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Agnelli, Della Valle e Moratti: come i prenditori italiani hanno ucciso il nostro capitalismo

L’avidità delle nostre élite economiche sta, probabilmente, riuscendo laddove il movimento operaio e le mobilitazioni di massa hanno sempre fallito: stanno definitivamente uccidendo il nostro capitalismo; peccato sia per sostituirlo con qualcosa di ancora peggiore. Lo scorso weekend, mentre l’intero paese era distratto dal doppio scandalo sanremese, il gotha del capitalismo italiano veniva travolto da una doppia rivoluzione: due dei principali e più iconici gruppi italiani annunciavano all’unisono l’uscita dalla Borsa di Milano e la svendita di un altro pezzettino consistente di paese al grande capitale internazionale; nell’arco di poche ore, prima uno dei millemila fondi di Bernard Arnault, l’uomo più ricco del pianeta, ha annunciata un’OPA amichevole su Tod’s, simbolo assoluto del finto lusso quasi quanto il suo cringissimo patron Diego della Valle, e poi il simbolo – invece – per eccellenza della decadenza alto borghese ormai bollita Massimo Moratti annunciava la vendita delle raffinerie sarde della Saras al colosso svizzero – olandese del commercio delle materie prime Vitol. Sullo sfondo, il giovedì prima, la Guardia di Finanza eseguiva il decreto di perquisizione della procura di Torino a carico di Lapo, Ginevra e soprattutto di John Elkann, il grande liquidatore del manifatturiero italiano; come in un episodio qualsiasi di Succession, il tutto nasce da una denuncia nientepopodimeno che della loro stessa madre: Margherita Agnelli, che contende ai suoi stessi figli l’eredità di papà Gianni. I vecchi valori di una volta del capitalismo prenditore familistico italico…
Tod’s
e Saras sono solo l’ultimo tassello di una fuga generalizzata dai mercati finanziari italiani, e proprio mentre il governo degli svendipatria festeggia in pompa magna l’approvazione in seconda lettura alla Camera del primo grande progetto di riforma complessiva del diritto societario e dei mercati finanziari da 20 anni a questa parte; è il famoso e famigerato DDL capitali: una resa incondizionata agli interessi speculativi dei capitali più forti a spese dell’economia reale e anche dei piccoli investitori, una sorta di corsa ai ripari dopo che, negli ultimi 10 anni, Piazza Affari si è vista sfilare da sotto il naso di tutto di più. Nel 2022, poco prima che Exor emigrasse sulla borsa di Amsterdam, a uscire di scena era stata l’Atlantia dei Benetton; poi era arrivato il turno della DeA Capital del Gruppo De Agostini, del gruppo Cerved, di Banca Finnat e pure della Roma Calcio; nel frattempo, Luxottica optava per Parigi e Prada per Hong Kong. Una cifra che spiega tutto: quando la Saras di Moratti è stata quotata nell’ormai lontano 18 maggio 2006, l’indice di Piazza Affari volava vicino a 38 mila punti; oggi non arriva a 31.500, un quinto in meno. Il governo Meloni, allora, ha deciso di partecipare alla corsa globale a chi chiude più occhi per attirare qualche capitale in più, ma – evidentemente – con scarso successo: proprio mentre il governo avviava la discussione sul disegno di legge, Brembo, il gigante italiano della produzione di impianti frenanti per veicoli, annunciava il trasferimento della sua sede legale ad Amsterdam insieme a Campari, Iveco, Stellantis, Ferrari, CNH Industriale e anche STMicroelectronics. Il motivo è sempre lo stesso: grazie al carattere marcatamente ultraliberista del diritto societario olandese, scordatevi la leggenda metropolitana del capitalismo democratico dove a ogni azione equivale un voto: in Olanda, a seconda di chi sei, una tua azione, di voti, ne può valere fino a 20, oppure zero, che è esattamente quello che verrà introdotto a breve anche in Italia; ovviamente, significa – banalmente – che per controllare un’azienda sarà sufficiente possedere anche solo il 5 – 10 %, un’opportunità straordinaria. Ora che a far crescere l’economia reale in Europa c’hanno sostanzialmente rinunciato, il punto si gioca tutto su quanta ricchezza riesco a estrarre da un’azienda per esportare un po’ di capitali negli USA – via paradisi fiscali – prima che l’azienda muoia definitivamente: la lunga guerra dello 0,001% contro il resto dell’umanità non conosce sosta.

