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Tag: cinesi

Auto Cinesi: tariffe al 100%! Serviranno a qualcosa?

Biden ha approvato tariffe al 100% sulle auto elettriche cinesi, sulla carta un duro colpo all’industria automobilistica cinese, ma al momento non sembra esserci all’orizzonte una rappresaglia cinese, una contromossa rivolta contro i produttori di auto statunitensi.. come mai? Ne parliamo in questo video, mescolando l’attualità con la storia antica!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Sanzioni alle banche cinesi: gli USA preparano la “sanzione definitiva”?


Il segretario di stato statunitense Blinken è in Cina e alla vigilia del suo viaggio il Wall Street Journal ha rivelato che gli Stati Uniti stanno elaborando sanzioni che minacciano di tagliare fuori le principali banche cinesi dal sistema finanziario globale. Si tratta di uno dei più potenti strumenti di coercizione finanziaria che Washington possiede, che permette tagliar via l’accesso al dollaro per queste banche, e il dollaro è la denominazione della maggior parte del commercio globale… Insomma, pare che gli Stati Uniti vogliano usare l’ultima risorsa che hanno a disposizione, ma qual è lo scopo?
L’articolo del WSJ: https://www.wsj.com/politics/national…

Scandalo Giorgio Armani: come si diventa il terzo uomo più ricco d’Italia grazie alla schiavitù

“Le borse di pelle firmate Giorgio Armani” scrive Alessandro Da Rold su La Verità “si vendono nelle boutique dello stilista sparse per il mondo a poco meno di 2000 euro l’una”; “per produrle però” svela “di euro ne bastano una novantina. 75, se evadi pure l’IVA”: è il quadro che emerge dall’inchiesta della procura di Milano che ha portato all’”amministrazione giudiziaria della Giorgio Armani Operations spa, nell’ambito dell’indagine sul rapporto tra la holding e i suoi fornitori”. Il fornitore ufficiale italiano di Armani si chiama Manifatture Lombarde che, a sua volta, subappaltava le commesse a subfornitori cinesi, un rapporto che gli inquirenti hanno definito di caporalato di manodopera straniera irregolare e sul quale il gruppo, nella migliore delle ipotesi, “non vigilava”; in realtà, però, vigilava eccome, solo che si concentrava su altro: come ricorda Luigi Ferrarella sul Corriere della sera, infatti, “Un mese fa i carabinieri del Comando Tutela del Lavoro in uno di questi opifici cinesi hanno persino trovato un ispettore della Giorgio Armani Operations spa intento a fare il controllo di qualità dei prodotti”. “Nel corso delle indagini”, insistono gli inquirenti, “si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee e isolate di singoli, ma di una illecita politica di impresa”.
Nel frattempo, il mondo del lusso italiano veniva stravolto da un’altra notizia incredibile: la Kering della famiglia Pinault, infatti, si sarebbe comprata una storica palazzina in via Montenapoleone a Milano per la modica cifra di 1,3 miliardi, 110 mila euro al metro quadrato; è, in assoluto, la più grande operazione immobiliare della storia del nostro paese e servirà a vendere a cifre astronomiche gli oggetti prodotti dai nuovi schiavi che, ormai, si moltiplicano nel nostro paese. E’ la nuova normalità nell’era del declino putrescente del capitalismo finanziarizzato e dell’impero. Buon visione, e buon mal di stomaco.

