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Da Reagan a Trump: quando gli attentati falliti permettono di accelerare la svolta ultra-reazionaria

30 marzo 1981, Washington, Hilton Hotel: in meno di 5 secondi, John Warnock Hinckley, giovane rampollo di una ricca famiglia di petrolieri texani vicina all’ala moderata dei repubblicani, rappresentata allora dall’amico vice presidente George W. Bush, esplode 7 colpi della sua calibro 22; il bersaglio è una ex star di B movie, diventato poi particolarmente noto in veste di presidente del più importante sindacato di attori di Hollywood, incarico che ha onorato trasformandosi in uno dei più efficienti bracci armati della caccia alle streghe del maccartismo. Si chiamava Ronald Reagan e, da appena 69 giorni, era stato ufficialmente nominato quarantesimo presidente degli Stati Uniti d’America; venne raggiunto da un proiettile che gli perforò un polmone e si arrestò ad appena 25 millimetri dal cuore. Affrontato con successo l’intervento di emergenza e dopo appena 10 giorni di convalescenza, Reagan tornerà sulla scena politica circondato da un’aura di popolarità senza precedenti che gli permetterà, negli 8 anni successivi, di portare a termine senza ostacoli quella radicale controrivoluzione conservatrice sulla quale si fonda il mondo distopico nel quale siamo tuttora immersi. Come ci ricorda Marco D’Eramo , il grosso del piano di quella controrivoluzione, poco prima, era stato messo nero su bianco in un lunghissimo libro bianco di oltre 1000 pagine curato dalla Heritage Foundation, uno dei più importanti e influenti think tank reazionari a stelle e strisce e che, alla fine del doppio mandato di Reagan, si vantava pubblicamente “che il 60-65% delle sue raccomandazioni fosse stato fatto proprio dall’amministrazione, che nel corso di due mandati vantò tra i suoi membri 36 funzionari provenienti dal think tank” (Marco D’Eramo – Dominio: la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi).