Diego “the cringe” Della Valle

Un padrone ottocentesco: così definiva Diego Della Valle, ormai una quindicina abbondante di anni fa, il segretario nazionale della FEMCA Cgil Sergio Spiller; in ballo, allora, c’era la trattativa sul contratto integrativo aziendale per i lavoratori degli stabilimenti Tod’s di Casette d’Ete, Comunanza e Tolentino. “Uno spartiacque tra un sistema di relazioni corrette e un atteggiamento paternalistico nella gestione della fabbrica” commentava Spiller; invece di riconoscere ai lavoratori i loro sacrosanti diritti, Della Valle, infatti, preferiva ripiegare su una sorta di mancia: 1400 euro da distribuire su 12 mensilità per tutto il 2008. Un episodio paradigmatico (il personaggio, infatti, trasuda antipatia da ogni poro), eppure quell’epiteto, padrone ottocentesco, visto dopo 15 anni di depressione e finanziarizzazione selvaggia dell’economia, tutto sommato non suona più così offensivo; da padrone ottocentesco, infatti, Della Valle, per fare soldi, aveva adottato il caro vecchio sistema del capitalismo industriale delle origini: ci si fa prestare un po’ di soldi dalle banche, si investono in un po’ di macchinari e per assumere un po’ di persone, si fanno lavorare il più possibile, si prova a vendere il prodotto e, con i soldi ricavati, ci si pagano i dipendenti, il debito e gli interessi, e quello che avanza un pochino si mette in saccoccia e un pochino si reinveste per comprare altre macchine e, magari, assumere qualche persona in più. Quanto, di tutto questo, va in tasca ai lavoratori, e quanto a Diego e famiglia, dipende anche parecchio da quanta cazzimma ci mettono i lavoratori – e non intendo mentre lavorano, ma mentre gli dai la busta paga: quella che, quando c’era ancora la democrazia, si chiamava lotta di classe, insomma. Poi alla democrazia è subentrata la dittatura del capitale finanziario; la lotta di classe l’hanno vinta le oligarchie ed ecco che Della Valle è diventato il padrone dell’800 (oltre che per gli outfit supercringe, intendo).
Ecco: finalmente uno dei nostri imitatori di Crozza preferiti ha deciso di mettersi al passo coi tempi e, per entrare nel salotto buono delle oligarchie finanziarie del XXI secolo, ha deciso di gettarsi tra le braccia dell’uomo più ricco del pianeta: Bernard Arnault, il capo mondiale dell’industria del lusso; alla fine dell’operazione i Della Valle avranno ancora il 54% dell’azienda che, appunto, uscirà dalla borsa, ma il socio di minoranza avrà potere di veto – e chi conosce la storia di Arnault, sa benissimo che per quel poco che rimane di economia reale e produttiva in Italia, c’è poco da stare sereni. Ne avevamo parlato in un video di oltre un anno fa quando, appunto, Forbes aveva comunicato che, per la prima volta non so da quanto tempo, in cima alla sua classifica non c’era uno statunitense, a differenza dei 9 che vengono dopo, e la vecchia Europa brindava per la sua rivincita senza aver capito assolutamente nulla di come gira davvero il mondo; se si riformasse la vecchia gang dei giacobini, il lavoro – diciamo – non le mancherebbe.