Giorgio Armani

Quella su Armani non è la prima inchiesta del genere: a gennaio, a venire commissariata era stata l’Alviero Martini che, rispetto ad Armani, c’ha anche l’aggravante di fare prodotti di una bruttezza rara che ancora oggi interrogano tutti i principali psicologi del consumo globale; anche in questo caso l’azienda era stata “ritenuta incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo” forse anche perché, appunto, le garantivano lauti margini di profitto. In generale, il punto è che i marchi appaltano la produzione ad aziende che non hanno nemmeno lontanamente la struttura produttiva necessaria; sono solo intermediari che servono esclusivamente ad allontanare il luogo dove si concentra l’accumulazione di capitali e il profitto dal luogo ultimo dello sfruttamento più abietto, al di fuori di ogni perimetro di legalità. Gli intermediari, infatti, competono tra loro esclusivamente andando alla ricerca dei subfornitori più economici e, a quel livello, la gara sui prezzi si fa solo in un modo: violando ogni tipo di legge sui diritti del lavoro; non c’è investimento, non c’è know how, solo bruto sfruttamento oltre ogni limite, come nelle fabbriche di Manchester del 1800.
Le testimonianze raccolte dagli inquirenti tra i lavoratori delle aziende subfornitrici indagate sono la descrizione di un girone dantesco, anche se – evidentemente – non abbastanza per scatenare una reazione collettiva che vada oltre l’indignazione da salotto; la schiavitù, come lo sterminio di massa, evidentemente è ormai parte integrante del giardino ordinato e bisogna farsene una ragione senza indulgere troppo nel buonismo.
Tra i vari casi elencati, uno di quelli che mi ha colpito di più è quello della supply chain di Minoronzoni, il gruppo di Ponte San Pietro proprietario dei marchi Toscablu e Minoronzoni 1953, ma che il grosso dei quattrini li fa – appunto – subappaltando a lavoratori rinchiusi in qualche scantinato le commesse milionarie che gli arrivano dai principali brand del lusso internazionali: secondo le dichiarazioni raccolte dagli inquirenti, ricorda sempre Da Rold su La Verità, in buona parte lavoravano a cottimo “con una paga inferiore a un euro al pezzo per lavori che potevano durare fino a quattro ore”; secondo la testimonianza di un lavoratore, l’azienda pagava “più o meno 60 centesimi per manifattura e confezionamento”, spesa che poi fatturava direttamente a nome suo ai vari committenti, “da Guess, a Versace, passando per Armani” a circa 15 euro a cintura, un trentesimo del prezzo di boutique.
La cosa più inquietante è che tutte queste dinamiche (e il fatto che siano sistematiche) lo sappiamo ormai da anni: quando lavoravo a Report, la sempre cazzutissima Sabrina Giannini a un certo punto se ne venne fuori con ore e ore di filmati, girati con la telecamera nascosta dentro le aziende cinesi del pratese; si era spacciata per un’intermediaria in cerca di fornitori adeguati per alcuni brand del lusso. Il quadro che ne era emerso era raccapricciante: decine e decine di capannoni dormitorio con migliaia di lavoratori ammucchiati a farsi il mazzo per 12/14 ore al giorno, festivi compresi, prevalentemente la notte, tutto completamente fuori regola in mezzo a corridoi pieni del meglio del meglio del lusso made in Italy. “Da quanto tempo producete queste borse Gucci?” aveva chiesto la Giannini: “Da una decina di anni” aveva risposto l’imprenditore cinese; era il 2007, 17 anni fa. Da lì in poi, la Giannini s’è appassionata al tema e c’è tornata più e più volte, svelando quanto questo scandalo fosse sistematico e ben noto a tutti i soggetti coinvolti, tra ispezioni fasulle e leggi che – guarda caso – lasciavano sempre aperto uno spiraglino per continuare sempre col business as usual; e se oggi questa situazione raggiunge le aule dei tribunali è solo perché a Milano c’è un procuratore cazzutissimo che ha dichiarato guerra alla nuova schiavitù che la tecnocrazia neoliberista ha serenamente reintrodotto nel nostro paese, dal lusso alla logistica.
Si chiama Paolo Storari e, da qualche anno a questa parte, si è conquistato il ruolo di pm più odiato della penisola (o, almeno, dal partito unico della guerra e degli affari): sempre nell’ambito di un’altra sua inchiesta, ad esempio, nel dicembre del 2022 la guardia di finanza ha sequestrato 102 milioni di euro ai colossi della logistica Brt, che è l’ex Bartolini, e Geodis che, tra l’altro (giusto en passant) sono – come in buona parte del mondo del lusso – altri due esempi di aziende italiane acquisite da megaconglomerati francesi; nel corso delle indagini, Storari era andato a controllare a campione una trentina abbondante di cooperative che lavoravano come fornitori dei colossi della logistica e aveva trovato conferma a tutti i peggiori sospetti. Bartolini truffava sistematicamente Stato e fornitori riconoscendo in busta paga solo ed esclusivamente il minimo, per poi saldare a parte evitando di pagare i contributi; per “non far emergere criticità fiscali che potessero riverberarsi su Brt”, le cooperative venivano sistematicamente chiuse ogni due anni che, tra l’altro, per i lavoratori comportava anche la perdita sistematica degli scatti di anzianità e degli altri diritti maturati e il tutto era sostanzialmente gestito direttamente dall’azienda, con le coop che non avevano nessunissima autonomia organizzativa. In quel caso, nonostante tutti i crimini emersi e le prove che i crimini erano stati perpetrati sistematicamente, volontariamente e consapevolmente, il tutto – alla fine – s’è risolto con un anno di amministrazione giudiziaria, “alla ricerca di una misura efficace”, sottolineava il Corriere, “ma invasiva il meno possibile”: nessun esproprio, nessuna conseguenza penale; solo l’affiancamento per un anno alla solita struttura, che è rimasta al suo posto, di un amministratore esterno che faccia da tutor “per bonificare l’azienda” scriveva ancora il Corriere, “irrobustire i controlli ed evitare che si possano nuovamente verificare ulteriori situazioni agevolatrici di attività illecite”. Insomma: una pacca sulle spalle; d’altronde, in quel caso, era solo sfruttamento, non vera e propria schiavitù.
