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Tag: arabia saudita

Navi Militari Europee nel Mar Rosso: Escalation o Armata Brancaleone?

Mar Rosso, l’Italia si schiera titolava lunedì il Corriere della serva: il riferimento, come ben saprete, è alla missione Aspides che in greco, non a caso, significa scudo e che è la missione militare targata Unione Europea che dovrebbe avere il compito di difendere le nostre navi mercantili nel Mar Rosso. Una missione che però, titolava ieri Il Giornanale, resta un annuncio: per il via libera infatti, come minimo, bisognerà attendere il 19 febbraio, quando si riunirà il consiglio esteri convocato da Bruxelles. Nel frattempo, in molti rimangono piuttosto titubanti: il ministro degli esteri spagnolo Josè Manuel Albares avrebbe annunciato l’intenzione del suo paese di non partecipare; idem l’Irlanda. L’Olanda, invece, c’aveva judo: partecipa già alla missione Prosperity Guardian a guida americana. Missioni difensive europee sono for pussies, missioni offensive angloamericane sono for real men– anche se i real men non sempre brillano proprio per lucidità strategica: “Gli attacchi aerei allo Yemen stanno funzionando?” ha chiesto un giornalista a Biden durante una conferenza stampa di qualche giorno fa; “Dipende da cosa cosa intendi per funzionare” ha risposto Biden. “Stanno stoppando gli Houti? No. Continueranno? Sì.”, che poi – a ben vedere – è il riassunto perfetto della strategia geopolitica USA da un po’ di tempo a questa parte. D’altronde, come commenta il mitico blog Moon of Alabama, “Quando il tuo unico arnese è un martello, ogni problema assomiglia a un chiodo”.

Gian Micalessin

Ma se i razzi USA e britannici non sembrano impattare poi molto sulle capacità offensive di Ansar Allah e, invece che riportare la calma, sembrano esclusivamente aumentare il bordello, anche la nostra Aspides rischia di non essere molto efficace nella difesa; risultato? Aspides ad oggi potrà contare su appena tre navi messe a disposizione dalla triplice italo – franco – tedesca: “l’Italia così” scrive Gian Micalessinofobia sempre sul Giornanale “si ritroverebbe a fare la parte del leone. La nostra marina militare, già presente nel Mar Rosso con la fregata Martinengo che partecipa alla missione anti – pirateria Atlanta, è pronta infatti a mandare un’altra unità dedicata”; un po’ pochino per coprire un’area che andrebbe dallo stretto di Bab-el-Mandeb – attualmente sotto fuoco yemenita – a quello di Hormuz, che separa l’Iran da Oman ed Emirati e che, sulla carta, pattugliato dovrebbe esserlo già da 4 anni: nel 2020, infatti, Parigi riuscì a strappare all’Europa l’ok alla missione Agenor, che doveva proteggere la navigazione commerciale dal rischio che arrivava dall’Iran e che però, come sottolinea lo stesso Micalessinofobia, è “rimasta un’inutile scatola vuota”. Siamo di fronte a un remake? Al momento sembra abbastanza probabile: tra i due stretti infatti, ricorda ancora Micalessinofobia, “ci sono oltre 2.300 chilometri di mare. Un’estensione impossibile da coprire con appena tre navi e qualche drone”.
Qualcosina in più di Agenor sembra l’abbia portato a casa un’altra operazione: si chiama Atalanta, è in corso ormai dal lontano 2008 e ha l’obiettivo di proteggere i mercantili della pirateria a largo della Somalia; quando inizialmente gli USA avevano annunciato l’avvio dell’operazione Prosperity Guardian, l’Unione Europea – per voce di Borrell – aveva inizialmente parlato di un nostro contributo proprio attraverso l’operazione Atalanta, ma il tutto era stato inizialmente bloccato dal veto spagnolo: poi Biden ha alzato il telefono, ha chiamato direttamente Sanchez e il divieto è venuto meno, ma l’iniziativa è rimasta dov’era. Una volta tanto, l’Europa ha avuto un sussulto di dignità e ha evitato di fare il portaborse in un’operazione dove la catena di comando era saldamente in mano agli USA e dove le regole di ingaggio, come abbiamo visto chiaramente, vanno decisamente al di là della difesa dei mercantili. Ma sull’utilità di quello che abbiamo già dispiegato per l’operazione Atalanta in questo nuovo contesto, ci sono più di qualche dubbio: “Gli Houti” infatti, spiega l’ex ufficiale della folgore e fondatore del Security Consulting Group Carlo Biffani intervistato da AGI, “non attaccano con barchini dotati di motori fuoribordo e fucili d’assalto e rappresentano ben altro tipo di minaccia”; in quel caso, continua Biffani, “bastò schierare navi da guerra che incrociavano a largo della Somalia, e posizionare a bordo dei cargo personale armato con dotazioni consistenti unicamente in fucili d’assalto. In questo caso invece si tratta di neutralizzare in tempo reale il lancio di missili contro obiettivi navali”. Per assolvere a questo ruolo, bisognerà ricorrere probabilmente a delle portaerei e sfruttare “la terza dimensione, ovvero quella dei cieli, con sistemi di ascolto e di controllo radar di ampissimo raggio”; per le regole d’ingaggio di questa missione, come sottolinea il Corriere, “mancano ancora i dettagli”. I media, comunque, sono concordi nel dare per scontato che sarà appunto meramente difensiva: “Sono categoricamente escluse azioni a terra” scrive Di Feo sulla Repubblichina, “neppure per eliminare le rampe da cui partono ordigni contro le forze occidentali” e questo, se confermato, è senz’altro una buona notizia.
Ma le buone notizie, come le bugie, hanno le gambe corte: come spiegava Stephen Bryen su Asia Times già una decina di giorni fa, infatti, se USA e UK – a un certo punto – da scortare i mercantili (come dovremmo cominciare a fare anche noi con l’operazione Aspides) sono passati a lanciare razzi sullo Yemen non è perché sono scemi o perché sono cattivi, o almeno non esclusivamente; il problema, spiega Bryen, è che “sono sorti seri dubbi sia da parte britannica che da parte statunitense sul fatto che fossero adeguatamente attrezzati per resistere ancora a lungo agli attacchi di sciami di droni e di missili Houthi”. Solo nella giornata del 10 gennaio scorso, ad esempio, “le forze statunitensi e britanniche hanno dovuto abbattere 21 droni e missili. E per stessa ammissione del segretario dalla difesa britannico Grant Shapps, questo non sarebbe sostenibile”; il problema, meramente tecnico ma fondamentale, è che le imbarcazioni militari di missili non è che ce n’abbiano all’infinito e quello che è più grave, sottolinea Bryen, “non possono essere rifornite in mare”. Con l’aumento del numero degli attacchi da parte di Ansar Allah, in realtà rimanevano quindi due sole opzioni: o smettere di scortare i mercantili – che non era pensabile – o provare ad attaccare le postazioni dalle quali gli attacchi partivano pur sapendo che i risultati sarebbero probabilmente stati molto limitati, tanto che ancora lunedì USA e UK hanno colpito di nuovo in almeno sei località diverse, ma Ansar Allah nel frattempo – sempre più superstar assoluta per tutta l’opinione pubblica del mondo arabo – è riuscita a continuare i suoi attacchi senza grossi problemi. Ieri, ad esempio, Ansar Allah ha comunicato di aver colpito l’americana Ocean Jazz che, sempre secondo gli yemeniti, sarebbe solitamente scortata dalla marina mercantile USA e che sarebbe solitamente adibita al trasporto di attrezzatura militare statunitense di grandi dimensioni. Le 3 navi europee in dotazione a Aspides potrebbero ritrovarsi di fronte a questo dilemma ancora prima perché, molto banalmente, sostanzialmente non sono dotate di sistemi per fronteggiare i missili balistici; sappiamo che possono abbattere i droni, ma che riescano ad abbattere un missile balistico è piuttosto difficile. L’unica soluzione realistica sembrerebbe quella di impiegare, appunto, aerei da ricognizione in grado di individuare tempestivamente l’eventuale lancio di missili per poi comunicarlo alla marina USA, che sarebbe l’unica in grado di abbatterli, ma fornire intelligence alla marina USA sul nemico che sta bombardando non sarebbe poi molto diverso da partecipare direttamente alla loro missione e, quindi, entrare in guerra contro lo Yemen.

Aereo da ricognizione MQ-1 Predator

In uno slancio di ingiustificato ottimismo proviamo comunque ad attaccarci a un’ultima possibilità e cioè che entrino in gioco anche la diplomazia e il dialogo: se l’Europa garantisse che Aspides non servirà per scortare anche navi israeliane o dirette in Israele, e che si limiterà a scortare cargo e petroliere diretti verso gli altri porti del Mediterraneo, potrebbe anche strappare ad Ansar Allah l’impegno a non minacciarle con missili balistici; difficile, però, che questo gentleman agreement possa avvenire se – appunto – Aspides prevederà, come sembra scontato, l’impiego di aerei da ricognizione che ovviamente sarebbero sospettati di lavorare per gli angloamericani. Insomma, sembra che la strada sia piuttosto stretta: da un lato una missione davvero puramente difensiva che ci esporrebbe a molti rischi e, dall’altro, l’adesione sostanziale alla missione offensiva USA, che a rischio ci metterebbe tutto il nostro traffico commerciale. L’unica soluzione concreta per tutelare i nostri interessi nell’area rimane quella di affrontare il problema alla radice, e cioè il genocidio al quale, fino ad ora, abbiamo assistito – nella migliore delle ipotesi – impassibili. Qualche piccolo spiraglietto si è aperto: dopo che i familiari degli ostaggi lunedì hanno fatto irruzione alla Knesset, Israele ha annunciato di aver ripreso a parlare con Hamas di una nuova pausa e di un nuovo scambio di prigionieri. Tutto sommato, potrebbero cominciare a sentire il bisogno anche i militari israeliani: sul campo, infatti, la resistenza palestinese nonostante tutto sembra tenere botta e le forze armate israeliane, dopo aver provato a sollevare un mezzo polverone, lunedì hanno dovuto ammettere di aver subito 24 perdite in un giorno solo.
Anche sul fronte della guerra ibrida contro l’Iran probabilmente si sperava di poter ottenere qualcosa in più, a partire dalla scaramuccia col Pakistan; fortunatamente invece, dopo lo scambio di razzi, le relazioni diplomatiche sono state subito riavviate e il ministro degli esteri iraniano Abdollahian è atteso per una visita ufficiale ad Islamabad il prossimo 29 gennaio; allo stesso tempo, l’Arabia Saudita ha fatto sapere che per Israele non è troppo tardi per tornare indietro e che, se si tornasse a discutere seriamente della soluzione dei due Stati, le petromonarchie potrebbero tornare a dialogare con Tel Aviv.
Insomma, la soluzione definitiva contro la lotta di liberazione palestinese sembra sempre più un miraggio delirante, come anche la marginalizzazione dell’Iran; nel mezzo ci stanno 30 mila vittime civili totalmente gratuite che rimarranno a eterna memoria di come l’Occidente collettivo, dopo 5 secoli di dominio globale, al momento del suo declino relativo abbia avuto ancora l’energia per mostrare il peggio di sé – e questo, diciamo, nella migliore delle ipotesi. Contro i colpi di coda dell’impero in declino e i deliri suprematisti della sua macchina propagandistica, abbiamo bisogno subito di un vero e proprio media che stia dalla parte dei popoli che lottano per la loro liberazione e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani

IRAN VS PAKISTAN: la guerra si allarga all’Asia e diventa ATOMICA?

Avevate paura che il conflitto si allargasse a tutto il Medio Oriente? Che inguaribili e pucciosissimi ottimisti! In Medio Oriente, in realtà, il conflitto era regionale da ben prima del genocidio di Gaza; ora, semmai, quello che c’è da temere è che vada ben oltre.
La prima drammatica avvisaglia c’era stata il 3 gennaio scorso, quando nella città Iraniana di Kerman il più grande attentato terroristico della storia della repubblica islamica aveva causato oltre 80 vittime e poco meno di 200 feriti, un attacco che veniva da est e che allargava l’area del conflitto dal solo Medio Oriente anche al resto dell’Asia – perché in questa fase nun ce volemo fa’ manca’ proprio niente – e che, a quanto pare, era solo l’antipasto. Martedì scorso, infatti, l’Iran ha annunciato di aver portato a termine un attacco in territorio pakistano contro una roccaforte del gruppo salafita di Jaish ul-Adl – l’Esercito della Giustizia: il Pakistan ha reagito richiamando il suo ambasciatore a Teheran e invitando quello Iraniano di istanza a Islamabad, che si trovava temporaneamente anche lui a Teheran per lavoro, a restarsene a casina sua; e ha annunciato ritorsioni che, puntualmente, sono arrivate all’alba di ieri: “Il Pakistan ha attaccato un villaggio di frontiera Iraniano con dei missili” ha annunciato la tv di stato di Teheran, aggiungendo che “3 donne e 4 bambini sono stati uccisi, tutti di nazionalità non Iraniana”. Ora, il Pakistan non è un paese qualsiasi: è una potenza nucleare che due anni fa è stata travolta da un golpe parlamentare per cacciare il politico più popolare della sua storia – accusato di essere troppo vicino a Cina e Russia – e che ora è nel bel mezzo di una vera e propria catastrofe economica. Cosa mai potrebbe andare storto?