L’attentato a Ronald Reagan

Un precedente piuttosto inquietante: proprio come Reagan allora, infatti, anche il nostro The Donald rappresenta tutto sommato un outsider; entrambi, poi, vengono “ritenuti totalmente ignoranti e inadeguati alla presidenza”, due “candidati su cui l’estrema destra non puntava, perché considerati inaffidabili, ma assistiti e pilotati dopo l’elezione” (Marco D’Eramo – Dominio: la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi) e, ora come allora, a descrivere nel dettaglio la missione di questi candidati ultra-reazionari ritenuti del tutto impresentabili dai benpensanti, ecco che immancabilmente arriva l’ennesimo, lunghissimo e dettagliatissimo libro bianco della Heritage Foundation. C’ha pure lo stesso identico titolo: Mandate for Leadership, mandato per la leadership, oltre 1000 pagine di suprematismo messianico allo stato puro; per completare il parallelo, mancava giusto un altro attentato fallito. Ma prima di provare a fare un piccolo riassunto del piano delirante che, con ogni probabilità, caratterizzerà la missione civilizzatrice di The Donald, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra battaglia quotidiana contro il regime distopico degli algoritmi e, già che ci siete – se ancora non lo avete fatto – di iscrivervi a tutti i nostri canali social e attivare le notifiche; non basterà da solo a rinviare l’inizio di un’altra lunga stagione di lotta di classe dall’alto contro il basso, ma almeno ci aiuterà a diffondere un po’ di consapevolezza su cosa ci aspetta e, magari, anche su cosa è necessario fare per difendersi.
“Nell’inverno del 1980” ricorda nella prefazione al libro bianco Paul Dans, direttore del progetto di transizione presidenziale 2025 presso la Heritage Foundation, “la nascente Heritage Foundation inoltrò al presidente eletto Ronald Reagan il suo testo Mandato per la leadership. Questo lavoro collettivo da parte dei principali intellettuali conservatori e di ex funzionari governativi, definiva le principali prescrizioni politiche, agenzia per agenzia, per il presidente entrante… E la rivoluzione che seguì molto probabilmente non sarebbe mai avvenuta, se non fosse stato per il lavoro di questi attivisti. Con questo testo ora siamo tornati al Futuro, e oltre. Ma” sottolinea Dans, ormai “non siamo più nel 1980. Adesso il gioco è cambiato. E” – alzate bene le antenne perché questo passaggio è notevole – “la lunga marcia del marxismo culturale all’interno delle nostre istituzioni ormai è avvenuta”. Insomma: altro che pensiero unico neo-liberale; nonostante facciate tanto i democratici e vi mascheriate da umili servi del grande capitale, siete sempre i soliti vecchi comunisti che hanno trasformato il governo federale in “un colosso armato contro i cittadini americani e i valori conservatori” ponendo le libertà fondamentali “sotto assedio come mai prima d’ora”. Di fronte al trionfo del socialismo e dell’internazionalismo proletario, la missione storica di tutti noi sinceri conservatori non può che essere “invertire la tendenza, e ripristinare i valori fondativi della nostra Repubblica”, una missione così ampia e fondamentale che non può essere semplicemente affidata a qualche “punta di diamante”, ma che “necessita di un lavoro collettivo da parte di tutto il nostro movimento”. Insomma: sembra quasi uno dei tanti appelli che lanciamo come Ottolina Tv, solo che la finalità – invece che dare voce al 99% – è quella di metterlo definitivamente a tacere con ogni mezzo necessario e consegnare lo scettro del potere a una minoranza di fondamentalisti cristiani suprematisti che hanno il compito di ripulire le istituzioni da tutte le infiltrazioni (come ai bei tempi andati del maccartismo e della caccia alle streghe) e rilanciare la missione civilizzatrice dell’eccezionalismo USA, costi quel che costi: “Il Nostro obiettivo” continua Dans, ormai senza più nessun freno inibitore, “è mettere insieme un esercito di conservatori allineati, controllati, addestrati e preparati a mettersi al lavoro fin dal primo giorno per decostruire” quello che definiscono “the administrative state”, lo stato amministrativo e cioè, appunto, la macchina distopica nella quale sarebbe stato trasformato l’apparato statale federale con l’affermarsi dell’egemonia del marxismo culturale.
Questa linea viene ribadita e approfondita poi nell’introduzione, affidata a Kevin Roberts, il presidente della Heritage Foundation: “44 anni fa” ricorda Roberts, riferendosi al periodo immediatamente precedente l’inizio della controrivoluzione neo-liberale avviata da Reagan, “gli Stati Uniti e il movimento conservatore versavano in gravissime difficoltà. Entrambi erano stati traditi dall’establishment di Washington e non avevano più punti di riferimento: erano frammentati, e strategicamente alla deriva” e il tutto proprio mentre “eravamo assediati da avversari esistenziali, stranieri e domestici. La fine degli anni ’70 fu in assoluto uno dei momenti più bassi dell’intera storia americana, e della coalizione politica che avrebbe dovuto preservarne l’unicità in termini di libertà e prosperità umana”; “Oggi” continua Roberts “l’America e il movimento conservatore stanno attraversando un’era di divisione e pericolo simile alla fine degli anni ’70”. “L’inflazione sta devastando i bilanci familiari, i morti per overdose continuano ad aumentare e i bambini subiscono la tossica normalizzazione dei diritti transgender con drag queen e pornografia che invadono le biblioteche scolastiche”, ma soprattutto “All’estero, una dittatura comunista totalitaria a Pechino è impegnata in una guerra fredda strategica, culturale ed economica contro gli interessi, i valori e le persone dell’America” che rappresenta una minaccia esistenziale per “i fondamenti morali stessi della nostra società”; “Eppure” continua Roberts “gli studiosi di storia non possono fare a meno di notare come, nonostante tutte queste sfide, l’ultima parte degli anni ’70 alla fine si sia rivelata il momento in cui la destra politica si è riunificata, ha riunificato il paese, e ha portato gli USA a una lunga serie di vittorie politiche, economiche e globali di portata storica”. In questa svolta, rivendica con orgoglio Roberts, “la Heritage Foundation è orgogliosa di aver svolto un ruolo piccolo ma fondamentale”: come abbiamo già anticipato, infatti, a partire dal 1979 la fondazione cominciò a mettere insieme centinaia di opinion leader ultraconservatori di ogni genere che insieme lavorarono alla stesura di un lungo elenco di politiche concrete da implementare per “riformare il governo federale e salvare il popolo americano dalle disfunzioni di Washington”; nell’arco dei due mandati dell’amministrazione Reagan, sottolinea Roberts, “Oltre il 60% di queste raccomandazioni vennero tradotte in atti concreti”, permettendogli così di “mettere fine alla stagflazione, rilanciare la fiducia e la prosperità americana e vincere la Guerra Fredda”. Quattro decenni dopo però, denuncia Roberts, “La nostra classe dirigente politica e la nostra élite culturale sono riuscite ancora una volta a spingere di nuovo l’America verso il declino”; “La buona notizia però” rilancia “è che oggi sappiamo esattamente quale sia la via d’uscita, anche se le sfide attuali non sono più quelle degli anni ’70”. E quella via d’uscita è, appunto, la promessa conservatrice, il sottotitolo del libro bianco, una promessa che fondamentalmente si articola attraverso 4 pilastri fondamentali: “1. Ripristinare la famiglia come fulcro della vita americana e proteggere i nostri figli”; “2. Smantellare lo stato amministrativo e restituire il potere dell’autogoverno al popolo americano”; “3. Difendere la sovranità, i confini e la generosità della nostra nazione contro le minacce globali” e, infine, “4. Garantire il diritto individuale, datoci da Dio, di vivere liberamente”. Insomma: in piena continuità con la retorica conservatrice che si è fatta strada con l’ascesa dei post-fascisti in Italia e in Europa, un bel mix esplosivo di Dio, patria e famiglia con l’aggiunta tutta neo-liberale del primato assoluto del diritto del più forte a esercitare una libertà senza confini a sottomettere e sfruttare gli altri; come dire che chi parla di ritorno del fascismo, potrebbe rivelarsi tutto sommato ingiustificatamente ottimista.
Visto che l’attuazione concreta di un piano così ambizioso e ideologicamente orientato potrebbe essere ostacolata dai dipendenti pubblici che hanno sentito così tante volte le vaccate sui valori liberali da arrivare, in qualche modo, a crederci davvero, il libro bianco propone due linee d’azione piuttosto inquietanti: la prima è ampliare a dismisura il numero di funzionari pubblici che ricadono sotto la categoria di incaricati politici, in modo da permettere a Trump di ricorrere allo spoil system, invece che per 3 – 4 mila funzionari, per diverse decine di migliaia. Per capire meglio dove andare a mirare più direttamente, il piano prevede di sottoporre ai dipendenti pubblici un questionario per capire chi aderisce senza tentennamenti all’ideologia neo-conservatrice e chi no: “Molte persone perderanno il lavoro” ha chiarito Roberts in un’intervista all’Associated Press; “Molti edifici pubblici verranno chiusi. Però noi speriamo che queste persone possano comunque prosperare. Speriamo che possano essere riconvertiti all’industria privata”. Molti osservatori conservatori, però, hanno sottolineato come questa operazione presenti numerose criticità e non certo perché è illiberale; molto semplicemente, perché è concretamente molto difficile da realizzare e svuoterebbe la macchina pubblica di competenze essenziali – come se per i Milei de noantri, gli orfani di Milton Friedman e di Pinochet, questo rappresentasse un problema. In realtà è un incentivo: quello che rimane di pubblico, meno funziona – da un certo punto di vista – e meglio è. Comunque ovviamente ci sono dei limiti; per superarli, quindi, ecco la seconda illuminante proposta: a quelli competenti che ci dobbiamo tenere e che non sono fedeli militanti neo-conservatori, togliamogli comunque ogni forma di indipendenza. Il libro bianco, infatti, propone un’estensione massiccia dei poteri della Casa Bianca a discapito dell’indipendenza delle diverse agenzie governative: dall’FBI alla Federal Trade Commission, tutta la complessa articolazione della macchina statale sviluppata in ossequio ai principi liberali deve essere ribaltata in ossequio, questa volta, alla nuova svolta neo-autoritaria.
Il problema a questo punto, una volta sdoganata la svolta neo-autoritaria, è trovare il modo di inventarsi qualcosa per giustificare la guerra totale all’autoritarismo cinese, alla quale viene data la priorità assoluta in politica estera: “Per 30 anni” sottolinea Roberts sempre nell’introduzione “i leader politici, economici e culturali americani sono andati a braccetto con la Cina comunista e il Partito Comunista genocida che la governa, mentre svuotavano la base industriale dell’America”; “Il Partito Comunista Cinese ha dettato i termini della nostra relazione, per poi infrangerli ogni volta che le tornava utile. Hanno rubato la nostra tecnologia, spiato la nostra gente e minacciato i nostri alleati, il tutto con trilioni di dollari di ricchezza e potere militare finanziati grazie alla facilità con la quale potevano accedere al nostro ricco mercato interno”. “Il rapporto economica con la Cina” sentenzia “dovrebbe essere interrotto, non ripensato”: per giustificare ideologicamente la completa avversione a uno Stato straniero che, nella peggiore delle ipotesi, può essere accusato esclusivamente di non aver implementato quelle divisioni tra i poteri dello Stato tipiche dell’assetto liberale (proprio mentre proponi di smantellarle anche te per primo), non rimane altro che l’aspetto razziale e identitario; ed ecco così spiegata la totale adesione al progetto sionista. E’ un esempio: secondo i simpatici amici dell’Heritage Foundation, infatti, gli USA devono tornare ad essere una stato confessionale, perfettamente aderente alle sue radici giudaico-cristiane; come ha dichiarato l’ex direttore dell’ufficio di gestione e bilancio dell’amministrazione Trump Russel Vought, dovremmo “riconoscere l’America come nazione cristiana” e anche se dovremmo garantire “una separazione istituzionale tra Chiesa e Stato”, dovremmo superare “la separazione del cristianesimo dalla sua influenza sul governo e sulla società”.

