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Tag: capitali

Dem USA alla disperata ricerca del leader giusto per la guerra civile del capitalismo imperiale

Le fazioni del capitalismo imperiale sono a un passo dalla guerra civile? Da outsider, negli ultimi mesi Trump è riuscito a riconquistare il titolo di golden boy di numerose fazioni del grande capitale del centro imperiale, dai petrolieri agli hedge fund, passando per gli anarcocapitalisti selvaggi della Silicon Valley; vogliono che Trump (e la bimba di Peter Thiel e di Bob Mercer JD Vance, inspiegabilmente elevato a working class hero da un pezzo di mondo del dissenso completamente egemonizzato dall’alt right) imponga ai mega-fondi che, da 15 anni a questa parte, dettano la linea ai democratici (da Blackrock a Vanguard) un nuovo compromesso che ne ridimensioni lo strapotere fondato sulla gigantesca liquidità che tiene in piedi la bolla speculativa USA e ne restituisca una parte ai cari vecchi capitani di ventura che rappresentano lo spirito selvaggio del capitalismo del centro imperiale. Una partita fondamentale che potrebbe sfociare in una reingegnerizzazione complessiva del superimperialismo per com’è emerso 50 anni fa con l’abbandono del gold standard da parte dell’amministrazione Nixon e si è consolidato come via di fuga dalla crisi finanziaria del 2008. Ne vedremo delle belle; intanto, ne abbiamo parlato con un Alessandro Volpi più lucido e determinato che mai.

L’Europa lascia cadere l’ultimo tabù e dichiara apertamente guerra alla Russia

“E’ tempo di adottare misure radicali e mettere l’Unione Europea sul piede di guerra”; la lettera di invito di Charles Michel ai leader del vecchio continente per il Consiglio Europeo iniziato ieri a Bruxelles non poteva essere più esplicita: “A due anni dall’inizio della guerra” aveva anticipato con un editoriale pubblicato dalla crème de la crème della propaganda guerrafondaia europea “è ormai chiaro che la Russia non si fermerà in Ucraina. Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare a una modalità di economia di guerra”.