Imran Khan

Ogni luogo è noto per una specialità: a Tropea ci sono le cipolle, nelle valli del Chianti il vino, in Trentino le mele; ecco, nella regione del Belucistan ci sono le organizzazioni terroristiche; non che sia un attitudine innata, eh? Infatti non è solo la parte più povera del Pakistan, ma sconfina anche nelle parti più povere rispettivamente di Afghanistan e Iran: una combo di tutto rispetto che, da sempre, attira le intelligence dell’impero più del miele; terra di un grande movimento di massa di matrice etnonazionalista che, in linea di principio, ha più di qualche ragione, il Belucistan negli anni è diventato un vero parco giochi per CIA, Mossad e il britannico MI5. Iran, Pakistan e pure Afghanistan, sulla carta dichiarano di collaborare per tenere a bada la miriade di gruppuscoli presenti nell’area, ma la carta spesso è buona solo per pulircisi il culo: se in Iran e nel nuovo Afghanistan a guida talebana lo Stato in questa battaglia risulta piuttosto compatto, in Pakistan infatti la situazione è leggermente più complicata. Dire che la classe dirigente pakistana – infatti – è divisa è un eufemismo: 2 anni fa c’è stato il colpo di stato parlamentare contro Imran Khan e, da allora, è in corso una specie di piccola guerra civile a bassa intensità strisciante; una “guerra civile di altro tipo” la definisce Sushant Sareen, senior fellow della Indiana Observer Research Foundation. “La crisi politica in corso in Pakistan” scrive “è, senza dubbio, la sfida più seria allo Stato dalla sua nascita, anche più di quella che portò alla nascita del Bangladesh nel 1971. Allora, infatti, c’era l’establishment pakistano da un lato e una provincia e un gruppo etnico sfruttato perseguitato e discriminato dall’altro, ma l’establishment era compatto. Oggi l’establishment è in guerra con se stesso”: in particolare, sostiene Sareen, la vicenda di Imran Khan avrebbe diviso il paese, con l’uomo della strada sostenuto dalla magistratura e, in particolare, dalla corte suprema da un lato e l’esercito dall’altro; “I pilastri dello Stato” scrive Sareen “sono schierati uno contro l’altro”. Ma anche all’interno dell’esercito stesso le divisioni, ormai, sono al massimo storico: “Tradizionalmente” scrive Sareen “l’élite punjabi ha sempre sostenuto incondizionatamente i vertici dell’esercito, ma adesso una parte consistente è schierata saldamente dalla parte di Imran Khan. Tra loro, militari, ex militari e le loro famiglie, oltre ad avvocati, giornalisti, cantanti, sportivi, attori e influencer di ogni genere”; “L’intero esercito di troll che l’esercito pakistano aveva formato per condurre la sua guerra d’informazione contro l’India” continua Sareen “ora ha puntato tutte le sue armi contro l’attuale leadership militare”, che uno a questo punto si chiede: embe’? Che ce frega a noi della guerra civile in Pakistan? E che c’azzecca con l’Iran?
In realtà c’azzecca eccome perché il rischio è che nessuno, in realtà, abbia la situazione sotto controllo, e non avere la situazione sotto controllo in un paese pieno zeppo di sigle terroristiche di ogni natura – e con la bomba nucleare – non è esattamente il top; diciamo che è un po’ come sperava di ridurre la Russia il mondo libero e democratico: “Oltre alla popolazione irrequieta” spiega infatti ancora Sareen, “c’è da aspettarsi anche una nuova ondata di terrore che l’esercito non avrà gli strumenti per tenere sotto controllo”. Sareen fa l’esempio di Therik-e-Taliban Pakistan, noti anche semplicemente come i talebani pakistani ma che, al contrario dei talebani doc, avrebbero più di un debole per gli islamonazisti di Daesh: “La maggior parte di questi jihadisti” spiega Sareen “un tempo erano fanti dell’establishment pakistano. Ma come i troll punjabi, anche questi santi guerrieri ora hanno deciso di puntare le armi contro l’establishment”; difficile pensare che, in decenni di collaborazione, questi gruppi terroristici, anche nel caso siano davvero entrati in collisione con il grosso dei vertici militari, non abbiano le loro quinte colonne e i loro fiancheggiatori nel palazzo. A partire dall’ISI, i famigerati servizi di intelligence pakistani, “un’agenzia di spionaggio ben nota, ma molto poco conosciuta” come l’ha definita l’ex alto ufficiale di polizia pakistano e ora docente ad Harvard Hassan Abbas nel suo “La deriva del Pakistan verso l’estremismo”: “In Pakistan” ricorda Abbas “l’ISI non si limita a occuparsi di controspionaggio e di protezione degli interessi strategici del paese, ma svolge un ruolo di primo piano anche a livello interno: crea instabilità, sfida i partiti politici, si infiltra ovunque, crea partiti politici per sostenere il regime militare e per manipolare le elezioni”. E l’ascesa dell’ISI è tutta opera degli USA: erano gli anni ‘80, il Pakistan era al posto giusto nel momento giusto per aiutare gli USA a sostenere i mujahiddin afghani contro l’Unione Sovietica e l’ISI era lo strumento più adatto; da allora l’ISI è sempre stata combattuta tra due tendenze: la vicinanza all’Islam più radicale e quella ai suoi sponsor occidentali (che non sempre sono due cose così poi diverse).
E così torniamo agli ultimi fatti di cronaca: al centro della vicenda, appunto, ci sarebbe il gruppo terroristico di Jaish ul-Adl, l’esercito della giustizia – ovviamente divina; è un gruppo salafita che si sostiene sia nato all’inizio dello scorso decennio e che fa parte della vasta galassia di organizzazioni terroristiche che rivendicano la nascita di un etnostato del Belucistan. Sulla carta, quindi, non dovrebbero essere visti di buon occhio da Islamabad, eppure… Secondo The Indian Express, ad esempio, il Pakistan “avrebbe consentito a questi gruppi terroristici separatisti di operare per volere dell’ex rivale dell’Iran, l’Arabia Saudita”: ora, ovviamente anche qui a parlare sono gli indiani che, per ovvie ragioni, sul Pakistan non sono esattamente sempre la fonte più affidabile e imparziale, ma il sospetto, diciamo – per usare un eufemismo – è piuttosto diffuso. Di nuovo, per essere chiari: nessuno qui sostiene che i vertici militari e dell’intelligence pakistana addestrino, fomentino e offrano protezione incondizionata a questi gruppi per fare contenti i sauditi e l’Occidente collettivo; il punto, ribadiamo, è che quei vertici ormai sono sempre più deboli e infiltrati, e che tra le varie quinte colonne ci sia anche chi spinge per chiudere un occhio è qualcosa di più che una semplice possibilità, e non solo in chiave anti – iraniana. I gruppi terroristici del Belucistan, infatti, sono da sempre l’ostacolo più grande alla realizzazione e messa in funzione delle varie infrastrutture finanziate dai cinesi nell’ambito del China Pakistan Economic Corridor, il singolo pacchetto in assoluto più imponente di tutta la Belt and road initiative, e che attraversa proprio tutto il Belucistan per sfociare al porto di Gwadar: un investimento gigantesco anche perché, oltre alle infrastrutture, prevede la costruzione di una gigantesca zona economica speciale a ridosso del porto destinata a diventare un hub industriale e logistico di portata globale; per la regione più povera del già poverissimo Pakistan un’opportunità incredibile che, però, i sedicenti etnonazionalisti boicottano da anni a suon di attentati. Lo so bene perché, per 4 anni, ho provato ad andarci di persona e non sono mai riuscito: l’ambasciata pakistana non mi ha mai rilasciato le autorizzazioni. Troppo pericoloso. Ovviamente, per chi vuole ostacolare l’integrazione del supercontinente eurasiatico questi gruppi sono un alleato naturale strepitoso: se non ci fossero, andrebbero inventati.

Pakistan

L’attacco iraniano e la risposta pakistana – quindi – sono un altro tassello della famosa guerra mondiale a pezzi che vede contrapposti Nord e Sud Globale? In un certo senso sicuramente sì, ma c’è anche il rischio di correre con le sovrainterpretazioni: lo scorso dicembre Jaish ul-Adl ha attaccato un posto di polizia nella piccola città Iraniana di Rusk; lo scontro a fuoco con gli agenti di polizia iraniani è durato ore e, alla fine, ne sono morti 12. Non è un caso isolato: nel 2019, infatti, avevano rivendicato un attentato suicida durante il quale erano stati uccisi 27 membri dei Pasdaran, e in molti sospettano abbiano giocato un ruolo nell’attentato di Kerman del 3 gennaio; come sottolinea un altro ricercatore sempre dell’Observer Research Foundation, leggere l’attacco iraniano alle loro postazioni come un altro tassello del “gioco strategico in corso in Medio Oriente, potrebbe essere un po’ forzato”. “La questione di gruppi come Jaish e le tensioni tra Iran e Pakistan sulla militanza dei baluchi” continua l’articolo “sono anteriori alla guerra in corso a Gaza o al deterioramento della situazione della sicurezza nel Mar Rosso. Nel corso degli anni l’Iran ha spesso ribadito che avrebbe preso di mira i nascondigli di Jaish all’interno del Pakistan, e lo scontro a fuoco tra le truppe al confine tra i due paesi è stato un evento regolare. Questo incidente” conclude l’articolo “è da considerarsi una questione unicamente bilaterale e di gestione delle frontiere tra i due paesi”.
Idem con patate la reazione pakistana: quasi “un atto dovuto” sottolinea la testata Pakistana Dawn; a essere presi di mira, infatti, anche in Iran sarebbero stati altri nascondigli di altri gruppi terroristi del Balucistan e il comunicato ufficiale del governo sottolinea che “Il Pakistan rispetta pienamente la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica islamica dell’Iran” e aggiunge che “l’unico obiettivo dell’atto di oggi era il perseguimento della sicurezza e dell’interesse nazionale del Pakistan, che è fondamentale e non può essere compromesso”. “L’Iran è un paese fraterno” continua il comunicato “e il popolo pakistano nutre grande rispetto e affetto per il popolo iraniano. Abbiamo sempre enfatizzato il dialogo e la cooperazione nell’affrontare le sfide comuni, inclusa la minaccia del terrorismo, e continueremo a sforzarci di trovare soluzioni comuni”. Insomma: ci avete fatto fare una figura di merda e soprattutto – in questa fase dove già c’abbiamo mezzo paese contro – non potevamo sconigliare, e in qualche modo dovevamo reagire. Ora però diamoci tutta una bella calmata.
Tutto tranquillo quindi? Non esattamente: ammesso e non concesso che la scaramuccia abbia esclusivamente a che fare con i rapporti bilaterali, la frontiera e la lotta al terrorismo, il problema comunque rimane; come in Medio Oriente, anche ad est dell’Iran 50 anni di destabilizzazione sistematica hanno creato mostri. Per sconfiggerli, come minimo, ci vorrebbero stati nazionali solidi e in salute capaci di garantire il pieno controllo del territorio e di difendersi dalle infiltrazioni, soprattutto se – e sottolineo se – c’è qualcuno che quei mostri continua a coccolarli e nutrirli come fossero animali da compagnia. Purtroppo il Pakistan, come molti stati nazionali del Medio Oriente, non è mai stato meno solido e in salute di adesso e qualcuno da fuori, in questo senso, ha dato il suo contributo (e non sono certo i cinesi, che vogliono costruire ponti, strade, centrali elettriche, porti e insediamenti industriali), con la piccola aggravante qui che appunto il Pakistan, per quanto messo male, l’atomica continua ad avercela – e all’Iran, pare, mancherebbe pochino.
Insomma, tutto tranquillo un par di palle: non mi pare tanto il caso di assistere impassibili. Come minimo ci serve un media che ci faccia incazzare tutti. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Gramellini

La Reazione di Iran e Yemen l’Asse della Resistenza scopre il bluff di USA e Israele

“Quando il tuo nemico ti induce ad aggravare i tuoi errori, senza raggiungere i tuoi obiettivi militari” scrive John Helmer sul suo sempre utilissimo blog “ti sta conducendo a un’escalation di forza che, prima o poi, ti sconfiggerà” e, continua, “più a lungo si protrae la faccenda, più costosa e rovinosa sarà la sconfitta”. Ed è con questa massima in testa che dobbiamo cercare di interpretare “la lunga guerra Arabo – Iraniana contro Israele e gli Stati Uniti che fino ad oggi non erano mai stati ritenuti capaci di combattere”. Helmer ricorda come tutti i manuali dell’esercito americano quando si parla di vincere una battaglia concordano su una cosa e cioè, come scriveva il celebre capitano britannico Liddell Hart, che “Per avere successo è necessario risolvere due problemi principali: dislocazione e sfruttamento. Uno precede e l’altro segue il colpo vero e proprio, che in confronto è un atto semplice”. Ma dopo gli attacchi aerei USA e UK dei giorni scorsi e continuati ancora martedì, sottolinea Helmer, a sfruttarli sembra siano sempre gli yemeniti, che avrebbero mantenuto l’iniziativa: lo ribadisce in una bella intervista di Andrea Nicastro sul Corriere della Serva di ieri Nasr al-Din Amer, presidente dell’agenzia di stampa yemenita Saba e anche vice capo della comunicazione di Ansar Allah. “Gli Usa dicono di aver già distrutto il 30% delle vostre capacità militari” commenta Nicastro; “Fesserie” sentenzia Amer: “Hanno colpito vecchie basi già bombardate durante la guerra con la coalizione internazionale che ci ha combattuto per 9 anni”.
Allora, ricorda Amer, “a metterci la faccia erano i sauditi”, ma a sostenerli erano sempre gli americani, che “spesso partecipavano direttamente anche con i loro aerei”. “Quindi”, continua, “niente di nuovo, avevano quelle geolocalizzazioni e le hanno usate. Uno show! Non ci hanno fatto nulla”.

Francesco dall’Aglio

Ovviamente, anche la sua è propaganda: i nuovi attacchi missilistici degli yemeniti di martedì pomeriggio contro una nave mercantile di proprietà greco – americana nel golfo di Aden però sono reali, come anche quelli della notte contro un’altra imbarcazione USA; come è reale anche il fatto – riportato dal nostro Francesco Dall’Aglio sulla sua pagina Facebook – che, sempre marted,ì “Omar al-Ameri, maggiore dell’esercito regolare yemenita” e protagonista di primissimo piano per 15 anni della guerra civile sostenuta da sauditi e occidentali contro gli Houthi, abbia cambiato casacca e sia “passato dalla loro parte con le sue truppe, accolto con entusiasmo e perdono generale per le passate colpe”. “Dal 2011 noi yemeniti ci siamo divisi su tutto” afferma sempre Amer nell’intervista sul Corriere “ma ora siamo uniti contro Israele per difendere Gaza. Ci sostiene persino chi ci ha ucciso nella guerra civile, e anche l’opposizione espatriata ci ha teso la mano”. Anche i missili che l’Iran ha lanciato martedì non sono solo propaganda: come ricorda il blog Moon of Alabama, avrebbero distrutto il quartier generale dell’ISIS a Idlib, in Siria, e anche quello delle milizie affiliate all’Al Qaida siriana di Hayat Tahrir al-Sham; come sottolinea sempre Moon of Alabama “La traiettoria più breve dall’Iran a Idlib in Siria è di almeno 1.200 chilometri. L’Iran ha così dimostrato di poter colpire in modo affidabile obiettivi a quella distanza. I missili utilizzati, denominati Kheibar Shekan hanno una portata massima di 1.450 chilometri”; come ha sottolineato con grande enfasi la stampa israeliana, era la prima volta che un missile iraniano copriva una distanza del genere.
Ma l’attacco che necessariamente avrà più conseguenze è quello che dall’Iran ha puntato dritto su Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno; il corpo delle guardie della rivoluzione islamica, come riportato dal canale Telegram Colonnel Cassad, avrebbe annunciato di aver colpito ben 4 obiettivi sensibili: la base americana presso l’aeroporto, il consolato americano, la sede locale del servizio di sicurezza curdo e soprattutto l’abitazione di quello che il New York Times definisce semplicemente “un uomo d’affari qualsiasi”, uccidendo lui e sua figlia. Peccato che l’uomo d’affari in questione sia nientepopodimeno che Peshraw Dizayee, il fondatore della Falcon Security Services, che dal 2003 – dopo l’invasione USA dell’Iraq – si occupa di commerciare petrolio iracheno in Israele; secondo Al Mayadeen, nella sua abitazione si stava svolgendo un incontro tra agenti del Mossad e alcuni leader di alcune fazioni separatiste iraniane presenti in Iraq, un incontro che sarebbe servito “a pianificare le modalità per minare la sicurezza iraniana, sia a livello interno, sia in senso più ampio, il ruolo regionale dell’Iran” riporta sempre Al Mayadeen. Prima di commentare l’attacco, riporta John Helmer, i media statunitensi hanno temporeggiato per qualche ora per poi affermare che “ci sono state esplosioni vicino al consolato americano a Erbil, ma nessuna struttura statunitense è stata colpita”. Boris Rozhin, caporedattore di Colonnel Cassad, non è proprio convintissimo: “Secondo un amico che vive nel centro di Erbil” scrive “il colpo non è caduto sull’attuale consolato, ma su quello nuovo, che è in costruzione”. Il New York Times ci tiene a sottolineare che, in questo modo, gli iraniani si sono dati la zappa sui piedi; se negli ultimi giorni, finalmente, era arrivata la richiesta ufficiale da parte irachena che, dopo 20 anni abbondanti di occupazione, per gli americani forse era finalmente arrivata l’ora di levarsi di torno, ora l’attenzione si sarebbe spostata su Teheran, con Baghdad che ha addirittura presentato una protesta formale all’ONU contro “l’aggressione”.
“Come finirà la cosa ?” chiede un utente sulla pagina di Dall’Aglio; “Ascolteranno pensosamente” risponde il Bulgaro, “poi la Russia metterà il veto a qualsiasi decisione, Cina astenuta. USA, UK, Francia condannano, arrivederci e grazie”. Il punto vero, piuttosto, è che l’equilibrio in Iraq è parecchio instabile e anche i curdi – che sono alleati fedeli di USA e Occidente collettivo – giocano un ruolo importante: con il recente voto del parlamento che aveva chiesto ufficialmente alle truppe USA di sloggiare, erano stati messi in minoranza; ora, ovviamente, sono ben contenti di poter sfruttare questo attacco per sottolineare che l’Iraq non è ancora al sicuro e ha bisogno dell’aiuto delle forze di occupazione. Vedremo nelle prossime settimane se tutto questo li ha effettivamente rafforzati.