Nel caso dello scandalo Armani di sicuro le conseguenze saranno state più drastiche. Colcazzo; anche qua infatti, nonostante tutte le prove accumulate dagli inquirenti, le conseguenze dal punto di vista strettamente legale, al momento, sono minime: “La società” ricorda infatti il Corriere “non è indagata, né lo è l’89enne stilista terzo uomo più ricco d’Italia” e i vertici dell’azienda, che vede nel CdA tutti e tre i nipoti di Re Giorgio, sono sempre comodamente al loro posto. Il tutto, infatti, si limita – appunto – ad affiancare alla struttura aziendale, per un anno, il commercialista Piero Antonio Capitini per “bonificare i rapporti con tutti i fornitori”; ovviamente si tratta di casi eclatanti di giustizia dei ricchi: agisci per anni e anni impunemente mettendo in opera comportamenti illeciti eclatanti, alla fine vieni perseguito esclusivamente perché, nel mare magnum dell’esercito dei passacarte formati ad hoc per permettere al sistema di replicarsi sempre identico a se stesso, ogni tanto una scheggia impazzita comunque sfugge. E quando, dopo mesi di indagine, finalmente si riescono a provare in modo circostanziato e inoppugnabile tutte le zozzerie possibili immaginabili, il massimo che ti tocca è che per un anno ti viene affiancato un altro amministratore che deve controllare che non lo farai più, almeno fino a che non se ne va. E’ la conferma eclatante che nel giardino ordinato se hai un conto in banca a 6 zeri il massimo che ti puoi aspettare per i crimini più efferati è un po’ di toto’ sul culetto, ma oltre a questa vergogna che grida evidentemente vendetta, sarebbe anche il caso di andare oltre il moralismo e provare a capire le ragioni strutturali di tutta questa monnezza.
Iniziamo da un piccolo riassunto delle puntate precedenti: una sorta di micro-bignamino dell’idea ottolina di come s’è evoluto il capitalismo negli ultimi decenni. Facciamo un salto indietro, negli anni ‘70: la logica ferrea del capitalismo industriale ha comportato la concentrazione della produzione in fabbriche sempre più grandi e sempre più automatizzate; questo processo, però, aveva due problemini non da poco. Da un lato, gradualmente, riduceva i margini di profitto, come diceva Marx: la caduta tendenziale del saggio di profitto, che avviene inesorabilmente mano a mano che aumentano gli investimenti in quello che si chiama capitale fisso, (e cioè, appunto, grandi stabilimenti pieni zeppi di macchinari); dall’altro, che nella grande fabbrica, sempre più automatizzata, numeri crescenti di persone che hanno ruoli sempre più standardizzati si ritrovano a condividere la stessa identica condizione di sfruttamento e questo favorisce la creazione di grandi organizzazioni di massa in grado di contendere ai grandi capitalisti e ai loro docili servitori il monopolio del potere politico. Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 questo processo aveva raggiunto una dimensione tale da gettare nel panico le élite economiche globali che, per sopravvivere, hanno organizzato la loro controrivoluzione: la controrivoluzione neoliberista, che viene ufficialmente teorizzata, a partire dal 1975, con il famoso studio dal titolo La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie che un gruppo di ricercatori al servizio della dittatura del capitale capitanato dal famigerato Samuel Huntington ha redatto su richiesta della Commissione Trilaterale; nello studio si sottolinea, appunto, come la dittatura del capitale nei paesi più industrializzati è messa a rischio da un “eccesso di democrazia” che, appunto, deriva dalla capacità organizzativa dei lavoratori ai tempi della grande fabbrica. Da allora, l’obiettivo del grande capitale diventa, appunto, rimuovere la causa principale che aveva permesso ai lavoratori di guadagnare così tanto potere politico e cioè, appunto, la grande fabbrica taylorista; le strategie sono principalmente due: nei settori dove questo è possibile, frammentare il più possibile il processo produttivo, passando dalla grande fabbrica alle reti di piccoli produttori, un fenomeno che in Italia – in particolare – ha preso le sembianze della famosa distrettualizzazione che, incredibilmente, da certa sinistra è stato visto addirittura come un processo positivo, mentre, in realtà, non era appunto che uno degli strumenti della guerra di classe dall’altro contro il basso. Per quei settori dove, invece, questa frammentazione non era possibile, la strada maestra diventava la delocalizzazione; in entrambi i casi, ovviamente, era fondamentale introdurre meccanismi di concentrazione del potere economico che impedissero ai padroncini dei distretti, tanto quanto ai fornitori del Sud globale, di diventare indipendenti e quindi, alla fine, di fregare le oligarchie capitalistiche occidentali: tra questi meccanismi, i più importanti sono stati il monopolio del know how tecnologico, il monopolio – diciamo così – “culturale” (e quindi della creazione dell’immaginario attraverso il marketing con l’affermazione dei grandi brand) e, soprattutto, il monopolio finanziario, che è il vero cuore del potere politico.
Il cuore del potere politico, infatti, è sostanzialmente il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa e questo potere si è concentrato sempre di più nei grandi monopoli finanziari occidentali e, in particolare, statunitensi: prima con le grandi banche e, negli ultimi anni, in particolare, con gli asset manager che gestiscono patrimoni di ordini di grandezza superiori ai prodotti interni lordi della stragrande maggioranza dei paesi del globo; grazie alla concentrazione dei capitali nei grandi monopoli finanziari, la proprietà del grosso delle principali corporation globali – per la stragrande maggioranza basate negli USA – è oggi, sostanzialmente, tutta in mano a un manipolo di fondi che hanno completamente stravolto il meccanismo originario con il quale, nel capitalismo industriale, ci si arricchiva. Invece di investire per produrre merci e poi rivenderle per fare profitti, mettere i soldi nei mercati finanziari e riscuotere una rendita; il principale prodotto di questo nuovo capitalismo monopolistico completamente finanziarizzato non sono più le merci, ma le azioni – dal feticismo delle merci, al feticismo delle azioni quotate in borsa.

