatamente la doppia sfida rappresentata da Russia e Cina. Ma per non lasciare l’intera area in balia delle mire espansionistiche dei due competitor geopolitici, bisognava prima ridisegnare i rapporti tra potenze regionali (ovviamente ammesso e non concesso che queste mire espansionistiche esistano davvero, ma d’altronde pretendere da un membro dell’establishment USA di ragionare in termini diversi dal puro dominio sarebbe velleitario, quindi andiamo avanti). Questo nuovo equilibrio tra potenze regionali che gli USA dovevano avviare prima di lasciare l’area in balia del suo destino, erano appunto gli accordi di Abramo che, per quelli che si ostinano ancora a credere davvero che gli interessi strategici degli USA cambino a seconda di chi c’è al governo, ricordiamo essere stati un’invenzione dell’amministrazione del populista Trump, che il democratico Biden ha fatto immediatamente sua; un’invenzione che però è rimasta sempre solo sulla carta. L’obiettivo finale infatti era allineare due dei tre attori principali della regione cioè sauditi e israeliani, mettendo all’angolo il terzo, l’Iran, cavallo di troia di russi e cinesi. Un piano che ha subito una brusca deviazione quando, con la mediazione cinese, in maniera del tutto inaspettata Iraniani e sauditi hanno deciso di tornare a parlarsi e saltato il piano, l’opportunità per gli USA di uscire dall’area per concentrarsi sulle loro sfide esistenziali, è sfumata. Secondo la Maloney, agli USA non rimane che “impiegare, nei confronti dell’Iran, lo stesso tenace realismo che ha informato la recente politica statunitense nei confronti di Russia e Cina: costruire coalizioni di coloro che sono disposti ad aumentare la pressione e paralizzare la rete terroristica transnazionale dell’Iran; ripristinare l’applicazione delle sanzioni economiche”, e usare tutti gli strumenti a disposizione, dalla “diplomazia”, alla “forza”, per scoraggiare l’aggressività regionale di Teheran. Insomma, da brava neocon integralista, l’importante è impedire che le forze regionali trovino una forma di convivenza, perché da qualsiasi forma di convivenza pacifica ne uscirebbero avvantaggiate Russia e Cina. Gli USA devono rinunciare alla exit strategy dal Medio Oriente non per stabilizzarlo, ma proprio per impedirne strutturalmente ogni volontà di stabilizzazione. Ed ecco così che “mentre la campagna di terra israeliana a Gaza inizia”, scrive la Maloney, “è altamente improbabile che il conflitto rimanga lì. L’unica domanda è la portata e la velocità dell’espansione della guerra”: l’importante per un neocon è che si parli sempre e solo di guerra, e che la parola pace non compaia mai. Ma come insegna l’Ucraina, e prima di lei l’Afghanistan – giusto per fare un esempio a caso – parlare volentieri di guerra non sempre significa avere anche idea di cosa occorre fare per vincerla, a partire proprio dalla campagna di terra a Gaza, che è più facile da dire che da fare. Come ricorda infatti l’Economist, ovviamente Hamas sapeva benissimo sarebbe arrivata, e potrebbe essere meno impreparata di quanto non sembri; già nel 2014, ricorda ancora l’Economist, “nello scontro con Israele le brigate di Hamas continuarono a combattere per 50 giorni” e oggi, “dopo numerose guerre, sono più agguerrite, innovative e meglio equipaggiate che mai”.

Le tattiche che abbiamo visto utilizzare da Hamas nell’attacco contro Israele”, titola Al Jazeera, “sono state tra le più sofisticate, finora. Il gruppo ha utilizzato aria, mare e terra in quelle che in termini militari sono note come operazioni multi-dominio”: prima ha utilizzato i droni per attaccare i posti di osservazione israeliani, poi ha lanciato una quantità infinita di missili che nessuno sospettava avessero, fino a saturare e rendere inefficace il tanto decantato iron dome,poi è passata all’infiltrazione fisica, attaccando il gigante israeliano da una miriade di direzioni diverse, compreso un fitto reticolo di tunnel di cui di nuovo nessuno sospettava l’esistenza.

