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Tag: costituzione

CONTRO LE ELEZIONI – Come il sorteggio salverà la democrazia

Il 2024 sarà un anno esplosivo e a dirlo non sono gli astri o le bombe sganciate da Biden e vassalli un giorno sì e l’altro pure, ma i dati elettorali: più di cinquanta paesi, con oltre quattro miliardi di cittadini alle urne, segnano l’anno con maggiore partecipazione democratica di sempre. E se noi di Ottosofia rimaniamo sempre scettici sull’equazione elezioni = democrazia, non siamo tanto gonzi da sminuire la portata di questa gigantesca tornata elettorale: oltre agli USA e all’Unione Europea, infatti, saranno coinvolti diversi soggetti del Sud globale, inclusi ad esempio India, Pakistan, Sud Africa, Messico. Tutto l’entusiasmo per la partecipazione democratica nasconde, però, un paradosso: in Europa, che nella vulgata mainstream è da sempre decantata come la culla della Democrazia, l’affluenza al voto nazionale ed europeo è in calo, e da diverso tempo: l’Italia, per dire, alle elezioni politiche del 2022 ha toccato il record negativo di votanti – un italiano su tre non pervenuto; se poi guardiamo alle recenti elezioni europee, sfondare il tetto del 50% è già grasso che cola. Ecco quindi il paradosso: un sistema elettorale sempre più diffuso su scala mondiale cui corrisponde una crisi di partecipazione democratica; da questo nodo, apparentemente inspiegabile, parte la riflessione di David van Reybrouck, filosofo e drammaturgo olandese, nel suo eloquente saggio Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico.

David van Reybrouck

Come ricorda l’autore dati alla mano, infatti “La percentuale della popolazione mondiale favorevole al concetto di democrazia non è mai stata così elevata come ai giorni nostri.” (p. 7); nonostante questo, “nel mondo intero, il bisogno affermato di leader forti, che non necessitino di tenere conto di elezioni o di un Parlamento, è considerevolmente aumentato negli ultimi dieci anni e (…) la fiducia nei parlamenti, nei governi e nei partiti politici ha raggiunto un livello storicamente basso. È come se avessimo aderito all’idea della democrazia, ma non alla sua pratica, per lo meno non alla sua pratica attuale.” (p. 8). Abbiamo tutti sottomano una risposta semplice e facilona a questo fenomeno: è tutta colpa delle nuove generazioni e dei cittadini apatici che non si interessano di politica!. Peccato, ricorda Reybrouck, che le cose non stiano così: tutti i dati statistici, infatti, registrano un aumento di interesse per le tematiche politiche trasversale alle età e alle classi sociali; il problema, quindi, sta da un’altra parte e in particolare nella sfiducia dei cittadini verso i loro rappresentanti politici e nella frustrazione derivata dall’incapacità di incidere nelle politiche economiche e sociali; molti cittadini percepiscono la loro istanza come un flatus vocis destinato a perdersi nell’infinità di paletti, mediazioni e magnamagna che investono la politica su più livelli. “La politica è sempre stata l’arte del possibile, ma oggi è diventata l’arte del microscopico. Perché l’incapacità di affrontare i problemi strutturali s’accompagna a una sovraesposizione del triviale, incoraggiata da un sistema mediatico che, fedele alle logiche di mercato, preferisce ingigantire conflitti futili piuttosto che analizzare problemi reali, soprattutto in un periodo di calo delle quote di mercato dell’audiovisivo.” (p. 17); non è quindi il sistema democratico a essere un problema in sé, quanto l’idea che si realizzi esclusivamente tramite l’elezione di rappresentanti. La democrazia, potremmo dire, è bella ma non balla: è intelligente, ma non si applica; il populismo, la tecnocrazia e l’antiparlamentarismo non sono altro che tentativi politici di fornire risposta a questo enorme problema, tutti con l’obiettivo dichiarato di salvare la democrazia. Il populismo, ad esempio, punta a ridurre la distanza tra eletti ed elettori cercando di imporre comportamenti virtuosi ai politici vincolandoli alla volontà elettorale; la tecnocrazia, al contrario, sacrifica la volontà dell’elettorato puntando tutto sulla presunta efficienza di governi tecnici, di coalizione, multicolor: in entrambe queste risposte alla crisi democratica – nota Van Reybrouck – il problema non è mai la pratica elettorale, quanto i suoi risultati, siano essi politici corrotti o tecnocrati spietati. 
E se, invece, per gestire il problema della democrazia bella che non balla la soluzione fosse cambiare musica? Il nuovo spartito proposto da Van Reybrouck consiste nel dare ossigeno alla partecipazione democratica affiancando le istituzioni parlamentari presenti con una forma alternativa di decisione collettiva: la democrazia partecipativa aleatoria, un sistema decisionale composto da assemblee di cittadini estratti a sorte in grado di proporre leggi e soluzioni politiche ai problemi più attuali. A prima vista, rimaniamo perplessi: il sistema del sorteggio sembra quanto di più alieno alle democrazie parlamentari; come la mettiamo con la rappresentatività della maggioranza, Il controllo degli elettori sugli eletti, la competenza dei sorteggiati? Sembra assurdo pensare che una comunità politica possa mai accettare di farsi governare da qualcosa di imprevedibile come la pura sorte, eppure, allargando lo sguardo oltre i nostri confini geografici e temporali, scopriamo che in Occidente per diversi secoli il sorteggio non solo è stato utilizzato, ma ha pure rivestito un ruolo cruciale nelle decisioni politiche collettive. Nella culla della democrazia occidentale, l’Atene del quinto secolo a.C., la maggior parte dei membri delle istituzioni di governo erano scelti tramite sorteggio, col risultato che “dal 50 al 70 per cento dei cittadini di età superiore ai trent’anni” avevano ricoperto il ruolo di legislatori nel Consiglio dei Cinquecento: fu questa situazione di complesso equilibrio a stimolare la famosa riflessione di Aristotele, quando nella Politica afferma che “uno dei tratti distintivi della libertà è l’essere a turno governati e governanti”.