Qasem Soleimani

In realtà – ma magari è solo una deformazione mia – più che l’Iraq, a me quello che mi preoccupa, come sempre, è il Pakistan: anche qui, infatti, sono arrivati razzi iraniani; l’obiettivo, ovviamente, sono sempre le roccaforti dei gruppi affiliati all’ISIS Khorasan, che ha rivendicato il sanguinoso attacco terroristico di un paio di settimane fa a Kerman durante l’anniversario della morte di Qasem Soleimani, e i pakistani non l’hanno presa proprio benissimo, diciamo. “Questa violazione della sovranità pakistana” hanno tuonato in un comunicato ufficiale del governo “è del tutto inaccettabile e potrebbe avere serie conseguenze”: la prima è stata che hanno detto all’ambasciatore iraniano in Pakistan, che si trovava in quel momento casualmente a Teheran, di rimanersene dov’era e di non azzardarsi a tornare a Islamabad. Magari è proprio questo attrito ad essere piaciuto agli indiani; sempre martedì, infatti, il ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar si è incontrato a Teheran con il presidente iraniano Ebrahim Raisi per poi intrattenersi a lungo anche con il ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian: “La nostra discussione bilaterale” ha twittato poi Jaishankar “si è concentrata sul quadro a lungo termine per il coinvolgimento dell’India con il porto di Chabahar e il progetto di connettività dell’International North – South Transport Corridor”, il corridoio infrastrutturale che dovrebbe collegare Bombay a Mosca passando proprio attraverso l’Iran.
Anche quelli che consideriamo nostri alleati ormai hanno troppi interessi in comune con i nostri nemici; figuriamoci quelli che alleati non lo sono per niente: poche ore prima, infatti, a scambiare una lunga chiacchierata telefonica con Abdollahian era stato Lavrov. Secondo John Helmer, avrebbero confermato l’intenzione di procedere a “un coordinamento a tutti i livelli” tra i due paesi, “sottolineando il costante impegno reciproco nei confronti dei principi fondamentali delle relazioni russo – iraniane, compreso il rispetto incondizionato della sovranità e dell’integrità territoriale”. Insomma: l’Iran si è finalmente sbilanciato a favore dell’asse della resistenza e non sembra pagare chissà quale dazio; certo, “un blocco navale” ricorda Nicastro ad Amer nella solita intervista sul Corriere “potrebbe impedirvi di ricevere armi”, ma secondo Amer, tutto sommato, “non sarebbe un problema, perché sappiamo fabbricarle completamente in Yemen”. “La tesi che riceviamo aiuti dall’Iran è falsa” sostiene Amer, che argomenta “Durante i 9 anni di guerra, il mare era chiuso, il confine con l’Arabia Saudita anche, ma i nostri depositi si sono riempiti con armi sempre più efficienti”. Ora, magari detta così è un po’ esagerata, ma un fondo di verità c’è, eccome! Come ricorda Moon of Alabama, infatti, “L’asse della resistenza è un insieme di gruppi vagamente collegati all’Iran. Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane ha contribuito al loro addestramento, ma ha fatto molto di più di quanto avrebbe fatto il normale addestramento militare statunitense. Ha incoraggiato questi gruppi a mettersi in contatto tra loro e a scambiare conoscenze e ora collaborano a tutti i livelli. L’Iran ha introdotto nuove tecnologie e armi, ha insegnato a ciascun gruppo come crearne delle copie. E Oggi Houthi e iracheni si scambiano piani per la costruzione di missili e droni”. “L’asse della resistenza” continua Moon of Alabama “è diventato così un insieme di entità del tutto autonome che non dipendono più dalle consegne o dagli ordini provenienti dall’Iran, che però seguono tutte la stessa ideologia anticoloniale”. “Tutti i gruppi dell’asse della resistenza sono sciiti e vicini all’Iran” afferma Nicastro sempre nella solita intervista: “è una guerra religiosa?” “Hamas è sunnita” risponde Amer; “La jihad islamica è sunnita. I palestinesi sono sunniti. Non è una questione di sette, ma di essere schiavi degli americani oppure no”.
Il conflitto regionale in Medio Oriente dura da 50 anni, una serie infinita di divisioni di ogni genere fomentate ad hoc dall’impero nella più classica delle applicazioni del caro vecchio principio del divide et impera; tutte queste divisioni continuano a pesare, ma forse finalmente – per la prima volta da decenni – l’obiettivo comune di liberarsi dall’insostenibile pesantezza del dominio coloniale e postcoloniale ha costretto qualcuno ad andare oltre le divisioni settarie e a condurre una battaglia unitaria, ricorrendo alla religione come collante ideologico. In molti in Occidente storcono la bocca e più si definiscono progressisti, e più la storcono; preferiscono parlare di democrazia e di socialismo in astratto e vedere i popoli scannarsi tra loro in concreto. Forse è arrivata l’ora di mettere da parte un po’ di hubris eurocentrica e riconoscere umilmente che dei giudizi e dei consigli di chi vive nella colonia europea ed è stato letteralmente spazzato via dalla battaglia politica, i popoli in cerca di autodeterminazione probabilmente se ne fanno pochino.
Forse è arrivata l’ora di avere un vero e proprio media che sta dalla parte dell’anti – imperialismo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.


E chi non aderisce è Elly Schlein 

YEMEN: se il paese più povero del mondo mette fine alla globalizzazione

Come dice Alberto Negri, in Medio Oriente la guerra è già regionale da 50 anni: senza questa semplice premessa il rischio di prendere fischi per fiaschi rimane altino, diciamo; a partire dallo Yemen e dal Mar Rosso. Iniziamo dalla cronaca: come saprete tutti benissimo, tra le forze regionali che con più vigore hanno reagito militarmente alla guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, spiccano gli Houthi che da noi vengono definiti ribelli – o addirittura terroristi – e, ovviamente, niente più che marionette in mano a Teheran che, per la proprietà transitiva, ha mutuato lo stesso potere paranormale dell’amico Putin: riuscire ad essere a un passo dal collasso e, allo stesso tempo, una superpotenza politica e militare alla quale tutte le altre forze della regione obbediscono senza battere ciglio. Potrebbe non essere una narrazione esattamente rigorosissima, diciamo; quelli che chiamiamo Houthi – ma che sarebbe più appropriato chiamare col loro vero nome e cioè Ansar Allah – infatti, in realtà ormai altro non sono che il governo di uno stato che, dopo oltre 15 anni di conflitti fratricidi, sta lottando per riaffermare la sua sovranità. Certo, un governo ancora non riconosciuto in un paese ancora diviso, ma che è ormai stabilmente in controllo della stragrande maggioranza del paese, che mette assieme diverse forze politiche e che, sostanzialmente, è uscito vincitore da una lunghissima e sanguinosissima guerra contro un’alleanza che, sulla carta, è ordini di grandezza più potente e che va dagli Emirati ai sauditi e gode del sostegno incondizionato di Washington; ovviamente, tutto questo senza il sostegno di Teheran non sarebbe stato possibile, come non sarebbe stata possibile in Libano l’eroica resistenza di Hezbollah, ma la caricatura che ne fa la nostra propaganda – di veri e propri pupazzi telecomandati dall’Iran – è una semplificazione becera che, come sempre, impedisce di capire cosa sta accadendo.

Il logo di Ansar Allah

Ansar Allah, come Hezbollah, sono forze di governo che godono di un vastissimo consenso popolare e che guidano le rispettive lotte di liberazione nazionale in un contesto regionale di lotta generalizzata contro quel che rimane del dominio coloniale; ora, come tutti sapete, sin dallo scoppio del genocidio di Gaza Ansar Allah – appunto – ha cominciato a prendere di mira Israele. All’inizio si trattava fondamentalmente di azioni dimostrative: razzi e droni diretti verso Israele e, in particolare, la Miami israeliana di Eilat, che però venivano piuttosto sistematicamente intercettati e abbattuti, prima di raggiungere la loro destinazione, proprio dai sauditi; al ché, Ansar Allah ha cominciato a prendere di mira le navi che passavano dallo stretto di Bab el-Mandeb, la porta di ingresso nel Mar Rosso, e che erano dirette in Israele. Una leva potentissima: da quel minuscolo stretto passano, infatti, il 30% dei container di tutto il mondo che sono stati costretti a cambiare strada, causando danni incalcolabili alla logistica globale proprio mentre ancora, tra tensioni geopolitiche e post covid, le supply chain – le catene del valore globale – continuano a vivere una situazione di stress come non si era mai vista dall’inizio della grande globalizzazione. Toccando il tasto dolente della logistica globale, Ansar Allah ha alzato vistosamente l’asticella da diversi punti di vista: il primo, immediato, è che bloccando le navi dirette in Israele concretamente causava danni molto più rilevanti di quelli causati da razzi e droni di avvertimento; il secondo è che trasformava una guerra locale in un problema globale che ricade sul groppone degli USA. Tra i compiti principali dell’Impero, infatti, c’è proprio quello di garantire la libera circolazione delle merci nei mari; è uno degli aspetti che, per decenni, ha giustificato il preteso eccezionalismo USA: certo – è vero – saranno pure l’unica superpotenza rimasta e sicuramente se ne approfittano pure, ma senza questa superpotenza chi sarebbe in grado di garantire che le merci possono spostarsi in sicurezza da un capo all’altro del mondo? Un ruolo che, ovviamente, è diventato ancora più fondamentale con la globalizzazione: se i paesi del Nord globale potevano permettersi di delocalizzare la produzione laddove gli tornava più conveniente, era anche perché c’era una superpotenza che gli garantiva che quelle merci poi sarebbero sempre arrivate in sicurezza a destinazione; ora l’entusiasmo per le delocalizzazioni e la globalizzazione sicuramente non è più al suo apice, e si preferisce parlare piuttosto di decoupling, di derisking e di reshoring o di nearshoring, ma il fatturato delle grandi corporation transnazionali dipende ancora (e dipenderà ancora a lungo ancora) da questo meccanismo.
Per gli USA ,quindi, intervenire per riportare ordine in quel collo di bottiglia strategico è oggettivamente inevitabile: sta scritto proprio nel suo DNA e nel DNA dell’ordine mondiale che ha imposto a sua immagine e somiglianza; e infatti, per settimane, nelle principali testate mainstream internazionali – quelle che fanno da megafono all’agenda delle oligarchie del Nord globale e la impongono come senso comune al resto della popolazione mondiale – non si è fatto che chiedere un intervento degli USA. D’altronde, per la più grande superpotenza militare della storia dell’umanità mettere a cuccia le forze armate del paese più povero del Medio Oriente, che è ancora nel bel mezzo di una guerra civile, non dovrebbe essere chissà che mission impossible. O, almeno, è inevitabilmente l’idea che si fa chiunque dia credito proprio alla propaganda suprematista che prova ancora a convincerci che gli USA abbiano i superpoteri; potrebbe non essere un’analisi proprio accuratissima. Un primo tentativo, ricordava ancora ieri Bloomberg, era stato fatto passando appunto da Teheran: “In privato” scrive Bloomberg “gli Stati Uniti hanno inviato ripetuti messaggi segreti all’Iran, esortandolo a fermare gli attacchi Houthi”. I più maliziosi, tra questi avvertimenti ci vedono addirittura anche l’attentato a Kerman dell’Isis Khorasan, che molti ritengono essere nient’altro che un’organizzazione fantoccio totalmente eterodiretta dall’asse che tiene assieme USA, Israele e petromonarchie del Golfo: “Teheran” però, continua Bloomberg, avrebbe risposto “di non avere alcun controllo sul gruppo”, risposta che però non convince la testata newyorkese che ricorda come “l’intelligence britannica” abbia a lungo dato indicazioni e fornito prove “che gli Houthi si rifornivano di armi che potevano essere ricondotte all’Iran” che è un’osservazione anche ragionevole, intendiamoci, che però la propaganda mainstream si fa solo quando riguarda gli altri. Quando viene fuori che Israele non potrebbe durare una settimana in più senza il sostegno degli USA, a nessuno gli viene in mente di dire che Israele è uno stato fantoccio eterodiretto da Washington, come non viene in mente neanche nel caso ancora più eclatante dell’Ucraina, ma se in ballo ci sono gli arabi diventa incontrovertibile, alla faccia del doppio standard.