L’attentato a Donald Trump

Come ripetiamo continuamente, con la guerra che avanza senza tentennamenti, quello liberale non è più l’involucro istituzionale ideale per le potenze dell’imperialismo occidentale e la svolta neo-autoritaria, a meno di un grande movimento di massa, è inevitabile e molto più vicina di quanto non si pensi; la Heritage Foundation ha perlomeno il merito di dirlo chiaramente e di anticiparci con chiarezza quello che ci dobbiamo attendere dal prossimo futuro: ora sta a noi organizzarci per impedirglielo. Per farlo, di sicuro – di fronte alle loro decine di think tank riempiti di quattrini fino agli occhi da un manipolo di oligarchi suprematisti – come minimo abbiamo bisogno di un vero e proprio media in grado di smontare, pezzo dopo pezzo, la loro retorica e le loro menzogne e dare voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il generale Vannacci

L’INTERVISTA DI CARLSON: come Putin ha asfaltato la fuffa di Trump e il Suprematismo USA

La politica americana non smette mai di stupirci e anche la scorsa settimana ci ha regalato due perle preziose: la prima sono le dichiarazioni di Donald Trump che, durante un discorso pubblico in South Carolina, ha detto che se fosse rieletto presidente gli Stati Uniti non difenderebbe militarmente un paese europeo da un attacco russo a meno che il paese in questione non abbia speso almeno il 2 per cento del PIL nella difesa, “Anzi, incoraggerei i russi a fare quello che vogliono” ha intimato minaccioso agli europei; “Dovete saldare i vostri debiti!”. Queste dichiarazioni apparentemente folli rivelano in verità uno dei tasselli fondamentali della strategia politica di Trump e del partito Repubblicano: disimpegnarsi il più possibile in Europa in modo da poter concentrare tutte le risorse necessarie nel Pacifico nell’ottica di una futura guerra alla Cina. Naturalmente, all’idea che Trump possa addirittura smantellare la NATO costringendo gli Stati europei a difendersi da soli, tanti giornalisti italiani si sono lasciati andare ad urla isteriche e imprecazioni disperate; la reazione degli ottoliner, invece, pare che sia stata più o meno questa.