La Rivoluzione Francese

Tutto qui? Manco per scherzo, visto che sistemi di sorteggio spuntano come funghi per tutta l’Europa medievale e rinascimentale: nei comuni e in alcune repubbliche come Venezia, ad esempio, il sistema del sorteggio era ampiamente utilizzato per la nomina di cariche di altissimo livello; certo, il procedimento non era dei più semplici, ma garantiva notevole stabilità e, soprattutto, compensazione delle posizioni più o meno privilegiate dei candidati, tanto da essere oggetto ancora oggi di studi di ricerca informatica. Fino agli albori della Rivoluzione Francese, sorteggio è sinonimo di democrazia, laddove elezione lo è di aristocrazia; ciò che ribadisce, nel 1748, Montesquieu ne Lo Spirito delle Leggi era allora qualcosa di scontato: “La sorte è un modo di eleggere che non affligge nessuno [e] lascia a ciascun cittadino una ragionevole speranza di servire la patria” (Lo Spirito delle Leggi). . Poi, qualcosa nelle esperienze politiche impone una brusca sterzata alle procedure democratiche; con la Rivoluzione Francese e l’Indipendenza americana le élites politiche impongono sempre più la necessità di garantire un unico sistema: l’elezione dei rappresentanti e la netta separazione di questi ultimi dai rappresentati, cioè dal popolo.
A un paradosso, ne segue un altro: tendiamo a pensare che le rivoluzioni francese e americana siano state una svolta democratica fondamentale per l’Occidente; eppure, leggendo le dichiarazioni e gli scritti dei rivoluzionari, scopriamo uno scenario del tutto diverso. James Madison, John Adams e Thomas Jefferson, oltre allo status di padri della rivoluzione americana, condividono il disprezzo per la democrazia come sistema di governo: se Adams e Jefferson ripongono la propria fiducia in una sorta di aristocrazia naturale che guidi la maggioranza dei cittadini americani verso il bene comune, Madison specifica – con vagonate di ottimismo – che i rappresentanti politici eletti saranno per forza i migliori, poiché saranno “tutti i cittadini il cui merito gli avrà valso il rispetto e la fiducia del loro paese. […] Poiché emergeranno grazie alla preferenza dei loro concittadini, siamo in diritto di supporre che si distingueranno anche in genere per le loro qualità.” (James Madison, Federalist papers).