Jonathan Panikoff

In realtà, comunque, Teheran non è l’unica a sostenere che gli Houthi tutto sommato fanno un po’ come cazzo gli pare: secondo Jonathan Panikoff, direttore della Scowcroft Middle East Security presso l’Atlantico Council, ad esempio, “questi gruppi hanno tutti il proprio processo decisionale indipendente. E questo non dovrebbe essere sottovalutato”; comunque, dipenda o meno da Teheran, fatto sta che questi avvertimenti sono serviti a poco e Ansar Allah non solo ha continuato per la sua strada, ma ha gradualmente intensificato gli attacchi fino a quando Washington non si è decisa a intervenire. Come tutti ricorderete, infatti, il mese scorso il segretario alla difesa USA Lloyd Austin ha fatto una videochiamata con un po’ di alleati ed ha annunciato la missione Prosperity Defense che però, evidentemente, non ha esattamente arrapato tutti: gli USA – pare – avevano cercato di coinvolgere i cinesi; d’altronde, il grosso delle navi che passa da lì sono cariche di merci cinesi, e figurati se i cinesi – materiali come sono – rinunciano a difendere i loro traffici in nome della solidarietà alla causa palestinese. Evidentemente, però, sono meno materiali di quello che pensano a Washington e nelle redazioni di mezzo mondo e hanno risposto picche; ma quello che ha colpito di più è che hanno risposto picche pure emiratini e sauditi che contro gli Houthi ci sono in guerra da 15 anni. Forse in ballo non c’è solo la solidarietà, magari; forse, molto più prosaicamente, c’è l’idea che militarizzare ancora di più l’area, invece che ristabilire la sicurezza della navigazione, potrebbe peggiorare la situazione.
D’altronde, però, bisogna stare anche attenti da farsi prendere da facili entusiasmi; il fallimento della chiamata alle armi della Prosperity Defense non significa certo che il grosso del mondo ormai è schierato a fianco di Ansar Allah in difesa della lotta di liberazione palestinese e contro il genocidio, e per averne una prova provata non si è dovuto manco aspettare tanto: mercoledì scorso, infatti, il consiglio di sicurezza dell’ONU ha messo ai voti una risoluzione di condanna nei confronti degli Houthi. E’ passata a stragrande maggioranza, con 11 voti a favore e 4 astenuti: tra i 4 astenuti anche Russia e Cina, e cioè due membri permanenti del consiglio che quindi hanno potere di veto che, però, hanno deciso di non utilizzare; gli unici che continuano imperterriti a ricorrere al diritto di veto – anche quando sono soli contro tutti – sono gli USA che, dall’inizio del massacro, vi hanno fatto ricorso continuamente per impedire venisse imposto un cessate il fuoco. Il mancato ricorso al veto da parte di Russia e Cina ha deluso molti, e non senza ragioni: in molti, infatti, sostengono che c’è poco da mediare e che di fronte al massacro a cui stiamo assistendo il muro contro muro è l’unica opzione sensata. La Cina, però, sembra continuare a vederla diversamente e a ragionare sui tempi lunghi: un veto alla risoluzione di condanna degli attacchi, infatti, sarebbe stato uno sgarbo diplomatico nei confronti di parecchi interlocutori, dalle petromonarchie del Golfo ai paesi europei più titubanti; la Cina, invece, ha optato come sempre per la mediazione, cercando di porre le basi per una convergenza la più ampia possibile in nome del diritto internazionale. La sintesi cinese allora suona più o meno così: va bene condannare le azioni degli Houthi, ma soltanto tenendo conto che sono una conseguenza inevitabile del massacro in corso a Gaza: aveva fatto anche un emendamento per sottolineare il legame tra le due cose, ma è stato bocciato; è importante ricordare che poche ore prima del voto di questa risoluzione gli Houthi avevano portato a termine quello che Bloomberg definisce “il suo più grande attacco di missili e droni mai realizzato nel Mar Rosso” e così, subito dopo il voto all’ONU, Biden è passato all’attacco. “Le forze americane e britanniche” riporta Bloomberg “hanno colpito installazioni radar, siti di stoccaggio e siti di lancio di missili e droni utilizzando aerei da combattimento dell’aeronautica americana e della portaerei USS Eisenhower, nonché missili Tomahawk lanciati da un sottomarino e navi di superficie” e, non contenti, dopo 24 ore c’hanno pure ribadito, portando a termine un altro attacco “contro un’installazione radar che non era stata completamente distrutta la notte prima”.
Secondo i più esagitati, in soldoni Russia e Cina gli avrebbero dato il via libera. La realtà potrebbe essere più complessa: ovviamente, infatti, la risoluzione dell’ONU in qualche modo legittimava almeno parzialmente l’intervento USA, ma non è che lo autorizzava; sostanzialmente, quindi, dal punto di vista del diritto internazionale non ha cambiato granché. Allo stesso tempo, dal punto di vista diplomatico, il mancato ricorso al veto ha rafforzato la credibilità cinese di potenza pacifica che lavora per il dialogo e la mediazione e rispetta il diritto internazionale. Risultato? L’Arabia Saudita ha lodato la posizione cinese, mentre ha condannato gli USA nonostante l’obiettivo dei loro attacchi sia un loro acerrimo nemico. E anche sull’utilità di questi attacchi ci sono parecchie perplessità: come ricorda Bilal Y Saab di Chatham House sul Financial Times, infatti, “Gli Houthi sono sopravvissuti per anni alla campagna di bombardamenti della coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita. Attacchi limitati da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, non importa quanto dolorosi o chirurgici, avranno effetti limitati”. Simplicius The Thinker, come sempre, è decisamente più drastico: “Gli Stati Uniti e la loro piccola e isolata marmaglia di servili alleati” scrive “hanno attaccato lo Yemen con un attacco assolutamente impotente che non ha fatto e non avrà alcun effetto sul continuo blocco del Mar Rosso da parte dello Yemen”. Da un certo punto di vista, addirittura, potrebbero averli rafforzati: come ha dichiarato Iona Craig, giornalista e inviata in Yemen dal 2010 al 2015 su Declassified UK, “Tutto questo ha reso gli Houthi estremamente popolari. Ho parlato con moltissimi yemeniti che stavano dalla parte opposta durante la guerra civile, e che mi hanno detto guarda, noi odiamo gli Houthi, ma ammiriamo quello che stanno facendo. Nessun altro sta supportando la causa palestinese come loro”. “La campagna di bombardamento di Stati Uniti e Regno Unito nello Yemen” ha scritto su X l’ex portavoce del commando USA a Baghdad e a Sanaa Nabeel Khoury “ è un altro fallimento della diplomazia di Biden: non voleva una guerra a livello regionale, ora ne ha una; voleva la pace nello Yemen, ora è in guerra con gli Houthi – chiunque gli abbia detto che questo li avrebbe scoraggiati si sbagliava di grosso, questo li radicalizzerà ulteriormente!”. “Il punto” scrive Foreign Policy “è che gli USA in Yemen non hanno nessuna buona opzione”: se non interviene, sancisce la fine della Pax Americana e il suo status di superpotenza garante della sicurezza del commercio marittimo; se interviene col freno a mano tirato, non risolve il problema e, comunque, rafforza i suoi nemici, e se interviene in grande stile rischia di impantanarsi in una guerra regionale in grande stile dove potrebbe prendere più sberle di quelle che ha preso in Ucraina, spianando alla Cina la strada verso lo status di unica grande superpotenza globale in grado di dirimere le controversie internazionali con il dialogo e la diplomazia.

Lloyd Austin

Insomma: lo stato di salute dei leader dell’Occidente collettivo non sembra essere esattamente al top, letteralmente: il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha ordinato attacchi contro gli Houthi dall’ospedale dove era stato ricoverato per un cancro alla prostata che aveva tenuto nascosto al resto dell’amministrazione. Come sentenzia sempre Simplicius, siamo di fronte a “un regime decrepito guidato da un presidente senile e un segretario di stato debilitato, che ordinano massacri illegali dalle loro case di cura e dai letti d’ospedale contro la nazione più povera della terra, praticamente lo stesso giorno in cui il loro principale alleato affronta accuse di genocidio e crimini contro l’umanità davanti al tribunale dell’Aia”. “Per l’impero delle bugie” conclude Simplicius “le prospettive non sono mai state peggiori”; per dargli la mazzata finale abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lloyd Austin

Attacco allo Yemen: cosa sta succedendo?

Il tanto temuto allargamento del conflitto in Medio Oriente alla fine c’è stato, o quanto meno c’è stata una ulteriore tappa nell’escalation che con un fuoco incrociato ha coinvolto varie paesi e vari soggetti negli ultimi mesi. Quali sono le conseguenze dell’attacco in Yemen? Si andrà verso una guerra a bassa intensità tra Houthi da una parte e Stati Uniti e Regno Unito dall’altra, o in gioco entreranno altri attori, come l’Iran ad esempio… e Cosa farà l’Arabia Saudita? E la Cina? Ne parliamo in questo video.

ITALIA IN GUERRA – Perché da Hitler a Netanyahu l’Italia è sempre al fianco del colonialismo più feroce

Conflitto in Medio Oriente”; “Nave italiana in prima linea”.
Oohhh, lo vedi? Dai, dai! Il prurito alle mani che tormentava i sostenitori italiani del genocidio e della pulizia etnica trova finalmente un piccolo sfogo e l’Italia così, dopo la solita inevitabile sfilata di fake news, doppi standard e ipocrisia un tot al chilo, finalmente entra ufficialmente in guerra e si riposiziona nel posto che gli è più congeniale: quello di cane da compagnia del colonialismo più feroce disponibile sul mercato. Da Hitler, a Biden e Netanyahu.

La fregata Virgilio Fasan

Il riferimento, ovviamente, è alla decisione di spedire la nostra fregata lanciamissili Virgilio Fasan nel mar Rosso per contrastare il nodo dell’asse della resistenza che, al momento, sembra più determinato a sostenere la lotta di liberazione del popolo palestinese contro la forza di occupazione e lo sterminio indiscriminato dei bambini arabi: Ansar Allah, i partigiani di Dio dello Yemen. La nave della Marina militare farà parte di una flotta composta da mezzi provenienti da una decina di nazioni, e che avrebbe lo scopo di proteggere le imbarcazioni commerciali di Israele e dei paesi che sostengono il suo genocidio dalle reazioni che hanno scatenato in tutta la regione: “L’Italia” ha dichiarato solennemente il ministro degli affari dell’industria militare Guido Big Jim Crosetto “farà la sua parte per contrastare l’attività terroristica di destabilizzazione degli Houthi” dove per terrorismo, ovviamente, si intende banalmente tutto quello che viene fatto per tentare di salvare la vita al futuro terrorista che si nasconde in ogni bambino palestinese, “e tutelare la prosperità del commercio garantendo la libertà di navigazione”. Tradotto: compagno Netanyahu, stermina chi te pare che, alle brutte, le spalle te le copriamo noi (e senza che, ovviamente, la questione fosse portata in Parlamento). D’altronde quando l’ordine arriva dall’alto non è che ti puoi mettere tanto a disquisire con la scusa dei riti della pagliacciata che è diventata la democrazia parlamentare, e qui l’ordine è stato perentorio: una breve comunicazione via teleconferenza da parte del compagno Lloyd Austin, ed ecco fatto.
D’altronde non si è trattato altro che di anticipare un po’ un’operazione già a lungo programmata: la Fasan, infatti, già a inizio estate aveva partecipato a un’esercitazione con le squadre navali USA alla fine della quale aveva ottenuto il patentino che le concede l’onore di fare da bodyguard alle portaerei dell’impero; l’arsenale di bordo, infatti, dovrebbe essere in grado di intercettare tutte le armi a disposizioni della resistenza Houthi, dai droni ai missili balistici, e anche senza l’annuncio di questa missione che, ironicamente, è stata battezzata Prosperity Guardianguardiani della prosperità, alla facciaccia di quegli animali umani che abitano a Gaza – sarebbe comunque partita verso il golfo di Aden il prossimo febbraio. D’altronde – fa sapere il governo – garantire la sicurezza della navigazione è essenziale per gli interessi di tutti voi consumatori: vedersi bloccare il canale di Suez per l’irresponsabilità di questi maledetti terroristi significa aumentare a dismisura i costi della logistica. Un po’ come costa proteggere gli extraprofitti registrati dalle aziende durante questi anni di iperinflazione, che hanno visto i consumatori impoverirsi e le oligarchie arricchirsi a ritmi mai visti; in quel caso, però, contro l’avidità delle oligarchie di fregate ne abbiamo viste pochine, e manco di tasse sugli extraprofitti: quella sulle banche, dopo essere stata annunciata in pompa magna, nel giro di due mesi è sparita del tutto pure dalla legge di bilancio.
A questo giro, però, non si tratta di far pagare i super – ricchi, ma i bambini di Gaza e, oggettivamente, è più semplice: mica c’hanno i giornali, le Tv, le lobby e il potere di far schizzare verso quota 500 lo spread. T’immagini? L’Italia condanna i bambini di Gaza allo sterminio: lo spread impenna.

Mario Sechi

Lo sprezzo di quel che rimane della nostra democrazia – dimostrato aderendo all’operazione militare senza passare dal Parlamento – ha gasato i più appassionati tra i sostenitori del genocidio: Mario Sechi su Libero ci invita a immaginarci “Un governo Conte – Schlein in questo scenario: avremmo già issato la bandiera bianca consegnandoci come nazione neutrale nelle mani dei commissari del popolo di Putin e Xi Jinping”; come ricorda il carabiniere giornalista Claudio Antonelli dalle pagine de La Pravda dell’Alt Right infatti, “in ballo c’è ben più della sicurezza nel mar Rosso: si tratta di contrastare le manovre di Mosca e Pechino lungo la Via della Seta”. Come giustamente sottolinea Antonelli, infatti, “non si può non notare che la potenza militare degli Houthi non giustifica il dispiegamento di un’intera flotta di queste dimensioni”; “le posizioni delle batterie missilistiche” continua Antonelli “sono conosciute al millimetro e gli USA potrebbero intervenire all’istante grazie ai satelliti”. Difficile qui capire quando questo sia un giudizio equilibrato e quanto invece sia l’ennesimo delirio di onnipotenza di un suprematista qualsiasi; di sicuro, però, c’è che pattugliare quell’area è un modo per tenere per le palle i cinesi che, ovviamente, sono i produttori del grosso delle merci che transitano attraverso Suez per arrivare nella sponda settentrionale del Mediterraneo. I primi ad avere interesse che si ristabilisca questa benedetta libertà di navigazione, a regola, dovrebbero essere proprio loro, soprattutto dal momento che anche la strada alternativa è sostanzialmente chiusa per lavori: “Il canale di Panama” ricorda Federico Bosco su Il Foglio, infatti, “è gravemente limitato da una siccità che ne riduce la portata”. Eppure, appunto, i cinesi alla Prosperity Guardian non sono stati chiamati a collaborare. Strano: in passato, nel golfo di Aden, USA e Cina hanno lavorato di comune accordo contro la pirateria e per la sicurezza della navigazione; non è mai stato pubblicizzato più di tanto ma, come scriveva il Council on Foreign Relations già nel 2013, “Lontano dai riflettori, la cooperazione nel Golfo di Aden ha fornito sia alla Cina che agli Stati Uniti un canale vitale per contatti militari sempre più intensi in un contesto di sfiducia prolungata nell’Asia Pacifico. In effetti” continua l’articolo “le due marine hanno recentemente condotto un’esercitazione anti – pirateria congiunta. E In futuro” conclude “la cooperazione non tradizionale in materia di sicurezza nei mari lontani è destinata a svolgere un ruolo ancora più importante nel rafforzare le relazioni militari sino – americane”.
Bei tempi, quando ancora i suprematisti USA pensavano di poter tenere al guinzaglio la Cina e che, magari, a Hu Jintao in Cina sarebbe subentrato un presidente ancora più espressione diretta delle oligarchie cinesi invischiate con la finanza USA e la Cina avrebbe abbandonato – così – la sua strada verso il socialismo con caratteristiche cinesi e abbracciato le magnifiche sorti e progressive del totalitarismo neoliberista. A Hu Jintao, invece, è subentrato Xi Dada, e il socialismo con caratteristiche cinesi, da oggetto di scherno degli intellettuali fintoprogressisti del Nord globale, è diventato elemento di ispirazione per tutti i paesi che tentano di uscire dal dominio coloniale; e anche la lotta alla pirateria, da elemento di collaborazione tra le due superpotenze, si è trasformata nell’ennesima scusa per provare a ostacolare manu militari l’ascesa economica e politica cinese. E così, oggi, i pattugliamenti cinesi nell’area continuano: in questo caso però – sottolinea il Global Times – si tratta di “missioni anti – pirateria autorizzate dalle Nazioni Unite” e che hanno il solo scopo di garantire il transito “degli aiuti umanitari diretti a Gaza”; l’operazione guidata dagli USA, invece, “non ha l’autorizzazione dell’ONU, e rischia solo di intensificare la crisi a Gaza”.
D’altronde, da oltre 2 mesi, l’unico obiettivo degli USA all’ONU è proprio ostacolare con le scuse più ridicole ogni progresso verso un cessate il fuoco ricorrendo al veto e, in queste ore, ancora sta facendo di tutto per far slittare ancora il voto in Consiglio di Sicurezza dopo che l’assemblea generale dell’ONU ha adottato – per la seconda volta consecutiva a larghissima maggioranza – una risoluzione che spinge, appunto, verso il cessate il fuoco. Come ha sottolineato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese martedì scorso “Ci auguriamo che gli Stati Uniti ascoltino la voce della comunità internazionale, smettano di bloccare scientificamente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e inizino a svolgere il ruolo dovuto nel promuovere un cessate il fuoco immediato e prevenire una catastrofe umanitaria ancora più grande”.
Come cambia il mondo, eh? Quelli che, per 50 anni, hanno accusato chiunque non si sottomettesse ai suoi interessi di essere stati canaglia – per poi bombardarli – oggi sono considerati dalla comunità internazionale l’unico vero stato canaglia; ed ecco così che, a parte l’Italia e una manciata di altri vassalli, a non aver risposto alla chiamata alle armi USA sarebbero in parecchi: “Secondo i rapporti” riporta sempre il Global Times “Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Oman si sarebbero rifiutati di aderire all’operazione. E’ facile vedere” continua l’articolo “come a partecipare all’operazione siano pochi paesi della regione, che sembrano anzi piuttosto preoccupati che questa operazione possa intensificare il conflitto”. D’altronde sarebbe stato difficile spacciarla come qualcosa di ragionevole alle proprie opinioni pubbliche, tutte indistintamente solidali con la causa palestinese: come ha dichiarato ad Al Mayadeen Mohamed al-Bukahiti, uno dei più autorevoli leader di Ansar Allah, “Lo Yemen attende la creazione della coalizione più sporca della storia per impegnarsi nella battaglia più sacra della storia”, e si chiede “Come verranno percepiti i paesi che si sono affrettati a formare una coalizione internazionale contro lo Yemen per proteggere gli autori del genocidio israeliano?”. Nel frattempo, intanto – riporta sempre Al Mayadeen – la Malesia impone il divieto di attracco alle navi israeliane. “La geopolitica del Medio Oriente” sottolinea Global Times “è estremamente complessa, e ogni piccola azione può avere conseguenze di vasta portata. Nella regione gli Stati Uniti hanno avviato numerose guerre e istigato molte rivolte, ma hanno anche subito molte battute d’arresto, e hanno pagato un prezzo elevato. Il motivo è che gli USA non hanno mai assunto una posizione equa, e non hanno mai preso in considerazione gli interessi concreti dei paesi del Medio Oriente, ma hanno sempre messo avanti a tutto esclusivamente le proprie esigenze egemoniche. Gli USA ora vorrebbero disimpegnarsi, ma mantenendo comunque la loro posizione dominante nella regione. Non si vogliono più impegnare nei conflitti regionali, ma usano ancora la tattica di sostenere l’uno e colpire l’altro per consolidare piccoli circoli di interesse. Un simile approccio però” conclude il Global Times “non farà altro che intensificare, anziché calmare, le turbolenze nella regione”.

