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Tag: banca

Yen alla guerra: bomba monetaria in arrivo

Oggi ad OttolinaTv parliamo con Vadim Bottoni, esperto di macro-economia ed economia monetaria, cercando di capire la recente scelta della Banca Centrale del Giappone di rialzare i tassi. Accanto a questo discorso di attualità abbiamo cercato di spiegare ai nostri ascoltatori cosa siano i tassi e cosa implichino nell’economia reale. Puntata super di Ottolina per cominciare a capire qualcosa riguardo al complesso mondo dell’economia, che in finale ci riguarda tutti. Buona visione!

Agnelli, Della Valle e Moratti: come i prenditori italiani hanno ucciso il nostro capitalismo

L’avidità delle nostre élite economiche sta, probabilmente, riuscendo laddove il movimento operaio e le mobilitazioni di massa hanno sempre fallito: stanno definitivamente uccidendo il nostro capitalismo; peccato sia per sostituirlo con qualcosa di ancora peggiore. Lo scorso weekend, mentre l’intero paese era distratto dal doppio scandalo sanremese, il gotha del capitalismo italiano veniva travolto da una doppia rivoluzione: due dei principali e più iconici gruppi italiani annunciavano all’unisono l’uscita dalla Borsa di Milano e la svendita di un altro pezzettino consistente di paese al grande capitale internazionale; nell’arco di poche ore, prima uno dei millemila fondi di Bernard Arnault, l’uomo più ricco del pianeta, ha annunciata un’OPA amichevole su Tod’s, simbolo assoluto del finto lusso quasi quanto il suo cringissimo patron Diego della Valle, e poi il simbolo – invece – per eccellenza della decadenza alto borghese ormai bollita Massimo Moratti annunciava la vendita delle raffinerie sarde della Saras al colosso svizzero – olandese del commercio delle materie prime Vitol. Sullo sfondo, il giovedì prima, la Guardia di Finanza eseguiva il decreto di perquisizione della procura di Torino a carico di Lapo, Ginevra e soprattutto di John Elkann, il grande liquidatore del manifatturiero italiano; come in un episodio qualsiasi di Succession, il tutto nasce da una denuncia nientepopodimeno che della loro stessa madre: Margherita Agnelli, che contende ai suoi stessi figli l’eredità di papà Gianni. I vecchi valori di una volta del capitalismo prenditore familistico italico…
Tod’s
e Saras sono solo l’ultimo tassello di una fuga generalizzata dai mercati finanziari italiani, e proprio mentre il governo degli svendipatria festeggia in pompa magna l’approvazione in seconda lettura alla Camera del primo grande progetto di riforma complessiva del diritto societario e dei mercati finanziari da 20 anni a questa parte; è il famoso e famigerato DDL capitali: una resa incondizionata agli interessi speculativi dei capitali più forti a spese dell’economia reale e anche dei piccoli investitori, una sorta di corsa ai ripari dopo che, negli ultimi 10 anni, Piazza Affari si è vista sfilare da sotto il naso di tutto di più. Nel 2022, poco prima che Exor emigrasse sulla borsa di Amsterdam, a uscire di scena era stata l’Atlantia dei Benetton; poi era arrivato il turno della DeA Capital del Gruppo De Agostini, del gruppo Cerved, di Banca Finnat e pure della Roma Calcio; nel frattempo, Luxottica optava per Parigi e Prada per Hong Kong. Una cifra che spiega tutto: quando la Saras di Moratti è stata quotata nell’ormai lontano 18 maggio 2006, l’indice di Piazza Affari volava vicino a 38 mila punti; oggi non arriva a 31.500, un quinto in meno. Il governo Meloni, allora, ha deciso di partecipare alla corsa globale a chi chiude più occhi per attirare qualche capitale in più, ma – evidentemente – con scarso successo: proprio mentre il governo avviava la discussione sul disegno di legge, Brembo, il gigante italiano della produzione di impianti frenanti per veicoli, annunciava il trasferimento della sua sede legale ad Amsterdam insieme a Campari, Iveco, Stellantis, Ferrari, CNH Industriale e anche STMicroelectronics. Il motivo è sempre lo stesso: grazie al carattere marcatamente ultraliberista del diritto societario olandese, scordatevi la leggenda metropolitana del capitalismo democratico dove a ogni azione equivale un voto: in Olanda, a seconda di chi sei, una tua azione, di voti, ne può valere fino a 20, oppure zero, che è esattamente quello che verrà introdotto a breve anche in Italia; ovviamente, significa – banalmente – che per controllare un’azienda sarà sufficiente possedere anche solo il 5 – 10 %, un’opportunità straordinaria. Ora che a far crescere l’economia reale in Europa c’hanno sostanzialmente rinunciato, il punto si gioca tutto su quanta ricchezza riesco a estrarre da un’azienda per esportare un po’ di capitali negli USA – via paradisi fiscali – prima che l’azienda muoia definitivamente: la lunga guerra dello 0,001% contro il resto dell’umanità non conosce sosta.