Massimo Moratti

Un piccolo omaggio, ad esempio, sarebbe d’obbligo anche per uno dei casati più blasonati del capitalismo familiare italiano; sono i Moratti che, subito dopo l’annuncio dei Della Valle, hanno mandato un altro segnale chiarissimo dello stato in cui versa il capitalismo italiano: dopo 62 anni, hanno deciso di mettere fine alla loro storia d’amore con il petrolio, garantendosi un buen retiro da 600 milioni di euro. Ma oltre all’invidia, che – prima che ce lo scriva qualche analfoliberale nei commenti – noi non solo proviamo (e rivendichiamo il fatto di provarla), ma addirittura invitiamo esplicitamente anche gli altri a fare altrettanto – e pure a non reprimere troppo la rabbia che scatena – anche qui c’è molto, molto di più: al netto di tutte le controversie sacrosante, da quelle ambientali a quelle sindacali, la raffineria di Sarroch, in provincia di Cagliari, è infatti una delle più grandi in assoluto del Mediterraneo e anche una delle più avanzate; come ricorda Sissi Bellomo su Il Sole 24 Ore “non solo conta per un quinto della capacità di produzione di carburanti del nostro paese, ma soprattutto è in grado di effettuare ogni tipo di lavorazione e modificare velocemente i processi per adattarsi all’impiego di greggi di qualità diversa. Una caratteristica” sottolinea giustamente la giornalista “particolarmente preziosa in periodi caldi come quello attuale che, tra guerre e sanzioni, costringono a cambiare con frequenza fornitori e tipologia della materia prima”. Definirlo un asset strategico, insomma, è riduttivo: già che fosse in mano a una famiglia, invece che allo Stato, era roba da trogloditi; ora che, da una famiglia, passa di mano a un megaconglomerato, oltre che da trolgoditi è proprio da ebeti.
Il megaconglomerato di chiama Vitol, è di origine olandese, ma la sede è a Ginevra e, nonostante il 99,9% della popolazione mondiale non l’abbia mai sentito nominare, c’ha un giro d’affari comparabile a quello di Amazon: nel 2022 ha smazzato materie prime di ogni genere per un valore che supera i 500 miliardi di dollari senza che nessuno abbia mai visto un bilancio. Nonostante sia il maggior trader indipendente di greggio e prodotti raffinati del mondo, infatti, la Vitol è una società privata e non è quotata; ergo, fa un po’ come cazzo gli pare. I sindacati si sono comunque dimostrati cautamente ottimisti: dopo giorni di rumors sulle preoccupazioni per l’assenza di un vero e proprio piano industriale, dopo il faccia a faccia con la dirigenza dei nuovi proprietari i rappresentanti di CGIL, CISL e UIL hanno parlato di incontro positivo: “Chi subentra” avrebbe dichiarato Marco Nappi della FEMCA CISL “ha parlato di un ingresso in punta di piedi e un approccio funzionale alla produzione di Vitol”. Sinceramente, non abbiamo motivo di dubitarne; il punto, ovviamente, è un altro: se la fortuna dei Moratti era legata a questa raffineria, Vitol gioca su uno scacchiere enormemente più grande, con logiche completamente scollegate dall’interesse nazionale e con una potenza di fuoco completamente sbilanciata rispetto alle amministrazioni locali e anche al Governo che, ormai, per il fabbisogno nazionale di carburanti deve fare affidamento quasi esclusivamente su attori stranieri, con tutto quello che ne consegue. L’ISAB di Priolo in Sicilia, ad esempio, 10 anni fa dalla genovese ERG è passata di mano alla russa Lukoil e quando abbiamo deciso di farci la guerra contro la Russia per dimostrare la nostra fedeltà a Washington, abbiamo sudato freddo: alla fine, l’impianto è stato acquisito dalla GOI Energy; anche qui, poteva andare decisamente peggio e i sindacati si sono dimostrati piuttosto ottimisti. A un anno di distanza però, a quanto ci risulta, del piano industriale ancora non c’è traccia e nel dicembre scorso Milano Finanza parlava di trattative per un nuovo passaggio di mano a non meglio precisati armatori greci, con Rothschild a fare da advisor; GOI Energy ha smentito categoricamente.
I problemi, però, potrebbero essere altri: GOI Energy, infatti, è una divisione del fondo di private equity Argus New Energy Group che, in quanto fondo di private equity, già non è che sia proprio il simbolo della trasparenza; in più ha sede a Cipro, altra caratteristica che non è esattamente sinonimo di trasparenza, ma il problema principale è che il grosso degli investitori è israeliano, e il più israeliano di tutti è l’amministratore delegato. Si chiama Michael Bobrov e, oltre ad essere l’AD di GOI Energy, è anche il CEO della israeliana Green Oil, tra i maggiori azionisti della principale raffineria di petrolio israeliana, ed è anche l’uomo che gestiva le operazioni di Trafigura in Israele; e Trafigura, che è direttamente coinvolta nel processo di riorganizzazione di Priolo, oltre ad essere stata coinvolta in millemila vicende non esattamente edificanti – dallo scandalo dei rifiuti tossici in Costa d’Avorio alle accuse di corruzione da parte di procure statunitensi e svizzere – è anche la proprietaria della Martin Luanda, la petroliera che il 26 gennaio scorso è stata presa di mira da un missile di Ansar Allah. Anche la raffineria di Augusta nel 2018 era stata ceduta da Esso Italia agli algerini di Sonatrach e quella di Milazzo è di proprietà di una joint venture tra ENI e Kuwait Petroleum. Morale della favola: con questa ultima operazione dei Moratti, la capacità di raffinazione italiana è per oltre la metà in mano straniere, alla faccia del derisking e della necessità di pararsi il culo in tempi geopoliticamente turbolenti.