Vladimir Putin e Donald Trump

L’altro scandalo lo ha scatenato il giornalista americano Tucker Carlson il 6 febbraio scorso recandosi a Mosca per intervistare Vladimir Putin; era la prima volta che un giornalista occidentale faceva un’intervista al presidente russo dallo scoppio della guerra in Ucraina e, tanto per cambiare, dopo la pubblicazione dell’intervista le reazioni dell’opinione pubblica occidentale hanno dato prova di grande superficialità: tra chi ha dipinto Carlson come un traditore della democrazia e scagnozzo di Putin e chi, invece, guarda al giornalista americano come al nuovo messia della libera informazione e della lotta alla propaganda occidentale, è praticamente una gara a chi la spara più grossa. Basterebbe, infatti, aver studiato un attimo la biografia di Carlson, aver letto qualche sua dichiarazione precedente e aver seguito un minimo la geopolitica americana negli ultimi anni per sapere cosa politici e giornalisti di area repubblicana – come lui – stanno cercando di fare; è chiarissimo che a Carlson non interessi un bel nulla delle centinaia di migliaia di morti in Ucraina, né delle ragioni dei pacifisti, né della libera informazione: Carlson è, infatti, lontano mille miglia dalla sacrosanta lotta all’imperialismo e al suprematismo americano nel mondo. Semplicemente, in questo periodo il giornalista si limita a fare da megafono alle posizioni politiche di Donald Trump – e la posizione di Trump sulla guerra per procura della NATO in Ucraina è sempre stata chiarissima: bisogna fermarla al più presto, perché oggi il vero nemico del dominio globale americano non è la Russia, ma la Cina, e per poter vincere la guerra contro Pechino la Russia deve essere assolutamente riportata nell’orbita occidentale. “La più grande minaccia per questo Paese non è Vladimir Putin; è ridicolo. La minaccia più grande, ovviamente, è la Cina” dichiarava Carlson quando ancora faceva il conduttore a Fox News, e rincarava: “Gli Stati Uniti dovrebbero avere buoni rapporti con la Russia per combattere meglio la Cina; se la Russia dovesse mai unire le forze con la Cina, l’egemonia globale americana, il suo potere, finirebbe all’istante” e da quando l’anno scorso è stato licenziato da Fox News, Carlson non ha fatto altro che portare avanti esattamente questa narrazione guerrafondaia e sinofobica tanto cara a Trump e a tutti trumpiani americani ed europei. In questa puntata parleremo delle diverse visioni strategiche imperiali di democratici e repubblicani americani e, in particolare, del conflitto su quale debba essere considerato il nemico principale tra Russia e Cina e sul ruolo dell’Europa in questo scacchiere; vedremo inoltre come Putin, durante l’intervista con Carlson, abbia sfatato molte delle falsità della propaganda russofobica occidentale e come abbia platealmente deriso la retorica razzista e suprematista anticinese di Trump e Carlson ribadendo la propria solidissima alleanza con Pechino.

Henry Kissinger

Negli anni ’70, durante l’amministrazione di Richard Nixon, Kissinger utilizzò la diplomazia triangolare per mettere la Cina contro l’Unione Sovietica; nel 2018, Kissinger consigliò alla politica americana di tornare a questa diplomazia triangolare, ma nella direzione opposta: “Henry Kissinger” come riportava, infatti, il Daily Beast “ha suggerito al presidente Donald Trump che gli Stati Uniti dovrebbero collaborare con la Russia per contenere una Cina in ascesa”. I supporter dell’ala trumpiana dei Repubblicani e la destra reazionaria europea vedono infatti nella Russia un paese pur sempre bianco, europeo, cristiano e capitalista – e quindi un potenziale alleato contro la minaccia cinese, patria del comunismo, dell’ateismo e di un’etnia diversa dalla nostra; FuckBiden e i democratici, invece, la vedono diversamente. Da una parte sanno benissimo che, a lungo termine, l’unico vero grande competitor al loro dominio è la Cina e lo hanno anche scritto nero su bianco nel documento ufficiale che riassume la loro Strategia per la Sicurezza Nazionale; a differenza dei trumpiani, però, non confidano troppo sulla possibilità di spezzare l’alleanza che si sta consolidando tra Russia e Cina e hanno cercato di consolidare l’alleanza con i partner europei, nel tentativo di delegargli l’opera di contenimento del nemico russo e potersi concentrare sul Pacifico. Da una parte, quindi, l’Europa è vista come un continente ormai in inesorabile declino per la cui sicurezza e controllo non vale spendere soldi preziosi; dal lato democratico, invece, la NATO e – in generale – il controllo politico e militare sulle provincie atlantiche dell’impero rappresenta ancora una priorità. Ma al netto di queste differenze, come ha insistito più volte anche Ben Norton nell’intervista che ci ha rilasciato, quello che molti europei fanno ancora così fatica a comprendere – troppo presi da pseudo – dibattiti sul grado di bon ton di questo o quell’altro presidente americano – è che sia democratici che repubblicani sono profondamente imperialisti e il loro scontro non riguarda se gli Stati Uniti debbano o meno essere un impero, ma piuttosto su quale sia la migliore strategia per preservarlo; e quale delle due strategie, quella repubblicana o quella democratica, sia effettivamente la più lungimirante sarà solo la storia a dircelo, perché se è vero che, a prima vista, un avvicinamento russo alla Cina sembra un disastro per gli americani, è anche vero che il capo della CIA William J. Burns ha recentemente definito l’assistenza militare degli Stati Uniti all’Ucraina “un investimento relativamente modesto con significativi ritorni geopolitici per gli Stati Uniti e notevoli ritorni per l’industria americana”. In ogni caso, gran parte delle attuali politiche statunitensi, così come la famigerata intervista di Carlson a Putin, devono essere lette alla luce del conflitto tra queste due diverse visioni strategiche, cosa che – manco a dirlo – politici e giornalisti italiani si guardano bene dal fare.
Ma Chi è Tucker Carlson? Il giornalista americano è diventato famoso negli ultimi anni vendendosi come populista, a difesa dell’America profonda dagli attacchi delle oligarchie radical chic democratiche; naturalmente, con gli ultimi Carlson non ha mai avuto nulla a che fare: rampollo di una famiglia potente, ricca e politicamente ben integrata, Carlson ha iniziato la sua carriera mediatica come falco neoconservatore, sfornando articoli razzisti e guerrafondai per il Weekly Standard, la bibbia dell’ala più reazionaria dei repubblicani. Negli anni Duemila è stato promosso a conduttore di programmi alla CNN per poi, infine, passare a Fox News; tra le altre cose, ha sostenuto con entusiasmo l’invasione illegale dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, definendo gli iracheni “scimmie primitive semianalfabete”. Nel maggio del 2006, durante una discussione sulla guerra in Iraq in un popolare programma radiofonico, ha dichiarato con modi gentili di non avere troppo rispetto della cultura irachena: “Una cultura in cui la gente non usa la carta igienica o le forchette, non merita considerazione” ha detto, aggiungendo infine che “Gli iracheni dovrebbero chiudere quella cazzo di bocca e obbedire agli Stati Uniti perché non sono in grado di governarsi da soli”; dopo essere stato licenziato da Fox News, Carlson si avvicina ancora di più a Trump e oggi rappresenta uno dei suoi più efficaci strumenti di propaganda.