Diego “the cringe” Della Valle

Un padrone ottocentesco: così definiva Diego Della Valle, ormai una quindicina abbondante di anni fa, il segretario nazionale della FEMCA Cgil Sergio Spiller; in ballo, allora, c’era la trattativa sul contratto integrativo aziendale per i lavoratori degli stabilimenti Tod’s di Casette d’Ete, Comunanza e Tolentino. “Uno spartiacque tra un sistema di relazioni corrette e un atteggiamento paternalistico nella gestione della fabbrica” commentava Spiller; invece di riconoscere ai lavoratori i loro sacrosanti diritti, Della Valle, infatti, preferiva ripiegare su una sorta di mancia: 1400 euro da distribuire su 12 mensilità per tutto il 2008. Un episodio paradigmatico (il personaggio, infatti, trasuda antipatia da ogni poro), eppure quell’epiteto, padrone ottocentesco, visto dopo 15 anni di depressione e finanziarizzazione selvaggia dell’economia, tutto sommato non suona più così offensivo; da padrone ottocentesco, infatti, Della Valle, per fare soldi, aveva adottato il caro vecchio sistema del capitalismo industriale delle origini: ci si fa prestare un po’ di soldi dalle banche, si investono in un po’ di macchinari e per assumere un po’ di persone, si fanno lavorare il più possibile, si prova a vendere il prodotto e, con i soldi ricavati, ci si pagano i dipendenti, il debito e gli interessi, e quello che avanza un pochino si mette in saccoccia e un pochino si reinveste per comprare altre macchine e, magari, assumere qualche persona in più. Quanto, di tutto questo, va in tasca ai lavoratori, e quanto a Diego e famiglia, dipende anche parecchio da quanta cazzimma ci mettono i lavoratori – e non intendo mentre lavorano, ma mentre gli dai la busta paga: quella che, quando c’era ancora la democrazia, si chiamava lotta di classe, insomma. Poi alla democrazia è subentrata la dittatura del capitale finanziario; la lotta di classe l’hanno vinta le oligarchie ed ecco che Della Valle è diventato il padrone dell’800 (oltre che per gli outfit supercringe, intendo).
Ecco: finalmente uno dei nostri imitatori di Crozza preferiti ha deciso di mettersi al passo coi tempi e, per entrare nel salotto buono delle oligarchie finanziarie del XXI secolo, ha deciso di gettarsi tra le braccia dell’uomo più ricco del pianeta: Bernard Arnault, il capo mondiale dell’industria del lusso; alla fine dell’operazione i Della Valle avranno ancora il 54% dell’azienda che, appunto, uscirà dalla borsa, ma il socio di minoranza avrà potere di veto – e chi conosce la storia di Arnault, sa benissimo che per quel poco che rimane di economia reale e produttiva in Italia, c’è poco da stare sereni. Ne avevamo parlato in un video di oltre un anno fa quando, appunto, Forbes aveva comunicato che, per la prima volta non so da quanto tempo, in cima alla sua classifica non c’era uno statunitense, a differenza dei 9 che vengono dopo, e la vecchia Europa brindava per la sua rivincita senza aver capito assolutamente nulla di come gira davvero il mondo; se si riformasse la vecchia gang dei giacobini, il lavoro – diciamo – non le mancherebbe.