Samuele Nannoni

Dall’altra parte dell’Atlantico, nella Francia giacobina, la svolta politica per una partecipazione popolare senza precedenti andava a infilarsi sullo stesso binario morto; non è un caso, ricorda Van Reybrouck, che nei tre anni di dibattiti sull’estensione del diritto di voto dalla presa della Bastiglia, il termine democrazia sia del tutto assente e non è solo questione di terminologia, visto che da questi lavori parlamentari uscirà la Costituzione del 1791 che blinderà definitivamente l’elezione come unico sistema democratico possibile. L’esperienza plurisecolare della democrazia aleatoria interrotta bruscamente con la Rivoluzione Francese e americana, quindi, non può che condurci a un totale ribaltamento di prospettiva: “è da ormai quasi tremila anni che sperimentiamo la democrazia, e solo da duecento che lo facciamo esclusivamente per mezzo delle elezioni.” (Van Reibrouck, p. 44); certo, potremmo sempre obiettare che la situazione politica odierna non è la stessa del medioevo o dell’età antica e, quindi, che forse il sistema del sorteggio risulta antiquato rispetto alle libere elezioni. Ancora una volta, la risposta è negativa; a smontare definitivamente questo preconcetto è Samuele Nannoni, esperto di democrazia aleatoria, ricordando che a partire dagli anni Duemila la realtà deliberativa delle assemblee estratte a sorte è sempre più diffusa: dalla Francia all’Irlanda, dal Belgio alla Polonia fino al Regno Unito, spuntano iniziative politiche per dare voce ai cittadini sulla legiferazione nei temi più disparati, dalla bioetica alle politiche ambientali. Persino in Italia, dopo due secoli di letargo, si sta risvegliando l’interesse concreto per questa pratica, promossa tra gli altri da realtà associative come Prossima Democrazia allo scopo di cogliere quel rinnovamento necessario prospettato da David Van Reybrouck: “Bisognerà pure trarre una conclusione, anche se non fa piacere ammetterlo: oggigiorno le elezioni sono un meccanismo primitivo. Una democrazia che si limita a questo è condannata a morte. È come se riservassimo lo spazio aereo alle mongolfiere, senza tener conto della comparsa dei cavi ad alta tensione, degli aerei da turismo, delle nuove evoluzioni climatiche, delle trombe d’aria e delle stazioni spaziali.” (p. 64).
Ma come possiamo, concretamente, integrare la democrazia rappresentativa con quella aleatoria? Basterà il sorteggio per ripristinare un’autentica partecipazione democratica? E soprattutto, siamo davvero pronti a superare il meccanismo primitivo delle elezioni? Di questo e molto altro parleremo mercoledì 7 febbraio con la live di Ottosofia. Ospite d’onore Samuele Nannoni, vicepresidente di Prossima Democrazia.

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: La guerra dei fratelli di mezza Italia contro il Sud e la Costituzione

“Primo colpo allo statalismo” annunciava in pompa magna il 24 gennaio il Giornanale: “parte l’autonomia”. Dopo aver passato gli ultimi due anni a inneggiare alla distruzione fisica totale del Sud globale a suon di tweet che auspicavano esplicitamente missili su Pechino, la mitica Laura Cesaretti non vedeva l’ora di poter sostenere la guerra dichiarata dai fratelli di mezza Italia anche al Sud locale. Purtroppo ha avuto gioco facile; l’opposizione in aula del PD, infatti, suona necessariamente un po’ posticcia, per usare un eufemismo: la guerra senza frontiere al Sud del paese, infatti, l’hanno inaugurata proprio loro. Era l’inizio del secolo e il leader Massimo prima e Giuliano Svendipatria Amato poi tiravano fuori dal cappello la riforma del titolo V della Costituzione scolpendo sulla pietra, una volta per tutte, il principio dell’autonomia regionale e il lento ma inesorabile declino dello Stato unitario; è in quella fase che viene concepito il famigerato articolo 116 della nuova Costituzione anti – italiana: prevede che alle Regioni possano venir attribuite forme di autonomia in ben 23 materie, dalla salute all’istruzione, dallo sport all’ambiente, passando per energia, trasporti e addirittura commercio estero. In soldoni, tutto quello sul quale lo Stato centrale ancora oggi esercita una qualche sovranità, lasciando fuori esclusivamente quelle competenze che già da tempo, in realtà, sono state trasferite a Bruxelles, a Washington e soprattutto a Wall Street; in un paese economicamente già ampiamente diviso in due, è il via libera per quella che oggi possiamo chiamare la secessione senza secessione. Ma state sereni perché il legislatore mica è scemo, e ha trovato il modo di evitare che gli squilibri raggiungano dimensioni insostenibili anche per la tenuta stessa dello Stato italiano come Stato unitario: si chiamano LEP, Livelli Essenziali di Prestazione; servono a stabilire lo standard minimo dei servizi essenziali che deve essere garantito ai cittadini su tutto il territorio nazionale. L’autonomia vera e propria non può partire prima di averli stabiliti e prima di averli garantiti a tutti: ma come si fa a stabilire questi standard minimi?
Uno strumento ci sarebbe, e sarebbe tutto il resto della Costituzione che quali siano i diritti essenziali dei cittadini lo stabilisce con rigore e chiarezza, ma c’è un problemino: i diritti essenziali sanciti dalla Costituzione, infatti, in realtà non sono mai stati garantiti, ma proprio manco lontanamente e non solo nelle Regioni più arretrate, ma nell’intero paese; sancire standard minimi a partire dalla Costituzione quindi non avrebbe senso perché, in realtà, imporrebbe di trasferire alle Regioni più arretrate ancora più risorse di quante non ne siano state trasferite fino ad oggi. Significherebbe, in soldoni, invertire quel pezzo di secessione dei ricchi che è già stata ampiamente avviata. E allora ci vogliono parametri diversi, e questi parametri diversi in estrema sintesi suonano così: sei povero? Cazzi tuoi.

