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Tag: alleanza

La NATO si mobilita verso la Cina. Ma reggerà?

Si è appena concluso il vertice della NATO di questa settimana e si è concluso con una dichiarazione finale che pare l’annuncio di un conflitto globale: nessuno spazio per nessuna soluzione di tipo negoziale per la guerra in Ucraina e confronto diretto dell’alleanza contro la Cina. Una mobilitazione senza precedenti sia in termini di raggio del confronto, che vede la NATO coinvolta nell’Indo-Pacifico, e sia in termini di risorse militari e industriali dell’industria bellica che la NATO annuncia di voler dispiegare. Ma se la dichiarazione finale sembra essere un trionfo che accantona le titubanze dello scorso anno e che afferma all’unanimità la politica statunitense di contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico, a dispetto di questo ad alcuni osservatori pare chiaro che qualcosa non sta andando come sperato… Ne parliamo in questo video!

Il piano USA per sciogliere gli eserciti nazionali e fondare l’esercito unico dell’imperialismo

Come l’America si può preparare per la guerra in Asia, Europa e nel Medio Oriente: dopo tanto tergiversare, finalmente ci siamo. Con questo titolo, ieri, Foreign Affairs – che, ricordiamo, è la testa ufficiale del think tank neocon bipartisan in assoluto più influente degli USA – finalmente chiarisce il perimetro della partita in gioco: le guerre e i conflitti a cui stiamo assistendo sono pezzi dell’unica grande guerra che l’imperialismo ha dichiarato al resto del mondo per impedire la transizione a un nuovo ordine multipolare che metterebbe fine agli Stati Uniti per come li conosciamo oggi; “Sotto i presidenti Barack Obama, Donald Trump e Joe Bidenscrive Thomas Mahnken della John Hopkins University, “la strategia di difesa degli Stati Uniti si è basata sull’idea ottimistica che gli Stati Uniti non avranno mai bisogno di combattere più di una guerra alla volta”. Mahnken ricorda con disprezzo la scelta dell’amministrazione Obama di ridurre, per la prima volta nella storia contemporanea degli USA, non solo la spesa militare in termini di percentuale del PIL, ma addirittura in termini assoluti: dai 730 miliardi annui del 2009 ai 640 scarsi del 2017, a fine mandato; questa riduzione, sottolinea Mahnken, equivaleva all’abbandono della politica di lungo periodo che prevedeva che gli USA dovessero essere pronti a combattere contemporaneamente due grandi guerre e questo, denuncia, “ha ristretto le opzioni a disposizione dei politici statunitensi, dato che impegnare gli Stati Uniti in una guerra in un luogo precluderebbe un’azione militare altrove”. Capito Obama, eh? Manco la libertà di combattere contro tutti ‘ndo cazzo je pare ha lasciato ai suoi successori: un vero despota. “Questo passaggio” si lamenta Mahnken “fu fuorviante già allora, ma è totalmente fuori luogo in particolare oggi” con gli USA che sono impegnati in una costosissima guerra per procura in Ucraina e nello sterminio dei bambini palestinesi proprio mentre si devono preparare alla Grande Guerra del Pacifico.