Tucker Carlson

E veniamo ora ai punti più interessanti dell’intervista con Putin: nell’intervista, il presidente russo ha parlato della storia del suo paese, dei rapporti con l’Ucraina, della Seconda Guerra mondiale e dei miti su cui in questi anni in Occidente è stata montata questa ondata di russofobia; il più diffuso di questi miti, naturalmente, è che la Russia rappresenterebbe una costante minaccia esistenziale per gli europei. Questo terrorismo psicologico – smentito clamorosamente dagli ultimi due secoli di storia in cui, a ben vedere, sono sempre stati gli europei occidentali a invadere i territori russi e non il contrario – è stata funzionale ai nordamericani una volta conclusa la guerra fredda, così da poter tenere in vita la NATO e legittimare la propria presenza militare sul nostro territorio; finita la guerra fredda, racconta infatti Putin, la Russia aveva tutte le intenzioni di avere ottimi rapporti con l’Occidente, come dimostra anche il tentativo di entrare nella NATO e il progetto di dar vita a una difesa missilistica congiunta, respinto da Clinton e Bush Jr. Ma i buoni rapporti con i paesi europei, con i quali era stata costruita anche una forte interdipendenza economica ed energetica, è sempre stata avversata dagli USA, i quali hanno sempre temuto di perdere il controllo sul vecchio continente e, soprattutto, che si potesse formare una grande alleanza politica euroasiatica; in questo clima di ostilità, dunque, la costante espansione della NATO ad est non poteva che essere considerata una minaccia per la sicurezza della Russia, ha sottolineato Putin: un po’ come se oggi Messico e Canada stringessero un’alleanza militare con la Cina con la possibilità di ospitare testate nucleari cinesi a pochi passi con il confine statunitense. Quale sarebbe la reazione nord-americana. Difenderebbero il diritto di Messico e Canada, in quanto Stati sovrani, ad entrare in tutte le alleanze militari che vogliono? Ho come l’impressione di no. In ogni caso, se su tutte queste riflessioni di Putin Carlson annuiva soddisfatto e tra i due sembrava ci fosse totale sintonia, quando si è parlato di Cina le cose sono improvvisamente cambiate: “La domanda è” chiede Carlson “cosa viene dopo gli USA? Si scambia una potenza coloniale con un’altra, molto meno sentimentale e indulgente. I BRICS, ad esempio, rischiano di essere completamente dominati dai cinesi, dall’economia cinese, in un modo che non è positivo per la loro sovranità. È preoccupato per questo?”; “Abbiamo già sentito queste storie sull’uomo nero” replica laconico Putin, “La filosofia della politica estera cinese non è aggressiva” continua, “La sua idea è quella di cercare sempre un compromesso. E questo lo vediamo. Ci viene raccontata sempre la stessa storia dell’uomo nero, ed eccola di nuovo, in forma eufemistica, ma è sempre la stessa storia dell’uomo nero”. Ma mentre si continua a fare propaganda sinofoba con le favolette, continua Putin, la realtà è che “La cooperazione con la Cina continua ad aumentare. Il ritmo di cooperazione della Cina con l’Europa sta crescendo. È più alto e maggiore di quello della crescita della cooperazione sino – russa”; “Chiedete agli europei” continua Putin: “Hanno paura? Forse sì. Non lo so. Ma cercano comunque di accedere al mercato cinese a tutti i costi. Soprattutto ora che stanno affrontando problemi economici. In America” conclude Putin “volete limitare la cooperazione con la Cina. Ma è a vostro danno, signor Tucker, che state limitando la cooperazione con la Cina. State danneggiando voi stessi.” Putin ha poi sottolineato soddisfatto come la politica repubblicana non sia affatto riuscita a isolare la Cina dalla Russia e a dividere i BRICS, e che sono state proprio le politiche di Biden e del Partito Democratico in Ucraina in questi anni a condurre al definitivo fallimento di questa strategia.
Come sappiamo, il nuovo obiettivo americano è ora quello di dividere i BRICS, in particolare facendo leva sui propri buoni rapporti con l’India, cercando così di creare quanti più conflitti possibili tra cinesi e indiani che, storicamente, non godono di ottimi rapporti. Secondo una recente inchiesta del Washington Post, una volta rieletto Trump si starebbe preparando ad imporre una tariffa del 60% su tutti i prodotti cinesi importati: praticamente una dichiarazione di guerra; la speranza è che, sia in campo economico che su Taiwan, Xi Jinping non caschi in queste provocazioni imperialistiche occidentali e continui a dare prova di grande saggezza razionalità politica. E se anche tu sogni un’Europa fuori dalla NATO e una grande alleanza euroasiatica tra Stati sovrani che porti pace e benessere su tutto il supercontinente, bisogna prima di tutto costruire media libero e indipendente che combatta la propaganda americana. Adesso anche tu puoi fare la tua parte e costruirlo insieme a noi: iscriviti al nostro canale in inglese (OttolinaTV – English – YouTube) e aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tucker Carlson

Come ti destabilizzo una potenza nucleare: lo scandalo del golpe filo USA in Pakistan

Il sud globale avanza compatto giorno dopo giorno e minaccia il vecchio ordine globale, ma le defezioni non mancano e tra queste ce n’è una in particolare che preoccupa Mosca e Pechino: il Pakistan, una defezione eccellente, quinta potenza demografica mondiale e uno dei 9 stati al mondo a possedere l’atomica.

La variabile pakistana è una gigantesca spina nel fianco al processo di integrazione del super-continente eurasiatico e a Pechino lo sanno bene, e non a caso è il singolo paese ad aver ricevuto in assoluto più quattrini per investimenti di ogni genere nell’ambito della nuova via della seta; un’influenza crescente, che sembrava aver aperto al Pakistan una gigantesca finestra di opportunità in direzione finalmente di uno sviluppo economico impetuoso e sostenibile, e dell’emancipazione dal giogo statunitense; un processo di portata storica, che si è tradotto nell’ascesa inarrestabile dell’ex campione di cricket Imran Khan e del suo Movimento per la Giustizia del Pakistan, sfociata nel dicembre del 2018 nella sua nomina a primo ministro.

Unico vero oppositore alla partecipazione del suo paese nella disastrosa guerra in Afghanistan, e leader incontrastato del movimento che si opponeva agli attacchi criminali dei droni USA in territorio pakistano, Imran Khan è probabilmente il primo leader nazionale da qualche decennio a questa parte a non essere emanazione più o meno diretta delle gerarchie militari legate a doppio filo a Washington; una vera luce di speranza per l’affermazione dell’indipendenza e della sovranità del Pakistan che infatti è stata colta con incredibile entusiasmo, sopratutto dalle fasce più giovani della popolazione.

Già nel 2014 un sondaggio di YouGov incoronava Imran Khan “persona più ammirata in assoluto del Pakistan”, e addirittura dodicesimo a livello globale; poi è arrivata la guerra in Ucraina, e contro l’idea eretica di Khan di mantenere il Pakistan in una posizione di netta neutralità, tutta la popolarità possibile immaginabile non bastava più.

Nell’aprile del 2022 Imran Khan viene repentinamente spodestato attraverso un voto di sfiducia del parlamento; da allora lui, il suo movimento, e chiunque abbia manifestato disappunto nei confronti dell’ennesimo golpe bianco condotto contro gli interessi e i sentimenti popolari, sono stati ferocemente repressi tra pestaggi, esecuzioni, processi farsa e arresti sommari.

Ed è così che oggi il Pakistan si trova travolto da una crisi economica, politica e istituzionale senza precedenti, e indovinate un po’ per merito di chi?

E’ il 7 marzo 2022. L’allora ambasciatore pakistano negli USA, Asad Majeed Khan, incontra alcuni alti funzionari del dipartimento di stato USA: tra loro, Donald Lu, responsabile dell’ufficio per gli affari del centro e del sud asiatico. Questo fa infuriare gli USA che, abituati a “dare il Pakistan per scontato”, si sentono beffati.

Sotto la guida autorevole di Imran Khan, infatti, il Pakistan, come d’altronde la quasi totalità dei paesi del sud globale, ha deciso di non volersi schierare nella guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina

Su cosa si siano detti esattamente durante quell’incontro, è stata fatta a lungo ogni sorta di speculazione; quello che sappiamo con certezza invece è che un mese dopo il parlamento sfiducerà Khan, rimuovendolo dal potere.

Sappiamo anche che pochi giorni prima di quell’incontro, il 2 marzo, Donald Lu aveva tenuto un’audizione presso il comitato per le relazioni estere del senato USA, che voleva

avere notizie più dettagliate sulla neutralità che India, Pakistan e Sri Lanka avevano deciso di mantenere nel contesto del conflitto ucraino. In particolare, erano imbufaliti dal fatto che il Pakistan, in occasione del voto presso l’ONU della risoluzione di condanna nei confronti della Russia, avesse optato per l’astensione, e sappiamo anche che il giorno prima del fatidico incontro, Imran Khan era intervenuto durante una manifestazione.

Alcuni ambasciatori occidentali in Pakistan avevano provato a fare esplicitamente pressione su Khan affinché rimettesse in discussione la sua neutralità dopo l’astensione all’ONU: gli scrissero proprio una letterina, come quella della trojkaa Berlusconi: “gentile alunno, abbiamo notato che all’ONU non hai votato come ti avevamo chiesto. Eh eh eh, non si fa, birichino.”

Non andò proprio benissimo: “che cosa pensate di noi?”, tuonò Khan di fronte a una folla oceanica, “che siamo i vostri schiavi e che faremo tutto quello che ci chiedete?”

Ovviamente, chiunque abbia anche solo sommessamente insinuato il dubbio che dietro la defenestrazione del primo presidente pakistano a non essere emanazione diretta di servizi ed esercito filooccidentali, è stato prontamente accusato di essere un utile idiota della pervasiva propaganda putiniana

Forse, però, si è trattato di un giudizio un po’ affrettato. Questa estate infatti, The Intercept – la testata USA fondata da Glenn Greenwald e diventata famosa per i leak del caso Snowden – è entrata in possesso del cablo che riassume il contenuto di quel fatidico incontro; l’esistenza di un documento che provava oltre ogni ragionevole dubbio l’ingerenza USA negli affari interni del Pakistan era stata annunciata subito dopo il colpo di stato da Imran Khan stesso.