“Per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole” – recitava la nostra Costituzione prima della sua rivisitazione in chiave neoliberista operata dal centrosinistra a inizio secolo – “lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali”: quando ancora l’Italia era una democrazia moderna, l’idea che per difendere l’interesse nazionale e il bene di tutti i cittadini italiani – e non solo di quelli del Mezzogiorno – la Repubblica dovesse adoperarsi con ogni mezzo necessario per superare il dualismo economico tra Nord e Sud era data per scontata da ogni fazione politica fino a quando, passo dopo passo, alla chetichella, lo Stato ha cambiato segno e non ha deciso, invece, di contribuire attivamente all’aumento di quel divario. Come ha ricordato nel maggio scorso il sempre ottimo Andrea del Monaco durante un audizione alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, infatti, “In termini di spesa pubblica annua pro – capite del Settore Pubblico Allargato, un cittadino del Centro – Nord riceve in media 17.363 euro, mentre un cittadino meridionale in media si deve accontentare di 13.607 euro”: fanno 3.756 euro di differenza, quasi il 22%, alla faccia dell’assistenzialismo; per lo Stato italiano, tagliando ovviamente con l’accetta, un cittadino medio del Nord è del 22% più importante di uno del Sud, e si vede.
Il caso forse più eclatante in assoluto è quello dei servizi per l’infanzia: la spesa pubblica media per ogni bambino di età inferiore ai 3 anni per servizi socioeducativi, infatti, va dai 1.724 euro dell’Emilia Romagna e i 1.485 della Toscana ai 284 della Puglia, i 218 della Campania, per finire addirittura con i 116 euro della Calabria; un bambino calabrese vale meno di un quindicesimo di uno emiliano? Ovviamente, nessuno ha il coraggio di dichiararlo esplicitamente; certo, è vero che da 30 anni a questa parte ci fanno ingoiare le peggio schifezze con le giustificazioni più strampalate, ma a tutto c’è un limite e le principali forze politiche del paese lo sanno. Eppure, sfortunatamente per loro, la realtà continua ad avere una sua qualche rilevanza e la realtà ci dice, molto semplicemente, che per portare i servizi erogati al Sud al livello di quelli erogati al Nord ci vorrebbero ogni anno circa 75 miliardi in più; un dato oggettivo che fa a cazzotti con un altro: la Regione Veneto, infatti, ha detto chiaramente cosa vorrebbe ottenere con l’autonomia differenziata – trattenersi in casa il 90% delle tasse dei veneti.
Ma cosa succederebbe se le 3 Regioni di ogni colore politico che stanno già lavorando a un accordo per avviare la richiesta di autonomia – e cioè Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – arrivassero davvero a trattenere il 90% delle tasse dei rispettivi cittadini? Secondo le stime pubblicate dalla Rivista Economica del Mezzogiorno dai professori Adriano Giannola e Gaetano Stornaiuolo, ai bilanci dello Stato verrebbero di colpo a mancare la bellezza di 190 miliardi: quindi, riassumendo, il bilancio dello Stato ogni anno è di 750 miliardi; per permettere alle Regioni del Sud di offrire lo stesso livello di servizi offerto dalle Regioni del Centro – Nord avrebbe bisogno di altri 75 miliardi e, invece, se ne ritroverebbe 190 in meno. Cosa mai potrebbe andare storto? Fortunatamente l’ipotesi veneta, tra quelle sul piatto, è la più estrema e anche propagandistica, un obiettivo completamente irrealistico che serve solo a Zaia per rafforzare il consenso alla Democratura dello Zaiastan; la Lombardia, infatti, si accontenterebbe di gestire direttamente, invece che il 90% delle entrate, il 75 e la Rossa Emilia, in un grande slancio solidaristico, addirittura appena il 60, ma la sostanza in realtà cambia meno di quanto non si pensi: nell’ipotesi emiliana, infatti, al bilancio dello Stato verrebbero comunque a mancare 120 miliardi mentre, ricordiamolo, gliene servirebbero 75 in più rispetto a quelli che ha adesso. Con questi conti, tutto l’eterno tira e molla sui Livelli Essenziali di Prestazione non può che assumere le sembianze di una pantomima, un’arma di distrazione di massa per evitare di ammettere pubblicamente che l’autonomia differenziata, molto semplicemente, è strutturalmente incompatibile con l’idea che la Repubblica, un passetto alla volta, dovrebbe andare nella direzione di rendere concretamente i cittadini italiani uguali tra loro a prescindere da dove nascono; una missione che va ben oltre la semplice solidarietà, ma che ha a che vedere direttamente con la capacità del nostro Paese di rimanere unito per tentare, faticosamente, di tornare a esercitare una qualche forma di sovranità. Senza superamento del dualismo Nord – Sud, in soldoni, non solo non c’è sviluppo economico, ma manco democrazia, nemmeno per gli abitanti delle Regioni più ricche del Nord. Con l’autonomia differenziata, invece, il nostro Stato diventa per legge un promotore attivo delle diseguaglianze regionali; conti alla mano, l’unico modo per stabilire dei LEP compatibili con l’idea stessa dell’autonomia differenziata sarebbe porli a un livello ancora inferiore ai servizi essenziali attualmente erogati dalle Regioni del Sud, il che significherebbe sancire per legge – giusto per fare qualche esempio – che per i bambini italiani un posto in un asilo non è un diritto e per tutti gli altri non è un diritto curarsi tramite il servizio sanitario nazionale pubblico, tutte cose che nessuna forza politica, ovviamente, ha e avrà mai il coraggio di affermare pubblicamente in modo chiaro.
Ed ecco così che di LEP si parla da ormai 20 anni senza essere arrivati a capo di nulla, e allora la soluzione qual è? Semplice: a occuparsi di definire i LEP, che rappresentano il cuore del rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini, non saranno più i rappresentanti dei cittadini stessi; a occuparsene, invece, sarà una cabina di regia guidata direttamente dalla Presidenza del Consiglio – e il Parlamento muto, manco un ruolo consultivo. Il Parlamento, inoltre, non potrà mettere bocca nella trattativa tra Stato e singole Regioni su quali competenze verranno trasferite dallo Stato centrale alla periferia; il risultato di questa trattativa, inoltre, non potrà essere sottoposto a referendum e sarà, sostanzialmente, irreversibile: non male per una leader politica che, ancora nel 2017, tuonava enfaticamente contro l’idea delle piccole patrie (ed era già un tentativo di mediazione, diciamo).