Massimo Moratti

Un piccolo omaggio, ad esempio, sarebbe d’obbligo anche per uno dei casati più blasonati del capitalismo familiare italiano; sono i Moratti che, subito dopo l’annuncio dei Della Valle, hanno mandato un altro segnale chiarissimo dello stato in cui versa il capitalismo italiano: dopo 62 anni, hanno deciso di mettere fine alla loro storia d’amore con il petrolio, garantendosi un buen retiro da 600 milioni di euro. Ma oltre all’invidia, che – prima che ce lo scriva qualche analfoliberale nei commenti – noi non solo proviamo (e rivendichiamo il fatto di provarla), ma addirittura invitiamo esplicitamente anche gli altri a fare altrettanto – e pure a non reprimere troppo la rabbia che scatena – anche qui c’è molto, molto di più: al netto di tutte le controversie sacrosante, da quelle ambientali a quelle sindacali, la raffineria di Sarroch, in provincia di Cagliari, è infatti una delle più grandi in assoluto del Mediterraneo e anche una delle più avanzate; come ricorda Sissi Bellomo su Il Sole 24 Ore “non solo conta per un quinto della capacità di produzione di carburanti del nostro paese, ma soprattutto è in grado di effettuare ogni tipo di lavorazione e modificare velocemente i processi per adattarsi all’impiego di greggi di qualità diversa. Una caratteristica” sottolinea giustamente la giornalista “particolarmente preziosa in periodi caldi come quello attuale che, tra guerre e sanzioni, costringono a cambiare con frequenza fornitori e tipologia della materia prima”. Definirlo un asset strategico, insomma, è riduttivo: già che fosse in mano a una famiglia, invece che allo Stato, era roba da trogloditi; ora che, da una famiglia, passa di mano a un megaconglomerato, oltre che da trolgoditi è proprio da ebeti.
Il megaconglomerato di chiama Vitol, è di origine olandese, ma la sede è a Ginevra e, nonostante il 99,9% della popolazione mondiale non l’abbia mai sentito nominare, c’ha un giro d’affari comparabile a quello di Amazon: nel 2022 ha smazzato materie prime di ogni genere per un valore che supera i 500 miliardi di dollari senza che nessuno abbia mai visto un bilancio. Nonostante sia il maggior trader indipendente di greggio e prodotti raffinati del mondo, infatti, la Vitol è una società privata e non è quotata; ergo, fa un po’ come cazzo gli pare. I sindacati si sono comunque dimostrati cautamente ottimisti: dopo giorni di rumors sulle preoccupazioni per l’assenza di un vero e proprio piano industriale, dopo il faccia a faccia con la dirigenza dei nuovi proprietari i rappresentanti di CGIL, CISL e UIL hanno parlato di incontro positivo: “Chi subentra” avrebbe dichiarato Marco Nappi della FEMCA CISL “ha parlato di un ingresso in punta di piedi e un approccio funzionale alla produzione di Vitol”. Sinceramente, non abbiamo motivo di dubitarne; il punto, ovviamente, è un altro: se la fortuna dei Moratti era legata a questa raffineria, Vitol gioca su uno scacchiere enormemente più grande, con logiche completamente scollegate dall’interesse nazionale e con una potenza di fuoco completamente sbilanciata rispetto alle amministrazioni locali e anche al Governo che, ormai, per il fabbisogno nazionale di carburanti deve fare affidamento quasi esclusivamente su attori stranieri, con tutto quello che ne consegue. L’ISAB di Priolo in Sicilia, ad esempio, 10 anni fa dalla genovese ERG è passata di mano alla russa Lukoil e quando abbiamo deciso di farci la guerra contro la Russia per dimostrare la nostra fedeltà a Washington, abbiamo sudato freddo: alla fine, l’impianto è stato acquisito dalla GOI Energy; anche qui, poteva andare decisamente peggio e i sindacati si sono dimostrati piuttosto ottimisti. A un anno di distanza però, a quanto ci risulta, del piano industriale ancora non c’è traccia e nel dicembre scorso Milano Finanza parlava di trattative per un nuovo passaggio di mano a non meglio precisati armatori greci, con Rothschild a fare da advisor; GOI Energy ha smentito categoricamente.
I problemi, però, potrebbero essere altri: GOI Energy, infatti, è una divisione del fondo di private equity Argus New Energy Group che, in quanto fondo di private equity, già non è che sia proprio il simbolo della trasparenza; in più ha sede a Cipro, altra caratteristica che non è esattamente sinonimo di trasparenza, ma il problema principale è che il grosso degli investitori è israeliano, e il più israeliano di tutti è l’amministratore delegato. Si chiama Michael Bobrov e, oltre ad essere l’AD di GOI Energy, è anche il CEO della israeliana Green Oil, tra i maggiori azionisti della principale raffineria di petrolio israeliana, ed è anche l’uomo che gestiva le operazioni di Trafigura in Israele; e Trafigura, che è direttamente coinvolta nel processo di riorganizzazione di Priolo, oltre ad essere stata coinvolta in millemila vicende non esattamente edificanti – dallo scandalo dei rifiuti tossici in Costa d’Avorio alle accuse di corruzione da parte di procure statunitensi e svizzere – è anche la proprietaria della Martin Luanda, la petroliera che il 26 gennaio scorso è stata presa di mira da un missile di Ansar Allah. Anche la raffineria di Augusta nel 2018 era stata ceduta da Esso Italia agli algerini di Sonatrach e quella di Milazzo è di proprietà di una joint venture tra ENI e Kuwait Petroleum. Morale della favola: con questa ultima operazione dei Moratti, la capacità di raffinazione italiana è per oltre la metà in mano straniere, alla faccia del derisking e della necessità di pararsi il culo in tempi geopoliticamente turbolenti.