Bernard Arnault

Ora, in questo scenario macro il mondo del lusso presenta una lunga serie di anomalie: la prima, macroscopica, è che è uno dei pochissimi settori dove i gruppi principali non sono controllati dai giganti dell’asset management, a partire proprio dal principale dei gruppi, la LVMH capitanata da Bernard Arnault che, con i suoi 430 miliardi e oltre di capitalizzazione, pesa da sola per quasi metà del valore in borsa di tutto il settore, soprattutto se ci si aggiungono i quasi 150 miliardi di capitalizzazione di Dior, sempre della famiglia Arnault; in entrambi questi colossi del lusso, a guidare – con una maggioranza schiacciante – la compagine azionaria non sono i soliti fondi prenditutto made in USA, ma la cassaforte di famiglia del buon vecchio Bernard che l’ha trasformato nell’uomo in assoluto più ricco del pianeta, surclassando la nuova aristocrazia del tecnofeudalesimo made in USA. Ma tenere il passo dei grandi monopoli finanziari a stelle e strisce è un’opera titanica; i monopoli finanziari privati, infatti, sono in grado di garantire due cose: uno, che essendo i principali azionisti di tutti i principali gruppi in un determinato settore, quel settore è sostanzialmente monopolistico e, quindi, è in grado di imporre sulla società i margini di profitto che desidera. E’ esattamente quello a cui abbiamo assistito negli ultimi 2 anni, dove l’inflazione non era certo dovuta a una crescita della domanda, ma proprio alla capacità delle aziende di imporre prezzi sempre crescenti in quanto monopolisti privi di concorrenza. Due, che hanno una liquidità tale che sono in grado di garantire la crescita del prezzo delle azioni a prescindere da cosa succede nell’economia reale. Sostanzialmente, almeno fino a che regge l’impero e la dittatura globale del dollaro, sono in una botte di ferro che non può essere destabilizzata dagli alti e bassi del mondo reale.
Per tenere testa alla pressione di questi colossi, Arnault deve garantire sostanzialmente le stesse condizioni: che il mercato del lusso sia sostanzialmente un monopolio e che abbia abbastanza liquidità da sostenere il prezzo delle azioni a prescindere. Ed ecco così che, nel tempo, Arnault si è letteralmente comprato tutto: da Bulgari a Fendi, passando per Loro Piana e, giusto il mese scorso, pure Tod’s, così ricavi e profitti dovrebbero essere in una botte di ferro. La capacità, invece, di sostenere il prezzo delle azioni a prescindere, un po’ meno: le azioni di LVMH, a differenza di molte di quelle dove puntano BlackRock e Vanguard, sembrano – infatti – piuttosto dipendenti dai conti economici reali; dopo il covid, quando la gente è tornata a spendere i soldi che si era messa da parte durante l’emergenza pandemica, il titolo, infatti, ha guadagnato circa il 70% nell’arco di un anno. Poi, però, la stagnazione economica ha fatto credere ai mercati che anche il lusso ne avrebbe risentito e il titolo ha cominciato a scendere, nonostante Arnault abbia cercato di fare la piccola BlackRock de noantri; il meccanismo, ovviamente, per chi non gestisce migliaia di miliardi altrui come i fondi, è sempre quello del buyback; nel luglio scorso LVMH s’è ricomprata 1,5 miliardi delle sue azioni e, siccome non è bastato, il mese dopo Arnault da solo, di tasca sua, s’è comprato altri 250 milioni delle sue aziende, ma rispetto alla potenza di fuoco dei fondi, per una società che capitalizza quasi 450 miliardi, sono spiccioli. E il titolo è continuato a scendere fino al febbraio scorso, quando LVMH pubblica i risultati economici del 2023: se non ha abbastanza cash per imitare la strategia di sostenimento artificiale del prezzo delle azioni dei fondi, ha abbastanza controllo del mercato per incassare i dividendi della sua posizione semi-monopolistica. LVMH comunica una crescita delle vendite vicina al 10% e i mercati reagiscono istantaneamente: nell’arco di poche ore il titolo guadagna oltre il 10% e, nel mese successivo, guadagnerà un altro 20%.