Giorgiona mentre diventa svendipartia

Solo 2 anni prima, infatti, era stata decisamente più perentoria: “Le Regioni andrebbero abolite” aveva affermato; voleva ancora costruire i Fratelli d’Italia. Ora, evidentemente, quelli di mezza Italia le bastano e avanzano; d’altronde, la guerra senza frontiere di Giorgiona la svendipatria al Mezzogiorno era iniziata subito dal primo giorno del suo insediamento: il primo decreto in assoluto varato dal suo governo, infatti, aveva l’obiettivo nientepopodimeno di smantellare l’Agenzia per la Coesione, e cioè l’agenzia che si doveva occupare dei fondi comunitari per tutto il Mezzogiorno; non esattamente il momento migliore, diciamo. In ballo, infatti, c’era la partita del PNRR: i collaboratori dell’agenzia avrebbero dovuto fare i salti mortali per elaborare la relazione che dovrebbe certificare il rispetto della clausola del PNRR che imponeva di destinare il 40% delle risorse al Mezzogiorno; Giorgiona ci ha investito così tanto che s’è addirittura completamente dimenticata di rinnovargli i contratti di lavoro. Risultato: a 18 mesi di distanza, la relazione ancora non c’è. Accidenti a questi maledetti parassiti che, per lavorare, vogliono addirittura sapere se gli darai o meno uno stipendio. Probabilmente, comunque, non è stata semplicemente una svista: nel frattempo il governo Meloni, infatti, stava lavorando alla sua proposta di revisione del piano; prevedeva un taglio complessivo per 15,9 miliardi. La metà, 7,6, erano destinati al Sud – dalla riqualificazione delle periferie alla riconversione dell’ILVA – ma era solo l’antipasto: dopo anni e anni di intoppi burocratici, da pochissimo avevano preso il via le 6 ZES del meridione, le Zone Economiche Speciali individuate nelle aree portuali del Mezzogiorno che, finalmente, stavano riuscendo a intercettare qualche investimento. Giorgiona e Fitto allora che fanno? Le sciolgono e creano la ZES unica, totalmente gestita da un’unica struttura insediata a Roma, una sessantina di persone in tutto che devono gestire tutte le autorizzazioni alle nuove imprese; anche qui, risultato: da sei mesi le ZES sono completamente ferme.
Ma il vero capolavoro arriva con la manovra di bilancio: è la scure che si è abbattuta sul fondo perequativo infrastrutturale del quale abbiamo già parlato in dettaglio in un video precedente. “Tagliati 3,7 miliardi di euro destinati al Sud” titolava ieri Il Domani; “Salvini sceglie il ponte e abbandona le scuole”: il riferimento è al famoso fondo perequativo infrastrutturale. Aveva in dotazione 4,6 miliardi per cosucce da niente come strade, rete idrica e trasporti; era Stato varato nel 2009 nientepopodimeno che da Roberto Calderoli, una mancetta per convincere gli alleati meridionali a ingoiare la pillola del federalismo fiscale: peccato che per oltre 10 anni non sia mai arrivato il decreto attuativo. Per vederlo ritirare fuori si è dovuto aspettare Giuseppe Conte, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo e il: i fondi sono comunque rimasti lì bloccati altri 3 anni e, visto che erano bloccati, ora il governo ha deciso di ridurli ad appena 900 milioni.
La scure che si è abbattuta su uno dei pochissimi – e del tutto inadeguati – strumenti contro il dualismo Nord – Sud rimasti a disposizione dello Stato è una specie di anteprima di quello che accadrà su scala incommensurabilmente superiore con l’autonomia differenziata, a prescindere dalle retorica sui LEP; e così, passo dopo passo, lontano dagli occhi e dal cuore del popolo italiano, in mezzo a una montagna di tecnicismi e di burocratese buoni solo per stordire l’opinione pubblica, ecco che si procede inesorabilmente verso quella che Gianfranco Viesti definisce, appunto, la secessione dei ricchi e non è una semplice boutade: se in 70 anni di Stato centralista – con punte di interventismo che hanno rasentato spesso una forma ibrida di socialismo – il dualismo dell’economia e della società italiana non è stato superato, la costituzionalizzazione del fatto che chi più ha più deve avere e gli altri possono accompagnare solo rischia di rendere l’unità dello Stato italiano qualcosa di totalmente anacronistico e a rimetterci, paradossalmente, potrebbero non essere soltanto gli abitanti del Mezzogiorno; l’autonomia differenziata, infatti, va a braccetto con un processo di ulteriore smantellamento dei pochi spazi democratici rimasti e con il ritorno ad un sorta di feudalesimo con i governatori delle Regioni, dove il presidenzialismo c’è già e gli organi elettivi contano meno di zero – nella veste di feudatari – e al centro la Giorgiona nazionale che una riforma in senso presidenzialista dello Stato, invece, la richiede a gran voce per compensare il fatto di essersi ridotta a fare da zerbino a Washington e Bruxelles autonominandosi uoma sola al comando del protettorato italiano.