Stefano Pan

Fortunatamente, però, non ci sono solo brutte notizie per il mondo produttivo italiano: a Bruxelles, infatti, si sta giocando la partita della normativa CSDDD, o CS3d che dir si voglia (pure l’acronimo brutto le hanno dato, pur di evitare che se ne parli… sia mai!). Cosa prevede? Una cosa veramente intollerabile e, cioè, che le grandi aziende rispettino le normative ambientali e i diritti umani. Che incredibile ingerenza! “Il governo italiano si astenga” ha tuonato il delegato di Confindustria Stefano Pan; “l’industria europea è a rischio”: quello che non torna a Pan è che la direttiva impone alle grandi aziende di controllare che anche i fornitori e chi lavora in appalto debba rispettare la legge; ad oggi, infatti, per aggirare la legge è sufficiente esternalizzare tutto quello che viene fatto in violazione della legge, e così c’hanno tutti la coscienza pulita e si possono concentrare sulla produzione di pamphlet a varia gradazione di greenwashing e fuffa petalosa. Con questa normativa sarebbero, per la prima volta, costretti a fare qualcosa di simile a quello che millantano; tanto basta per affermare che “Il testo è stato messo a punto senza ascoltare gli addetti ai lavori, con un approccio ideologico” (Stefano Pan, Confindustria). Sia chiaro: la direttiva non è che impone agli attori della filiera di realizzare il socialismo e di essere equi nei confronti di lavoratori e territori che sfruttano, ma – molto banalmente, appunto – di rispettare le leggi, tipo il salario minimo di un euro l’ora in Bangladesh o il fatto che prima di gettare una sostanza chimica che ti fa venire un tumore solo a guardarla, la dovresti perlomeno un po’ filtrare; tutte limitazioni che nel giardino ordinato intenzionato a estrarre quel poco di plusvalore che rimane dall’economia reale per andarci a comprare le azioni di Nvidia o di Microsoft nelle borse USA, evidentemente sono insostenibili. Ed ecco così che, durante l’iter, un pezzo alla volta la normativa è stata smontata; l’articolo 25, ad esempio, introduceva il fatto che i dirigenti aziendali, nel loro dovere di agire per il meglio dell’impresa, avrebbero dovuto tener conto delle conseguenze sulla sostenibilità nel breve, medio e lungo periodo: cancellato. Prima si prevedeva che un fornitore inadempiente si sarebbe visto interrompere il rapporto, ora invece s’è trovata la scappatoia; per evitare l’interruzione basterà presentare una relazione dove si dovrà dimostrare che interrompendo il rapporto si fanno più danni che a tenerlo in piedi: la schiavitù fa anche cose buone, insomma. Ma è valso a poco; tre esempi lampanti di progresso e rispetto dei diritti e dell’ambiente avevano già annunciato la loro astensione: Austria, Germania e, addirittura, anche la Finlandia. Per far naufragare definitivamente la normativa, però, ne serviva una quarta: ed ecco che è arrivata l’Italia; d’altronde, ricorda Pan, “Nel 2008 la UE aveva un PIL superiore agli USA di 4,5 punti. Nel 2022 l’Unione Europea ha perso nei confronti degli USA il 5,5 per cento. Per dare un’idea, è come aver perso il PIL di un paese come l’Italia o la Francia”. E che, non ti vorrai mica rifare sugli svendipatria che hanno portato tutti i loro quattrini negli USA via paradisi fiscali! Con buona pace degli anarcoliberisti e dei negazionisti climatici, c’è ancora un mondo di schiavi e un intero pianeta da sfruttare come si deve.
Per ora l’Italia ha contribuito a rimandare il voto e forse la decisione definitiva potrebbe arrivare proprio mentre sto registrando questo video; vi terremo aggiornati, ma per tenervi sempre aggiornati sulle manovre di questo esercito di svendipatria abbiamo bisogno di un vero e proprio media che faccia le pulci alla propaganda delle oligarchie e guardi il mondo dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Diego Della Valle

OttolinaTV

15 Febbraio 2024

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