Pierre Schill

Dalle dichiarazioni sull’invio di truppe NATO in Ucraina di Macron in poi, l’escalation verbale non ha fatto che procedere inesorabile e i vecchi tabù stanno rapidamente crollando uno dopo l’altro; giovedì Le Monde ha pubblicato un editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill (che non si capisce bene se c’è o ci fa): “La Francia” ha annunciato “ha la capacità di impegnare una divisione, ovvero circa 20.000 uomini, nell’arco di 30 giorni” e potrebbe “comandare un corpo fino a 60 mila uomini in coalizione, combinando una divisione francese e capacità nazionali all’estremità superiore dello spettro militare con una o più divisioni alleate”. Due ore dopo, su TF1 il colonello Vincent Arabaratier era già intento a spiegare nei dettagli dove andrebbero impiegate; le opzioni, sostiene, sarebbero sostanzialmente due: la prima che, con ogni probabilità, a breve ci verrà presentata come il male minore, prevede di posizionarle al confine con la Bielorussia per liberare truppe ucraine che potrebbero, così, raggiungere la linea di contatto sul fronte. La seconda, invece, più spregiudicata, prevede di posizionarle direttamente sulla sponda occidentale del fiume Dnepr: “Ma colonnello” gli chiede la giornalista, “il solo fatto di ammassare delle truppe lungo il Dnepr, anche se chiariamo che non spareremo mai per primi, non potrebbe essere considerata dalla Russia come una provocazione?”; “Assolutamente no” risponde il colonnello. Eh già, quando mai… “Si tratta solo di forzare la Russia a discutere, garantendo però l’equilibrio sul campo”; “I nostri soldati” ribadisce poi il colonnello a sostegno delle dichiarazioni del suo superiore a Le Monde “possono essere impiegati rapidamente, ed è uno dei vantaggi principali delle nostre forze armate rispetto ad altre, a partire dalla Germania. E non è solo una questione di qualità dei nostri soldati, ma anche perché il presidente ha i potere di dispiegare le forze immediatamente, cosa che invece non può fare il cancelliere Scholz, che deve riferire al parlamento e raccogliere il consenso del parlamento”, particolare non da poco – direi – dal momento che, ovviamente, in entrambi i casi l’invio di truppe rappresenterebbe un vero attentato alla volontà popolare: secondo un sondaggio di Elab, infatti, il 79% dei francesi si sarebbe detto contrario all’invio di truppe da combattimento in Ucraina e il 57% riterrebbe che il presidente Emmanuel Macron abbia fatto un errore madornale anche solo a esternare questa ipotesi.
Discorso diverso, invece, per le élite di svendipatria al governo in tutti i vari protettorati di Washington del vecchio continente: in soccorso a Macron, ad esempio, è arrivato subito Ben Wallace, l’ex ministro della difesa britannico del governo Johnson, quello responsabile del naufragio dei primi negoziati subito nella primavera del 2022; imitando la formula di Macron, ha affermato che l’invio di truppe britanniche in Ucraina “non può essere escluso” e, nel frattempo, ha invitato i leader di tutte le forze politiche a unirsi al suo appello per far crescere la spesa militare oltre il 3% del PIL, e di farlo subito. “Non si investe quando mancano 5 minuti a mezzanotte” ha affermato; “devi cominciare a farlo subito”. “Putin” ha sottolineato “si deve rendere conto subito che questa volta facciamo sul serio” perché, ha concluso, “credo sia la persona più vicina ad Adolf Hitler che abbiamo avuto in questa generazione”. Gli ha fatto eco l’ex capo dell’MI6, un novello dottor Stranamore di fatto e di nome: si chiama Richard Dearlove, Riccardo Stranamore, e su Politico ha tuonato “Se fermassi qualcuno per strada qui nel Regno Unito e gli chiedessi se pensa che la Gran Bretagna sia in guerra, ti guarderebbero come se fossi pazzo. Ma noi siamo in guerra, siamo impegnati in una guerra grigia con la Russia, e io non faccio altro che provare a ricordarlo alla gente”.
Per gli altri leader, invece, stringi stringi il problema è esclusivamente di public relation; in soldoni, si tratta solo di capire modi e tempi per comunicare a una popolazione che, di questo suicidio, non ne vuole più sapere, quello che ormai in molti ritengono sostanzialmente inevitabile: la grande guerra dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo per impedire che si metta finalmente termine a 5 secoli di dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta è appena all’inizio. Nella complicata gestione contemporaneamente di 3 fronti, per liberare energie da impiegare per il fronte principale del Pacifico gli USA hanno delegato ai servitori obbedienti del vecchio continente il fronte occidentale della Russia e, da bravi cagnolini obbedienti, non c’è valutazione razionale possibile che possa condurli a desistere dal portare avanti la loro missione: un tempo era fino all’ultimo ucraino; ora, però, gli ucraini sono finiti e tocca a noi. Siamo davvero disposti a far trucidare i nostri figli per permettere a questi svendipatria di assolvere ai loro doveri? Prima di continuare questo racconto, però, come sempre vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e anche ad attivare le notifiche ed iscrivervi a tutti i nostri canali, compreso quello in lingua inglese.