Tutte forme di concentrazione del potere nelle mani di pochissimi che non rispondono esclusivamente alle ambizioni personali dei singoli protagonisti, ma più generalmente alla necessità – appunto – di ridurre ogni spazio di democrazia residua in questa fase terminale di lotta di classe dall’alto contro il basso, con tutte le contraddizioni e i conflitti che necessariamente si porta dietro e che richiedono il rafforzamento della logica dell’uomo solo al comando: l’ambizione dei governatori di essere promossi allo status di reggenti del loro feudo spiega inoltre un altro fatto piuttosto pittoresco: vi siete chiesti, infatti, per caso com’è che mentre il Nord e il governo centrale dichiarano guerra al Mezzogiorno, i governatori del Sud non ci trovano niente da ridire? Il punto, molto banalmente, è che essere Re del regno di stocazzo è comunque meglio di essere semplicemente a capo di una macchina amministrativa un po’ scassata; insomma, i governatori del Sud stanno barattando l’interesse delle loro Regioni per un po’ di potere personale in più che in sistemi elettorali dove il voto clientelare ha un peso specifico gigantesco – perché i pochi soldi pubblici che rimangono sono sostanzialmente l’unica torta da spartirsi – è la migliore garanzia possibile di poter perpetrare il proprio regno il più a lungo possibile. Insomma: l’autonomia differenziata altro non è che un patto segreto e sottratto al dibattito parlamentare tra tutte le élite compradore del paese che, di fronte a una torta sempre più piccola, non trovano niente di meglio da fare che sbattere fuori dalla sala da pranzo tutti i cittadini per dividersi tra loro e solo tra loro pure le briciole. E’ arrivata l’ora di riprenderci tutt’ chell che è ‘o nuost; per farlo, servono tante cose: il conflitto sociale, un sindacato, un partito, ma prima di tutto ci serve un vero e proprio media indipendente ma di parte, quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Roberto Calderoli