Thomas G. Mahnken

E non è che possono fare altrimenti: come ricorda Mahnken, infatti, questi 3 teatri “sono tutti vitali per gli interessi USA, e sono tutti intimamente interconnessi”. Mahnken sottolinea ancora come i tentativi passati di disimpegnarsi sia dall’Europa che dal Medio Oriente abbiano profondamente indebolito la sicurezza statunitense: “Il ritiro delle forze armate statunitensi in Medio Oriente, ad esempio, ha creato un vuoto che Teheran ha riempito con entusiasmo” e ogni volta che una potenza regionale alza la cresta e gli USA tentennano nel portare a termine la loro missione divina di raderla al suolo, mandano un messaggio di debolezza al resto del mondo che mette a rischio la tenuta complessiva dell’impero; e già questa, sostiene Mahnken, dovrebbe essere di per se una linea rossa, dal momento che il mito dell’invincibilità militare USA – fondato sull’incommensurabilità della sua spesa con qualsiasi altra potenza del pianeta e sulla sua proiezione globale dovuta alle quasi 1000 basi sparse in giro per tutto il mondo, ma anche su quella gigantesca macchina di propaganda bellica che è Hollywood – è essenziale alla sopravvivenza stessa del feroce regime superimperialista che impongono a tutti gli altri e che oggi, per la prima volta, si trova di fronte ad avversari di tutto rispetto “che collaborano l’uno con l’altro: L’Iran vende petrolio alla Cina, la Cina invia denaro alla Corea del Nord e la Corea del Nord invia armi alla Russia”. Che, tutto sommato, come esempi di collaborazione non sono nemmeno sto granché, ma poco conta: come i padroni delle ferriere dell’800 – o come in qualsiasi film distopico su società post-apocalittiche rigidamente divise tra schiavi e schiavizzatori (modello Snowpiercer) – quando il sistema che imponi con la violenza è così palesemente e ferocemente ingiusto, ogni forma di collaborazione può essere sufficiente ad innescare l’incendio e va stroncata sul nascere, come ogni buona esperienza di repressione antisindacale insegna. La preoccupazione di Mahnken, quindi, è che il mito dell’invincibilità USA, già messo duramente alla prova dalla debacle siriana in poi, oggi sembra essere del tutto inadeguato ad affrontare con la sicurezza necessaria questi nuovi nemici, in particolare se in qualche modo coordinati tra loro; per dare nuovo slancio al mito dell’invincibilità, quindi, è necessario fare un salto di qualità sostanziale e questo salto di qualità può avvenire se e solo se la macchina bellica dell’imperialismo, invece che essere solo quella USA, può basarsi sempre di più su una rete di solide alleanze. La fortuna di Washington, sottolinea infatti Mahnken, è quella di avere buoni amici, sia nell’est asiatico, sia in Europa, sia in Medio Oriente, perché definirli vassalli (come essenzialmente sono) suona male, “ma per avere successo” insiste Mahnken, questi fantomatici amici “devono imparare a lavorare meglio insieme”: “Washington e i suoi alleati” continua Mahnken “devono essere ciò che i pianificatori militari chiamano interoperabili, capaci di inviare rapidamente risorse attraverso un sistema consolidato a qualunque alleato ne abbia più bisogno. L’Occidente, in particolare, deve creare e condividere più munizioni, armi e basi militari. Gli Stati Uniti devono inoltre formulare migliori strategie militari per combattere a fianco dei propri partner”. Insomma: come ripetiamo fino all’esaurimento da mesi, per combattere la guerra totale contro il resto del mondo c’è bisogno di una NATO globale, un esercito unitario al servizio dell’agenda imperialista; e se questa, ormai, è un’idea condivisa da tutte le varie fazioni, la declinazione che ne dà Mahnken in questo articolo appare particolarmente interessante per la sua spregiudicatezza.
Il primo punto, inevitabilmente, riguarda la produzione bellica: Mahnken sottolinea come i conflitti in cui siamo immersi e – ancora di più – quelli che ci aspettano, sono munitions-intensive, richiedono molte munizioni; per permettere alle aziende di aumentare la produzione allora, propone Mahnken, “Il governo degli Stati Uniti dovrebbe fornire alle aziende della difesa il tipo di domanda costante necessaria” per garantire che gli investimenti avranno ritorni garantiti. In sostanza, quindi, il governo deve riuscire a convincere le oligarchie del comparto militare industriale che la guerra sarà sufficientemente lunga e devastante da garantire che per i loro prodotti ci sarà sempre domanda a sufficienza, ma non solo. Washington infatti, sostiene Mahnken, deve anche garantire che le munizioni potranno andare agilmente sempre laddove ce n’è più bisogno: oggi, infatti, i canali di approvvigionamento delle forze armate USA e degli alleati sono segregati, con le forniture interne controllate dal dipartimento di Stato e quelle altrui controllate dal dipartimento della Difesa (e con il primo che ha la precedenza sul secondo); i cosiddetti alleati quindi, denuncia Mahnken, “vengono generalmente messi in fondo alla coda, dove possono aspettare anni per ottenere armi che hanno già pagato e che potrebbero essere essenziali per scoraggiare attacchi imminenti”. Secondo Mahnken questa gerarchia va assolutamente superata: “Soddisfare le vendite di munizioni