“È questa primavera, quest’estate, prima dell’autunno che si deciderà la guerra in Ucraina”: a sottolineare l’urgenza della situazione, la settimana scorsa, era stato il compagno Josep Borrell; “I prossimi mesi saranno decisivi” aveva affermato, e “qualunque cosa debba essere fatta, deve essere fatta rapidamente”. E’ il mandato che ha ricevuto dal suo superiore diretto, il segretario di stato USA Antony Blinken, che era andato a omaggiare mercoledì scorso: ormai, in piena campagna elettorale, è ormai palese che – almeno da qua a novembre – gli USA non saranno più in grado di assistere l’Ucraina non dico tanto per invertire le sorti del conflitto (che è sempre stata, e continua ad essere, una chimera buona solo per gli allocchi analfoliberali), ma manco per evitare il collasso definitivo e la vittoria a tutto campo di Mosca.
A metterci una toppa dovranno essere le nostre élite contro il volere dei loro cittadini, una missione particolarmente ardua: decenni di dipendenza dall’apparato militare industriale USA non si invertono in pochi mesi, soprattutto dopo due anni di guerra economica a tutto campo degli USA contro l’Europa che hanno polverizzato tutte le risorse; e, infatti, il nocciolo principale ora sembra essere proprio quello. Michel parla di “economia di guerra”, ma chi sarà a finanziarla – e come – rimane un mistero; finanziarla a debito, dopo 30 anni che non fai altro che dire che ogni forma di debito, qualsiasi sia la finalità, è un peccato mortale, potrebbe non essere così banale: se ripeti continuamente una formuletta magica per decenni, inevitabilmente va a finire che poi la gente ci crede e quando, di punto in bianco, devi confessare che era tutta una messinscena per permettere alle oligarchie di fottere la gente comune, potresti incontrare qualche resistenza – soprattutto se, di lì a poco, devi pure tornare a chiedere di votarti. E’ esattamente il nodo che potrebbe impantanare le farneticazioni di Michel sull’economia di guerra ancora prima di partire: l’idea di Michel, infatti, è di emettere debito comune europeo per finanziare il riarmo, ma i frugali che, da decenni, basano il loro consenso sulla religione dell’austerity, di perdere voti per fare un favore a Washington non sembrano avercene particolarmente voglia.
In cima all’agenda, allora, torna l’idea della supertassa sui profitti che derivano dagli asset russi congelati per le sanzioni: peccato che, nella più ottimistica delle stime, potrebbe fruttare al massimo 10 miliardi l’anno, lo 0,05% del PIL; ne servirebbero almeno 10 volte tanti. L’unica soluzione allora, come sempre, rimane provare a richiamare all’ordine i capitali privati che in cambio, ovviamente, chiedono una cosa molto semplice: una garanzia a lungo termine che gli ordini continueranno ad arrivare copiosi per molti anni a venire. E l’unico modo per garantire davvero che gli ordini continueranno a venire a lungo è convincerli che, d’ora in poi, l’Europa sarà in guerra a tutto campo; dichiarare apertamente che l’Europa si sta attrezzando per mandarci tutti al macello, però, dal punto di vista dell’opinione pubblica non è esattamente una carta vincente e, quindi, riecco la favola della deterrenza: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra” cita Michel nel suo editoriale, ma ovviamente è una vaccata, sia perché non è che puoi accumulare arsenali all’infinito (a un certo punto, qualcosa con le armi che compri ce lo dovrai fare, e le armi non è che abbiano tanti utilizzi alternativi, diciamo), sia anche perché, se ti armi fino ai denti, quello che ti sta a un tiro di schioppo magari non è che si senta esattamente rassicurato. Soprattutto se, per giustificare proprio il fatto che ti stai armando fino ai denti, sei costretto a dire ai 4 venti che quello ti sta per invadere e che per te è una minaccia esistenziale e, allora, magari va a finire che la tua diventa una delle classiche profezie che si autoavverano (soprattutto se il tuo nemico, in quel momento, ha un vantaggio che – mano a mano che ti riarmi – potrebbe diminuire): ora, è anche vero che le nostre classi dirigenti sono formate da scappati di casa inadeguati a qualsiasi altra attività, ma – sinceramente – che siano così dementi da non capire questa banale sequenza logica mi sembra un po’ improbabile; cioè, Lia Squartapalle o Maurizio Gasparri magari sì, ma che siano messi tutti così non ci credo. E quindi non ne possiamo che dedurre che quando Michel parla di un’Europa sul piede di guerra non sia solo uno scivolone: l’Occidente collettivo sta premendo volontariamente e consapevolmente l’acceleratore verso la terza guerra mondiale e a noi tocca occuparci della Russia, tanto che sarà mai… “Putin porta avanti una narrazione fondata sulla paura” ha sottolineato il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, ma noi “Non dobbiamo lasciarci intimidire” perché, in realtà, “di fronte, non abbiamo una grande potenza”: “La Russia” sottolinea infatti “è una potenza media il cui PIL è molto inferiore a quello degli europei”; il problema quindi, molto banalmente, è superare le divisioni politiche che rimangono al nostro interno e, soprattutto, smetterla di fare i paciocconi e la Russia non avrà scampo, anche senza il supporto degli USA. Anzi: per noi è un’opportunità da cogliere al balzo, un incentivo a costruire finalmente l’unità politica del continente troppo a lungo rimandata.