Stefano Pan

Fortunatamente, però, non ci sono solo brutte notizie per il mondo produttivo italiano: a Bruxelles, infatti, si sta giocando la partita della normativa CSDDD, o CS3d che dir si voglia (pure l’acronimo brutto le hanno dato, pur di evitare che se ne parli… sia mai!). Cosa prevede? Una cosa veramente intollerabile e, cioè, che le grandi aziende rispettino le normative ambientali e i diritti umani. Che incredibile ingerenza! “Il governo italiano si astenga” ha tuonato il delegato di Confindustria Stefano Pan; “l’industria europea è a rischio”: quello che non torna a Pan è che la direttiva impone alle grandi aziende di controllare che anche i fornitori e chi lavora in appalto debba rispettare la legge; ad oggi, infatti, per aggirare la legge è sufficiente esternalizzare tutto quello che viene fatto in violazione della legge, e così c’hanno tutti la coscienza pulita e si possono concentrare sulla produzione di pamphlet a varia gradazione di greenwashing e fuffa petalosa. Con questa normativa sarebbero, per la prima volta, costretti a fare qualcosa di simile a quello che millantano; tanto basta per affermare che “Il testo è stato messo a punto senza ascoltare gli addetti ai lavori, con un approccio ideologico” (Stefano Pan, Confindustria). Sia chiaro: la direttiva non è che impone agli attori della filiera di realizzare il socialismo e di essere equi nei confronti di lavoratori e territori che sfruttano, ma – molto banalmente, appunto – di rispettare le leggi, tipo il salario minimo di un euro l’ora in Bangladesh o il fatto che prima di gettare una sostanza chimica che ti fa venire un tumore solo a guardarla, la dovresti perlomeno un po’ filtrare; tutte limitazioni che nel giardino ordinato intenzionato a estrarre quel poco di plusvalore che rimane dall’economia reale per andarci a comprare le azioni di Nvidia o di Microsoft nelle borse USA, evidentemente sono insostenibili. Ed ecco così che, durante l’iter, un pezzo alla volta la normativa è stata smontata; l’articolo 25, ad esempio, introduceva il fatto che i dirigenti aziendali, nel loro dovere di agire per il meglio dell’impresa, avrebbero dovuto tener conto delle conseguenze sulla sostenibilità nel breve, medio e lungo periodo: cancellato. Prima si prevedeva che un fornitore inadempiente si sarebbe visto interrompere il rapporto, ora invece s’è trovata la scappatoia; per evitare l’interruzione basterà presentare una relazione dove si dovrà dimostrare che interrompendo il rapporto si fanno più danni che a tenerlo in piedi: la schiavitù fa anche cose buone, insomma. Ma è valso a poco; tre esempi lampanti di progresso e rispetto dei diritti e dell’ambiente avevano già annunciato la loro astensione: Austria, Germania e, addirittura, anche la Finlandia. Per far naufragare definitivamente la normativa, però, ne serviva una quarta: ed ecco che è arrivata l’Italia; d’altronde, ricorda Pan, “Nel 2008 la UE aveva un PIL superiore agli USA di 4,5 punti. Nel 2022 l’Unione Europea ha perso nei confronti degli USA il 5,5 per cento. Per dare un’idea, è come aver perso il PIL di un paese come l’Italia o la Francia”. E che, non ti vorrai mica rifare sugli svendipatria che hanno portato tutti i loro quattrini negli USA via paradisi fiscali! Con buona pace degli anarcoliberisti e dei negazionisti climatici, c’è ancora un mondo di schiavi e un intero pianeta da sfruttare come si deve.
Per ora l’Italia ha contribuito a rimandare il voto e forse la decisione definitiva potrebbe arrivare proprio mentre sto registrando questo video; vi terremo aggiornati, ma per tenervi sempre aggiornati sulle manovre di questo esercito di svendipatria abbiamo bisogno di un vero e proprio media che faccia le pulci alla propaganda delle oligarchie e guardi il mondo dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Diego Della Valle