C’era una volta la democrazia italiana

Premierato, presidenzialismo, semipresidenzialismo: anche tu ti sei accorto che nella nostra democrazia c’è qualcosa che non funziona? Nessun problema: come accade immancabilmente con ogni nuovo governo, anche la Meloni ha la sua bacchetta magica a forma di riforma costituzionale. Obiettivo (come sempre): garantire la governabilità. Ma sono davvero l’eccessivo potere del parlamento e la nostra Costituzione ad aver mandato in crisi la democrazia in Italia?
A ben vedere, queste discussioni sulla nostra Costituzione formale sembrano solo utili a distrarci dai veri problemi, molto più sostanziali, che hanno progressivamente distrutto la nostra socialdemocrazia e ci hanno privato di qualsiasi sovranità. Dopo il trentennio d’oro che va dall’immediato dopoguerra all’assassinio di Aldo Moro nel 1978, durante il quale l’Italia era stabilmente tra le prime sei potenze economiche mondiali e in cui il 99 per cento ha visto un incredibile miglioramento delle proprie condizioni di vita, è infatti cominciata quella controrivoluzione neoliberista e quella politica del vincolo esterno che ci hanno, anno dopo anno, messo in ginocchio. E allora, invece che continuare ad illudersi che modificando la Costituzione del ‘48 l’Italia ricomincerà a correre, forse sarebbe il caso di mettere finalmente in questione le vere cause di questo disastro, dal fallimento dell’integrazione europea al nostro rapporto con gli Stati Uniti, alla nostra cultura sempre meno imperniata da valori comunitari e solidaristici. In questa puntata cercheremo di capire come fece l’Italia, negli anni dopo la seconda guerra mondiale, a diventare una delle nazioni più sviluppate al mondo e ripercorreremo quei passaggi politici decisivi negli anni tra la prima e la seconda Repubblica che hanno stravolto per sempre il volto della nostra ex democrazia perché, come scrive il professore di filosofia del diritto Alfredo D’Attorre “Ogni superamento della condizione attuale di crisi e svuotamento della rappresentanza democratica dovrà fare i conti con una ricostruzione realistica delle origini e delle implicazioni del passaggio tra la prima e la seconda repubblica ben oltre le caricature propagandistiche che hanno dominato negli ultimi anni”.
Vincenzo Russo, patriota e martire della repubblica partenopea, già nel 1799 dichiarava:

Vincenzo Russo

La democrazia non consiste nelle favole della Costituzione democratica! Questa soltanto accenna a quello che si debba fare per avere democrazia, ma da sé stessa nol fa. La democrazia convien piantarla negli animi”, ma a più di 200 anni di distanza sembra che questo messaggio non lo abbiamo ancora capito. Una Repubblica, scrive il giurista Umberto Vincenti su La Fionda, non è semplicemente una struttura normativa, e cioè una forma di stato o di governo specifica; il termine Repubblica si riferisce invece a qualcosa di molto più profondo e strutturale: la partecipazione al potere dei cittadini ed implica, come primo dovere, il rispetto del legame sociale e il primato dell’interesse comune. In astratto, quindi, non ci sarebbe alcun problema a modificare – anche in profondità – la Costituzione del ‘48, ma nella realtà dovrebbero essere gli attuali rapporti di forza a dover essere cambiati: come sappiamo ormai tutti, nell’Italia del 2024 i rapporti di forza sono tutti a favore di una ristrettissima oligarchia che, con il sostegno di Bruxelles e di Washington, vorrebbe portare a termine la devastazione sociale del nostro paese senza ostacolo in parlamento e nella Costituzione, ma non è sempre stato così.
Nel 1948, ad esempio, i rapporti di forza erano molto diversi e quella Costituzione ne fu la perfetta espressione; l’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale e fondata sulla resistenza antifascista è un’Italia dove le masse popolari e le loro organizzazioni hanno un potere enorme e sono in grado di imporre al capitale e alle élite al suo servizio un equilibrio politico e sociale di cui l’intero paese beneficerà per i successivi 30 anni. Nel trentennio successivo, infatti, la tanto bistrattata Prima Repubblica riesce a sprigionare gran parte delle potenzialità della nostra Nazione: sul piano economico l’Italia diventa una delle prime 6 economie del pianeta, con una crescita media annua della produttività che si mantenne su livelli superiori a Germania e Francia; per la prima e unica volta nell’intera nostra storia unitaria gli indici economici segnalano anche una riduzione del divario Nord-Sud a partire dal dato del PIL pro capite, un risultato reso possibile anche da una relativa autonomia sia della politica economica che anche di quella monetaria, in grado da un lato di assicurare il legame tra politica fiscale e monetaria e dall’altro di mantenere un elevato livello di controllo sul movimento dei capitali. “Questo impianto” scrive Alfredo D’Attorre “ha consentito il mantenimento di una lunga stagione di cambi sostanzialmente fissi, che in quel contesto hanno fatto della lira una della valute più stabili del pianeta”.
Sul piano politico, grazie ad una forma istituzionale parlamentare imperniata sul sistema dei partiti e, in particolare, grazie alla presenza del più grande partito comunista d’Occidente, l’Italia conobbe una stagione riformatrice senza precedenti che la trasformò in un paese ricco, piuttosto democratico e con una chiara inclinazione socialista; è la stagione delle grandi conquiste nel campo dei diritti sociali e di una straordinaria partecipazione dei cittadini alla politica: ancora a metà degli anni Settanta gli iscritti ai partiti di massa superavano i quattro milioni e la partecipazione al voto si attestava in media sopra il 90 per cento. Sul piano geopolitico, la collocazione dell’Italia come paese di frontiera è un fattore che garantisce una notevole rendita di posizione politica ed economica – sia rispetto all’occupante americano sia rispetto ai paesi del Mediterraneo – e che la nostra classe dirigente riesce a sfruttare sapientemente; insomma, un equilibro retto da un certo tintinnar di sciabole, secondo l’espressione usata da Pietro Nenni, e in apparenza fragile per il continuo alternarsi di governi di durata media inferiore ai 12 mesi ma, in realtà, forte e stabile nei suoi indirizzi politici di fondo, che permise anche un grande fermento culturale e artistico e, soprattutto, di resistere a un’offensiva terroristica su più fronti evitando derive di tipo greco e cileno.
Tutti questi elementi essenziali vennero però progressivamente meno con il vento neoliberista proveniente dal Nord America e poi con la drammatica caduta del blocco socialista; in particolare, le cose cominciarono a cambiare nella seconda metà degli anni ‘70, in coincidenza con il mutamento di contesto economico internazionale legato al superamento dell’assetto di Bretton Woods e alla crisi del keynesismo: in una parola, con l’inizio della grande controrivoluzione neoliberista. Questo mutare di contesto, i cui effetti vennero accelerati dalla crisi petrolifera, convinsero parte rilevante del capitalismo italiano e dei ceti dirigenti ad esso collegato che il vecchio equilibrio economico sociale doveva cambiare: comincia così quello che è stato definito lo sciopero degli investimenti di consistenti settori del mondo finanziario e industriale, che accentua la spinta verso la progressiva liberalizzazione dei movimenti del capitale; è, questa, la svolta decisiva che rese di fatto insostenibile una politica economica e monetaria autonoma sul piano nazionale. “Guido Carli e Tommaso Padoa Schioppa” scrive Alfredo D’Attorre “hanno parlato a riguardo di un quartetto inconciliabile; le 4 variabili che, secondo Carli e Padoa Schioppa, non possono mai coesistere sarebbero:
1- la piena libertà degli scambi commerciali
2- la completa libertà di movimento dei capitali
3- l’esistenza di cambi fissi o governati e
4- una politica monetaria autonoma a livello nazionale