E’ esattamente questa incrollabile fiducia sul proprio potenziale inespresso che permea tutto l’editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill su Le Monde: per Schill, infatti, il nostro problema è che veniamo da diversi anni di pace “punteggiati qua e là da limitati dispiegamenti di forze di spedizione in missioni di gestione delle crisi”; è il sogno che abbiamo coltivato dalla fine della guerra fredda, sottolinea Schill, “marginalizzare la guerra fino a metterla fuori legge, concentrare gli eserciti sulla gestione della crisi e mettere da parte della violenza” perché – si sa – fino a che a morire sono i popoli delle colonie, le guerre si chiamano gestione di crisi, e gli stermini sono umanitari e non violenti. Ora però, sottolinea Schill, “Contrariamente alle aspirazioni pacifiche dei paesi europei” dove per pace, ovviamente, si intende l’incapacità dei popoli inferiori aggrediti di opporre troppa resistenza, “i conflitti che si stanno diffondendo ai margini del nostro continente testimoniano il ritorno alla guerra come modalità di risoluzione dei conflitti”; il più grande rammarico di Schill è che “La fantasia di una guerra moderna combattuta interamente a distanza” – dove l’uomo bianco sta comodamente seduto al sicuro da una stanza di controllo e comando e, con la semplice pressione di un ditino, stermina interi villaggi – “si è dissipata” e “sono finiti i giorni in cui si poteva cambiare il corso con 300 soldati”.
Poco male, però: alla fine, si tratta – appunto – solo di cambiare atteggiamento; in particolare, la Francia “ha una serie di importanti vantaggi per quanto riguarda l’equilibrio di potere e le nuove forme di guerra. A causa della sua geografia e prosperità all’interno dell’Unione Europea” sottolinea “nessun avversario minaccia i suoi confini continentali” e “al di fuori della Francia continentale, le sfide alla sovranità dei territori francesi rimangono marginali”. Ciononostante, “La Francia ha la capacità di impiegare nell’arco di 30 giorni” nientepopodimeno che un’intera divisione, “ovvero circa 20 mila uomini” e senza contare che, poi, c’è sempre “la deterrenza nucleare” che “salvaguarda gli interessi vitali della Francia”; l’unica cosa che le manca, sostiene Schill, è un po’ di spavalderia in più: “Per difendersi dalle aggressioni e difendere i propri interessi” sottolinea Schill “l’esercito francese” non solo si deve preparare “agli scontri più duri”, ma lo deve dimostrare e far sapere al mondo intero. Non per rompere le uova nel paniere al simpatico Schill, ma ho come l’impressione che le caratteristiche elencate, per incutere timore sulla Russia potrebbero non essere esattamente sufficienti: i suoi 20 mila uomini non sembrano poter troppo intimorire gli oltre 600 mila che Putin ha dichiarato di aver mandato in Ucraina e le sue 290 testate nucleari potrebbero non essere esattamente sufficienti a disincentivare la Russia, che ne ha oltre 6000.
Anche sul fronte della potenza economica, la storiella trita e ritrita della Russia stazione di servizio con la bomba nucleare si è abbondantemente rivelata essere poco più di una leggenda metropolitana – e la spettacolare resilienza di fronte a due anni del più vasto regime di sanzioni di sempre dovrebbe avercelo abbondantemente dimostrato; d’altronde, in qualche misura, era prevedibile: a parità di potere d’acquisto, la Russia – come ha ricordato recentemente lo stesso Putin – è la quinta economia mondiale. Ora, su quanto pesi il calcolo del prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto ci sono molte scuole di pensiero diverse (e tutte hanno una parte di ragione, anche quelle che lo considerano un parametro poco significativo), a meno che un paese non abbia un surplus commerciale significativo: nel caso un paese esporti, nel complesso, molto più di quello che importa, il prodotto interno nominale in dollari significa poco o niente e, guarda caso, è esattamente il caso della Russia; una prova su tutte? Quando, nel 2014, scoppiò la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, nell’arco di pochi mesi il rublo precipitò: se prima, per comprare un dollaro, bastavano 37 rubli, ora ne servivano oltre 70; risultato? il PIL nominale in dollari passò dagli oltre 2.000 miliardi del 2014 a meno di 1.400 nel 2015, per poi diminuire ancora sotto soglia 1.300 nel 2016, dimezzato. Ora, immaginatevi se domani, dal giorno alla notte, si dimezzasse il PIL italiano: sarebbe una catastrofe; eppure, in Russia, praticamente manco se ne accorsero. Il loro PIL, a parità di potere d’acquisto, era rimasto inalterato e se sei un paese che esporta più di quello che importa, alla fine – tagliando tutto con l’accetta – è quello che misura la tua potenza economica: l’idea, quindi, che sul fronte europeo sia solo questione di superare le divisioni politiche e di riaggiustare un po’ il tiro dopo decenni di fantomatica utopia pacifista – ammesso e non concesso che sia così semplice – potrebbe rivelarsi un po’ troppo ottimistica.

Charles Michel

Questa deriva drammatica, comunque, potrebbe avere anche un paio di conseguenze positive: la prima è che, finalmente, i leader europei, per dare una parvenza di sovranismo alla scelta del riarmo per mandato e in conto di Washington, ammettono candidamente che – fino ad oggi – si sono fatti dettare la politica estera; prima è stato il turno di Michel che ha ammesso candidamente che, fino ad oggi, siamo sempre stati “in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti” e poi l’ha ribadito pure la nostra Giorgiona la madrecristiana. “Occorre smettere di essere ipocriti” ha dichiarato di fronte al senato: “Se chiedi a qualcuno di occuparsi della tua sicurezza, devi prendere in considerazione che quel qualcuno avrà grande voce in capitolo quando si tratterà di discutere di dinamiche internazionali”. La seconda, invece, è che ormai si fa avanti la consapevolezza che se vuoi fare contemporaneamente la guerra alla Cina e alla Russia, per lo meno in Medio Oriente una qualche soluzione la devi trovare; ed ecco, così, che anche la Giorgiona, dopo aver chiaramente ricordato che la colpa del genocidio in corso a Gaza è tutta di Hamas, che “Non possiamo dimenticare chi ha scatenato questo conflitto” e che i civili a Gaza sono prima di tutto “vittime di Hamas, che le utilizza come scudi umani”, “nell’interesse di Israele” ci ha tenuto a ribadire la contrarietà del nostro governo “a un’azione militare di terra a Rafah”: d’altronde, a parte le considerazioni geopolitiche, Giorgia è prima di tutto una madrecristiana e alle piccole creature ci tiene. Ed è per questo che ribadisce che l’Italia, su indicazione di Israele, non riprenderà a finanziare l’UNRWA, il che, però, “non vuol dire non occuparsi dei civili di Gaza, perché i medici dei nostri ospedali pediatrici hanno curato finora almeno 40 bambini palestinesi”, cioè uno ogni 400 bimbi trucidati.
E se, alla fine, si scoprisse che il motivo di tutte queste incomprensioni e valutazioni sballate è, semplicemente, che quei casi umani che guidano il nostro paese e l’Europa tutta hanno dei problemi irrisolvibili con la matematica più elementare? Viviamo nella peggiore delle distopie, con l’armageddon che si avvicina e le classi dirigenti – e la propaganda che le sostiene – che sembrano vivere in un universo parallelo; organizzare la resistenza non è più semplicemente un dovere morale: è puro spirito di sopravvivenza. Per farlo, abbiamo bisogno prima di subito di un vero e proprio media che smonti i deliri della propaganda suprematista pezzo dopo pezzo e dia voce alla pace e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lia Squartapalle

8ore: SCIOPERO portuali per un nuovo piano economico nazionale

Oggi ad Ottolina Tv intervengono i lavoratori del settore portuale, aggiornandoci sugli ultimi passaggi del rinnovo del contratto e sulla situazione del loro settore lavorativo. L’Italia segue il modello greco di privatizzazione ai capitali stranieri invece di puntare a un nuovi investimenti nel pubblico per salvaguardare introiti e posti di lavoro (come in altri Stati europei). I lavoratori ci raccontano criticità e proposte del loro settore lavorativo. Buona visione!

ALESSANDRO VOLPI – da Agnelli a Moratti, la fuga dei capitalisti dall’Italia per campare di rendita

Ritorna, inesorabile, la chiacchierata con il nostro prof preferito, Alessandro Volpi, su come la finanza le escogiti tutte pur di perpetuarsi. Preparate il solito anti – acido e buona visione.

Come la Germania è diventata l’emissaria di Wall Street – ft S. FassinaFassina provvisorio

L’ennesimo governo di amministratori coloniali, del tutto indistinguibile da quelli che l’hanno preceduto, ha deciso di farci un bellissimo regalo di Natale e coronare così, in modo esemplare, un lungo anno passato a fare per accelerare il declino; l’ok definitivo alla reintroduzione del patto di stabilità riformato a chiacchiere ma del tutto identico a quello vecchio nella sostanza, è l’ennesima prova di coraggio di una maggioranza di governo tutta chiacchiere e distintivo: feroce e determinata contro i più deboli – dai percettori del reddito di cittadinanza ai bambini di Gaza – e docile come una Fornero qualsiasi con i più forti anche quando, tutto sommato, questi forti – da Washington a Bruxelles – così forti non sembrano esserlo ormai nemmeno più di tanto, e chiunque abbia quel minimo di schiena dritta da spingerlo a provare a dire la sua, alla fine si fa beatamente li cazzi sua senza pagare dazio – dall’Ungheria di Orban alla Turchia di Erdogan, passando dall’Arabia di Bin Salman.
Ecco. Tra le altre cose, il 2023 per noi italiani passerà alla storia esattamente per questo: l’anno in cui si ufficializzò il fatto che, rispetto all’Italia, la Turchia, l’Ungheria, l’Arabia Saudita (ma anche il Niger o il Burkina Faso e chi più ne ha più ne metta) tutto sommato sono più indipendenti e sovrani e, quindi, anche democratici. La firma italiana al nuovo patto di stabilità, ovviamente, era ampiamente scontata, tant’è che per scontata l’abbiamo sempre data anche noi di Ottolina e tutti i nostri ospiti, nessuno escluso. Come d’altronde era ampiamente scontata l’altra pagliacciata suprema: la bocciatura del MES che, ovviamente, è del tutto sacrosanta – intendiamoci – ma che, altrettanto ovviamente, di fronte all’enormità del ritorno del patto di stabilità si riduce a poco più di un’arma di distrazione di massa scientificamente preparata dalla propaganda fintamente antisistema dell’alt right che, per mesi e mesi, ha parlato del dito e non della luna (molto banalmente perché è quello il motivo per cui è stata inventata): come dice sempre il Nencio, politicizzare le puttanate e gettare nel dimenticatoio tutto quello che, invece, pesa eccome.
E un bell’aiutino, come sempre, è arrivato dai maestri della svendita della patria all’invasore straniero: gli analfoliberali, che hanno fatto di tutto per trasformare agli occhi dell’opinione pubblica questo governo di patetici chiacchieroni inconcludenti in coraggiosi difensori degli interessi nazionali. L’Italia del 2023 ci lascia così l’immagine di questo potente 4 3 3 di zemaniana memoria, con il trittico d’attacco che vede – appunto – al centro gli attuali amministratori coloniali, e sulle due fasce l’alt right da un lato e gli analfoliberali dall’altro a fornire assist su assist. Una micidiale macchina da gol, solo che invece che mirare alla porta dell’avversario, mirano direttamente alla nostra.
Il livello imbarazzante del dibattito politico, tutto interno a fazioni sovrapponibili del partito unico degli affari e della guerra, rischia di distrarci dalla reale portata di quanto avvenuto in questi ultimi giorni del 2023; il ritorno dell’austerity nell’Unione Europea è un fatto di portata gigantesca, in grado di spiegarci quanto profondamente siano cambiati i rapporti di forza all’interno dell’Occidente collettivo dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. Se la prima ondata di austerity, infatti, era di matrice tedesca e aveva come finalità il consolidamento delle gerarchie all’interno dell’Unione Europea – con la Germania al centro e tutti gli altri intorno che potevano accompagnare solo e fare da sub – fornitori a basso costo per permetterle di continuare a macinare profitti senza mai investire manco mezzo euro – l’austerity che ci aspetta, con il beneplacito dei sovranisti de noantri, è un’austerity nuova di zecca, targata direttamente Wall Street. Obiettivo: obbligare i governi a privatizzare quello che rimane ancora da privatizzare e che, fino a poco tempo fa, rappresentava la caratteristica fondamentale del modello europeo. Se nel mondo anglosassone, infatti, negli ultimi 15 anni è stato definitivamente portato a termine il più grande processo di concentrazione dei capitali nelle mani di una ristrettissima oligarchia mai visto nella storia – a partire dalla triplice dell’asset management composta da BlackRock, Vanguard e State Street – l’Unione Europea aveva bisogno di mettersi in pari rapidamente e, da vera patria dell’ipocrisia qual è, non poteva che farlo reintroducendo la solita vecchia ingegneria istituzionale spacciata come tecnica e che, invece, è pura lotta di classe dall’alto contro il basso; un processo che rende strutturale la sottomissione dell’Europa agli USA non più solo dal punto di vista politico e militare, ma anche economico e finanziario.
Insomma: mentre in tutti gli angoli del mondo le ex colonie alzano la testa e mettono fine al Washington consensus, all’interno dell’Occidente globale le vecchie potenze coloniale vogliono provare l’ebbrezza di trasformarsi definitivamente in protettorati, e utilizzano l’arma dell’austerity per imporci di aderire a quello che Daniela Gabor chiama il Wall Street Consensus e, in tutto questo, l’Italia – grazie alla dimensione complessiva della sua economia e con la scusa del livello del suo debito – diventa la preda per eccellenza, il vero laboratorio della nuova svolta autoritaria e neofeudale del capitalismo occidentale che prova a serrare le fila per opporsi alla storia, a partire dalla svendita di Poste Italiane. Buon Natale […contenuto non disponibile].

Durante tutto questo lunghissimo e intensissimo anno, noi di Ottolina Tv, le decine e decine di volontari che ci gravitano attorno, le centinaia di ospiti che hanno contribuito al nostro lavoro e le centinaia di migliaia di persone che hanno guardato, condiviso, discusso e anche criticato i nostri contenuti, abbiamo lavorato per mettere a punto gli strumenti che ci permettono di capire quali sono gli interessi concreti in ballo e in che direzione vanno al di là delle vaccate della propaganda, delle false illusioni delle anime belle e del vocìo inconcludente dei vomitatori d’odio di professione; anticipando gli eventi e sforzandoci continuamente di inserirli in un contesto più complessivo, abbiamo dimostrato, giorno dopo giorno, fatto dopo fatto, come il grosso degli eventi più significativi che la propaganda ci vorrebbe rivendere come un fiume in piena di elementi tutti scollegati tra loro non sono frutto del caso o dell’arbitrio, ma seguono tutti una logica piuttosto coerente e razionale: il tentativo estremo di una ristrettissima classe sociale di ultraprivilegiati di impedire al resto dell’umanità di riprendere in mano il suo destino e partecipare attivamente alla costruzione di un Mondo Nuovo.
Dal profondo del nostro cuore, un ringraziamento enorme a tutti quelli che hanno reso possibile questa bellissima avventura e un auspicio: che questa avventura non sia che un primissimo passo e che, con l’aiuto di tutti, Ottolina Tv, giorno dopo giorno, riesca davvero a diventare il primo media che dà al 99% una voce abbastanza grossa da farsi sentire in tutti gli angoli del paese, e oltre.