A contribuire, nel frattempo, un altro fattore; LVMH ha capito che c’è un’altra speculazione finanziaria che è più alla sua portata che non la manipolazione del prezzo delle azioni: la speculazione immobiliare. Nell’arco di pochi mesi investe 500 milioni di dollari per ingrandire e rinnovare il gigantesco e leggendario negozio di Tiffany sulla 5th avenue – quello, appunto, di Colazione da Tiffany; poi si è comprato i negozi dove i suoi brand erano rimasti fino ad allora in affitto sugli Champs Elysèes e sulla londinese Bond Street. E LVMH non è un’eccezione; come titolava l’Economist il mese scorso, Gucci, Prada e Tiffany scommettono sugli immobili: a guidare le danze, in particolare, c’è il principale concorrente di Arnault, Kering, l’altro megaconglomerato del lusso francese. Kering è, in tutto e per tutto, il precursore di LVMH: a partire da fine anni ‘90, ha cercato di costruire un monopolio del lusso facendo shopping forsennato – da Gucci a Yves Saint Laurent, da Bottega Veneta a Balenciaga e sempre rimanendo saldamente in mano alla famiglia Pinault, un progetto che però, a un certo punto, si è arenato. L’ultima grande acquisizione di Kering (e che poi manco è così grande) è stata quella di Balenciaga nel 2001; nell’era dei monopoli, troppo poco: ed ecco ,così, che Kering non solo, come Arnault, non ha abbastanza cash per sostenere le sue azioni, ma manco abbastanza quote di mercato per garantirsi ricavi e profitti. Ed ecco, così, che a marzo, mentre LVMH era tornato a correre grazie a un anno record, Kering doveva dichiarare il crollo dei ricavi del suo brand principale, Gucci, che ha segnato un bel -20% di ricavi. Risultato: al contrario di LVMH, il declino delle azioni di Kering, iniziato col post covid, continua ancora. Ed ecco, allora, che – più di ogni altro – il buon vecchio Pinault decide di dedicarsi all’altro ramo della speculazione: quella immobiliare; a gennaio s’è comprato, per oltre 800 milioni, il negozio sulla 5th avenue dove Gucci era stato, fino ad allora, in affitto e giovedì scorso è arrivato a casa nostra. Per 1,3 miliardi di euro, infatti, il compagno Pinault s’è comprato il palazzo storico di via Montenapoleone a Milano dove ci sono le boutique di Saint Laurent e Prada: è, in assoluto, la più grande operazione immobiliare di sempre nel nostro paese – che uno si immagina chissà quanti metri quadrati saranno 1,3 miliardi… Macché: la superficie complessiva, infatti, è di poco meno di 12 mila metri quadrati – di cui soltanto 5 mila sono commerciali. Tradotto: sono 110 mila euro al metro quadrato.
Ora, capite bene che, rispetto a queste follie, Giorgio Armani, con i suoi 9 mila dipendenti, poco più di 2 miliardi di fatturato e meno di 150 milioni di utili, sia sostanzialmente un morto che cammina e che cerca di rimandare la sua resa definitiva con ogni mezzo necessario, compresa la schiavitù. Per ora sdoganare la schiavitù pubblicamente fa ancora brutto, forse, ma state tranquilli che ci arriveremo; li vedo già i giornali nei prossimi anni: Buonisti radical chic condannano la schiavitù e fanno chiudere le aziende italiane. Anzi: in realtà, anche se non formulata esattamente così, ci sono già stati; per anni abbiamo sostenuto che la controrivoluzione neoliberista avrebbe necessariamente portato all’impoverimento e alle svolte autoritarie; eravamo ottimisti. La controrivoluzione neoliberista ci scaraventa direttamente in una entusiasmante nuova era di genocidi, stermini di massa e schiavitù. Forse sarebbe il caso di organizzarsi e reagire come si deve a questa nuova età di barbarie senza fine; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che smonti pezzetto per pezzetto la narrazione delle oligarchie affamapopoli e dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Donatella Versace