Guido “Big Jim” Crosetto

Circa un secolo fa, una classe dirigente di svendipatria di professione ha deciso di ridurre il nostro Paese in cenere per sostenere i deliri suprematisti del colonialismo occidentale più feroce; oggi i loro degni eredi si apprestano a gettare l’intero Paese in un drammatico remake di quell’orrendo filmaccio, campi di concentramento inclusi: l’ultima moda dell’esercito di occupazione a Gaza, infatti è spingere le persone nei campi profughi senza cibo, acqua, elettricità e servizi sanitari, e poi bombardarli. Sembra sia la soluzione più razionale: coi tempi che corrono, il caro vecchio gas ormai – probabilmente – costerebbe troppo. Io, ecco – anche solo per non essere sottoposti domani a una sacrosanta nuova Norimberga -, direi che forse è il caso di costruirci per lo meno un media dove sia possibile dichiarare che noi, molto educatamente, ci dissociamo e che non saremmo proprio intenzionati a collaborare a questa nuova Shoah alla rovescia (se è permesso, eh?); còmprati oggi la tua prova certificata per il processo contro i collaborazionisti di domani: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Guido Crosetto

LA DISFATTA – Gaza, Ucraina, Vietnam: per l’Imperialismo USA la débâcle è MONDIALE

Dopo il settecentesimo voto all’ONU di praticamente tutto il resto del mondo contro l’asse del male USA – Israele – Ucraina più qualche isola della Micronesia, Zio Biden finalmente è stato costretto a far finta di fare la predica a Netanyahu. L’obiettivo? Convincerlo ad accontentarsi di questi 10 mila bambini trucidati e tornare a cancellare la Palestina dalla storia, come era buona usanza prima del 7 ottobre: in silenzio, senza fare troppo rumore, un insediamento illegale e una nuova legge segregazionista alla volta. Nel frattempo, anche per la retorica bellicista in Ucraina è arrivato il momento di fare un passo indietro; d’altronde basta chiedere ai mezzi di produzione del consenso di cambiare, dal giorno alla notte, il senso della parola vittoria: fino a ieri significava riconquistare tutti i territori persi dopo il 24 febbraio (e pure la Crimea). Oggi, come ha affermato il capo del consiglio di sicurezza ucraino Danilov alla BBC, “Già aver continuato a combattere per due anni può essere considerato una vittoria”; e senza l’approvazione di un bel pacchetto di aiuti sostanzioso, il rischio immediato – nei prossimi mesi – è ritrovarsi con un’Ucraina in bancarotta e senza manco più l’accesso al mare.
Anche in Asia le cose vanno peggio del previsto; il Vietnam, ad esempio, veniva annoverato tra le punte di diamante di quella che veniva definita l’Alt Asia, e cioè i paesi in via di sviluppo asiatici che potevano diventare la nuova Cina: altrettanto convenienti, ma molto più docili nei confronti dell’Occidente. Evidentemente, a Washington di cominciare a capire che il mondo è cambiato continuano a non averne molta voglia; l’era delle repubbliche delle banane nel Sud del mondo, infatti – temo – è tramontata per sempre e i paesi sovrani di essere arruolati in qualche schieramento non ne vogliono sapere. Ed ecco così che martedì, ad Hanoi, veniva accolto in pompa magna Xi Dada per inaugurare una nuova stagione di partnership strategica ai massimi livelli tra i due paesi. Attenzione, però: questo non significa che il Vietnam abbia deciso di schierarsi con la Cina; ha deciso piuttosto, appunto, di fare i suoi interessi. Il punto, però, è che un mondo di stati sovrani che fanno i loro interessi e dialogano alla pari con tutti è proprio il mondo che vorrebbe la Cina. E l’incubo degli USA che ormai, ogni giorno che passa, sembrano sempre più intrappolati tra l’incudine e il martello: da un lato vorrebbero continuare a imporre al mondo l’ordine unipolare creato dalla globalizzazione neoliberista dove, al centro, c’è il loro impero finanziario e tutt’attorno gli altri, che possono accompagnare solo; dall’altro, però, dopo aver toccato con mano il fatto che dopo 40 anni di finanziarizzazione non hanno più un’industria in grado di sostenere una guerra contro un’altra grande potenza, vorrebbero “make america great again”.
Il rischio serio è che non abbiano più gli strumenti per perseguire né l’uno né l’altro obiettivo; per l’Occidente collettivo, abituato a dominare incontrastato con la forza il pianeta da ormai 5 secoli, sembra quasi essere una prospettiva inverosimile: ed eccoli, così, che si rifugiano nel mondo incantato della post verità. Lunedì, al senato, Fratelli d’Italia ha organizzato un seminario: “I vantaggi di un mondo post Russia”, era il titolo. E se fosse arrivato il momento giusto per mandarli tutti a casa?
Martedì scorso è tornata in scena l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, chiamata a riunirsi di nuovo in via straordinaria dopo poco più di un mese dal voto del 26 ottobre: sul piatto, ovviamente, c’era – di nuovo – la risoluzione per la richiesta di un cessate il fuoco immediato a Gaza. Venerdì scorso, infatti, per la quinta volta dall’inizio del conflitto il veto USA a sostegno della guerra di Israele contro i bambini di Gaza aveva impedito al consiglio di sicurezza di prendere una decisione; e così la palla torna all’assemblea generale, dove gli USA e l’asse del male dei paesi che appoggiano lo sterminio della popolazione civile di Gaza avevano basse aspettative. Già il 26 ottobre, infatti, erano stati messi in minoranza e l’assemblea aveva approvato la risoluzione per un soffio: 120 favorevoli contro 14 contrari e 45 astenuti. Per approvare una risoluzione relativa a conflitti in corso, l’assemblea generale dell’ONU – infatti – deve superare la maggioranza qualificata dei due terzi che, a quel giro, era stata superata di appena un voto e, da allora, per il Nord globale e per i sostenitori dello sterminio unilaterale come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali le cose non hanno fatto che peggiorare. Il 7 novembre scorso, infatti, si era riunito il terzo comitato dell’Assemblea Generale dell’ONU, responsabile delle questioni relative agli affari sociali e ai diritti umani; l’Occidente collettivo aveva votato compatto per impedire l’adozione di una risoluzione che condannava l’“uso di mercenari come mezzo per violare i diritti umani e impedire l’esercizio del diritto dei popoli all’autodeterminazione”, contro una delibera che prevedeva la “promozione di un’equa distribuzione geografica dei membri degli organi previsti dal Trattato sui diritti umani” (e cioè che a decidere sulle questioni inerenti i diritti umani non fossero sempre e solo i rappresentanti di una piccola minoranza di paesi privilegiati), contro una risoluzione che mirava a promuovere “diritti umani e diversità culturale” – che non sia mai che qualcuno si metta in testa che esistono altre culture legittime, oltre a quella delle ex potenze coloniali – e pure contro un’altra per la “promozione di un ordine internazionale democratico ed equo”. Ma tutte e 4 le volte, fortunatamente, era stato preso a pesci in faccia, ma di brutto proprio: 123 a 54, 126 a 52, 128 a 52 e 130 a 54, che per gli standard USA all’ONU – ormai – comunque è già un mezzo successo, diciamo.
Quattro giorni prima, ad esempio, aveva perso 187 a 2: in ballo c’era la vecchia questione della fine del bloqueo, l’embargo criminale degli USA contro la popolazione cubana che va avanti da oltre 60 anni e che permette agli USA di affamare manu militari un intero popolo e poi dare la colpa al socialismo; a votare contro insieme agli USA – giustamente e coerentemente – il regime fondato sull’apartheid dello stato di Israele. Unico astenuto – l’ultimo bastione della difesa dei valori occidentali contro l’avanzata dei regimi totalitari asiatici – l’Ucraina di Zelensky.
Ma Cuba non è l’unico tema che comincia a presentare delle fratture anche all’interno stesso dell’asse del male dei paesi del Nord globale: spinti da una gigantesca mobilitazione popolare fatta di centinaia di migliaia di persone che, da due mesi, invadono piazze e strade di tutto il pianeta per esprimere la loro indignazione nei confronti del sostegno incondizionato dei loro governi allo sterminio dei bambini di Gaza, anche i paesi dell’Occidente collettivo hanno cominciato a manifestare qualche segno di insofferenza. Tutto sommato, come avevamo annunciato, era abbastanza prevedibile: mano a mano che il tempo passa, infatti, diventa sempre più difficile giustificare la carneficina con il miraggio irrealistico dell’annichilimento di Hamas; in due mesi di sterminio indiscriminato, Israele non sembra essere stato in grado di raggiungere un obiettivo militare che sia uno, ed è sempre più difficile dissimulare la natura meramente genocida dell’operazione militare. Il sostegno dell’Occidente collettivo ad Israele non ha fatto altro che compattare il Sud globale e avvicinare tutto il mondo islamico alle grandi potenze emergenti, accelerando il processo di isolamento delle ex potenze coloniali dal resto del mondo; come abbiamo raccontato in un altro video giusto 3 giorni fa, Putin è stato accolto negli Emirati e in Arabia Saudita come un vero imperatore, e delegazioni di paesi arabi e islamici continuano a recarsi a Pechino, riconoscendole il ruolo di unica grande superpotenza mondiale in grado, oggi, di operare attivamente per la pace e il ritorno della diplomazia, mentre USA e Unione Europea continuano a sfidare ogni senso del pudore continuando ad accusarla di islamofobia per violazioni – più o meno immaginarie – dei diritti umani nello Xinjiang.
Ed ecco, così, che quando martedì sera all’ONU è arrivato il momento della conta, gli USA si sono ritrovati letteralmente accerchiati; prima i due emendamenti presentati dagli USA stessi e dall’Austria sono stati brutalmente rimandati al mittente: insistevano affinché la risoluzione condannasse esplicitamente Hamas. Una sfumatura che nasconde tanta sostanza: accusare Hamas, infatti, è funzionale a descrivere l’operazione in corso invece che come uno sterminio deliberato con finalità genocide da parte delle forze di occupazione, al limite come un semplice eccesso nell’esercizio del diritto alla difesa. Ma la batosta più grande è arrivata al momento del voto della risoluzione: i 120 voti a favore di un mese e mezzo fa, sono diventati 153; in buona parte, sono defezioni che pesano, eccome. Gli USA perdono per strada il sostegno di paesi fondamentali per la loro strategia neocoloniale in Europa, dalla Polonia, ai paesi Baltici; perdono inoltre gli alleati fondamentali per la grande guerra dell’Asia – Pacifico: Australia, Giappone e Corea del Sud, e perdono pure l’unico presunto alleato vero che gli era rimasto nel Sud globale, e cioè l’India di Modi. Gli unici che continuano a vedere con simpatia lo sterminio sono l’Italia e la Germania.
Una batosta epocale che, finalmente, costringe Biden a cambiare un po’ passo: “Duro scontro Biden Netanyahu sulla guerra a Gaza” titola La Repubblichina; “Biden sconfessa Netanyahu” rilancia con un titolone a 4 colonne il Corriere della serva. Rilanciando la sua celebre massima secondo la quale “se non ci fosse stato Israele, ce lo saremmo dovuti inventare”, Biden ha invitato di nuovo l’alleato a non commettere “gli errori che abbiamo commesso noi dopo gli eventi dell’11 settembre” e lo ha messo in guardia: “Israele” ha sottolineato “può contare sul nostro sostegno e su quello dell’Europa e del mondo, ma ha cominciato a perderlo a causa di bombardamenti indiscriminati”. Per riconquistare il sostegno incondizionato dell’Occidente globale nei confronti dell’occupazione e della pulizia etnica, Biden ha annunciato di aver esortato il primo ministro israeliano a procedere con un rimpasto di governo: “L’attuale governo” sottolinea Biden “è il governo più conservatore della storia di Israele” e appoggiandolo incondizionatamente, continua, “ci sono paure reali in varie parti del mondo che l’America potrebbe vedere intaccata la sua autorità morale”; questo è bastato a scatenare da un lato le reazioni furibonde delle componenti più smaccatamente clericofasciste del governo Netanyahu e, dall’altro, l’entusiasmo nelle redazioni dei più moderati tra i sostenitori occidentali del genocidio, ma in realtà potrebbe essere più fuffa che altro. Il piano, infatti, sembra essere piuttosto chiaro: continuare la pulizia etnica – ma con un po’ più di tatto e di savoir faire -, nominare un governo di unità nazionale che “unisca di nuovo gli Israeliani” e rimettere sul tavolo la questione dei due stati ma, proprio come avveniva prima del 7 ottobre, semplicemente come arma di distrazione di massa per tenersi buoni gli alleati arabi che sono stati costretti a dimostrare un po’ di solidarietà nei confronti dei palestinesi per non farsi impalare dalle piazze ma che, in realtà, della causa palestinese – ovviamente – se ne strasbattono i coglioni.
Una svolta, quindi, più cosmetica che altro, ma anche le svolte cosmetiche segnalano sempre qualcosa di più profondo; e, in questo caso, segnalerebbero – appunto – le difficoltà degli USA, che sono per lo meno costretti ad ammorbidire i toni per cercare di mettere un argine all’emorragia di consensi che la loro leadership globale continua a subire, da Gaza all’Ucraina. La seconda notizia del momento, infatti, è il ritorno di Zelensky a Washington: come scrive SIMPLICIUS The Thinker sul suo profilo su Substack “Il Circo Zelensky arriva in città per un ultimo bis”, e anche qui siamo di fronte a un altro arretramento e a un altro tentativo di cambiare la narrativa. Il capo del consiglio per la sicurezza nazionale dell’Ucraina Alexey Danilov, intervistato dalla BBC, lo ammette piuttosto chiaramente: se fino a pochi mesi fa vittoria significava nientepopodimeno che riprendersi tutti i territori e pure la Crimea, oggi il semplice “fatto che abbiamo continuato a difendere il nostro paese per due anni è già una grossa vittoria”; insomma, chi s’accontenta gode. D’altronde oggi le priorità sono cambiate: oggi la priorità è evitare, da un lato, la bancarotta e dall’altro che Putin in primavera si possa riprendere Kharkiv e poi pure Odessa, ricongiungendosi così alla Transnistria e escludendo l’Ucraina dall’accesso al mare; sostanzialmente significherebbe costringere l’Ucraina a costruire e mantenere rapporti di buon vicinato con la Russia, dalla quale dipenderebbe per accedere al mare e, quindi, ai mercati internazionali, entrambe ipotesi che senza un sostanzioso nuovo pacchetto di aiuti da parte degli USA potrebbero rivelarsi drammaticamente realistiche. Per gli interessi strategici USA sarebbe un’altra sberla di dimensioni veramente epiche, motivo per cui, tendenzialmente, sono abbastanza convinto che – alla fine – una qualche soluzione la troveranno, ma al momento è tutt’altro che scontato. Dopo che il congresso, la settimana scorsa, ha negato l’approvazione del nuovo pacchetto da 60 miliardi di aiuti, Zelensky è corso a Washington per provare a convincere i repubblicani: come riporta sempre SIMPLICIUS, “Zelensky avrebbe garantito la volontà di mobilitare altri 500 mila cittadini ucraini. In sostanza gli sta dicendo che se gli danno altri soldi, si impegna a mandare nuova carne da macello al fronte per indebolire la Russia”, ma tra i trumpiani la promessa non sembra avere fatto molta breccia. “Zelensky è qui a Washington oggi per elemosinare i vostri soldi” scrive su Twitter la turbotrumpiana Marjorie Taylor Green “ e Washington guerrafondaia vuole dargli dollari americani illimitati. Quanti soldi spenderà Washington per massacrare un’intera generazione di giovani ucraini mentre Washington combatte la sua guerra per procura contro la Russia?”