Certo, lo so che sono solo subumani e che Israele, come baluardo delle democrazie avanzate in Medio Oriente, è sostanzialmente infallibile, ma magari un pizzico di umiltà in più non basta.

Per capirlo, è sufficiente guardare proprio la facilità con la quale è stata bucata l’intelligence: “La causa principale del fallimento dell’intelligence israeliana nei confronti di Hamas”, scrive il sempre ottimo Scott Ritter che – ricordiamo – per campare lavorava proprio nell’intelligence dei Marines, “è stata l’eccessiva fiducia che Israele riponeva nella raccolta e nell’analisi dell’intelligence stessa”.

Fare gli sboroni è bello, ma a volte fa male.

L’unità 8200” – che è l’unità delle forze armate israeliane incaricata dello spionaggio e delle intercettazioni di ogni segnale possibile immaginabile – “ha speso miliardi di dollari per creare capacità di raccolta di informazioni che assorbono ogni dato digitale proveniente da Gaza: chiamate al cellulare, e-mail e SMS. Gaza è il luogo più fotografato del pianeta e, tra immagini satellitari, droni e telecamere a circuito chiuso, si stima che ogni metro quadrato di Gaza venga ripreso ogni 10 minuti”. Per analizzare tutto questo materiale, l’unità 8200 ha sviluppato i suoi algoritmi di intelligenza artificiale, la cui efficacia e capacità predittiva sono state tra le chiavi dei grandi successi ottenuti appena due anni fa, nel 2021, con la campagna Guardiani del Muro, durante la quale sono state fatte 1500 vittime e sono stati decapitati i vertici di Hamas, il tutto senza perdere quasi nemmeno un uomo. Poi però, evidentemente, qualcosa si è rotto: “L’errore fatale di Israele”, scrive Ritter, “è stato quello di vantarsi apertamente del ruolo svolto dall’intelligenza artificiale nell’operazione Guardiani del Muro. Perché evidentemente, da allora, Hamas è riuscita a prendere il controllo del flusso di informazioni raccolte da Israele”. Secondo Ritter, sostanzialmente, li hanno fregati: invece che smettere di usare i canali di comunicazione controllati dagli Israeliani e analizzati dai loro sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale, li hanno continuati ad usare eccome, ma solo per mandare falsi segnali. Agli occhi del sistema tutto procedeva come al solito, mentre lontano dagli occhi del grande fratello israeliano, Hamas si preparava in tutta tranquillità a infliggergli una delle sconfitte più tragiche della storia del paese.

Fortunatamente c’è già un bel piano B: ad architettarlo, un nutrito gruppo di menti brillanti che mercoledì scorso si sono riunite in manifestazione a New York. Nel caso servissero, gli USA avrebbero già dato mandato di inviare nelle vicine basi sparse nella regione un’altra ventina abbondante di caccia F-16 e F-35; alcuni carichi di munizioni – sembra -sarebbero già arrivati. L’aarsenale della democrazia diventa così ufficialmente l’arsenale del genocidio. Ma come si fa a giustificare l’idea di radere più o meno completamente al suolo un fazzoletto di terra dove vivono ammucchiate come topi quasi 3 milioni di persone, per quasi la metà bambini?

Semplice. Così:

Libero: HAMAS DECAPITA I BIMBI
Il giornale: DECAPITANO I BAMBINI
La verità: SCOPERTI 40 PICCOLI CORPI MARTORIATI, MOLTI DECAPITATI
La stampa: LA STRAGE DEGLI INNOCENTI, ANCHE DEI NEONATI DECAPITATI TRA I CADAVERI

E così via; lo stesso identico titolo su tutti – e dico letteralmente tutti – i giornali italiani.