Come l’Argentina è stata intrappolata dal debito neo – coloniale per 200 anni

Anche tu, come noi, riponevi ancora qualche speranza nell’umanità? Bene, da domenica sera direi che è definitivamente arrivato il momento di abbandonare ogni speranza: la vittoria – e pure con ampio margine – di Javier Milei alle presidenziali in Argentina è la prova più palese possibile immaginabile dell’assoluta inadeguatezza delle masse di scegliersi liberamente un governo nell’ambito delle regole della democrazia liberale, almeno a questo stadio di sviluppo; e non tanto perché un personaggio assolutamente impresentabile come Milei dovrebbe essere escluso a prescindere da ogni possibilità di ricoprire un qualsiasi incarico di responsabilità, ma soprattutto perché la sua elezione è avvenuta in Argentina. Sin dalla sua fondazione, l’Argentina – infatti – periodicamente è precipitata tra le grinfie delle solite identiche oligarchie compradore che sistematicamente ne hanno devastato l’economia con conseguenze disastrose per la stragrande maggioranza della popolazione: uno schema quasi noioso da quanto è diventato prevedibile e sempre identico a se stesso. Raramente un popolo, al mondo, ha avuto la stessa possibilità che hanno avuto gli argentini di individuare con chiarezza – a partire dalla loro vita concreta quotidiana – l’esatto gruppo di potere e il tipo di proposta politica direttamente responsabili di tutti i loro problemi. Da due secoli!
Javier Milei, il gruppo di potere che lo ha sostenuto e le sue ricette politiche sono le stesse identiche medicine che, periodicamente, vengono riproposte al popolo argentino con conseguenze disastrose per la stragrande maggioranza della popolazione, e un furto sistematico di ricchezza da parte di una minuscola oligarchia predatoria. La differenza è che, in passato, per imporle servivano golpe e giunte militari; oggi l’involuzione antropologica è tale che la gente se le sceglie da sola, a larga maggioranza.
Come l’Argentina è stata intrappolata dal debito neo – coloniale per 200 anni”: così Esteban Almiron, nel dicembre scorso, intitolava un suo lungo articolo – pubblicato da Geopolitical economy review – dove cercava di tirare le somme di due secoli di devastazione sistematica dell’economia Argentina da parte delle sue oligarchie, legate a doppio filo a Londra prima e a Washington poi. La storia inizia nel lontano 1824 quando, appena 8 anni dalla dichiarazione di indipendenza dall’impero spagnolo, l’unione delle province – che sarebbe poi diventata la Repubblica argentina – ottiene un prestito di 1 milione di sterline, equivalenti a 110 miliardi attuali, da una banca privata britannica: “Il prestito, denominato in sterline” ricorda Almiron “sarebbe dovuto servire a finanziare il porto di Buenos Aires e altre infrastrutture strategiche”. Poco meno di metà del debito andò in commissioni di ogni genere agli intermediari e il resto “evaporò rapidamente in una guerra con il Brasile”. Risultato: già nel 1827 l’Argentina non era più in grado di pagare gli interessi e dichiarò il suo primo default; da lì in poi, per ripagare quel primo debito impiegò la bellezza di 80 anni e – alla fine – aveva sganciato 8 volte il suo valore iniziale. L’Argentina, allora, sviluppò una certa sana diffidenza verso il debito internazionale e conobbe i suoi anni migliori raggiungendo, nella prima parte del secolo scorso, un reddito pro capite tra i più alti dell’intero pianeta; è per questo che quando – una volta finita la seconda guerra mondiale – venne istituito il Fondo Monetario Internazionale, l’allora presidente populista e progressista Juan Domingo Peron decise di tenersene alla larga.