P.S.: per i più determinati, visto che un po’ di tempo fa – quando, per la prima volta, Arnault venne ufficialmente incoronato da Forbes uomo più ricco del pianeta scavalcando allora Elon Musk – gli avevamo dedicato un simpatico video biografico, adesso ve lo riproponiamo. Buona ri-visione.

Wall street consensus: come la Finanza trasforma la crisi climatica in guerra contro i poveri

È possibile essere a favore della transizione ecologica senza odiare i poveri?

Di fronte alla polarizzazione del dibattito sulla crisi climatica, tra chi la nega perché una volta sul manuale delle medie ha letto che Annibale ha attraversato le Alpi di gennaio in scooter con l’infradito e chi invece si indigna quando quei cafoni delle pevifevie s’incazzano se la benzina gli costa il doppio, effettivamente, il dubbio viene.

D’altronde, è uno dei dispositivi di dominio in assoluto più potenti dell’egemonia neoliberista: riuscire a spostare il dibattito in una puntata di Ciao Darwin tra due fazioni diverse, ma uguali di destra reazionaria, mentre dietro le quinte oligarchie finanziarie dedite al greenwashing e cari vecchi petrolieri si gonfiano le tasche.

Non è che per caso c’è un modo per mandare a cacare entrambi?

Shkusi, signor miliardario, che me la farebbe mica un poco di transizione ecologica?

L’appecoramento agli interessi dell’oligarchia finanziaria che sta determinando le modalità con le quali l’élite politica del Nord Globale sta affrontando la transizione ecologica, è senza pari: con la mano sinistra si fa finta di aderire senza se e senza ma alle indicazioni che arrivano dalla comunità scientifica; con la destra però poi si pone una condizione che è destinata inesorabilmente a far fallire miseramente ogni tentativo di cercare una soluzione ovvero va bene la transizione, ma solo se non mette in discussione il dominio delle oligarchie finanziarie. Anzi, è pure peggio di così: va bene la transizione, ma solo se riusciamo a trasformarla in un ulteriore gigantesco trasferimento di ricchezza nelle tasche della finanza. Nell’epoca dell’egemonia neoliberista, la guerra culturale tra scienza e superstizione viene trasformata senza ritegno in un altro capitolo della guerra dell’1% contro il 99%: se vuoi piegare le esigenze della transizione ecologica agli interessi della finanza, sei un illuminato progressista; se pretendi che la transizione non venga fatta sulla pelle del 99%, eccoti infilato automaticamente nel calderone del negazionismo più becero.

E il bello è che in questa dicotomia ci casca anche il grosso del 99%!

Invece di rivendicare con forza il fatto che la transizione è necessaria e che per effettuarla veramente, e non solo a chiacchiere, a guidarla non possono essere gli interessi economici immediati dell’1%, si nega la scienza. Per l’1%, è un doppio regalo: da un lato continuano tranquillamente a fare una montagna di quattrini con il fossile e il modello di sviluppo vecchio, e dall’altro si apprestano a imporre la transizione, che è inevitabile, alle loro condizioni.

Non deve per forza andare così.

Come scrive da anni l’economista Daniela Gabor infatti, ci sono sostanzialmente due modi per organizzare la transizione a un’economia a basso tasso di carbonio. Il primo, più efficace, lo chiama Green New Deal e “delinea un programma radicale di trasformazione ecologica ed economica guidato dallo Stato”. Secondo la Gabor: “questo comporta massicci investimenti in attività a basse emissioni di carbonio – politiche industriali verdi sostenute da politiche fiscali e monetarie verdi, garantendo al contempo che la decarbonizzazione avvenga in modo giusto. Fondamentalmente questo richiede la demolizione dell’ordine politico del capitalismo finanziario: annullare la sua avversione ideologica all’attivismo fiscale e all’intervento statale, il suo impegno per l’indipendenza” delle banche centrali e il potere politico dei finanziatori del carbonio”. Proprio come il New Deal di Roosevelt, insomma, presuppone uno spostamento del potere dal capitale al lavoro e allo Stato e, proprio come per il New Deal – contro il quale l’oligarchia finanziaria si è costruita a sua immagine e somiglianza lo Stato neoliberale in cui siamo immersi – anche a questo giro la risposta è già pronta. E visto che lo Stato neoliberale c’è già e il potere politico le oligarchie finanziarie ce lo hanno già, non ci sarà manco da aspettare che si organizzino per reagire: ogni alternativa è uccisa nella culla.
Sostenuta involontariamente da chi invece che giocarsi questa partita, preferisce negare la scienza, questa alternativa neoliberista al Green New Deal la Gabor l’ha chiamata Wall Street Consensus, e “promette che”, specifica la Gabor, “con la giusta spinta, il capitalismo finanziario può realizzare una transizione a basse emissioni di carbonio senza cambiamenti politici o istituzionali radicali”. Il mantra del Wall Street Consensus è creare le condizioni affinché sia possibile “sfruttare il capitale privato per lo sviluppo“.

Un po’ quello che dicono i cinesi insomma.

Peccato che nel nostro caso i rapporti di forza siano invertiti e ad essere sfruttato sia il miraggio dello sviluppo per favorire il capitale privato. “I finanziatori del carbonio”, infatti, scrive la Gabor, “vedono sempre più la crisi climatica non come una minaccia, ma come un’opportunità per realizzare profitti elevati, attraverso il greenwashing sovvenzionato”.

Greenwashing sovvenzionato: quanto amo la Gabor!

Significa in sostanza che creiamo le condizioni affinché la transizione sia una gigantesca opportunità di guadagno per le oligarchie finanziarie, ma senza manco pretendere che poi questa transizione la facciano davvero: basta che lo dicano! Ad esempio, attraverso il rating ESG, che sta per “Environment, Social and Governance”, e cioè la pagella delle aziende non in base agli indicatori economici e finanziari, ma appunto alla loro sostenibilità ambientale, sociale e di governance: una gigantesca presa per il culo!