Al posto di 60 miliardi, per ora Zelensky si è dovuto accontentare di 200 milioni; un po’ pochino: come ricorda Simplicius, il Kyev Indipendent nel settembre scorso titolava “La guerra contro la Russia costa all’Ucraina 100 milioni al giorno”.
Ma per gli USA c’è anche un terzo fronte che inizia vistosamente a scricchiolare: è quello delle alleanze dell’Asia – Pacifico per contenere la Cina; ne avevamo parlato un paio di settimane fa, quando i titoli dei giornali erano tutti concentrati sul bilaterale tra Xi e Biden nella location dove avevano girato Dynasty a San Francisco, e si erano dimenticati di raccontare cosa stava succedendo attorno. Quello che stava succedendo era la riunione annuale dell’APEC, durante la quale i partner asiatici degli USA si aspettavano di portare a casa la firma definitiva dell’IPEF – l’Indo Pacific Economic Framework – l’accordo commerciale che avrebbe dovuto garantire un bel flusso di investimenti in dollari nell’area e che, però, è malamente naufragato: a opporsi all’IPEF, infatti, erano stati la sinistra democratica e i sindacati – che uno dice: e da quando mai i sindacati e la sinistra democratica contano qualcosa negli USA? Beh, semplice: da quando Biden, mentre veniva preso a sberle dai russi in Ucraina, ha realizzato che quel poco di industria che era rimasta ancora negli USA non era sufficiente per fare la guerra contro una grande potenza. Soluzione? Make america great again: una quantità spropositata di incentivi pubblici per reindustrializzare gli Stati Uniti che, però, potrebbe essere più semplice da dire che da fare, e non solo perché significa aumentare deficit e debito pubblico a dismisura proprio mentre sempre più paesi in giro per il mondo – dopo che hanno visto che fine fanno le riserve in dollari non appena fai qualcosa che non piace a Washington – di comprarsi tutto sto debito non è ce n’abbiano poi tantissima voglia; c’è un problema ancora più profondo. Quando gli USA, infatti, tra delocalizzazioni e finanziarizzazione hanno deciso di devastare la loro capacità produttiva, non l’hanno fatto per capriccio; sono stati costretti. Dopo decenni di stato sviluppista e di politiche keynesiane, infatti, i lavoratori avevano accumulato così tanto potere da mettere seriamente a rischio la gerarchia sociale su cui si fonda il capitalismo, dove io che c’ho il capitale so io, e te non sei un cazzo.
Come scriveva Huntigton nella celebre relazione commissionata nel 1973 dalla commissione trilaterale – e che poi in Italia venne tradotta con tanto di introduzione del compagno Gianni Agnelli – negli USA ormai c’era un eccesso di democrazia che metteva a repentaglio il dominio dei capitalisti; bisognava dare una bella sforbiciata alla democrazia e, per farlo, la cosa migliore era massacrare il mondo del lavoro, che è dove la democrazia nasce e acquista potere: le delocalizzazioni e la finanziarizzazione sono stati gli strumenti che hanno permesso, appunto, di massacrare il mondo del lavoro – e quindi l’eccesso di democrazia che stava turbando i sonni degli onesti multimiliardari. E per 50 anni ha funzionato benissimo: i capitalisti hanno fatto una montagna di quattrini spropositata e gli USA, da una vivace democrazia, si sono trasformati in un’oligarchia; peccato, però, che a guadagnarci non siano stati solo i capitalisti occidentali, ma anche gli stati sovrani del Sud del mondo che si sono sviluppati e ora minacciano il dominio USA.
Ecco quindi che gli USA tornano a investire nella loro industria, ma il problema che 50 anni fa li ha spinti a devastare il tessuto produttivo mica è stato risolto: è sempre lì, ed è bastato tornare a investire nell’economia reale che s’è già fatto sentire, eccome. I lavoratori dell’automotive, negli ultimi mesi, hanno condotto una battaglia epocale che li ha portati a strappare aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro senza precedenti, e potrebbe essere soltanto l’inizio: “L’inaspettata rinascita dei sindacati americani” titolava ieri un allarmatissimo Financial Times; “Secondo un’analisi di Bloomberg” riporta l’articolo “più di 485.000 lavoratori statunitensi hanno partecipato a 317 scioperi nel 2023, più di qualsiasi altro momento negli ultimi due decenni”. Sono gli stessi sindacati che all’APEC hanno impedito agli USA di rafforzare la loro egemonia nel Sudest asiatico sulla pelle dei lavoratori americani a suon di investimenti per continuare i processo di delocalizzazione e un bel mercato per le loro merci a basso prezzo. Il risultato? Questo: Xi Jinping che viene accolto in pompa magna in Vietnam, appena due settimane dopo l’APEC di San Francisco, per annunciare – come riporta Global Times – “una nuova fase di maggiore fiducia politica reciproca, cooperazione in materia di sicurezza più solida, cooperazione più profonda e reciprocamente vantaggiosa, sostegno popolare più forte, coordinamento multilaterale più stretto e migliore gestione delle differenze”.
Giorno dopo giorno, con una rapidità impensabile fino anche solo a un paio di anni fa, ogni evento di una certa rilevanza sullo scacchiere globale sta lì a certificare che gli USA – al di là di sostenere qualche genocidio in Medio Oriente o lo sterminio di qualche decina di migliaia di soldati in qualche stato fantoccio utilizzato per guerre per procura di ogni genere – oggettivamente non sembrano avere più gli strumenti materiali per continuare a sostenere il dominio sul mondo delle proprie oligarchie; l’unica fortuna che gli rimane è che negli stati vassalli continua a sopravvivere una classe dirigente di scappati di casa che sembrano completamente incapaci anche solo di comprendere cosa gli sta succedendo attorno. Di fronte ai millemila eventi epocali degli ultimi giorni, le prime pagine dei giornali filo – governativi ieri sembravano una parodia: “Case occupate, è svolta” titolava Il Giornale; “Meloni antifascista” rispondeva Libero; “La Meloni in Aula fa a pezzi sinistra e Conte” rilanciava La Verità: da nessuna parte né un titolo sull’impasse israeliana, né uno sulla débâcle di Zelensky, né uno sul Vietnam. Niente. Solo ed esclusivamente armi di distrazione di massa per un popolo di bottegai che si crogiola beato nel suo declino, mentre al senato il principale partito di governo organizza un convegno che sembra una messinscena di Borat: “I vantaggi di un mondo post – Russia” si intitolava.

Giuliomaria Terzi di Sant’Agata

A organizzarlo, l’ex ambasciatore italiano in Israele e Stati Uniti, nonché ministro degli esteri di uno dei peggiori governi in assoluto della storia repubblicana: Giuliomaria Terzi di Sant’Agata, erede del nobile casato lombardo dei Terzi, simbolo eccellente di un paese precipitato di nuovo nell’oscurantismo feudale dove la classe dirigente è così scollegata dalla realtà da impiegare il suo tempo per chiedersi “Cosa succederà quando la Russia non sarà più una federazione ma sarà spaccata in 25 piccoli stati autonomi?
Mai come oggi lo possiamo dire con chiarezza: altro che there is no alternative, altro che il grande disegno del capitale che ha sconfitto i lavoratori ed è destinato a dominare incontrastato in eterno: qui siamo di fronte a degli scappati di casa alla canna del gas. E’ arrivata l’ora di rialzare la testa e di mandarli a casa, dal primo all’ultimo: per farlo, abbiamo bisogno di prima di tutto di un vero e proprio media che sia in grado, giorno dopo giorno, di smascherare le buffonate che ci vorrebbero spacciare al posto dell’informazione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuliomaria Terzi di Sant’Agata

Delegazione arabo-islamica in Cina e vertice straordinario BRICS su Gaza: cosa sta succedendo?

All’inizio di questa settimana è arrivata a Pechino una delegazione di paesi arabo-islamici, che comprende, tra gli altri, i ministri degli esteri dell’Arabia Saudita, della Giordania, Egitto, Indonesia, Autorità Nazionale Palestinese e il segretario generale dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Al centro dei colloqui la guerra tra Israele e Gaza, e per la delegazione è l’inizio di un tour di mediazione internazionale che dovrebbe riguardare tutti i cinque paesi del consiglio di sicurezza delle nazioni unite, e la prima tappa è stata la Cina. Questo è accaduto lunedì, mentre martedì si è tenuta la riunione straordinaria dei paesi BRICS con al centro la questione israelo-palestinese. Ma come si sta evolvendo la posizione cinese in riferimento al conflitto? Ne parliamo in questo video!

[LIVE LA BOLLA] Petromonarchie vs Asse delle Resistenza – con Fabio Mini, Matteo Capasso e il Bulgaro

Diretta domenicale con “La Bolla”: dalla risoluzione bocciata dalla Lega Araba, alle prove di intesa all’interno dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, passando per gli annunci di Nasrallah e per la gigantesca mobilitazione propalestinese nell’occidente collettivo che comincia a far emergere qualche crepa nell’asse del male del suprematismo bianco, riusciremo mai a creare un’alleanza in grado di arrestare la guerra ingaggiata da Israele contro i bambini arabi? Ne parliamo con Matteo Capasso, Marie Curie Global Fellow tra l’Università Ca’ Foscari di Venezia e la Columbia University di New York, il generale Fabio Mini, Clara Statello e il nostro amato bulgaro Francesco dall’Aglio.

GAZA: l’incredibile scandalo del Business Plan per portare a termine la Pulizia Etnica

Make Ethnic Cleansing Cool Again! Rendiamo di nuovo la Pulizia Etnica una cosa figa, cool.
Questo, in estrema sintesi, il programma dell’Institute for Zionist Strategies, in assoluto uno dei più influenti think tank israeliani. I curriculum dei fondatori, infatti, farebbero invidia a qualsiasi altro centro di potere del pianeta: si va dal 3 volte ministro della difesa Moshe Arens al nobel per l’economia Robert Aumann, premiato nel 2005 per “aver accresciuto la nostra comprensione del conflitto e della cooperazione attraverso l’analisi della teoria dei giochi”.

Robert Aumann

La sua tesi è illuminante: la pace porta alla guerra, mentre per prevenire la guerra servono più armi e più guerra. Anche Moshe Ya’alon è stato ministro della difesa, il giusto coronamento di una lunga carriera nelle forze armate israeliane durante la quale ha avuto un ruolo di primissimo piano in tutte le più atroci operazioni condotte contro la resistenza palestinese negli ultimi 40 e passa anni. Anche Natan Sharansky è stato ministro svariate volte: prima dell’interno, poi della casa – dando carta bianca agli insediamenti illegali dei coloni e radendo al suolo migliaia di case palestinesi – e poi addirittura vice primo ministro. Di origine russe, Sharansky è stata una delle più famose spie statunitensi durante l’Unione Sovietica, tanto da beccarsi una condanna a 13 anni in un campo di lavoro in Siberia; insomma, siamo ai piani alti che più alti non si può, e i risultati si vedono.
L’idea di trasformare Israele in uno stato etnico, con la definizione ufficiale di “Stato-nazione per il popolo ebraico” formalizzata nell’ormai lontano 2018 senza che la propaganda suprematista gli dedicasse manco una riga, c’è infatti proprio l’Institute for Zionist Strategies, come d’altronde è sempre farina del sacco dell’istituto anche la proposta di riforma costituzionale antidemocratica e illiberale che negli ultimi mesi ha scatenato le proteste degli oppositori del governo Netanyahu, sostenitori di un apartheid più dolce e meno ostentato. Ma non pensate che si tratti di un istituto intriso di giudaofascismo come i ministri più impresentabili del governo in carica, eh?
Tutt’altro: semmai, sembrano più una sorta di Italia Viva o di Calenda israeliani, una cacofonia di retorica liberale dirittumanista mischiata a un po’ di sano suprematismo e a tanto tanto ultra-liberismo da stadio. Insomma, per sintetizzare, Michele Boldrin. Ecco, immaginatevi un paese dove Michele Boldrin, oltre a sproloquiare sul web, conta qualcosa. Un incubo.
“Israele” si legge nella presentazione sul loro sito “è la realizzazione del sogno vecchio di 2000 anni del popolo ebraico di ritornare nella sua terra come nazione libera e sovrana. Il moderno stato-nazione è stato fondato sui valori ebraici tradizionali, ed è una vivace democrazia ebraica che promuove gli interessi della nazione ebraica” e “l’Istituto per le Strategie Sioniste (IZS) promuove e rafforza il carattere ebraico di Israele”. Ma dove il suprematismo diventa pura distopia è qui: “Le libertà personali, la giustizia e i diritti umani” scrivono “sono parte integrante del sistema di valori ebraico e sono anche centrali per una forma di governo democratica. Esistono tuttavia” – sottolineano – “aree di potenziale tensione tra i due valori e occorre trovare soluzioni che sostengano il carattere ebraico di Israele tutelando al tempo stesso i diritti individuali. L’Istituto per le Strategie Sioniste” concludono, è “l’unica istituzione in cui le persone che sostengono i diritti umani e sostengono anche Israele come stato ebraico possono sentirsi a proprio agio sapendo che non dovranno sacrificare un ideale per l’altro”. Dirittumanismo suprematista su base etnica, cioè riconosciamo a tutti i diritti umani, ma quali siano i diritti umani da riconoscere lo devono decidere solo gli ebrei, e gli altri o si adeguano oppure ecco che scatta la Pulizia Etnica.
Il primo vero e proprio piano per la pulizia etnica dell’Istituto risale ormai a diversi anni fa: “Regional settlement” si chiamava il programma. Insediamento regionale; un programma talmente illuminato che, effettivamente, concedeva ai palestinesi la possibilità di costituire finalmente il loro stato, però da un’altra parte. Non è una battuta: il programma, infatti, consisteva nel convincere Egitto e Giordania a cedere una fetta di territorio sufficiente per trasferirci forzatamente il grosso dei palestinesi che sono sfuggiti alla prima pulizia etnica del ‘48, e a quel punto, con grande slancio di generosità, permettere ai palestinesi di fondare tutti gli stati nazionali che vogliono. Fortunatamente, nonostante la fonte autorevole, allora nessuno gli prestò particolare attenzione; nei dieci anni successivi, però, nel silenzio complice di tutti quanti – a partire da quelli che oggi si dichiarano solidali con la popolazione palestinese ma sdegnati dalla violenza scoppiata il 7 ottobre scorso e impartiscono lezioni non richieste alla resistenza palestinese sulle modalità giuste di lotta da impiegare – i rapporti di forza tra i carnefici e le vittime si sono spostati inesorabilmente a favore dei primi e quello che 10 anni fa sembrava una provocazione di qualche invasato, oggi è diventato argomento di dibattito nella classe dirigente. Ed ecco così che il piano delirante per la definitiva pulizia etnica si ripresenta, e a questo giro non più semplicemente come una visionaria provocazione per aprire un dibattito, ma proprio sotto forma di piano dettagliato, con tanto di numeri e bilanci. “Un piano per il reinsediamento e la riabilitazione definitiva in Egitto dell’intera popolazione di Gaza” si intitola il documento: “non c’è dubbio” si legge nell’incredibile report redatto pochi giorni fa dall’istituto e scovato nei meandri del web dagli amici di The Grayzone “che affinché questo piano possa realizzarsi devono coesistere molte condizioni contemporaneamente. Attualmente, queste condizioni si sono magicamente presentate, ma non è chiaro quando tale opportunità si ripresenterà, se mai si ripresenterà. Questo è il momento di agire. Ora”.
“Attualmente esiste un’opportunità unica e rara per evacuare l’intera Striscia di Gaza, in coordinamento con il governo egiziano”. L’incipit del rapporto segreto dell’Istituto per le Strategie Sioniste scovato da The Grayzone non lascia adito a dubbi: siamo di fronte esplicitamente a un piano per la Pulizia Etnica definitiva ma, forse aspetto ancora più inquietante, presentato sostanzialmente come un’opera di bene.