Evita e Juan Domingo Peron

Durò pochino: nel ‘55 Peron fu cacciato a suon di bombardamenti aerei sul palazzo presidenziale da un sanguinoso colpo di stato, e sotto la feroce dittatura di Pedro Aramburu decise – finalmente – di aderire all’FMI. Ma per vedere il delirio neoliberista in tutto il suo splendore bisognerà aspettare un altro colpo di stato, 20 anni dopo, quando l’esercito arresta l’allora presidente regolarmente eletta Evita Peron e, con il sostegno di Washington, dà il via a una stagione di terrorismo di stato fatto di “stupri, torture sistematiche, detenzioni arbitrarie, sorveglianza distopica e desaparecidos”. Sotto la guida feroce del dittatore Jorge Videla, nell’ambito di quello che venne denominato il “processo di riorganizzazione nazionale” – proprio come nel Cile di Pinochet -, il posto di guida dell’economia venne affidato a una conventicola di invasati ultra – liberisti: da Adolfo Diaz – l’allievo di Milton Friedman – messo a capo della Banca Centrale, a Martinez de Hoz – l’amico di David Rockefeller – nominato ministro dell’economia. “Quasi subito dopo l’ascesa al potere di Videla” ricorda Almiron “De Hoz ottenne un prestito dall’FMI di 100 milioni di dollari di allora”: in cambio, si impegnò ad implementare la solita ricetta lacrime e sangue fatta di abbattimento delle barriere commerciali, deindustrializzazione e restrizioni salariali, mentre l’inflazione continuava a correre non a due, ma addirittura a tre cifre. Risultato: il potere d’acquisto dei lavoratori diminuì di poco meno del 50% nell’arco di appena un anno. Nel frattempo, gli amici oligarchi della giunta militare guadagnavano una quantità di quattrini spropositata attraverso una vera e propria truffa promossa e finanziata dal regime e denominata bicicleta financiera. A costo di distruggere le esportazioni e le aziende locali, il governo aveva introdotto un sistema di regolazione del cambio tra pesos e dollari USA che aveva fortemente rivalutato e stabilizzato la moneta locale; a quel punto “con il sostegno del governo” scrive Almiron “gli speculatori potevano ottenere prestiti a basso interesse denominati in dollari all’estero, mentre a loro volta concedevano prestiti in pesos agli argentini a tassi stratosferici, intascando la differenza”: un giochino che costò alle casse dello Stato un aumento del debito pubblico denominato in dollari di 5 volte nell’arco di appena 7 anni. Un debito che divenne sostanzialmente non più solvibile quando, dopo due anni di festa grossa per le oligarchie locali, il governo abbandonò di punto in bianco la regolamentazione del cambio tra peso e dollaro comportando una svalutazione repentina della valuta locale.
Nel 1983, al regime di Videla subentrò il governo di Raul Alfonsin che, sottolinea Almiron, “avrebbe potuto contestare la legittimità del debito. Dopotutto” continua Almiron “era stato contratto da un regime dittatoriale sostenuto dalla CIA, e che sotto l’influenza USA favoriva gli interessi stranieri rispetto a quelli argentini. Purtroppo però” conclude Almiron “il governo Alfonsin e la nuova, fragile democrazia erano troppo deboli per una simile sfida”. E con un debito del genere sul groppone il nuovo governo argentino era destinato al fallimento; per stare in piedi non aveva altra scelta che affidarsi, di nuovo, a Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale che imposero una nuova stagione di riforme lacrime e sangue che, ancora una volta, pochi anni dopo, portarono a un’altra gigantesca crisi economica che raggiunse il suo apice nel 1989 “quando” ricorda Almiron “salari e risparmi evaporarono rapidamente, povertà ed estrema povertà salirono alle stelle, e cominciarono a scoppiare rivolte e saccheggi”. Il sogno di un governo moderatamente progressista, preoccupato dagli interessi della nazioni più che a quelli delle solite oligarchie, si sciolse così come neve al sole: era arrivata l’ora di un’altra bella shock therapy.
A infliggerla – sotto l’egida del neo eletto Carlos Menem – il famigerato Domingo Cavallo, altro neo – liberista purosangue coccolatissimo dai media occidentali. La ricetta era sempre la stessa: primo step, sopravvalutare artificialmente il pesos e ancorarlo al dollaro; come sottolinea Almiron “tutti potevano scambiare liberamente pesos e dollari, ora sostenuti dallo Stato con le sue riserve”. In soldoni, quindi, la Banca Centrale limitava l’emissione di nuovi pesos alla presenza di altrettanti dollari tra le sue riserve, togliendo così ossigeno all’economia. Ma non solo: quei pochi dollari che, comunque, la Banca Centrale accumulava come riserve erano ottenuti nel più barbaro dei modi e cioè con “una delle più grandi operazioni di privatizzazione della storia”. “In pochi anni” ricorda Almiron “vennero privatizzati il sistema pensionistico, le ferrovie nazionali, le banche pubbliche, la rete telefonica, la compagnia aerea di bandiera, i porti, il servizio postale, la rete idrica, quella del gas, quella elettrica, diverse reti televisive e radiofoniche e alcuni servizi di assistenza sanitaria”. Le multinazionali statunitensi ed europee, poi, ebbero l’occasione di fare shopping a prezzi di saldo nell’industria navale, in quella chimica e in quella aerospaziale; anche qui, le oligarchie locali i quattrini li facevano sempre come sotto Videla. Cavallo aveva imposto per legge che ogni pesos potesse essere scambiato con un dollaro; gli oligarchi emettevano prestiti in pesos a tassi altissimi – perché di pesos in circolazione ce n’erano pochini – e tutti gli interessi che intascavano li convertivano in dollari, e poi con questi dollari ci andavano a comprare un po’ di immobili di prestigio negli USA. Nel frattempo, la disoccupazione – da meno del 6% – sfiorava quota 20% e l’Argentina entrò in una profonda recessione che sarebbe durata la bellezza di 4 interminabili anni. Menem, che nel frattempo faceva il tamarro girando il paese a bordo di una Ferrari, divenne il politico più odiato del paese. Alle presidenziali successive il paese cerca una via d’uscita eleggendo La Rua che, però, continua sulla stessa falsa riga e – alla fine – decide di riaffidarsi nuovamente a Domingo Cavallo, nominato un’altra volta ministro dell’economia; ed ecco così che si arriva al 2001, quando il timore per un tracollo finanziario definitivo scatena una corsa epica agli sportelli e, alla fine, porta al default dell’Argentina con un debito di 95 miliardi di dollari. Era la prova provata di come le ricette neo – liberiste non funzionassero, ed ecco così che alle elezioni successive si fa avanti un semisconosciuto governatore di una piccola provincia meridionale.