straniere prima di soddisfare le esigenze delle forze armate statunitensi” scrive “può sembrare dannoso per gli interessi americani […] ma consentire alle aziende della difesa di spedire a Taiwan o in Polonia prima di Fort Bragg quando necessario può migliorare la sicurezza degli Stati Uniti, soprattutto quando gli Stati Uniti non stanno combattendo guerre importanti”. E le munizioni sono solo la punta dell’iceberg: “Gli Stati Uniti” infatti, sottolinea Mahnken “hanno moltissime armi da vendere ai propri amici. Ma la riluttanza ad esportare tecnologie avanzate impedisce di fornire ai partner più stretti le migliori attrezzature disponibili. La politica statunitense” propone quindi Mahnken “dovrebbe garantire che i leader politici americani abbiano la possibilità di fornire tali sistemi avanzati agli alleati più stretti”.
Negli ultimi anni, in questo senso, gli USA effettivamente hanno già iniziato a rompere qualche tabù: ultimamente stanno completando un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di sistemi d’arma che, fino ad oggi, erano totalmente off limits, ma il caso più eclatante è quello degli accordi nell’ambito dell’AUKUS, che prevedono la condivisione nientepopodimeno che di tecnologia per i sottomarini nucleari con l’Australia. Ma non solo: grazie a questi accordi, Washington infatti ha dovuto prendere coscienza dei limiti della sua industria cantieristica, ha realizzato “che i produttori americani non sono abbastanza grandi o capaci per modernizzare la flotta sottomarina statunitense e al contempo costruire sottomarini per l’Australia” e questo ha spinto l’Australia “a investire 3 miliardi di dollari nell’espansione della base industriale sottomarina degli Stati Uniti”; questo tipo di condivisione totale, sostiene Mahnken, è l’unica strada che gli USA hanno per poter pensare di combattere contemporaneamente su tutti e tre i fronti della grande guerra globale contro il resto del mondo e ora si tratta di estendere a tutti gli alleati questa forma che più che di collaborazione, appunto, è di vera e propria integrazione totale a partire, come abbiamo sottolineato ennemila volte, dalla cantieristica giapponese e sud coreana, che sono l’unica chance che l’esercito unico dell’imperialismo ha di poter anche solo pensare di combattere ad armi pari con la Cina. “Israele” continua Mahnken “produce eccellenti sistemi di difesa aerea e missilistica, come l’Iron Dome, e la Norvegia mette in campo eccellenti missili antinave. Washington dovrebbe fare di più per incoraggiare questi alleati a condividere le proprie tecnologie di alto livello”; integrare queste capacità nazionali, ammette Mahnken, non sarà semplice: “L’industria della difesa” ricorda “è oggetto di politica interna, sia a Washington che nelle capitali alleate. Ecco perché, anche nelle aree in cui il Congresso ha cercato di promuovere la collaborazione, i funzionari della difesa si sono scontrati con ostacoli burocratici. Ci sono forti incentivi politici per mantenere intatte le barriere esistenti, a partire dalle preoccupazioni sui posti di lavoro nazionali, ma i funzionari statunitensi farebbero bene a resistere a tali pressioni ed eliminarle”.
Un discorso molto simile vale per le basi: gli Stati Uniti, ricorda Mahnken, “possiedono una rete globale senza precedenti di basi militari che gli ha permesso di proiettare il potere per oltre un secolo”; “Ma tutte queste basi”, sottolinea, “sono diventate sempre più vulnerabili, dal momento che gli avversari hanno acquisito la capacità di colpire con precisione su grandi distanze”. Per aumentare il livello di sicurezza dei propri asset militari, allora, USA e alleati devono aumentare a dismisura i posti a disposizione adeguatamente attrezzati dove dislocare liberamente truppe e mezzi: il Giappone ad esempio, sottolinea Mahnken, ha una quantità sterminata di location idonee per questo processo di dispersione, una quantità spropositata di “porti, aeroporti e strutture di supporto collegati alla rete stradale e ferroviaria giapponese”, ma secondo le regole attualmente in vigore, le forze armate giapponesi hanno accesso soltanto a una piccola frazione di queste location e gli USA, poverini, “ancora meno”. Questi vincoli, suggerisce Mahnken, devono essere rapidamente rimossi e altrettanto deve essere fatto urgentemente in Australia che, nella seconda guerra mondiale, si era dotata di una quantità sterminata di postazioni a disposizione della guerra USA contro il Giappone e che ora devono essere “rinnovate ed espanse” e, ovviamente, messe completamente a disposizione della NATO globale.