D’altronde, pretendere che gli sciacalli non facciano sciacallaggio sarebbe velleitario. Peccato però che a questo giro ci sia un problemino in più: questa notizia che occupa le prime pagine di tutti i giornali si basa infatti su un’unica fonte, una giornalista israeliana che lavora per un canale all news nato “per pubblicizzare nel mondo il punto di vista israeliano”, scriveva Haaretz al momento del lancio. Ma non solo, perché – come ha ammesso la giornalista stessa – questi bambini decapitati lei in realtà manco li ha visti. Gliel’hanno detto. A lei però. Agli altri giornalisti no. Samuel Forey è un giornalista indipendente che vive a Gerusalemme dal 2011 e che collabora con Le Monde e Mediapart; martedì anche lui era a Kfar Azza, nel kibbutz degli orrori ma, come dichiara su X, “Nessuno mi ha parlato di decapitazioni, tanto meno di bambini decapitati, ancora meno di 40 bambini decapitati”. Qualche sospettino è venuto anche all’agenzia di stampa di stato turca Anadolu, secondo la quale un portavoce delle forze armate israeliane avrebbe dichiarato che “l’esercito israeliano non ha nessuna informazione che confermi la vicenda dei bambini decapitati da Hamas”.

Tirare in ballo i bambini un po’ a casaccio, d’altronde, è un vecchio classico: tra i precedenti più celebri c’è quello che risale all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam, che poco dopo portò alla prima guerra del Golfo.

E’ il 10 ottobre del 1990 e a testimoniare di fronte al Comitato sui Diritti Umani del congresso USA appare una ragazzina di 15 anni; la identificheranno esclusivamente con il nome di battesimo, Nayrah. Dichiarò che in seguito all’invasione aveva assistito direttamente a membri delle forze armate irachene che entravano in un ospedale, toglievano i neonati dalle incubatrici e li lasciavano morire. La notizia ovviamente conquistò immediatamente le prime pagine di tutti i giornali e divenne subito uno dei cavalli di battaglia della narrazione che Bush padre spacciava a destra e manca per giustificare l’intervento. Due anni dopo, di Naryah si scoprì il cognome: al-Sabah, figlia di Saud al-Sabah, l’ambasciatore del Kuwait negli USA, e si scoprì che l’intera sua testimonianza faceva parte della campagna denominata Citizens for a Free Kuwait architettata dal governo del Kuwait e affidata al gigante delle pubbliche relazioni Hill & Knowlton per spingere appunto gli USA verso l’intervento. Ma al ridicolo non c’è mai limite: la performance migliore ieri ce l’ha infatti offerta l’inossidabile Lucio Malan, che ha pubblicato un video che ritrae dei bambini chiusi in una gabbia.

Malan ha fatto 1+1, ma il risultato gli è venuto 3.

Orrendo video pubblicato da Hamas,” ha scritto nel commento. “Bambini israeliani rapiti e tenuti in gabbie per animali. E ci sono varie altre gabbie pronte”. Ovviamente è immediatamente venuto fuori che era un video che girava da anni e che non c’è nessun rapimento; era un gioco, anche se – va ammesso – non particolarmente divertente direi.

https://twitter.com/LucioMalan/status/1711087104237650021

D’altronde funziona così: più è feroce, spietata e clamorosamente squilibrata la guerra che ci si approccia a combattere e più la propaganda deve alzare l’asticella, puntando alla deumanizzazione totale dell’avversario; una vecchia tecnica delle potenze colonialiste, poi perfezionata dal regime hitleriano, che ormai fa apertamente scuola. “Era giusto colpire di fatto tutti i tedeschi, per colpa dei crimini commessi dalla cricca nazista?” scrive in un post allucinogeno l’infaticabile Jacopo Iacoboni. “Certamente no” risponde, “ma nelle fasi finali della guerra questa distinzione finì per sfumare, perché bisognava distruggere i nazisti e impedire che continuassero a fare del male all’umanità”.

La soluzione finale ormai non è più tabù, ma una strategia come un’altra.

Fortunatamente in questa escalation di barbarie, ogni tanto emerge qualche bella storia. Basta volerla raccontare: Middle East Eye, la testata fondata dall’ex inviato del Guardian David Hearst, è una delle poche che non c’ha completamente rinunciato e sul suo profilo tiktok, ha rilanciato questa intervista:

@middleeasteye

Israeli woman speaks of experience with Hamas fighters. An Israeli woman gave an interview to a local Israeli channel recounting her experience with Hamas fighters when they entered her home following the Hamas-led attack of 7 October. #Hamas #Israeli #israel #learnontiktok #foryou #fyp

♬ original sound – Middle East Eye

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E chi non aderisce è Jacopo Iacoboni.