Cristina e Néstor Kirchner

Si chiamava Néstor Kirchner. Non era chissà quale militante marxista leninista; era un moderato, un umile avvocato di provincia che però non era a libro paga di nessuno, e i risultati si fecero vedere subito. Durante il suo mandato il PIL crebbe a ritmi cinesi di poco meno del 10% l’anno, la disoccupazione crollò al 7,3% e le riserve internazionali – da zero – superarono quota 30 miliardi. Ma, soprattutto, ha sfanculato il Fondo Monetario Internazionale: “il 16 dicembre 2005” ricorda infatti Almiron “Kirchner annuncia che l’Argentina avrebbe ripagato integralmente e in anticipo l’intero debito del FMI con le sue riserve estere”. Le riserve erano state accumulate facendo esattamente il contrario dei predecessori: invece di ancorare il pesos al dollaro, Kirchner l’aveva fatto svalutare, aumentando così le esportazioni e incassando valuta pregiata, e ora era in grado di dimostrare che tutti quelli che l’avevano preceduto avevano usato l’FMI come scusa per imporre ricette lacrime e sangue che – prima ancora che il fondo stesso, o gli USA – beneficiavano i loro amici oligarchi.
Ma la partita era solo all’inizio perché, ben oltre il debito col fondo monetario internazionale, a zavorrare l’Argentina c’era il debito denominato in dollari contratto con i privati attraverso l’emissione di bond; con la stragrande maggioranza dei creditori, Nestor prima e la moglie Cristina – che gli è succeduta alla presidenza del paese per ben due mandati – poi, sono riusciti a trattare e a rinegoziare, ma c’era una piccola minoranza che di mollare la presa non ne aveva nessuna intenzione. Sono i famosi “fondi avvoltoio” e cioè i fondi speculativi USA che, di mestiere, comprano i bond dei paesi in crisi a prezzi stracciati: un’attività molto remunerativa ma ad alto rischio, almeno se la fai te, o me. Se la fanno loro, meno; gli unici rischi che si accollano questi fondi, infatti, è a quanto ammonterà la parcella degli avvocati, perché il paradosso del mercato dei bond sovrani è questo: se la tua economia non è perfettamente in salute, per convincere gli investitori a comprarli devi pagare interessi altissimi perché il rischio che quello Stato non sia in grado di ripagarti è alto, ma se sei un fondo con la sede negli USA e hai abbastanza soldi per pagarti i migliori avvocati – e magari provare la stessa causa in diverse corti, fino a che non trovi il giudice giusto – in realtà quel rischio non lo corri mai. La legge è costruita in modo che, alla fine, se non demordi vinci sempre.
Lo sa bene Paul Singer, il capo del fondo Elliott: per provare a farsi ridare tutti i soldi investiti (con una montagna di interessi sopra) ha ingaggiato una guerra legale lunga 15 anni. “Sono terroristi economici” aveva tuonato Cristina rivolgendosi all’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2014 “che destabilizzano l’economia di un paese e creano povertà, fame e miseria, e tutto in nome della speculazione”; quando, dopo 8 anni di presidenza, per legge ha dovuto fare un passo indietro, il debito di Singer era ancora lì. Finalmente il popolo aveva trovato una classe dirigente che stava dalla sua parte ma, molto saggiamente, ha deciso di gettarla nel cesso. Durante gli ultimi anni della presidenza di Cristina, le oligarchie avevano cominciato ad alzare il tiro mettendo in piedi i soliti teatrini che tanto piacciono agli analfogiustizialisti; è lo stesso identico copione che abbiamo visto anche in Brasile contro Lula e la Roussef: una casta di giudici corrotti, legati a doppio filo alle oligarchie, che trasferiscono nei tribunali una battaglia politica che non sono riusciti a vincere nel resto del paese e che la propaganda dei media – di proprietà degli stessi oligarchi – riesce a spacciare in lotta contro la corruzione. Il bue che dà del cornuto all’asino.
Questa campagna di delegittimazione fondata sulla post verità comunque dà i frutti sperati: alle presidenziali successive la sinistra peronista perde di un soffio e alla guida del paese arriva Mauricio Macri. E’ il rampollo di una famiglia dell’oligarchia nazionale che si è arricchita grazie al sostegno politico alla dittatura militare e non delude le aspettative: a pochi mesi dall’insediamento salda il debito con Elliott – 2,28 miliardi di dollari a fronte di un investimento iniziale di appena 177 milioni – ed è solo la punta dell’iceberg. Nel giro di pochi giorni, l’Argentina di Macri sgancia ai fondi avvoltoio la bellezza di 9,3 miliardi: “per un paese che si dice sovrano, una vera e propria umiliazione” scrive Almorin “che ha fatto anche arrabbiare molti piccoli investitori, compresi pensionati e lavoratori, che hanno perso il grosso dell’investimento con la rinegoziazione del debito, mentre un piccolo gruppo di miliardari statunitensi e speculatori di ogni genere hanno fatto fortuna”. Ed era solo l’antipasto: dopo quell’operazione, il governo Macri ha cominciato a accumulare debito su debito passando, in un solo anno, da un rapporto debito PIL del 56% all’86%. Una quantità incredibile di dollari che non sono andati – nemmeno in minima parte – nelle infrastrutture necessarie per far ripartire l’economia reale, ma direttamente nelle tasche delle oligarchie, che hanno convertito in dollari i loro pesos e poi li hanno portati fuori dal paese. Il paese era di nuovo sull’orlo della bancarotta, ed ecco così che si ritorna a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale che, a regola, avrebbe dovuto rispondere picche; secondo il suo regolamento, infatti, “un membro non può utilizzare le risorse generali del fondo per far fronte a un deflusso ampio o prolungato di capitali”, a meno che non lo chieda il vero unico padrone di casa: il governo degli USA.
Che è esattamente quello che è successo: alla Casa Bianca, infatti, nel frattempo era arrivato il compagno Donald Trump, che era alla ricerca di alleati regionali per provare a fare le scarpe al governo rivoluzionario del Venezuela. Macri si presta allegramente al gioco: riconosce immediatamente e ufficialmente il politico fantoccio USA Juan Guaido come presidente legittimo auto – nominatosi del Venezuela e, in cambio, ecco che magicamente le porte dell’FMI si spalancano di nuovo. Pochi mesi dopo, il fondo stanzia a favore del governo Macri la bellezza di 44 miliardi “ma” ricorda Almorin “nemmeno un dollaro inviato dal Fondo è mai stato visto dal popolo argentino, né utilizzato per alcun progetto di sviluppo economico. Piuttosto, nell’arco di appena 11 mesi il denaro è letteralmente evaporato, finendo nelle tasche degli oligarchi nazionali e stranieri” e – nell’agosto del 2019 – l’Argentina doveva dichiarare nuovamente default, “il primo ufficiale del Paese per mancanza di fondi dal 2001”. Nonostante il disastro, la potenza della propaganda è tale che alle elezioni successive Macri perde sì – ma manco poi di tanto – e per sconfiggerlo Cristina and company sono costretti a fare un passo di lato, presentare un candidato più moderato e mettere in piedi una coalizione così vasta da risultare abbastanza inconcludente. Ciononostante, rispetto ai rapinatori di professione la presidenza Fernandez è oro colato: intraprende subito una guerra a 360 gradi contro il debito contratto dall’élite compradora che li ha preceduti, si avvicina gradualmente alla Cina e ai Brics fino ad ufficializzare l’ingresso e quando in Brasile, dopo il golpe giudiziario, torna al potere Lula, comincia a lavorare all’integrazione dell’area del Mercosur per tentare di sganciarsi dal dollaro. Ma il paese che Fernandez ha ereditato da Macri è un paese sull’orlo del baratro e la crisi pandemica non fa che peggiorare la situazione a dismisura: perseguitato dal debito denominato in dollari, Fernandez si ritrova travolto dall’ennesima spirale inflattiva che cerca – in ogni modo – di non scaricare interamente sulle masse popolari rincominciando a stampare moneta e svalutando il pesos, che è la scelta socialmente meno iniqua ma che, sicuramente, non permette di riportare l’inflazione sotto controllo. Ed ecco qui, allora, che avviene quello che fa definitivamente perdere ogni speranza nell’umanità: sulla scena politica si affaccia un invasato che ha chiamato i suoi cani con i nomi dei guru della setta neoliberista e che, per prendere le decisioni più importanti, organizza delle sedute spiritiche durante le quali invoca lo spirito dei suoi cani morti.

Javier Milei

Javier Milei ripropone – pari pari – le ricette che, appena 5 anni fa, avevano fatto esplodere il debito pubblico e riportato l’Argentina al default. Solo, on steroids: invece che di semplice rivalutazione del pesos e di ancoraggio al dollaro, promette esplicitamente di abolire la Banca Centrale tout court e di adottare come moneta nazionale direttamente il dollaro, e promette di farlo circondato da un team di tutto rispetto. Fenomeno da baraccone mediatico privo di qualsiasi struttura politica, nonostante l’imbarazzante retorica anti – casta si consegna mani e piedi alla cerchia ristretta di Macri, gli eredi di quella élite nazionale che, da 200 anni, saccheggiano il paese senza ritegno senza aver mai conseguito un risultato positivo che sia uno. Cosa mai potrebbe andare storto?
La vittoria di Milei non è semplicemente l’ennesimo caso di vittoria di chi gioca a fare l’underdog e poi si rivela inesorabilmente non essere per niente under ma solo dog dei soliti interessi; è proprio la prova provata di un’involuzione antropologica epocale che impedisce – in questa fase di caos sistemico e di iper – informazione alle masse popolari – di riconoscere minimamente i propri interessi basilari, anche quando sono palesi. E’ l’era del trionfo totale delle ideologie più inverosimili e della post verità: per superarla, la battaglia culturale e di controinformazione da fare è titanica e lunghissima.
Tocca attrezzarsi con gli strumenti adeguati, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Javier Milei