Gli USA però hanno sempre negato pubblicamente e sfacciatamente in almeno 4 occasioni diverse: “non è altro che propaganda, e disinformazione”, dicevano, un po’ come quando David Puente fa i suoi ridicoli fact checking con il contesto mancante.

Ecco, ora il contesto c’è: secondo il documento del quale The Intercept è entrato in possesso grazie a una fonte anonima interna alle forze armate pakistane, durante il fatidico incontro Donald Lu avrebbe sottolineato come “qui negli USA, come in Europa, siamo molto preoccupati dalle motivazioni che hanno spinto il Pakistan ad assumere una tale posizione aggressivamente neutrale”. Fate attenzione alle parole, che a volte svelano mondi inesplorati: “aggressivamente neutrale” è illuminante perché svela l’essenza del suprematismo delle potenze imperialiste: “come osate voi selvaggi avere posizioni diverse da quelle indicate dalla superiore civiltà dell’uomo bianco?”

Quando Imarn Khan chiede “pensate che siamo schiavi?”, la risposta è molto semplice: come diceva Salvini, “ah no? non posso?”

Ma la ramanzina suprematista è solo l’antipasto: “penso che se riuscirete a sfiduciare il Primo Ministro”, avrebbe affermato Lu, “a Washington vi perdoneranno”.

Anche qua si vede Washington che, dall’alto della sua benevolenza, è pronta a perdonare lo schiavo ribelle. “Altrimenti”, avrebbe sottolineato Lu, “Penso che sarà dura andare avanti”.

Lu avrebbe poi continuato a sottolineare che, nel caso Imran Khan fosse rimasto al suo posto, il Pakistan inevitabilmente sarebbe stato isolato non solo dagli USA, ma anche da tutti i vassalli europei ed asiatici.

Come riporta lucidamente il sempre ottimo Andrew Korybko, “anche se non lo ha detto direttamente”, Lu “ha lasciato intendere molto chiaramente che i benefici che le élite militari e politiche ricevono dall’Occidente sarebbero stati tagliati, per non parlare dei disordini socio-politici che sarebbero necessariamente seguiti al possibile collasso dell’economia. Ciò è stato sufficiente per convincere i vertici militari e l’opposizione a unirsi per rimuovere Imran Khan”.

Di fronte a questa prima pistola fumante, la replica del portavoce del dipartimento di stato USA Matthew Miller suona un po’ stonata: “Niente in questi presunti commenti”, ha dichiarato, “mostra che gli Stati Uniti abbiano preso posizione su chi dovrebbe essere il leader del Pakistan”.

Verissimo. Mostrano solo chi gli USA hanno imposto non lo fosse: nella scelta dello zerbino più adatto – va riconosciuto – lasciano piena libertà ai servizi e alle forze armate pakistane.

D’altronde sono schiavisti, ma pur sempre illuminati. Esattamente il giorno dopo il fatidico incontro, l’opposizione diligentemente fa la prima mossa per arrivare al voto di sfiducia.

Non c’hanno manco dormito sopra: gli USA ordinano e loro eseguono con zelo.

A partire dal 2020, Imran Khan aveva accampato ogni genere di scusa per rinviare il rinnovo dell’accordo di partnership militare con gli USA, avviato15 anni prima; pochi mesi dopo la sua defenestrazione, il parlamento ha approvato in fretta e furia un nuova partnership con Washington che prevede “esercitazioni congiunte, operazioni, addestramento, e scambio di armamenti”, ma il nodo principale era la posizione sull’Ucraina.

Il cambiamento d’aria si era cominciato a sentire già alcuni giorni prima del golpe bianco, quando l’allora capo delle forze armate Qamar Bajwa aveva deciso di rompere con la neutralità professata da Imran Khan e aveva rilasciato una dichiarazione pubblica dove definiva apertamente quella russa una vera e propria invasione, ma era solo l’antipasto.

A luglio il ministro degli esteri ucraino effettua un importante viaggio di stato a Islamabad che viene pubblicizzato come incentrato su temi quali il commercio, l’istruzione e le questioni ambientali ma poco dopo, in rete, cominciano a circolare immagini provenienti dal fronte di proiettili e munizioni prodotti in Pakistan, che – da questo punto di vista – ha un’industria bellica di tutto rispetto. All’inizio del 2023 GeoNews, un importante canale youtube pakistano, pubblica un’intervista a un funzionario dell’Unione Europea di istanza ad Islamabad, che ammette che il Pakistan sta fornendo assistenza militare all’Ucraina.

Ovviamente tutti smentiscono categoricamente, ma è il segreto di pulcinella che oggi possiamo svelare con sicurezza: a permettercelo è di nuovo un’altra importante inchiesta di The Intercept, che sempre grazie a fonti anonime interne alle forze armate pakistane, è entrata in possesso di una mole importante di documenti che dimostrerebbero come il Pakistan abbia venduto equipaggiamento militare, e in particolare munizioni, agli USA da destinare all’Ucraina, per un valore di poco meno di 1 miliardo di dollari.

Ma come hanno fatto gli USA a convincere i pakistani a fare questa svolta a 360 gradi? “Semplice”, sostiene The Intercept, “con i quattrini del fondo monetario internazionale”.

Però il Pakistan, ormai da qualche anno, è attraversato da una crisi economica devastante, con un debito estero fuori controllo che drena tutte le risorse del paese, mentre la crescita arranca.

Per mettere una toppa, a partire dal 2019, Imran Khan ha cercato di aprire una trattativa col fondo monetario internazionale per ristrutturare il debito: come sempre, il fondo ha chiesto una serie di riforme di carattere neoliberista, cioè le consuete vecchie condizioni che impongono da decenni a qualsiasi paese debitore. Con la retorica dell’apertura ai mercati, impongono la solita ricetta “lacrime e sangue”, utile solo a liberare nuovi spazi per l’abituale shopping a prezzi di saldo di interi pezzi dell’economia nazionale da parte delle oligarchie finanziarie.