Non tanto per il principio in sé, ovviamente – che sarebbe cosa buona e giusta – ma proprio perché in mano al mondo della finanza privata, e senza nessuna capacità da parte del potere politico di mettere dei paletti, e di controllare che vengano rispettati, s’è inevitabilmente trasformato in una barzelletta.

Il mercato delle agenzie di rating e dei fondi ESG è il cuore del greenwashing globale.

Se per anni ci siamo scandalizzati per lo strapotere di tre sole agenzie di rating finanziario, Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, ecco, calcolate che quando si parla di rating di sostenibilità, una società da sola, MSCI, pesa per oltre il 60% del mercato globale e le sue valutazioni hanno dell’incredibile.

Nel 2021 fece scalpore la vicenda McDonald che, cuore di un modello economico incredibilmente insostenibile e predatorio, era stata promossa proprio da MSCI, nonostante generasse più gas serra di Stati come il Portogallo o l’Ungheria e le sue emissioni nell’arco di quattro anni fossero salite ulteriormente del 7%. McDonald ora ha un rating tripla B, che equivale ad una bella sufficienza. Ma niente al confronto con quello di JP Morgan, la più grande banca privata del mondo: nonostante con quattrocentotrentaquattro miliardi in sette anni sia in assoluto il più grande finanziatore al mondo di progetti legati al fossile, per MSCI s’è guadagnata una bella A, un bel sette in pagella. Non dovrebbe sorprendere. MSCI infatti, non valuta l’impatto che la singola azienda ha sul clima, ma l’impatto che il clima ha sui conti dell’azienda: cioè, puoi anche contribuire a devastare il pianeta, ma se il tuo modello di business ti permette di continuare a fare profitto anche in un pianeta ambientalmente devastato, sei promosso. Così se nel 2021 MSCI ha migliorato il rating di 155 grandi corporation, soltanto 1, RIPETO 1, aveva effettivamente registrato una diminuzione delle emissioni.

Ma non è ancora finita perché se MSCI pesa per il 60% del mercato, anche il restante 40% ha ovviamente il suo peso e la sua utilità che principalmente consiste nel fatto che se cerchi per una qualsiasi azienda un’agenzia disposta a dare un buon rating, la trovi

Qualche tempo fa fece scalpore il caso Enbridge. Era riuscita a farsi concedere un finanziamento di 1 miliardo di dollari, legato proprio alla sostenibilità: serviva per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose.

Cosa significa?

Lo raccontava magistralmente il buon vecchio Andrea Barolini in un articolo su Valori.it , “Istruzioni per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose. Per raggiungere gli strati di sabbia ricchi di bitume, radete al suolo le foreste sovrastanti; trasportate tonnellate di sabbia all’impianto; utilizzate enormi quantitativi di acqua e solventi per estrarre il bitume; raffinatelo consumando altra energia; e alla fine ottenete del petrolio un po’ scadente da bruciare allegramente, con un ciclo che produce tra le 3 e le 4 volte le emissioni che si ottengono quando si estrae petrolio con tecniche tradizionali”.

E così, dopo Enbridge, nel tuo fondo “sostenibile” ci puoi mettere letteralmente cosa ti pare.

Blackrock di fondi sostenibili, ad esempio, ne ha quanti ne vuoi e Larry Fink nel 2020 era salito alla ribalta per la sua famosa rituale lettera annuale agli investitori, che a questo giro annunciava una decisa svolta green. Tutt’ora Blackrock investe 85 miliardi in società che producono energia col carbone.

Quindi non è altro che greenwashing?”, chiedevano sempre gli amici di Valori un po’ di tempo fa a Tariq Fancy, un ex pezzo grosso proprio di Blackrock poi pentito.

Complessivamente sì, è assolutamente greenwashing”, è stata la risposta.

Per evitare queste distorsioni qualche anno fa il mondo della finanza ha messo in piedi uno strumento innovativo: si chiama TNFD, che sta per Taskforce on Nature-related Financial Disclosure. Si fonderà su dei report dettagliati, che però funzionano esattamente come il rating di MSCI: “i rapporti che le aziende saranno chiamate a stilare non riguardano direttamente l’impatto che la loro attività ha sulla natura”, scriveva nell’agosto scorso il nostro Lorenzo Tecleme. “Viceversa”, continuava, “alle corporation è richiesto di spiegare se il loro modello di business è messo in qualche modo a rischio da fattori legati alla natura. O, all’opposto, se dal rapporto con gli ecosistemi possano nascere nuove opportunità economiche”.

Non era il primo esperimento in questo senso.