Il logo di The Grayzone

“Un piano immediato” si legge infatti nel rapporto “realistico e sostenibile per il reinsediamento umanitario” (giusto: dice proprio così, umanitario) “e la ricollocazione dell’intera popolazione araba della striscia di Gaza”. Un capolavoro di suprematismo neoliberista; l’intero rapporto, infatti, non si limita a definire umanitaria la Pulizia Etnica, ma soprattutto si concentra nell’indicare gli evidenti vantaggi economici di tutta l’operazione. Ci sono pure le tabelline coi numerini. L’idea di fondo, purtroppo, è un po’ peggiorativa rispetto al vecchio “insediamento regionale” perché l’ipotesi, generosissima, di poter costituire uno stato nazionale in casa di altri è scomparsa ma il succo è lo stesso: si tratta, infatti, di sfollare per sempre tutti i due milioni e passa di abitanti della striscia in Egitto. Un piano che, sottolinea il rapporto, “si allinea perfettamente con gli interessi economici e geopolitici sia dello Stato di Israele, quanto anche dell’Egitto stesso, e anche dell’Arabia Saudita”. Il rapporto, infatti, ricorda come nel 2017 sia stato affermato che in Egitto esisterebbero la bellezza di 10 milioni di unità abitative sfitte, in particolare in due gigantesche new town nell’area metropolitana del Cairo: la cittadina del Nuovo Cairo, e la città del decimo Ramadan.

Mappa di Nuovo Cairo

“La maggior parte della popolazione”, infatti, sottolinea il report, “non riesce ad acquistare gli appartamenti di nuova costruzione, che rimangono invenduti a milioni, e hanno raggiunto prezzi di mercato molto bassi, dai 150 ai 300 dollari al metro quadrato”. A questi prezzi, un confortevole appartamento per una famiglia di Gaza, che in media è composta da 5 elementi, si aggirerebbe attorno ai 19 mila dollari; significa che con meno di 8 miliardi di dollari si può agilmente trovare una sistemazione per tutti e “investire qualche miliardo di dollari per risolvere la difficile questione di Gaza” sottolinea giustamente il rapporto “sarebbe una soluzione innovativa, economica e sostenibile”. Altro che Pulizia Etnica! Questo è un vero e proprio affarone: ripulita dai subumani, Gaza infatti fornirebbe “alloggi di alta qualità a molti cittadini israeliani” e permetterebbe di estendere a dismisura l’area metropolitana di Tel Aviv, nota col nome Gush Dan, rendendola una specie di Los Angeles del Mediterraneo” e a trarne vantaggio sarebbero, ovviamente, anche gli insediamenti nel Negev – nelle zone desertiche ad est della striscia -penalizzati fino ad oggi dall’essere separati dal mare da questa vetusta e un po’ demodè presenza di questi soggetti qui – come si chiamano? Ah già, i palestinesi.
Ovviamente il problema principale, a questo punto, sarebbe convincere l’Egitto ma anche da questo punto di vista – sottolinea il rapporto – la situazione non è mai stata così favorevole; l’Egitto infatti si trova nel bel mezzo di una crisi economica devastante, con un’inflazione che ha sfiorato fino al 30%, e una svalutazione della sua valuta rispetto al dollaro che ne ha sostanzialmente dimezzato il valore. Questo ha spinto il paese sull’orlo del default: per evitarlo, è stato costretto a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale che, però, per concedere un prestito imporrebbe all’Egitto “condizioni e riforme economiche draconiane” la cui applicazione sembra “improbabile”. Questa situazione ha spinto le agenzie a degradare il rating del debito sovrano egiziano, declassato da 3B a 1C, “il punteggio più basso mai assegnato all’Egitto”, una situazione che, sottolinea il report, per gli Stati Uniti potrebbe tradursi in un “disastro strategico”. Se l’Egitto non fosse più in grado di ripagare i suoi debiti e dichiarasse il default, infatti, tra i vari creditori da soddisfare ci sarebbero anche i cinesi, con il rischio che gli vengano ceduti asset strategici, come è già avvenuto – ad esempio – in Sri Lanka con il porto di Hambantota.
Anche i paesi europei sono in allarme a causa dell’ondata di immigrazione clandestina che un patatrac dell’economia egiziana molto probabilmente comporterebbe; “il trasferimento dell’intera popolazione di Gaza in Egitto e la sua riabilitazione”, invece, rappresenterebbero una grande opportunità per ridare slancio all’economia egiziana riducendo tutti questi rischi, anche perché “la chiusura della questione di Gaza” sottolinea il report “garantirebbe una fornitura stabile di gas israeliano all’Egitto per la liquefazione, e anche un maggior controllo delle compagnie egiziane sulle riserve di gas esistenti al largo di Gaza”. La Pulizia Etnica di Gaza poi, sostiene il report, sarebbe un’ottima occasione anche per l’Arabia Saudita per almeno due motivi: il primo è che eliminerebbe, così, un importante alleato dell’Iran; il secondo è che potrebbe trovare una bella fonte di manodopera a basso costo per tutti i suoi ambiziosi progetti di ammodernamento infrastrutturale, a partire dalla costruzione da zero della megalopoli futuristica di Neom, che Mohammed Bin Salman vorrebbe diventasse la principale metropoli di tutta la regione – ovviamente, a quel punto, dopo la nuova Los Angeles israeliana.
Insomma, tutto torna, a parte la volontà degli abitanti di Gaza che, però, possono essere convinti: basta continuare a distruggergli le case, a tenerli sotto assedio e a terrorizzarli con le bombe. Non sarà proprio immediato ma, se duriamo abbastanza, alla fine “non pochi residenti di Gaza coglierebbero al volo l’opportunità di vivere in un paese ricco e avanzato piuttosto che continuare a vivere in questa situazione”. Convinti a suon di massacri gli abitanti di Gaza a lasciare da parte i loro preconcetti e abbracciare finalmente il futuro di luce che lo stato-nazione per il popolo ebraico gli offre generosamente, rimane allora un ultimo ostacolo: i quattrini. Perché se è vero che, alla lunga, l’investimento promette ritorni mirabolanti, nel breve finanziare un massacro e poi una pulizia etnica – soprattutto se democratica e umanitaria – costa, e il bancomat preferito del regime segregazionista di Tel Aviv nelle ultime settimane era temporaneamente fuori uso. Ma visto che, appunto, sono in missione per conto del Signore, ecco che magicamente mercoledì un miracolo l’ha fatto tornare in funzione: i repubblicani, dopo varie diatribe, finalmente hanno eletto il nuovo speaker della camera.

Mike Johnson e Donald Trump nel 2019

Si chiama Mike Johnson e per Israele è una vera e propria manna: evangelico oltranzista, come per i fautori dello stato etnico e confessionale di Israele è un fiero sostenitore delle ingerenze della chiesa sullo stato. “Quando i fondatori pensavano alla così detta separazione tra chiesa e stato” avrebbe affermato in passato, era perché “volevano proteggere la chiesa da uno stato invadente, non il contrario”, e il suo discorso di insediamento è roba da fare sembrare il più invasato degli ayatollah un illuminista.

MIKE JOHNSON – nuovo speaker del congresso USA: “Credo che le sacre scritture siano molto chiare su questo: è solo Dio che può darci l’autorità. E credo che se oggi ci ritroviamo qui, sia perché a permetterlo, e a volerlo, è stato l’Onnipotente. Nel 1962 il nostro motto nazionale, In God we trust, venne scolpito sopra questa tribuna; venne fatto come forma di rimprovero contro la filosofia dell’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda. Quella filosofia si chiamava marxismo e comunismo, e partiva dal presupposto che Dio, appunto, non esiste. E quali sono invece i valori fondamentali, i principi fondamentali sui quali si basa la nostra nazione? Questi principi sono la libertà individuale, un governo dai poteri ristretti, lo stato di diritto, il mantenimento della pace attraverso la forza, la responsabilità fiscale, il libero mercato e la dignità umana. Sono questi i principi che ci hanno reso la nazione straordinaria che siamo. E noi tutti, oggi, siamo i custodi di quei principi che ci hanno reso la nazione più libera, potente e di maggior successo nella storia del mondo, una nazione assolutamente unica ed eccezionale che sola è in grado di affrontare questi tempi di crisi perché oggi il nostro più caro e fedele alleato in Medio Oriente è di nuovo sotto attacco. Ed ecco perché il primo disegno di legge che presenterò qui tra poco sarà proprio a sostegno del nostro caro, fraterno amico Israele, perché anche se il nostro sistema di governo non è perfetto, rimane ancora senza dubbio il migliore del mondo e noi abbiamo il dovere assoluto di preservarlo a ogni costo. Facciamo in modo che in tutto il mondo i nemici della libertà ci sentano forte e chiaro: siamo tornati in carreggiata”.
Come ha detto la mia amica Clara Statello, se dovessimo riassumere con due slogan il comizio di insediamento di Mike Johnson, la scelta non potrebbe che cadere su Gott Mit Uns e USA Uber Alles. Cosa mai potrebbe andare storto?
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E chi non aderisce è Benyamin Netanyahu

G20: l’umiliazione dell’unilateralismo e il mondo parallelo dei pennivendoli

Il giornale: G20, ecco la via delle spezie. La regia USA fa fuori Pechino.

La Stampa: un rotta dall’India a Venezia, gli USA danno scacco alla Cina.

Repubblica: Biden e Modi isolano Xi, ecco il nuovo corridoio India – medio Oriente contro la via della seta.

I mezzi di produzione del consenso del partito unico della guerra e degli affari, non hanno dubbi: dopo gli incredibili successi della controffensiva Ucraina, e il definitivo crollo dell’economia cinese, al G20 il nord globale è tornato in grande stile a dettare l’agenda globale. Indiani e sauditi hanno ritrovato il lume della ragione, hanno scaricato le velleità del fantomatico nuovo ordine multipolare, e sono tornati ai vecchi costumi: elemosinare una qualche forma di riconoscimento dall’Occidente globale. I rapporti commerciali con la Cina ormai sono roba da boomer e l’aria fresca di rinascimento che spirava dalle petromonarchie ai tempi di Renzi è tornata a soffiare più forte e ora irradia tutta la sua energia fino al subcontinente indiano.

L’Italia è pronta a raccoglierne i frutti: basta Cina, il futuro parla sanscrito, e se usciamo dalla via della seta non è perché ce lo ha imposto Washington, ma perché guardiamo lontano, laddove lo sguardo di voi complottisti sul libro paga di Putin e Xi, non riuscite manco ad avventurarvi.

Ma siamo proprio proprio proprio sicuri che questa narrazione sia anche solo lontanamente realistica?

“C’è un’immagine che più di tutte testimonia quanto accaduto durante il g20 di Delhi”, scrive Stefano Piazza su La Verità, “il presidente americano joe biden sorridente, stringe la mano al principe ereditario saudita mohammed bin salman insieme al padrone di casa Modi”.

Non ha tutti i torti.

Quella effettivamente è un’immagine decisamente potente. Peccato che simboleggi in modo plateale esattamente il contrario di quello che la propaganda suprematista sta cercando affannosamente di di farci credere. È la prova provata che ormai l’ameriCane abbaia, ma quando poi prova a mordere si accorge che gli mancano i denti, e allora si mette a scodinzolare. Se c’è un Paese che negli ultimi due anni ha dimostrato in modo evidente che il bastone a stelle e strisce non fa più poi così tanto male, infatti, è proprio la petromonarchia saudita. Cinque anni fa, Biden aveva inaugurato la sua campagna elettorale definendo il principe ereditario Bin Salman addirittura un pariah. Ma negli anni successivi, i sauditi non hanno fatto assolutamente niente per compiacere il vecchio alleato, anzi…

Quando è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, nonostante tutti i corteggiamenti, i sauditi hanno evitato sistematicamente di emettere una qualunque parola di condanna.

Quando la Russia ha chiesto all’OPEC+ di tagliare la produzione per tenere alto il prezzo del greggio, i sauditi hanno subito appoggiato l’iniziativa. Biden ha provato a dissuaderli, chiamandoli direttamente al telefono. Non gli hanno manco risposto ed era solo l’antipasto. Grazie alla mediazione cinese, pur di affrancarsi dalle strumentalizzazioni USA, pochi mesi dopo i sauditi sono tornati addirittura ad aprire i canali diplomatici con l’arcinemico iraniano, mettendo così le basi per la fine della pluridecennale guerra per procura in medio Oriente che è sempre stato in assoluto il pilastro fondamentale della politica estera USA per tutta l’area ed oltre. Dopodichè i sauditi hanno finalmente preso atto del totale fallimento dell’intervento USA in Siria, e hanno accolto a braccia aperte il ritorno di Assad nella Lega Araba. Subito dopo hanno inferto un colpo micidiale ad un altro degli assi portanti dell’imperialismo USA: la dittatura globale del dollaro, nata e cresciuta grazie proprio all’adozione incondizionata dei sauditi della valuta a stelle e strisce come unica valuta internazionale, utilizzabile per la compravendita del petrolio. Per scolpire sulla pietra il fatto che questi epocali cambi di posizionamento non fossero solo capricci estemporanei, i sauditi hanno prima aderito alla Shanghai Cooperation Organization, e poi addirittura ai BRICS, addirittura fianco a fianco agli iraniani.

Fino a pochi anni fa, gli USA hanno raso al suolo interi paesi e sterminato centinaia di migliaia di civili a suon di bombe umanitarie per molto, molto meno. Dopo un anno e mezzo di schiaffi a due mani in Ucraina, eccoli invece qua, a stringere mani e a ostentare sorrisoni.

Che uno dice: chissà cos’hanno ottenuto in cambio. Una luccicante cippa di cazzo, ecco cos’hanno ottenuto. Meno di quello che avevano ottenuto a Bali.

La partita ovviamente era quella di strappare di nuovo un’accusa nei confronti della Russia per la guerra in Ucraina.

All’orizzonte”, scriveva Il Giornale Sabato, “il rischio concreto che per la prima volta nella storia di questo forum, nato nel 1999, non si riesca a trovare l’intesa per un comunicato condiviso da tutti i partecipanti”. Per qualche ora, questo è stato il tormentone; sono tutti uniti come un sol uomo nel condannare la Russia, ripeteva fino all’auto convincimento la propaganda, a parte Russia e Cina.

Il più spregiudicato nel raccattare l’ennesima figura di merda, come sempre, è l’infaticabile Mastrolilli su Repubblica: “approfittare delle assenze di Xi e Putin per isolarli allo scopo di contrastare, insieme, la sfida geopolitica epocale lanciata dalle autocrazie alle democrazie”

Gli articoli di Mastrolilli ormai assomigliano sempre di più ai testi prodotti dalle pagine tipo “generatore automatico di post di Fusaro”, o di previsioni di Fassino, che andavano di moda qualche anno fa. Ci infili dentro autocrazia, democrazia, Putin e Xi isolati, mescoli bene, ed ecco pronto l’articolo.