Il risultato è immancabilmente lo stesso: l’economia, invece di ripartire, sprofonda in una crisi ancora più grave, che rende il ripagamento del debito sempre più inverosimile, e costringe i paesi più poveri a uno stato di perenne dipendenza dai loro creditori; è il meccanismo standard attraverso il quale il fondo monetario si è dimostrato essere il più efficace tra gli strumenti in mano a Washington per imporre la sua globalizzazione neoliberista in tutto il pianeta, e al quale anche i governi più titubanti sono spesso ancora costretti a ricorrere per tentare di rinviare almeno temporaneamente il deafult.

Un ricatto nel quale è caduto lo stesso Imran Khan, che a partire dal 2019 ha ceduto all’esigenza di introdurre alcune di queste fantomatiche riforme. Ovviamente, le conseguenze economiche sono state disastrose, ma – oltre al danno – anche a questo giro è arrivata pure la beffa, e alla fine il fondo monetario si è rifiutato di concedere il tanto atteso nuovo prestito. Indovinate un po’ invece quand’è che hanno deciso di concederlo?

Esatto. Poco dopo il golpe bianco dettato dagli USA e la decisione di rinnegare la neutralità, ecco che magicamente viene concesso il prestito.

Ovviamente, anche stavolta sono state introdotte misure draconiane di sudditanza ai dictat dell’agenda neoliberista, a partire da un repentino aumento del 50% al tetto imposto ai prezzi dei prodotti energetici; ma secondo The Intercept, a fare la differenza sarebbe stato proprio l’accordo per la fornitura di munizioni da spedire in Ucraina, siglato il quale gli USA si sarebbero mossi con tutti gli strumenti a loro disposizione per convincere il fondo monetario a rivedere la sua posizione. Un piano perfetto e una grande vittoria strategica per gli USA che così rimettono le mani dentro la marmellata del paese che forse più di ogni altro è essenziale per la realizzazione della nuova via della seta e per l’integrazione del super-continente eurasiatico.

Peccato che questa vittoria stia costando molto cara. Forse troppo: come ricorda giustamente The Intercept, “Mentre sui media andava in scena il dramma del cablo fantasma, per le strade l’esercito pakistano lanciava un attacco senza precedenti alla società civile pakistana per mettere a tacere qualunque dissenso e libertà di espressione esistessero in precedenza nel paese

Negli ultimi mesi”, continua l’articolo, “il governo guidato dai militari ha represso non solo i dissidenti ma anche i presunti responsabili della fuga di notizie all’interno delle sue stesse istituzioni, approvando una legge che autorizza perquisizioni senza mandato e lunghe pene detentive per tutti gli informatori

Tra i vari arresti sommari senza mandato, anche quello della nota avvocata per i diritti umani, nonché figlia dell’ex ministro per i diritti umani durante il governo Khan, Imaan Zainab Mazari: stava guidando una serie di proteste per chiedere un’azione immediata contro le esecuzioni extragiudiziali e la sparizione forzata di migliaia di persone innocenti nelle cosiddette “operazioni antiterrorismo” dell’esercito nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa (KP).

Peccato che, venendo arrestata illegalmente da un alleato dell’occidente e non da quei cattivoni degli iraniani, dalle nostre parti non abbia scatenato poi chissà che ondata di indignazione.

L’ondata repressiva poi ha riguardato in particolar modo la stampa indipendente: “La repressione della stampa pakistana, un tempo turbolenta, ha preso una piega particolarmente cupa”, scrive The Intercept. “Arshad Sharif, un importante giornalista pakistano fuggito dal paese, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Nairobi lo scorso ottobre in circostanze ancora controverse. Un altro noto giornalista, Imran Riaz Khan, è stato arrestato dalle forze di sicurezza in un aeroporto lo scorso maggio e da allora non è più stato visto” e i golpisti avrebbero addirittura intimato a tutti i media del paese di evitare anche solo di citare di sfuggita il nome stesso di Imran Khan.

Nel frattempo, migliaia di suoi sostenitori sono stati incarcerati e il suo processo si è trasformato in una vera e propria farsa, con l’obiettivo palese di impedirgli di partecipare alle prossime elezioni che – secondo tutti i sondaggi – lo vedrebbero di gran lunga favorito.

Questi attacchi radicali alla democrazia”, scrive ancora The Intercept, “sono passati in gran parte inosservati da parte dei funzionari statunitensi. Alla fine di luglio il capo del comando centrale degli Stati Uniti, generale Michael Kurilla, ha visitato il Pakistan, poi ha rilasciato una dichiarazione affermando che la sua visita era stata incentrata sul “rafforzamento delle relazioni tra militari”, senza fare menzione della situazione politica in Pakistan. E quando quest’estate il deputato USA Greg Casar ha tentato di aggiungere una misura al National Defense Authorization Act che ordinava al Dipartimento di Stato di esaminare il declino democratico in Pakistan, gli è stato addirittura negato il voto alla Camera”.

Chi l’avrebbe mai detto? Quando in ballo ci sono gli interessi strategici, la retorica sullo scontro di civiltà tra democrazie illuminate e regimi totalitari passa inspiegabilmente in secondo piano.

A noi non rimane che l’antidoto di raccontare le cose per come sono, e non per come le vedono sotto acido gli hooligan del liberalismo immaginario. Se anche tu credi sia importante continuare a farlo, sempre meglio e sempre di più, diccelo con qualche eurino: aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU )

E chi non aderisce è David Parenzo