L’anno precedente infatti era entrata in funzione un’altra taskforce, la taskforce on climate-related financial disclosure. A capo c’era un ambientalista senza macchia: Michael Bloomberg, il settimo uomo più ricco del pianeta. Siccome evidentemente questi sistemi di valutazione privati non servono a una sega-niente, le istituzioni hanno cominciato a elaborare i loro, in particolare l’Europa. Per farlo, indovinate chi hanno assunto come consulente? Blackrock.
Nel caro e vecchio tradizionale capitalismo di rapina, i ricchi dovevano investire quattrini per fare lobbying presso le istituzioni; ora le istituzioni li pagano. Alla luce di queste evidenze, la guerra civile tra ambientalisti delle ZTL e negazionisti dei bassifondi può essere riqualificata come una guerra tra due negazionismi: i secondi negano la realtà scientifica sul clima, i primi quella sul capitalismo, e – visto che per quanto complesso, per capire il capitalismo tutto sommato non servono complessissime equazioni differenziali non lineari – tra i due, se proprio vogliamo trarre le somme, le più capre sono abbastanza chiaramente i primi.

Lo scozzo un po’ si riequilibra però quando al discorso sul potere della finanza, ci aggiungiamo anche quello geopolitico. Gli ambientalisti delle ZTL infatti sono di fronte a un dilemma esistenziale straziante: sono carichissimi per la guerra che il Nord globale ha finalmente deciso di ingaggiare contro l’asse delle autocrazie; peccato però che quella guerra, significa fare “ciao ciao” con la manina alla tanto agognata transizione.

Mentre l’Occidente infatti si crogiolava nella sua manifesta superiorità, i cinesi la transizione cominciavano a farla concretamente e soprattutto, costruivano i presupposti per portarla a termine.

Ancora nel 2007 infatti l’Europa era il principale hub manifatturiero per l’industria solare al mondo con circa un terzo della capacità produttiva globale di pannelli. Da allora, i cinesi -che evidentemente non leggevano La Verità – come per l’auto elettrica, hanno investito una quantità clamorosa di soldi per diventare i primi della classe. E li hanno investiti bene: non regalandoli a pioggia ai petrolieri privati e ai finanzieri che si improvvisavano avanguardie delle rinnovabili, ma facendo trainare tutta la conversione dallo Stato.

Tre anni dopo, erano già diventati i primi della classe. Noi, da bravi amanti del libero mercato, abbiamo reagito con dazi che si avvicinavano al 50%. Conseguenza: la svolta green di Europa e USA si sono fermate, senza fare grosso danno alla Cina. Abituati a essere i maggiordomi della finanza, i politici europei non hanno calcolato che in un Paese dove a guidare la carretta è lo Stato, non sarà qualche scaramuccia commerciale a far sviare da quello che viene considerato un obiettivo strategico, e così, nonostante i dazi, dal 2011 a oggi la Cina nell’industria solare ha investito 50 miliardi: 10 volte l’Europa. Grazie a questi investimenti, oggi la Cina produce pannelli in modo incommensurabilmente più efficienti ed economici che chiunque altro al mondo, mentre l’Europa e gli USA, si limitano a provare a limitare i danni: regalando quattrini ai privati.

L’obiettivo ora in Europa sarebbe arrivare a prodursi da sola il 40% dei pannelli che le servono per fare la transizione. Auguri!

Non possiamo scalare abbastanza rapidamente per soddisfare la domanda europea“, avrebbe affermato al Financial Times Steven Xuereb, direttore del Photovoltaik-Institut Berlin. “Tutti sono entusiasti del nuovo impianto [Enel] in Sicilia, che produrrà 3GW. I colossi cinesi stanno annunciando nuove fabbriche da 20GW”.

Riprendersi un pezzo del mercato, oltre a costare una quantità di quattrini spropositata, e quindi rallentare la transizione, potrebbe in realtà essere proprio infattibile perché nel tempo la Cina non ha conquistato soltanto il quasi monopolio dei prodotti finiti, ma anche di tutti i prodotti intermedi che servono per farli.

Il grafico pubblicato qualche settimana fa dal Financial times è piuttosto impietoso: divide la filiera dei pannelli in quattro stadi: produzione di polisilicio, produzione di wafer di silicio, produzione di celle e infine di pannelli veri e propri. Se per gli ultimi due stadi, celle e pannelli, la Cina oggi controlla circa l’80% del mercato, ma già nel 2010 era sopra il 50%, per il polisilicio è passata in 12 anni dal 25 a oltre il 90% del mercato, e per i wafer di silicio è diventata sostanzialmente l’unico produttore al mondo.

Recuperare è impossibile e forse anche solo provarci. La produzione di polisilicio e quella dei wafer infatti è enormemente energivora e l’energia in Cina costa la metà che da noi, senza contare gli incentivi.

Difficile credere”, conclude il Financial Times, “che qualcuno investirà miliardi senza la sicurezza di prezzi competitivi e prevedibili dell’energia”.

Ed ecco così che dopo il negazionismo climatico e quello economico, abbiamo il terzo negazionismo che impedirà di farla davvero sta transizione: quello che nega il fatto che il Mondo Nuovo ci sta facendo un culo così!

Contro il negazionismo, la finanza che ci banchetta sopra e la politica e l’informazione che assistono senza avere niente da ridire, quello di cui abbiamo bisogno è sempre di più un media che dia voce al 99%.

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E chi non aderisce è Michael Bloomberg.