Alfredo D’Attorre

La rinuncia all’ultimo elemento viene così presentata come una necessità inderogabile per evitare una ricaduta e il conseguente continuo riaccendersi di una dinamica inflazionistica”. Parte così un percorso che si snoda dall’adesione al Sistema Monetario Europeo nel 1979, al divorzio Tesoro –Bankitalia del 1981, fino poi all’Atto Unico Europeo del 1986, al Trattato di Maastricht del 1992 e all’ingresso nella moneta unica nel 1999: un successone che, tra i vari entusiasmanti risultati, tra gli anni ‘80 e ‘90 fa anche crescere il debito pubblico italiano dal 58 al 120 per cento del PIL; sul piano politico, poi, l’attacco alla partitocrazia con la scusa di “restituire il potere ai cittadini” si è concretizzata in una lunga fase di egemonia dell’antipolitica che, alla fine, ha favorito solamente le oligarchie economiche e i nostri cosiddetti alleati europei e americani pronti a banchettare sulle nostre debolezze. Il sistema maggioritario, che avrebbe dovuto restituire “lo scettro all’elettore”, si accompagnerà invece a una costante diminuzione della partecipazione al voto, con un astensionismo che ormai sfiora il 50 per cento alle elezioni amministrative e il 40 per cento alle politiche; in questo contesto la stessa dialettica politica – anche in virtù di un irrigidimento dei vincoli esterni – è stata ridotta a mera competizione di potere tra partiti ideologicamente sempre più indistinguibili. “La combinazione di sistema maggioritario e forte irrigidimento del vincolo economico esterno” conclude il Prof. D’Attorre “è il vero DNA della seconda Repubblica”, un DNA che ha sostituito la sovranità popolare, che si esprimeva attraverso il continuum partiti – parlamento – governo, con la sovranità finanziaria e tecnocratica americana e comunitaria.
Per tornare alle riforme costituzionali, sembra quasi di sentirlo il rumore della mente dei costituzionalisti che si ingegnano nel cercare qualche formula che garantisca al tempo stesso rappresentanza e governabilità. Un falso problema: come scrive la professoressa di diritto pubblico Fiammetta Salmoni sempre su La fionda, infatti “l’integrazione europea, i Trattati, il mercato aperto e in libera concorrenza, la stabilità finanziaria, la stabilità dei prezzi e così via hanno già trasformato radicalmente sia la nostra forma di Stato sostituendo i principi fondamentali costituzionali come la garanzia dei diritti sociali, l’eguaglianza sostanziale, la finanza redistributiva, sia la forma di governo”, e non sarà certo qualche formuletta magica a restituirci ciò che ci è stato tolto.
Insomma, se anche tu credi che, in queste condizioni strutturali, modificare o non modificare la Costituzione sia un problema del tutto falso e strumentale, e se anche tu vorresti che l’Italia tornasse ad essere una Repubblica democratica, abbiamo bisogno di un media veramente libero che non si faccia prendere in giro da queste campagne di distrazione di massa. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi