Proprio mentre nel Pacifico si intensificano i venti di guerra, con un altro rush NVIDIA spariglia i mercati finanziari e diventa l’azienda con la maggior capitalizzazione di tutti i tempi. Peccato sia un’azienda completamente senza apparato produttivo e interamente dipendente dalle catene del valore del Pacifico, messe a rischio da tensioni geopolitiche che vanno inesorabilmente verso l’escalation, a partire da Taiwan. E’ la grande partita dei monopoli finanziari a stelle e strisce: l’esplosione del titolo di NVIDIA è infatti guidato dalle Big Three del risparmio gestito: BlackRock, Vanguard e State Street che, insieme, hanno azioni NVIDIA per circa 1000 miliardi, uno strumento di ricatto di una potenza inimmaginabile. I grandi fondi sembrano voler infatti mandare un messaggio piuttosto chiaro ai paesi imperialisti: se volete portare avanti i vostri piani di guerra, ci dovete offrire su un piatto d’argento un’alternativa alla bolla del Big Tech, altrettanto remunerativa. E quell’alternativa possono essere solo le infrastrutture strategiche e i servizi essenziali: fino a che non consegneremo interamente quei settori alla speculazione finanziaria, la liquidità continuerà a essere dirottata su titoli big tech che, in caso di ulteriore peggioramento delle tensioni geopolitiche nel Pacifico, prima o poi non potrebbero che saltare per aria tirandosi dietro tutti i mercati finanziari del pianeta. Insomma, parafrasando il celebre dilemma di San MarioPio da Goldman Sachs, volete la pace o la sanità pubblica?
Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.
Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!
Quasi nessuno se ne è accorto, ma il capitalismo è già morto da un pezzo ed è stato rimpiazzato da qualcosa di ben peggiore.Tecnofeudalesimo: così Yanis Varoufakis, uno dei più lungimiranti studiosi della nostra epoca, ha ribattezzato nel suo ultimo libro il sistema economico delle nostre società, sostenendo che in meno di vent’anni i proprietari delle big tech abbiano scalzato al vertice i vecchi industriali capitalisti e siano diventati i nuovi padroni del mondo occidentale; Google, Amazon, Meta, Apple e pochi altri, con l’aiuto della finanza internazionale hanno prima completamente privatizzato internet creando oligopoli e monopoli mai visti prima nella storia, e poi hanno esteso sempre di più il loro controllo sulle nostre vite e sulle leve politiche della nostra società. “Forse eravamo troppo distratti dalla pandemia” scrive Varoufakis, “dalle varie crisi finanziarie, o da tutti quei teneri e simpatici gattini su TikTok; in ogni caso, mentre ci preoccupavamo d’altro, un nuovo sistema economico ha preso il controllo. Da vent’anni, ormai, le basi sulle quali è stato costruito il capitalismo – il profitto e il mercato – non sono più fondamentali: il capitale tradizionale non è più al comando, ma è diventato vassallo di una nuova classe di padroni feudali, i proprietari del capitale cloud”.
Fondamentalmente, sostiene l’economista greco, il capitale cloud ha demolito i due pilastri del capitalismo: i mercati e il profitto; da una parte i mercati sono stati rimpiazzati da piattaforme di trading digitale, dove gran parte della nostra vita e degli scambi commerciali si svolge, molto più simili ai vecchi feudi pre – capitalisti, dall’altra il profitto, che era il motore del capitalismo, è stato rimpiazzato dal suo predecessore feudale: la rendita. E, cioè, quella rendita che viene pagata dalle aziende e dai cittadini ai proprietari dei feudi digitali per poter accedere alle loro piattaforme e al mercato e ai servizi che queste ospitano; di conseguenza, riflette Varoufakis, il vero potere oggi non risiede nei proprietari di capitale tradizionale – come macchinari, edifici, reti ferroviarie e telefoniche, robot industriali; questi continuano certo a ricavare profitti dal lavoro salariato, ma non sono più al comando come un tempo e il loro posto è stato preso dai proprietari dei feudi cloud e dalle loro piattaforme, da cui i capitalisti produttori di merci e sevizi, ormai, dipendono quasi completamente. Naturalmente, come la vecchia classe dominante, anche Amazon, Facebook, Apple e Google investono nella ricerca e nell’innovazione, in politica, in marketing, in tattiche antisindacali etc., ma lo fanno non per vendere merci per il massimo profitto, come nel vecchio capitalismo, ma al fine di riscuotere le rendite più alte dagli utenti e dai capitalisti che producono: “Immagina la scena seguente come uscita da un libro di fantascienza.” ci suggerisce Varoufakis; “Vieni teletrasportato in una città piena di persone che si occupano dei loro affari, commerciano in gadget, scarpe, libri, canzoni, giochi e film. All’inizio, tutto sembra normale. Fino a che non inizi a notare qualcosa di strano. Salta fuori che tutti i negozi, in realtà ogni edificio, appartengono a un tizio di nome Jeff. Può non essere il proprietario delle fabbriche che producono la merce in vendita nei suoi negozi, ma possiede un algoritmo che incassa una quota per ogni vendita e lui decide cosa può essere venduto e cosa no”. “In realtà” continua “è addirittura peggio rispetto a un mercato totalmente monopolizzato – lì, almeno, i compratori possono parlare tra loro, formare associazioni, magari organizzare un boicottaggio dei consumatori per costringere il monopolista a ridurre il prezzo o migliorare la qualità. Non vale lo stesso nel regno di Jeff, dove tutto e tutti sono intermediati non dalla disinteressata mano invisibile del mercato, ma da un algoritmo che lavora per il risultato di bilancio di Jeff e balla esclusivamente al ritmo della sua musica.” Ma questa trasformazione epocale ha davvero una qualche importanza per le nostre vite? Certamente, risponde Varoufakis; riconoscere che il nostro mondo è diventato tecnofeudale ci aiuta a risolvere piccoli e grandi rompicapi: dalla sfuggente rivoluzione delle energie rinnovabili, alla decisione di Elon Musk di comprare Twitter, alla nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, fino al modo in cui la guerra in Ucraina sta minacciando il regno del dollaro. Ma anche la grande inflazione e la crisi del costo della vita che sono seguite alla pandemia non possono essere comprese adeguatamente al di fuori di questo contesto. In generale, come era prevedibile, possiamo dire che l’incredibile ritorno delle rendite dal passato pre – capitalista ha significato solamente una stagnazione ancora più grave e più tossica: “Gli stipendi vengono spesi dalla maggioranza che lotta per arrivare a fine mese. I profitti vengono investiti in beni capitali per mantenere la capacità di profitto dei capitalisti” afferma Varoufakis, “ma la rendita viene accumulata in proprietà (ville, yacht, opere d’arte, criptovalute ecc.) e si rifiuta ostinatamente di entrare in circolazione, di stimolare gli investimenti in beni utili e di rivitalizzare le flaccide società capitalistiche. E quindi inizia un circolo vizioso: ne consegue una stagnazione più profonda, che induce le banche centrali a stampare più moneta, consentendo più estrazione e meno investimenti, e così via.” Insomma: secondo l’economista greco, il tecnofeudalesimo sta aggravando le fonti di instabilità preesistente trasformandole in ancor più gravi minacce esistenziali. In questa puntata parleremo del modo in cui, secondo Varoufakis, le big tech in questi anni hanno conquistato le redini economiche del mondo occidentale, di come noi ci siamo ridotti ad essere delle specie di servi della gleba dei feudi digitali e di quanto questo condizioni la politica interna ed estera delle nazioni. Centinaia di racconti, film e serie tv di fantascienza dipingono un mondo distopico in cui è avvenuta la cosiddetta singolarità, il momento in cui una macchina, o una rete di macchine, acquisisce una coscienza; a quel punto, di solito, le macchine calcolano che non siamo adatti ai loro scopi e decidono di eliminarci o ridurci in schiavitù. Il problema con questa narrazione è che, enfatizzando una minaccia non esistente, ci ha lasciato esposti a un pericolo molto più reale: i programmi come Alexa o ChatGPT sono infatti ben lontani dalla temuta singolarità e nel frattempo, invece, in combutta con il modo in cui le banche centrali e i governi hanno agito a partire dal 2008 (e, cioè, la più grande crisi finanziaria di sempre), i proprietari di internet sono diventati in parte i proprietari delle nostre economie e hanno rivoluzionato il mondo adattandolo ai propri scopi; come spesso è accaduto nella storia, una nuova e magnifica scoperta tecnologica, internet, ha generato una nuova forma di capitale, le piattaforme private del cloud, che vengono sfruttate da una nuova classe rivoluzionaria che mira a prendere il potere.
Nel suo libro Tecnofeudalesimo, Yanis Varoufakis ci racconta la storia di come tutto questo sia potuto accadere: il primo internet era una zona libera dal capitalismo; era una rete centralizzata, statale, non commerciale. Allo stesso tempo, possedeva elementi di liberalismo primigenio, quasi di anarco – sindacalismo, riflette Varoufakis: una rete senza gerarchia basata su un processo decisionale orizzontale e sullo scambio reciproco di doni, non scambi di mercato. In un quarto di secolo le cose sono, però, radicalmente cambiate e la nostra esperienza quotidiana di internet è oramai filtrata e controllata attraverso piattaforme private che ne hanno sostanzialmente assunto il controllo; nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, il potere di comando venne trasferito dai proprietari terrieri ai proprietari dei mezzi di produzione dell’industria e, affinché questo avvenisse, i contadini dovettero prima perdere l’accesso autonomo ai terreni comuni (il fenomeno delle cosiddette enclosure); allo stesso modo, nell’universo neoliberale che ha in odio tutto ciò che è comune e in cui gli algoritmi erano già diventati le ancelle dei finanzieri, il libero accesso a internet è stato sostanzialmente trasformato in una macchina da soldi per pochi tecnofeudatari. Nel XVIII secolo, con le enclosures originali, per spingere le masse tra le braccia dei capitalisti fu negato l’accesso ai terreni comuni; nel XXI secolo non si è trattato dell’accesso alla terra, ma si è trattato dell’accesso alla nostra stessa identità digitale. La nostra identità digitale, infatti, non appartiene più né a noi né allo Stato: “Disseminata in innumerevoli regni digitali di proprietà privata, ha molti proprietari, nessuno dei quali siamo noi: una banca privata possiede i tuoi codici di identificazione e tutto il tuo registro di acquisti. Facebook ha un’intima dimestichezza con chi – e cosa – ti piace” scrive Varoufakis; “Apple e Google sanno meglio di te che cosa guardi, leggi, compri, chi incontri, quando e dove. Spotify possiede un registro delle tue preferenze musicali più completo di quello immagazzinato nella tua memoria cosciente.” E dietro di loro ce ne sono un’infinità di altri invisibili che raccolgono, monitorano, setacciano e scambiano le tue attività per ottenere informazioni su di te; ogni giorno che passa, una società basata sul cloud di cui non ti interesserà mai conoscere i proprietari, possiede un altro aspetto della tua identità. Nel mondo di internet due quindi, modellato dalle nuove enclosures, sei costretto a cedere la tua identità a una parte del regno digitale che è stata recintata, come ad esempio Uber o Glovo o qualche altra società privata: quando richiedi una corsa per l’aeroporto o ordini una pizza, il loro algoritmo manda un autista di sua scelta con l’obiettivo di massimizzare il valore di scambio che la società proprietaria dell’algoritmo estrae sia da te che dal conducente. Queste nuove enclosures hanno permesso il saccheggio dei beni comuni digitali che ha reso possibile l’incredibile ascesa del capitale cloud; ma è questo quello che rende il capitale cloud così fondamentalmente nuovo, diverso e inquietante. Il capitale è stato finora riprodotto all’interno di un mercato del lavoro – all’interno della fabbrica, dell’ufficio, del magazzino; sono stati i lavoratori salariati, aiutati dalle macchine, che hanno prodotto la merce che è stata venduta per generare profitto, che a sua volta ha finanziato le loro paghe e la produzione di più macchine; è così che il capitale si accumulava e riproduceva. Il capitale cloud, al contrario, può riprodurre sé stesso in modi che non coinvolgono alcun lavoro salariato, imponendo a quasi tutta l’umanità di partecipare alla sua riproduzione gratuitamente. “Pensa a ciò da cui è costituito il capitale cloud” riflette Varoufakis: “software intelligenti, server farms, torri cellulari, migliaia di chilometri di fibra ottica. Eppure tutto questo non avrebbe valore senza contenuti. La parte più preziosa dello stock di capitale cloud non sono le sue componenti fisiche ma piuttosto le storie postate su Facebook, i video caricati su TikTok e YouTube, le foto su Instagram, le battute e gli insulti su Twitter, le recensioni su Amazon o, semplicemente, il nostro movimento nello spazio, che permette ai nostri telefoni di segnalare a Google Maps l’ultima situazione del traffico.” Nel fornire queste storie, video, foto, movimenti, siamo noi che produciamo e riproduciamo – al di fuori di qualsiasi mercato – lo stock di capitale cloud”. Per fare ancora degli esempi di come funzionano i tecnofeudi, Varoufakis ne ricostruisce la genesi e la storia: come sappiamo tutti, quello che ha fatto fare la svolta ad Apple e l’ha trasformata in un’azienda da triliardi di dollari è stato l’iPhone; e questo non solo perché era un ottimo cellulare, ma anche perché ha consegnato ad Apple le chiavi per uno scrigno del tesoro totalmente nuovo – la rendita del cloud. Il colpo di genio che ha sbloccato la rendita del cloud per Steve Jobs è stata la sua idea rivoluzionaria di invitare “sviluppatori terzi/esterni” a utilizzare il software Apple gratuitamente e creare così applicazioni da mettere in vendita tramite l’Apple Store. In un colpo solo Apple aveva creato un esercito di lavoratori non retribuiti e vassalli capitalisti il cui duro lavoro ha prodotto una serie di funzionalità disponibili esclusivamente per i possessori di iPhone sotto forma di migliaia di app desiderabili che gli ingegneri di Apple non avrebbero mai potuto produrre da soli in una simile varietà e quantità; improvvisamente, un iPhone era diventato molto più di un telefono accattivante: era un biglietto di accesso a una vasta area di piaceri e poteri che nessun altro produttore di smartphone poteva fornire. Anche se un concorrente di Apple come Nokia, Sony o Blackberry fosse riuscito a rispondere rapidamente producendo un telefono più intelligente, più veloce, più economico e più bello, non sarebbe importato, afferma Varoufakis. Solo un iPhone, infatti, spalanca i cancelli dell’Apple Store: “Per essere competitivi, gli sviluppatori non pagati di Apple, essenzialmente partnership o piccole società capitaliste, non avevano altra scelta che operare attraverso l’Apple Store. Il prezzo? Un 30% di rendita a lungo termine, pagata a Apple su tutti i loro ricavi. Così una classe di vassalli capitalisti sorse dal terreno fertile del primo feudo cloud: l’Apple Store.” Solo un’altra multinazionale è riuscita a convincere una considerevole porzione di quegli sviluppatori a creare app per il proprio store: Google; molto prima dell’arrivo dell’iPhone, il motore di ricerca di Google era diventato il fulcro di un impero cloud che comprendeva Gmail e YouTube e che, in seguito, avrebbe aggiunto Google Drive, Google Maps e una serie di altri servizi online. “Desiderosa di sfruttare il proprio capitale cloud già dominante, Google ha seguito una strategia diversa da quella di Apple” scrive Varoufakis: “Anziché produrre un cellulare in competizione con l’iPhone, ha sviluppato Android – un sistema operativo che poteva essere installato gratis sugli smartphone di qualsiasi costruttore, compresi Sony, Blackberry e Nokia, che hanno scelto di utilizzarlo.” È così che Google ha creato Google Play, l’unica alternativa seria all’Apple Store; il risultato è stato un’industria globale degli smartphone con due corporation dominanti- Apple e Google – con la maggior parte della loro ricchezza prodotta da sviluppatori terzi non retribuiti dalle cui vendite estraggono una quota fissa: questo non è profitto. È rendita cloud, l’equivalente digitale della rendita fondiaria. Nel frattempo, mentre Amazon stava intrappolando i creatori di prodotti fisici all’interno del suo feudo cloud, altre aziende hanno inglobato nei loro feudi cloud una vasta gamma di autisti, addetti alle consegne, addetti alle pulizie, ristoratori – perfino dog sitter – riscuotendo anche da questi lavoratori non retribuiti e a cottimo una quota fissa dei loro guadagni; in un tweet rivelatore, Elon Musk ha ammesso la sua ambizione di trasformare Twitter in una app di tutto: cosa intendeva con “app di tutto”? “Non intendeva niente di meno che una porta di accesso al tecnofeudalesimo, che gli permetterebbe di attirare l’attenzione degli utenti, modificare il loro comportamento di consumatori, ottenere manodopera gratis da loro come servi della gleba del cloud e, dulcis in fundo, far pagare ai venditori la rendita del cloud per vendere i loro prodotti.”
La storia dell’ascesa del capitale cloud comincia sulla scia del crollo del 2008, quando il denaro di Stato ha iniziato a essere stampato in grande quantità dalle banche centrali di tutto il mondo; nei quindici anni successivi i banchieri centrali hanno stampato denaro e lo hanno convogliato ai finanzieri, di loro spontanea volontà: a loro avviso, hanno salvato il capitalismo. In realtà, lo hanno stravolto, contribuendo a finanziare l’emergere del capitale cloud: “Questa specie di socialismo a favore dei finanzieri” come lo chiama Varoufakis “fece sorgere un altro agglomerato di sovrani della finanza in combutta con cloudalisti; le tre aziende statunitensi BlackRock, Vanguard e State Street che oggi, di fatto, posseggono il capitalismo americano. Queste comprendono le maggiori compagnie aeree americane (American, Delta, United Continental), gran parte di Wall Street (JPMorgan Chase, Wells Fargo, Bank of America, Citigroup) e produttori di automobili come Ford e General Motors.” Inoltre, i Big Three sono anche i maggiori azionisti di quasi il 90% delle aziende quotate alla Borsa di New York, comprese Apple, Microsoft, ExxonMobil, General Electric e Coca-Cola. Per dare un senso a questi numeri: gestiscono un patrimonio che equivale al reddito nazionale degli Stati Uniti, o alla somma dei redditi nazionali di Cina e Giappone; da allora, l’ascesa al potere finanziario supremo è stata quasi ineluttabile e, ora che sono lì, i Big Three godono di due vantaggi insormontabili: un potere monopolistico senza precedenti su interi settori – dalle compagnie aeree e bancarie all’energia – e alla Silicon Valley. Ma è durante la pandemia che, secondo Varoufakis, il passaggio al tecnofeudalesimo è stato completo: “Mentre l’economia degli Stati Uniti perdeva 30 milioni di posti di lavoro in un solo mese, Amazon andò in controtendenza, apparendo agli occhi di una fetta di americani” scrive Varoufakis “come un ibrido tra la Croce Rossa, che consegnava beni di prima necessità ai cittadini confinati, e il New Deal di Roosevelt, con l’assunzione di 100.000 dipendenti in più e il pagamento di un paio di dollari in più all’ora.” Vero, le big tech hanno investito il denaro delle banche centrali e questo ha creato posti di lavoro, ma i lavori che hanno creato erano quelli del proletariato del cloud e gli investimenti erano atti a incrementare il loro capitale cloud. Nella seconda parte di questa analisi del testo di Varoufakis vedremo in che modo il tecnofeudalesimo stia distruggendo la democrazia, il modo in cui sta influenzando la guerra fredda tra Usa e Cina, il diverso modo in cui il governo di Pechino si rapporta alle piattaforme online e le possibili soluzioni che Varoufakis prospetta per cambiare questo stato di cose. Nel frattempo, se anche tu credi che i nuovi tecnofeudatari dovrebbero fare la stesse fine dei vecchi signori feudali, aiutaci a costruire un media completamente libero e indipendente che rappresenti il 99 per cento e che combatta il loro potere e la loro avidità. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Disuguaglianza, il potere al servizio di pochi: il titolo dell’ultimo rapporto di Oxfam dedicato al furto sistematico di ricchezza da parte degli uomini più ricchi dell’impero non poteva essere più chiaro; “Dall’inizio di questo decennio” sottolinea il rapporto “la ricchezza dei cinque miliardari più ricchi del mondo è più che raddoppiata, mentre quella del 60% più povero, non ha registrato nessuna crescita”. Ancora peggio è andata ai più poveri in Italia, dove “La ricchezza detenuta dal 20% più povero della popolazione” sottolinea il rapporto “nell’ultimo anno si è addirittura dimezzata” con il risultato che oggi l’1% dei più ricchi da solo possiede 84 volte il loro patrimonio. La conclusione di Oxfam è da veri ottoliner: “Siamo davanti a un bivio” scrivono; da una parte “un’era di incontrollata supremazia oligarchica” e dall’altra un “potere pubblico che riacquista centralità promuovendo una società più equa e coesa ed un’economia più giusta e inclusiva”. Il rapporto è stato presentato durante la giornata inaugurale dell’appuntamento annuale del World Economic Forum a Davos, dove era presente anche il nostro ministro Giorgetti col piattino in mano nel tentativo di convincere quelle stesse oligarchie a comprarsi un pezzetto di paese che hanno deciso di mettere in svendita; secondo voi, per quali delle due opzioni stanno lavorando?
Le “elevate e crescenti disuguaglianze di ricchezza che si riscontrano in tanti Paesi, a partire dal nostro” scrive Oxfam nell’introduzione al rapporto “rappresentano un tratto tristemente distintivo dell’epoca in cui viviamo”, ma non ci sarebbe niente di più erroneo – sottolineano – che “considerarle un fenomeno causale ed ineluttabile”. Piuttosto, continuano, sono la conseguenza ineluttabile di “scelte politiche” precise: da bravi ottoliner gli amici di Oxfam vanno dritti al cuore della questione e senza perdersi in moralismi astratti puntano il dito contro “la dinamica del potere”, quel potere materiale e concreto che ha accompagnato, attraverso la finanziarizzazione, una concentrazione mai vista della ricchezza che, a sua volta, ha inesorabilmente “incrementato le rendite di posizione e indebolito il potere contrattuale dei lavoratori”. “Una vera e propria redistribuzione alla rovescia” scrive ancora Oxfam “con un trasferimento continuo di risorse da lavoratori e consumatori a titolari e manager di grandi imprese monopolistiche, con conseguente accumulazione di enormi fortune nelle mani di pochi”. Pensavamo fosse il rapporto di una ONG; era uno dei nostri pipponi: la gallina dalle uova d’oro dei super-ricchi, spiega Oxfam, sono le grandi corporation che “in media, nel biennio 2021-2022 hanno registrato un aumento dei profitti addirittura dell’89% rispetto al periodo 2017-2020” e non era che un antipasto. I “nuovi dati relativi ai primi mesi del 2023” ricorda infatti Oxfam “mostrano come l’anno appena conclusosi sia destinato a superare ogni record, attestandosi come il più redditizio di sempre”. Complessivamente, infatti, 148 tra le più grandi società del mondo – e cioè quelle per le quali si hanno i dati – avrebbero realizzato circa 1.800 miliardi di dollari di profitti tra giugno 2022 e giugno 2023, un bel 52,5% in più rispetto al profitto medio registrato nel quadriennio che va dal 2018 al 2021. Tra queste, in particolare, spiccano “Undici aziende farmaceutiche che hanno aumentato i propri profitti di quasi il 32% nel 2022 rispetto alla media del periodo 2018-2021, registrando profitti in eccesso per 41,3 miliardi di dollari nel 2022; ventidue società del settore finanziario che hanno aumentato i propri profitti del 32% rispetto alla media del periodo 2018-2021 e hanno realizzato profitti in eccesso per 36 miliardi di dollari nel 2023; due marchi di lusso i cui profitti hanno visto un incremento del 120% rispetto alla media del periodo 2018-2021 e quattordici compagnie petrolifere e del gas i cui profitti sono aumentati del 278% rispetto alla media del periodo 2018-21, registrando profitti in eccesso per 144 miliardi di dollari nel 2022 e 190 miliardi di dollari nel 2023”. Questa impennata senza precedenti proprio mentre l’economia cadeva a pezzi e l’inflazione dava una mazzata definitiva al potere d’acquisto dei comuni mortali – come prova a spiegare da due anni Isabella Weber – è stata resa possibile proprio “dalla concentrazione del mercato, che assicura posizioni monopolistiche, consentite dai governi”; il rapporto ricorda infatti come “A livello globale, nel corso di appena due decenni, tra il 1995 e il 2015, 60 aziende farmaceutiche si sono fuse in 10 colossi del Big Pharma. Due multinazionali controllano oggi più del 40% del mercato globale delle sementi (25 anni fa erano 10)”, e a dominare il mercato digitale sono una manciata di Big Tech con i “tre quarti dei ricavi globali dalla pubblicità online che arrivano nelle casse di Meta, Alphabet e Amazon, e oltre il 90% delle ricerche online che viene effettuato tramite Google”. Risultato: “Appena lo 0,001% delle imprese più grandi incamera quasi un terzo di tutti i profitti societari globali”. Lo 0,001%, e lo chiamano libero mercato. Da un certo punto di vista, però, è libero davvero; di non pagare le tasse. Come ricorda il rapporto infatti “L’aliquota legale media sui redditi societari nei Paesi OCSE è a passata dal 48% del 1980, al 23,1% del 2022”: meno della metà (quando le pagano); come ricorda il rapporto, infatti, “Si stima che circa 200 miliardi di dollari vengano persi ogni anno a causa dell’elusione fiscale delle imprese multinazionali, con i paesi del Sud del mondo che tendono ancora una volta a subirne in maniera prevalente i contraccolpi”. I patrimoni sterminati dei supermegaricchi arrivano esattamente da qui: “nel 2022” ricorda infatti il rapporto “i 50 miliardari statunitensi più ricchi detenevano il 75% della propria ricchezza in azioni delle società da loro guidate”, vale a dire tutte; “L’1% più ricco al mondo” sottolinea infatti il rapporto “possiede attualmente il 59% dei titoli finanziari a livello globale”. Alla faccia dell’azionariato popolare. I grandi azionisti, poi, hanno approfittato di questa gigantesca ondata di profitti da rendita di posizione monopolistica per aumentare la loro presenza nell’azionariato delle big corporation in modo spropositato: “Per ogni 100 dollari di profitti realizzati tra luglio 2022 e giugno 2023 da 96 tra le più grandi società al mondo” riporta infatti Oxfam “82 dollari sono andati agli azionisti sotto forma di dividendi o buyback azionari, consolidando così le posizioni di persone che occupano già, nella stragrande maggioranza dei casi, le posizioni apicali nelle nostre società”. Nel frattempo, vista dall’altra estremità della piramide, la situazione appariva decisamente meno florida: secondo Oxfam, infatti, 791 milioni di lavoratori distribuiti su 52 paesi, nel biennio 2021 – 2022 “hanno visto un calo del monte salari in termini reali di 1.500 miliardi di dollari, equivalenti a poco meno di una mensilità per ciascun lavoratore”. Il rapporto poi si concentra sul caso italiano, ma la dinamica è esattamente la stessa: “Dall’inizio della pandemia” sottolinea Oxfam “il numero di italiani presenti nella lista dei miliardari di Forbes è passato da 36 a 63”; 63 persone che hanno visto il loro patrimonio passare da 149 a 217 miliardi, un bel +46%. Ma i più ricchi tra i super-ricchi potrebbero non essere gli unici a pensare che pandemia, guerre e inflazione hanno fatto anche cose buone: il numero di italiani titolari di un patrimonio superiore ai 5 milioni, infatti, è passato da poco meno di 81 mila a quasi 93 mila, e tutti insieme hanno visto il loro patrimonio crescere di 178 miliardi di dollari in termini reali; loro, l’urgenza di far ripartire la crescita e di riportare la pace in Europa mi sa che non l’avvertono poi più di tanto. Il processo comunque è in corso già da prima, in particolare – te guarda a volte il caso – proprio dal 2008, la data ufficiale di inizio di quella che abbiamo imparato a definire la Terza Grande Depressione del Capitalismo Globale: prima di allora infatti, per un decennio – riporta Oxfam – “la quota di ricchezza del percentile più ricco degli italiani aveva registrato un calo” come, d’altronde, aveva subito una diminuzione consistente anche il famoso coefficiente di Gini, il più classico tra i misuratori della disuguaglianza. Dopodiché il disastro: lo 0,1% più ricco degli italiani, poco più di 50 mila persone, ha visto la sua quota di ricchezza – rispetto al totale nazionale – passare dal 5,5 al 9,4% e lo 0,01 addirittura dall’1,8 al 5. Triplicata. Nel frattempo, i redditi reali delle famiglie italiane si riducevano in media di un bel 5,3%; chissà perché non mi stupisce per niente…
E qui ecco che riparte la ramanzina del Marru; d’altronde, vi ho avvisato più volte: questa cosa la ripeterò all’infinito, fino a che non la capiscono anche i muri – o meglio, probabilmente non si tratta tanto di capirla (che non c’ho da insegnare niente a nessuno, e ci mancherebbe pure); si tratta di cominciare a darle tutto il risalto che merita perché è la chiave per capire tutto, senza la quale si continua a brancolare nel buio. Il grande furto delle oligarchie e l’era della diseguaglianza, infatti, hanno senz’altro millemila concause – e anche Oxfam ne elenca una lunga serie, tutte importanti; dalle politiche fiscali, al welfare, alle politiche del lavoro, ma ce n’è una che non cita e che invece, a nostro avviso, sovradetermina tutte le altre: la strategia che il superimperialismo USA ha adottato per contrastare il suo declino relativo a partire dall’inizio della Terza Grande Depressione. A quel punto – come ha dovuto ricordare anche uno non particolarmente sveglio come Federico Fubini sul Corriere della Serva la settimana scorsa – la quota di ricchezza globale detenuta dai paesi dell’Europa a 27 era più o meno allo stesso livello di quella USA; oggi l’economia USA è più grande di quelle europee di oltre il 50%, e il grande trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto in Italia e negli altri paesi europei – e quello epocale dall’Europa agli USA – non sono due fenomeni distinti e paralleli. Non sono nemmeno, semplicemente, collegati; sono letteralmente, almeno in buona parte, LA STESSA IDENTICA COSA, e messi insieme sono esattamente la risposta al più grande dei misteri che ci attanaglia da due anni a questa parte: come è mai possibile che le élite europee si facciano prendere a calci nei denti da quelle di oltreoceano senza proferire parola? Ecco perché: perché con la protezione del superimperialismo USA i capitali li portano negli USA via paradisi fiscali e poi li moltiplicano a dismisura senza fare assolutamente una seganiente, affidandoli ai giganti del risparmio gestito a stelle e strisce che li usano per gonfiare a dismisura le bolle speculative dello schema Ponzi della finanza USA; quindi noi che campiamo del nostro lavoro – e i capitali li possiamo esportare al massimo da Grottaferrata a Monte Porzio Catone – paghiamo le conseguenze dell’economia che ci collassa davanti. Quello scioperato del figlio cocainomane del nostro datore di lavoro, invece, via Isole Vergini Britanniche dà i suoi soldini a un fondo predatorio di private equity e accumula profitti – più o meno detassati – su profitti; quindi non è lui a prendere i calci nei denti dalle élite di oltreoceano: a prendere i calci nei denti siamo solo noi. Certo, nel grande gioco del capitalismo globale anche lui non è altro che il bimbo scemo ma viziato da tenere buono con tanti bei regalini milionari, ma tutto sommato mi ci cambierei, come dire… E, soprattutto, non posso certo aspettarmi che sia lui ad alzare la testa al posto mio, che non solo come lui non conto e non posso contare una seganiente politicamente, ma che invece che regali milionari continuo a ricevere buste paga da terzo mondo. Ecco: fissarsi bene in testa il funzionamento del grande meccanismo complessivo che spiega tanto il rapporto di Oxfam come l’articolo di Fubini, come i tedeschi che si fanno radere al suolo un’infrastruttura strategica da un atto terroristico senza battere ciglio, come la Meloni che giocava a fare la sovranista e ora manda Giorgetti col cappello in mano a fare l’elemosina a Davos, di per sé ovviamente non cambia niente, ma magari ci aiuta a chiarire cos’è che esattamente dovremmo cominciare a pretendere, e cioè che ci restituiscano il nostro denaro, niente di più, niente di meno. Noi rivogliamo il nostro denaro. Se lo rivuoi anche te, aiutaci a costruire il primo media che dà voce a tutti quelli che sono stati derubati e ora pretendono di riavere indietro il maltolto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Lorenzo Tosa (sì, cioè lo so, non c’entrava un cazzo qui Tosa, ma ho realizzato che in due anni non l’abbiamo praticamente mai offeso e ci siamo detti che era arrivato il momento di rimetterci un po’ in pari).
Diecimila mila uomini armati di tutto punto che avanzano senza problemi; la bandiera israeliana esposta in bella mostra in un selfie celebrativo di gruppo dentro il parlamento di Gaza city; il quartier generale di Hamas circondato e assediato e i vicini arabi costretti a fare spallucce – asse della resistenza compreso – che, al di là delle minacce, sarebbe sostanzialmente del tutto impotente: il trionfo militare di Israele, da tutti i punti di vista, non potrebbe essere più schiacciante e plateale, o almeno così ci viene raccontata. E graziarcazzo: se la cantano e se la suonano. Sia chiaro: per quanto ne sappiamo, potrebbero anche avere ragione eh? Il problema, però, appunto è: quanto ne sappiamo? Ogni fonte di informazioni indipendente – semplicemente – è stata abbattuta, proprio fisicamente intendo: secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, infatti, dall’inizio del conflitto si contano 9 giornalisti feriti, 13 arrestati, 3 scomparsi e la bellezza di 42 brutalmente assassinati, alcuni insieme anche a tutta la loro famiglia, che non si sa mai. Sostanzialmente tutti erano palestinesi e non erano proprio convintissimi dell’affidabilità delle fonti israeliane; per capire l’entità, in quasi due anni di conflitto in Ucraina i giornalisti morti risulterebbero in tutto 12. E così tutto quello che sappiamo oggi, sostanzialmente, è propaganda israeliana, spesso un po’ cringe: dalla copia magica del Mein kampf incredibilmente intonsa, nonostante sia stata ritrovata in mezzo alle macerie, alla famosa lista dei terroristi carcerieri trovata dentro all’ospedale di al Shifa e ostentata in pompa magna da tutti i media internazionali, a partire da quei geniacci della CNN. Peccato che quelli che indicavano come nomi dei carcerieri, in realtà, fossero i giorni della settimana; il documento scottante era un calendario. S’arrampicano sugli specchi: devono, in tutti i modi, giustificare il fatto di assistere entusiasti a un plateale crimine di guerra e – visto che di prove concrete che l’ospedale nascondesse nei suoi sotterranei nientepopodimeno che il quartier generale di Hamas al momento, stranamente, non ne hanno – s’attaccano a tutto. D’altronde non è la prima volta; è la modalità standard con la quale il giornalismo del mondo libero ha raccontato tutti gli stermini dell’asse del male negli ultimi 20 anni, da quando l’unico giornalismo tollerato è diventato solo ed esclusivamente quello embedded, totalmente controllato dalle forze di occupazione. Tutti i giornalisti occidentali che ora sono a Gaza, infatti, sono al seguito delle forza armate israeliane e hanno come unico mandato quello di fare da megafono alle loro vaccate, e sono l’unica fonte di informazioni che abbiamo. Una bella overdose di post – verità. In questo video cercheremo di portarvi il punto di vista della parte opposta; ovviamente non è che sia necessariamente più affidabile di una Repubblichina o di una Radio genocidio radicale qualsiasi. In guerra, nessuna delle parti in causa, ovviamente, è molto affidabile: per questo esistono gli osservatori indipendenti. O meglio esistevano, prima che le bombe democratiche e liberali di Israele li sterminassero; l’obiettivo, appunto, era impedire all’altra campana di esistere tout court, e che la propaganda del genocidio diventasse magicamente LA REALTA’. Riusciremo a impedirlo? Oltre ai pochi giornalisti che non sono a libro paga dell’apparato egemonico israeliano e dei suoi collaboratori, a minacciare di riuscire a portare al grande pubblico informazioni diverse da quelle sciorinate dalla propaganda genocida sionista ci sono le fonti aperte e cioè quell’infinita selva di dati che, nella guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, hanno permesso – giorno dopo giorno – di smontare sistematicamente la ridicola propaganda suprematista occidentale, e che in Israele sono stati scientificamente eliminati; lo riporta in un lungo articolo il sito libanese Al-Akhbar: “Sabotaggio GPS sulla Palestina occupata” titola; “i satelliti rivelano la sconfitta di Israele”. L’articolo ricorda come “dopo l’operazione diluvio di al-aqsa del 7 ottobre, Israele ha cercato di impedire agli account di open source intelligence di ottenere informazioni sabotando la tecnologia che fornisce i dati”. Come riportava lo stesso Bloomberg pochi giorni prima l’inizio dell’operazione di terra da parte di Israele, infatti, su richiesta del regime genocida di Tel Aviv Google aveva “interrotto il traffico di dati di Google Maps” su tutta l’area interessata; poco dopo è stato il turno anche dell’applicazione di mappe di Apple. Il Big Tech USA è al servizio del genocidio, senza se e senza ma. Nel caso non bastasse, come riportava Politico il 23 ottobre scorso, l’esercito di occupazione – comunque – aveva provveduto anche a sabotare i satelliti del sistema GPS sopra il confine che separa Israele dal Libano “nel tentativo di impedire ai missili di precisione o ai droni della resistenza libanese di raggiungere i loro obiettivi” (Al-Akhbar).
Ma era solo l’inizio; nei giorni successivi, infatti, Associated Press prima e New York Times dopo erano entrate in possesso di alcune immagini satellitari ad alta definizione che svelavano i movimenti delle forze armate israeliane. A fornirle, due aziende americane: Planet Labs e Maxar Tecnologies, che sono state prese immediatamente per le orecchie; come rivelato dal sito Semafor, il 6 novembre infatti – dopo la pubblicazione di quelle immagini – le due aziende “hanno iniziato a limitare le immagini di Gaza, e Planet Labs ha persino rimosso alcune immagini della Striscia di Gaza dalla galleria scaricabile su abbonamento dal sito web”. Da allora, le poche immagini che le due aziende forniscono esclusivamente ai media di fiducia arrivano comunque con giorni di ritardo: “non è chiaro” scrive Al-Akhbar “il motivo per cui queste aziende hanno interrotto e ritardato i loro servizi e chi ha esercitato pressioni a questo riguardo. Quello che è chiaro, però, è che è nell’interesse dell’entità occupante e del suo esercito”. E allora, giusto per controbilanciare un po’ la propaganda filo – genocidio, vi riportiamo un po’ di informazioni non verificate (e, al momento attuale, non verificabili) della propaganda avversa, e cioè quella dell’asse della resistenza che a tutta questa gloriosa avanzata senza ostacoli delle forze armate israeliane non sembra credere molto: “Da questa mattina” ha dichiarato ad esempio ieri sera in un comunicato ufficiale Abu Ubaida, portavoce delle Brigate al-Qassan, “i nostri mujaheddin sono stati in grado di uccidere 9 soldati sionisti e distruggere completamente o parzialmente 22 veicoli”. Con “questo tributo, che potrebbe essere il più grande sul campo dall’inizio della battaglia” commenta Al-Akhbar “il numero di carri armati e veicoli presi di mira sale a circa 200. Quello che è emerso negli ultimi due giorni” continua Al-Akhbar “è che le brigate Al-Qassam si sono prese il tempo necessario per preparare piani e tattiche, il cui impatto aumenterà nei prossimi giorni”. “Stiamo combattendo contro i fantasmi” si lamentano gli analisti israeliani: il riferimento, appunto, è alla modalità di combattimento che – come prevedibile – hanno adottato i guerriglieri, in particolare delle brigate Al-Qassam, ma non solo. “Pertanto” sottolinea Al-Akhbar “anche l’obiettivo dell’umiliazione e della sottomissione attraverso il combattimento è impossibile” e, a parte i selfie nel parlamento e l’assedio degli ospedali, la lista degli obiettivi militari che al momento mancano all’appello, secondo la resistenza, sarebbe piuttosto lunghina: nessun pezzo grosso di Hamas, infatti, è stato tratto in arresto; nessuna sala di comando è stata individuata e neutralizzata; non ci sono scese di resa di guerriglieri a favore di telecamere; non c’è un caso di uno qualsiasi dei famosi tunnel liberato e portato sotto il controllo delle forze armate israeliane. “Per questo motivo” commenta Al-Akhbar “Israele non si accontenta dell’azione militare, ma ricorre all’uso di crimini palesi come la distruzione totale di ogni struttura civile e il tentativo di far morire di fame e di malattie il maggior numero di persone”; per trasmettere un’”immagine vittoriosa” un po’ pochino. Per fare qualche passo avanti, continua Al-Akhbar, “l’esercito di occupazione dovrebbe scendere dai mezzi blindati, sgomberare edifici, vicoli e quartieri e confrontarsi direttamente con i combattenti, di strada in strada, cosa che le forze avanzate nel settore occidentale della città non hanno ancora fatto, mentre procedono molto lentamente, dando la massima priorità alla protezione dei soldati dagli attacchi”. “In conclusione” scrive sempre Al-Akhbar “ciò che sinora si può comprendere è che l’operazione di terra non raggiungerà in alcun modo direttamente i suoi obiettivi operativi, e che la ricerca dell’“ago” della vittoria nel “pagliaio” di Gaza si scontrerà, col tempo, con il muro della frustrazione e della futilità, mentre la resistenza avrà riconquistato quasi interamente la posizione e l’iniziativa”. Nel frattempo, dopo giorni di silenzio da parte dei soliti famigerati razzi provenienti dalla Striscia, negli ultimi due giorni si sono tornate a registrare raffiche significative: “Alcuni video” riporta sempre Al-Akhbar “hanno mostrato migliaia di persone determinate nel nord della Striscia che accompagnavano l’intenso lancio di razzi con applausi e invocazioni ad Allah”. Poche ore prima, Netanyahu aveva cercato di flexare importanti successi militari invitando gli insediamenti produttivi intorno a Gaza a ricominciare il business as usual, dal momento che l’avanzamento dell’iniziativa di terra sarebbe riuscita a smantellare le postazioni da cui venivano lanciati i razzi. Il ritorno agli attacchi dei razzi da Gaza, oltre alle difficoltà dell’operazione via terra, dipenderebbero anche da un altro fattore: gradualmente, ma inesorabilmente, si starebbero intensificando gli attacchi da nord da parte di Hezbollah, tanto da costringere il ministro della difesa Gollant a spostare una bella fetta delle capacità antiaeree verso nord, e potrebbe essere solo l’inizio. Nel lungo discorso di sabato scorso, Nasrallah infatti ha detto una cosa importante: “Le parole restano sul campo” ha affermato. “La nostra politica attuale è che è il campo a parlare, e poi arriviamo noi a spiegare l’azione”; in soldoni, significa che a valutare quello che dal punto di vista militare è fattibile, da lì in poi saranno direttamente quelli che combattono in prima linea. La direzione politica è quella di sostenere la resistenza palestinese e di obbligare Israele ad essere occupato su più fronti: con che tempi e quali modalità saranno i militari a deciderlo. Poche ore dopo, le azioni sul confine settentrionale di Israele subivano un’accelerazione significativa e “ciò spiega la decisione della leadership sionista di mobilitare un terzo del suo esercito, circa la metà dei suoi sistemi di intercettazione e gran parte della sua aviazione sul confine con il Libano” (Al-Akhbar). Ma il confine con il Libano non è certo l’unica zona che si sta incendiando: negli ultimi giorni ad essere presa particolarmente di mira, ad esempio, è stata la località turistica di Eilat, la Miami d’Israele; in questo caso, a tenere alta la tensione sarebbero le forze yemenite, che hanno sferrato numerosi attacchi ricorrendo all’utilizzo, come ricorda al Mayadeen, di “droni a lungo raggio, missili da crociera e missili balistici”. A prendere di mira Eilat, poi, ci si sono messe pure le milizie sciite di stanza in Iraq che non si sono limitate ad Eilat; ad essere prese di mira negli ultimi giorni, infatti, sarebbero state alcune basi USA. Solo giovedì scorso, la base di Ain Al Assad in Iraq sarebbe stata raggiunta da 3 diversi attacchi che hanno visto l’impiego sia di missili che di droni. Per carità, niente di ché. Ma sono gli stessi che quando a compierli sono gli ucraini in Russia, per tre giorni poi i giornali parlano delle falle nella sicurezza del Cremlino e di allargamento della controffensiva in territorio russo. Noi vorremmo evitare di essere così cringe, ecco, però anche far finta di niente con la complicità della propaganda forse non è la strategia migliore, sopratutto se all’Iraq aggiungiamo anche la Siria. In tutto – confermano anche dal Pentagono – si arriva a poco meno di una cinquantina di attacchi. E’ vero: non causano migliaia di vittime civili e non radono al suolo scuole, asili e ospedali, ma se dal gusto per la vendetta e per la carneficina passiamo ai veri obiettivi militari, così a occhio anche Israele non è che abbia ottenuto poi tantissimo di più e se c’è una cosa che negli scorsi 20 anni di stermini indiscriminati in nome della war on terror abbiamo imparato, è che tendenzialmente questi focolai è abbastanza difficile che, a un certo punto, si spengano come per magia. Gli eserciti regolari – che costano una vagonata di soldi e sono composti, in buona parte, da gente che non aspetta altro che tornare a fare qualche rave sulle spiagge della Florida o di Tel Aviv – tendono a perdere piuttosto rapidamente il loro slancio iniziale; i popoli sottoposti alla furia colonialista e all’occupazione, un po’ meno. Anche a 20 anni di distanza, anche quando – con la complicità dei media che chiudevano un occhio – hai fatto finta di scordarteli, ecco che rispuntano sempre fuori, più incazzosi che mai. Che è esattamente quello che, secondo numerosi analisti, era il succo del messaggio di Nasrallah: non ci facciamo illusioni; per la resistenza il tributo di sangue da versare è ancora gigantesco, ma Israele s’è infilato in un vicolo cieco. Per ora, bisogna ammetterlo, a non averlo capito non è solo Tel Aviv: anche in gran parte dei paesi arabi si fa un po’ finta di niente. La prova è arrivata dalla riunione di sabato della Lega araba; sul tavolo c’era una proposta di risoluzione piuttosto ambiziosa, vista l’assise: si chiedeva di impedire l’utilizzo delle basi della regione agli USA, di congelare il dialogo con Israele e anche di cominciare a mettere un freno alle relazioni economiche. Gli alleati storici degli USA della regione non ne hanno voluto sapere e la resistenza palestinese, comprensibilmente, ha gridato al tradimento. Per chi sperava in un’alzata di scudi del mondo arabo – almeno di fronte a un genocidio di queste dimensioni e sotto la pressione delle opinioni pubbliche locali – sicuramente si è trattato di una battuta d’arresto significativa. Tra le classi dirigenti reazionarie delle petromonarchie, evidentemente, nonostante i recenti sviluppi – a partire dal ritorno al dialogo tra sauditi e iraniani mediato dalla Cina – sull’indignazione per lo sterminio dei bambini arabi continua a prevalere la diffidenza nei confronti della minaccia che l’Iran e l’asse antimperialista della resistenza rappresenta per la tenuta dei loro regimi feudali e antipopolari. Sono tentennamenti che ovviamente gridano vendetta perché, nel frattempo, lo sterminio procede sostanzialmente indisturbato, ma chi nel nord globale canta vittoria – magari perché, a suon di leggere i reportage embedded della propaganda, s’è fatto un’idea un po’ idilliaca a trionfalistica dei risultati dell’avanzata di terra – potrebbe tutto sommato rimanere deluso (soddisfazione per lo sterminio gratuito di bambini a parte, si intende). Sebbene la Lega araba non abbia adottato la risoluzione di cui sopra, infatti, ne ha comunque adottata un’altra più blanda ma che comunque, in modo unitario, condanna senza se e senza ma il genocidio e chiede un immediato cessate il fuoco, e la partita per spostarla su posizioni più radicali è appena iniziata; per quanto si tratti spesso di regimi dispotici, un certo peso le opinioni pubbliche lo svolgono comunque, sia a livello interno che, più in generale, a livello regional, e nell’insieme della Umma Islamica, la comunità dei fedeli che va oltre ogni confine. E le opinioni pubbliche sono, in maniera schiacciante, solidali con la martoriata popolazione palestinese, e per non consegnarle interamente all’egemonia dell’Iran – che è il vero incubo delle petromonarchie del Golfo e che, come ha sottolineato maliziosamente Nasrallah stesso, è la potenza regionale che rende possibile l’azione dell’asse della resistenza – continueranno ad essere costretti perlomeno a far finta di contrapporsi al piano genocida di Israele.
Una tensione che ha cominciato a far scricchiolare anche l’asse dei vassalli di Washington – da Macron a Trudeau – che sono stati costretti a dire parole abbastanza chiare sulla totale sproporzione della reazione israeliana, mentre la breaking news che leggo in un’agenzia mentre chiudo questo pippone è che il consiglio di sicurezza dell’ONU (dopo 4 tentativi naufragati) con 12 voti favorevoli e soli tre astenuti avrebbe adottato una risoluzione che imporrebbe una “pausa umanitaria urgente ed estesa e corridori umanitari che attraversino la striscia di Gaza”. Lo sconvolgimento messo in moto dal diluvio di al-aqsa il 7 ottobre ha portata epocale, un evento storico dentro un mondo che cambia a una rapidità a cui non eravamo più abituati da 70 anni, e tutti i segnali ci continuano a dire che non vada esattamente nella direzione auspicata dall’egemone USA e dai suoi innumerevoli proxy regionali. E se il mondo nuovo avanza, farselo raccontare dai vecchi media suprematisti e dai giornalisti embedded al seguito dell’asse del male potrebbe non avere tantissimo senso. Forse è arrivato il momento di spegnerli e di accendere Ottolina Tv: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.