“Putin e Xi”, insiste Mastrolilli, “si sono coalizzati nel rifiutare il linguaggio di Bali. Europei e americani però”, notate bene, “non sono disposti a cedere, e il G20 rischia di chiudersi per la prima volta senza una dichiarazione finale”.

Ci prendessero mai, proprio almeno per la legge dei grandi numeri.

Alla fine infatti, come sapete, il comunicato congiunto in realtà è arrivato in tempi record. Al contrario delle previsioni di Mastrolilli, europei e americani non hanno dovuto semplicemente cedere, si sono proprio nascosti sotto al tavolo: nel comunicato finale non c’è nessun accenno alle responsabilità russe.

In realtà, c’era da aspettarselo; al contrario di Bali, a questo giro Modi di far fare a Zelensky il solito intervento da rock star non ne ha voluto sapere.

Zelensky, persona non grata. Come gli anatemi e i doppi standard del nord globale in declino.

I gattini obbedienti delle oligarchie Occidentali allora si sono messi all’affannosa ricerca di altri specchi sui quali arrampicarsi e l’attenzione non poteva che ricadere sull’unico aspetto che effettivamente suggeriva alcune difficoltà: la misteriosa assenza di Zio Xi.

E via giù di speculazioni acrobatiche. La prima l’avevano suggerita i giapponesi di Asian Nikkei, testata di grande spessore che noi seguiamo da decenni quotidianamente per le analisi economiche, ma che diciamo, ovviamente, non è esattamente del tutto imparziale quando si tratta di Cina.

Un lungo editoriale apparso giovedì scorso, suggeriva che la scelta di Xi di non presentarsi per la prima volta al G20 fosse dovuta a una guerra intestina al partito che vedrebbe i dirigenti più anziani sul piede di guerra contro il Presidente per le difficoltà economiche che il Paese starebbe attraversando. Ma, come ha sottolineato sabato mattina il nostro amico Fabio Massimo Parenti in diretta su La7, in quell’editoriale c’è qualcosa che non torna. L’articolo parla infatti di alcune fonti interne al partito, che ovviamente non è possibile verificare. Rimane però un dubbio: ma davvero ai massimi livelli del partito ci sono dirigenti così smaccatamente antipatriottici da andare a lavare i panni sporchi di casa direttamente nel lavello dell’arcinemico giapponese?

Per carità, tutto può essere. Ma diciamo che una cosa così palesemente antiintuitiva, per essere creduta, avrebbe per lo meno bisogno di qualche prova più tangibile, diciamo.

Macchè!

I nostri media se la sono bevuta tutta d’un sorso senza battere ciglio e il famoso “contesto mancante” a questo giro non li ha dissuasi.

Che strano…

Ma non è stata certo l’unica speculazione. Il fatto di per se, offriva un’occasione più che ghiotta per rilanciare il tormentone che ci aveva già sfrucugliato gli zebedei quando tutta la stampa era alla ricerca di narrazioni fantasy di ogni genere pur di sminuire la portata delle decisioni prese due settimane fa dai BRICS: l’insanabile divergenza tra i diversi paesi del sud globale, a partire da India e Cina.

Ci provano senza sosta da decenni. Prima erano le divergenze tra Cina e Vietnam, poi tra Cina e Russia, poi tra India e Cina. Intendiamoci, le divergenze ci sono eccome e lo ricordiamo sempre: è abbastanza inevitabile quando si ha a che fare con Paesi sovrani. Ognuno è guidato fondamentalmente dal suo interesse, e gli interessi diversi spesso e volentieri entrano in conflitto. Quando non succede è semplicemente perché uno impone i suoi interessi su tutti gli altri, come accade ad esempio nell’ambito del G7, dove Washington detta la linea e gli altri possono accompagnare solo, rimettendoci di tasca loro. Quello che, proprio a chi è abituato a fare da zerbino, non vuole entrare nella capoccia, è che la necessità storica di un nuovo ordine multipolare in realtà si fonda proprio su questo: Paesi sovrani con loro interessi nazionali spesso divergenti, intenti a costruire strutture multilaterali all’interno delle quali trovare dei compromessi attraverso il confronto e il dialogo tra pari. Rimane comunque il fatto che Xi al G20 non ci è andato e non è una cosa che può essere derubricata con due battutine.

Purtroppo però qui entriamo nell’ambito delle pure speculazioni. In questi giorni la redazione allargata di OttolinaTV su questo punto s’è sbizzarrita. Alla fine le interpretazioni un po’ più solide emerse sono sostanzialmente due:

La prima effettivamente ha a che vedere con i rapporti con l’India. Come scriveva giovedì scorso il Global Times, il nord globale guidato da Washington “ha cercato di provocare conflitti tra Cina e India usando la presidenza indiana per inasprire la competizione tra il dragone e l’elefante”.

“Gli Stati Uniti e l’Occidente”, continua l’articolo, “hanno mostrato un atteggiamento compiaciuto nei confronti di alcune divergenze geopolitiche, comprese quelle tra Cina e India. Vogliono vedere divisioni più profonde e persino scontri”. Ma proprio come la Cina, anche “Nuova Delhi ha ripetutamente affermato che il forum non è un luogo di competizione geopolitica” e quindi da questo punto di vista l’assenza di Xi sarebbe stata funzionale a impedire agli occidentali di strumentalizzare queste divergenze, e permettere al G20 di ottenere qualche piccolo progresso sul piano che dovrebbe essere di sua competenza: la cooperazione economica, in particolare a favore dei Paesi più disastrati. Da questo punto di vista il piano effettivamente sembra essere riuscito: il comunicato finale sottolinea esplicitamente che il G20 non è il luogo dove affrontare e risolvere le tensioni geopolitiche.

Ma non solo…

Per quanto simbolici, i paesi del sud globale al g20 hanno portato a casa impegni ufficiali verso una riforma della banca mondiale a favore dei Paesi più arretrati e anche l’annuncio dell’ingresso ufficiale nel summit dell’unione africana. Tutti obiettivi che Delhi e Pechino condividono da sempre.

La seconda motivazione invece ha a che vedere col rapporto tra Cina e USA. Durante il G20 di Bali, la stretta di mano tra Biden e Xi aveva fatto parlare dell’avvio di una nuova distensione tra le due superpotenze. Nei mesi successivi però, a partire da quella gigantesca buffonata dell’incidente del pallone spia cinese e della cancellazione del viaggio di Blinken a Pechino che ne era seguita, le cose non hanno fatto che complicarsi. Da allora gli USA hanno provato ad aggiustare un po’ il tiro, gettando acqua sul fuoco della retorica del decoupling. Ma mentre i toni si facevano a tratti meno aggressivi, i fatti continuavano ad andare ostinati in tutt’altra direzione, a partire dalla guerra sui chip, per finire col recente divieto USA a investire in Cina in tutto quello che è frontiera tecnologica, dall’intelligenza artificiale al quantum computing. La Cina quindi, pur continuando a sfruttare ogni possibilità di dialogo, ha continuato a denunciare la discrepanza tra parole e fatti

da questo punto di vista, quindi, l’assenza di Xi a Delhi sarebbe un segnale diretto a Biden: caro Joe, co ste strette di mano a una certa c’avresti pure rotto li cojoni. Basta manfrine fino a che alle parole non farete seguire qualche fatto concreto. Volendo, con anche un avvertimento in più: per parlare con il resto del sud globale, non abbiamo più bisogno necessariamente di una piattaforma come quella del G20: Shanghai Cooperation Organization e BRICS+++ ormai sono alternative più che dignitose. A voi la scelta ora: se continuare ad avere un luogo dove discutere con il sud globale, oppure condannare il G20 all’irrilevanza.

Finite le nostre speculazioni, torniamo a quelle degli altri.

Come con la controffensiva ucraina, che andando come sta andando, costringe gli hooligan della propaganda a trasformare in vittorie epiche la conquista di qualsiasi gruppetto di case di campagna al prezzo di decine se non centinaia di vite umane e centinaia di milioni di attrezzatura militare, idem al G20, visti gli scarsi risultati, i propagandieri si sono sforzati in modo veramente ammirevole per provare ad arraparsi di fronte a un vero e proprio monumento alla fuffa.

“Ecco il nuovo corridoio india-medio oriente contro la via della seta”, titolava su repubblichina il solito Daniele Raineri, tra un articolo su qualche mirabolante vittoria ucraina e l’altro. Il progetto è così alternativo alla via della seta cinese, che approda nel pireo, che è dei cinesi. Di nuovo in sostanza ci sarebbe l’estensione della rete ferroviaria in Arabia.

A chiacchiere! A fatti, per ora, l’unico tratto ferroviario di una certa rilevanza in Arabia è quello lungo i 450 km che sperano Mecca e Medina. Un’opera monumentale, costruita dai cinesi.

E i cinesi infatti se la ridono.

Intanto, perché non capiscono bene in che modo questo fantomatico progetto andrebbe contro ai loro interessi. Come ha sottolineato il Global Times: “Per i paesi del Medio Oriente che parteciperanno all’iniziativa ferroviaria guidata dagli Stati Uniti, non vi è alcuna preoccupazione che i loro legami con la Cina si indeboliscano proprio a causa dell’accordo”.

Anzi: “la Cina ha sempre affermato che non esistono iniziative diverse che si contrastano o si sostituiscono a vicenda. Il mondo ha bisogno di più ponti da costruire anziché da abbattere, di più connettività anziché di disaccoppiamento o di costruzione di recinzioni, e di vantaggi reciproci anziché di isolamento ed esclusione”

Piuttosto, sottolineano i cinesi, il punto è che questi proclami andrebbero presi un po’ con le pinze.

“Non è la prima volta che gli Stati Uniti sono coinvolti in uno scenario “tante chiacchiere, pochi fatti””, ricorda sarcasticamente l’articolo, che insiste: “Durante l’amministrazione Obama, l’allora segretario di stato americano Hillary Clinton annunciò che gli Stati Uniti avrebbero sponsorizzato una “Nuova Via della Seta” che sarebbe uscita dall’Afghanistan per collegare meglio il paese con i suoi vicini e aumentare il suo potenziale economico, ma l’iniziativa non si è mai concretizzata”.

“Da un punto di vista tecnico”, continua perculando l’articolo, “la decisione degli Stati Uniti di concentrarsi sulle infrastrutture di trasporto, un’area in cui mancano competenze, nel tentativo di salvare la loro influenza in declino nella regione, suggerisce che il piano tanto pubblicizzato difficilmente raggiungerà i risultati desiderati”.

Ma non c’è livello di fuffa che possa distogliere i pennivendoli di provincia italiani dal prestarsi a qualsiasi operazione di marketing imposta dal padrone a stelle e strisce

magari, aggiungendoci anche del loro. Perché in ballo al G20 c’era un’altra questione spinosa, l’addio dell’Italia alla via della seta, ancor prima di aver fatto alcunché per entrarci davvero, al di là delle chiacchiere.

Ma non temete, come scrive Libero, infatti, “Giorgia sa di avere un’altra chance. si chiama India”.

“Il commercio tra India e Italia”, avrebbe dichiarato con entusiasmo la Meloni, “ha raggiunto il record di 15 miliardi di euro. Ma siamo convinti di poter fare di più”. D’altronde, che ce fai con la Cina quando c’è l’India. Un Paese, che, come scrive il corriere della serva “per popolazione ed economia ha superato la cina”.

Non è uno scherzo, è una citazione testuale. Secondo il Corriere, l’India ha superato economicamente la Cina. Deve essere successo dopo che, come scriveva Rampini, l’altro giorno, gli usa hanno cominciato a crescere il doppio della Cina.

Quanto cazzo deve essere bello di mestiere fare il giornalista ed essere pagato per dire ste puttanate.

Ovviamente, come credo sappiate tutti voi che piuttosto che lavorare al corriere della serva preferireste morire di fame accasciati per terra a qualche angolo di strada, l’economia cinese è più di cinque volte quella indiana, e l’India ogni anno spende in importazioni meno di un quinto della Cina.

Ma non solo…

L’Italia, in India, quel che è possibile esportare in quel piccolo mercato lo esporta già. Nel 2022 abbiamo esportato beni e servizi per 5,4 miliardi. Più dell’Olanda che è ferma a 3,5 e poco meno della Francia, che è a quota 6,5. Insomma, in linea con le nostre quote di export

Discorso che invece non vale per la Cina dove l’Italia esporta per 18 miliardi, la Francia per 25, il Regno Unito per 35 e la Germania per 113 miliardi. Cioè, il nostro export totale è inferiore del 25% rispetto a quello inglese e francese, ma in Cina esportano rispettivamente i 50 e il 100% in più. Ancora peggio il confronto con la Germania: l’export tedesco è circa 2 volte e mezzo quello italiano, ma in Cina esportano 7 volte più di noi. Quando saggiamente avevamo deciso di essere l’unico paese del G7 che avrebbe aderito al memorandum della belt and road, era per recuperare questo gap. Dopo la firma non abbiamo mosso un dito, e ora rinunciamo a una crescita potenziale di svariate decine di miliardi di export, e ci raccontiamo pure che li sostituiremo con i 2 o 3 miliardi in più che potremmo guadagnare dall’India.

Ora, io non ti dico di finanziare un vero think tank indipendente coi controcazzi invece di affidarti a quelli a stelle e strisce e in Italia dare i soldi a Nathalie Tocci per trasformare l’istituto affari internazionale nel milionesimo ufficio stampa di Washington e delle sue oligarchie finanziarie.

Ma almeno i soldi per una cazzo di calcolatrice trovateli! Se volete, famo una colletta noi su gofundme.

E sia chiaro, io lo dico da grande amante dell’India, da tempi non sospetti. Quando ho cominciato a fare il giornalista a fine anni ‘90, il mio obiettivo era raccontare l’ascesa del peso Internazionale di questo incredibile paese continente. Non è andata benissimo, e ogni fallimento dell’india in questi 30 anni per me è stata una pugnalata al cuore, a prescindere da chi ci fosse al governo. Modi compreso.

Ora non mi posso che augurare che di fronte a questi teatrini imbarazzanti che offre continuamente l’Occidente, Modi sia abbastanza lucido da capire che gli attriti con la Cina, che sono legittimi e anche normali, non possono certo distoglierlo dal perseguire il vero interesse del suo disastrato Paese, che potrà crescere davvero se e solo se il sud globale riesce finalmente a mettere fine all’ordine unipolare della globalizzazione neoliberista guidata da Washington.

Per parlare del mondo nuovo che avanza, senza i paraocchi della vecchia propaganda vi aspettiamo sabato 16 settembre all’hotel terme di Fiuggi con Fulvio Scaglione, Marina Calculli, Elia Morelli, Alessandro Ricci e l’inossidabile generale Fabio Mini.

È solo uno dei dodici panel messi in fila dagli amici dell’associazione Idee Sottosopra per questo fondamentale week end di studio e di approfondimento, per costruire insieme un’alternativa credibile e non minoritaria alla dittatura del pensiero unico del partito degli affari e della guerra.

Per chi vuole maggiori informazioni, trovate il link nei commenti.

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Fonti:

Editoriale del Global Times: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297861.shtml

Il piano ferroviario USA in Medio Oriente: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Il Premier Li chiede solidarietà e cooperazione al G20: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Articolo “Il Giornale”: https://www.ilgiornale.it/news/politica/g20-ecco-delle-spezie-india-emirati-arabia-europa-regia-usa-2208113.html

Articolo “la Repubblica”: https://www.repubblica.it/esteri/2023/09/08/news/ferrovia_arabia_india_cina_via_della_seta-413788548/