Insomma: l’idea è quella di avere una quantità di potenziali obiettivi superiore a quanti gli avversari possano realisticamente minacciare di attaccare con successo che, però, è una corsa piuttosto insensata, dal momento che se hai una base industriale sufficientemente sviluppata, è chiaramente più agile aggiungere un missile ipersonico al tuo arsenale che non costruire una nuova base; quindi in sostanza, com’è evidente, in un conflitto tra pari chi deve pensare a organizzarsi per disperdere la sua capacità offensiva rimarrà sempre un passo indietro rispetto a chi si limita a difendersi. Ed ecco allora che, oltre a moltiplicare le basi all’infinito, il punto è migliorare la capacità di difenderle; per farlo in modo efficace, le forze armate dell’imperialismo unitario “devono andare oltre l’approccio tradizionale alla difesa aerea e missilistica, che dipende dall’uso di un piccolo numero di intercettori costosi, verso uno che includa armi ad energia diretta (come laser o armi a impulsi elettromagnetici), un gran numero di intercettori a basso costo e sensori in grado di fornire le informazioni necessarie per sconfiggere attacchi grandi e complessi, come quello lanciato dall’Iran contro Israele in aprile” che, ricordiamo, è costato a chi s’è dovuto difendere circa 50 volte di più di quanto non sia costato a chi ha attaccato. “Australia, Giappone e Stati Uniti” ricorda Mahnken “hanno fatto progressi chiedendo lo sviluppo di un’architettura di difesa aerea e missilistica in rete per difendersi a vicenda”; ora, sottolinea Mahnken, si tratta di proseguire su questa strada anche perché, continua, a sua volta questo contribuirà all’interoperabilità complessiva, perché “addestrandosi e operando a stretto contatto tra loro in tempo di pace, le forze statunitensi e alleate svilupperanno abitudini di cooperazione che saranno loro utili in tempo di guerra”. Anche perché, insiste Mahnken, “interoperabilità significa molto di più che semplicemente condividere le risorse fisiche. Significa sviluppare concetti e strategie condivise. Washington deve avere conversazioni franche con i suoi alleati per contribuire a chiarire le ipotesi su obiettivi, strategia, ruoli e missioni e ottenere una migliore comprensione di come lavorare al meglio collettivamente. Gli Stati Uniti” conclude Mahnken “ovviamente non possono condividere tutto con i partner. Alcuni sistemi d’arma non dovrebbero mai essere condivisi. Ma la storia dimostra che gli americani ottengono risultati migliori quando combattono fianco a fianco con gli alleati. Mentre Washington si trova ad affrontare pericoli crescenti in tre regioni, deve imparare a cooperare e condividere meglio con i suoi numerosi amici”.
Insomma: Mahnken rappresenta al meglio la cultura dei figli dei fiori applicata al grande sterminio di massa che gli USA stanno preparando contro il resto del mondo per tenere in piedi il loro dominio planetario: vuole costruire una comune, solo che, invece che essere devota alla pace, deve essere devota alla distruzione totale; il messaggio sembra rivolto in particolare a chi, all’interno degli USA, continua a guardare con sospetto agli alleati temendo che i meccanismi di subordinazione finanziaria e tecnologica del superimperialismo, senza la minaccia della forza, da soli non bastino e che quindi condividere tecnologie, logistica e strategia potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio e potrebbe permettere un domani agli alleati di ritagliarsi spazi di autonomia strategica finora preclusi. E’ uno dei grandi dilemmi che, evidentemente, attraversa l’establishment dell’impero: per vincere la grande guerra, l’imperialismo ha bisogno di un grande esercito e di un complesso militare industriale unitario, ma per costruire un grande esercito unitario gli USA devono accettare di passare da alleanze che dominavano con la forza, a un’integrazione totale nell’ambito della quale, sostanzialmente, tutto viene condiviso con tutti; affinché questo non gli si ritorca contro, deve essere sicura che l’equilibrio di potere che attualmente è in vigore nei paesi vassalli – dove il potere politico è completamente ostaggio di borghesie compradore al servizio del centro imperiale contro i rispettivi interessi nazionali – sia eterno. E la storia recente sembra dargli ragione: in particolare, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2007 e, ancora di più, dallo scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina, le classi dirigenti europee si sono dimostrate i peggiori nemici possibili dei rispettivi Paesi. Rimane però da capire quanto questo sia stato determinato, a sua volta, proprio dal fatto che i paesi europei sono disarmati e succubi della potenza militare USA o quanto, invece, siamo di fronte a una condivisione profonda degli obiettivi strategici del centro imperiale e, anche in tal caso, quanto questa condivisione possa essere messa in discussione dall’evoluzione del quadro politico.
Insomma: la grande guerra impone agli USA di correre dei rischi che, fino ad oggi, aveva evitato accuratamente impedendo ai vassalli di riarmarsi e tenendosi stretta il controllo tecnologico. Prima che restringano definitivamente i pochi spazi democratici che permettono – almeno in linea di principio – di modificare il quadro politico, sarebbe il caso di battere un colpo, almeno per far venire il sospetto che potrebbero aver sbagliato i calcoli; per farlo, in assenza di un’organizzazione politica all’altezza, il terreno di battaglia per eccellenza è proprio quello della battaglia contro-egemonica e per combatterla abbiamo bisogno di un media. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Calenda

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Una nuova strategia per l’Italia – Passo dopo passo, come riprenderci la nostra sovranità

Bellissima intervista con l’analista Mimmo Porcaro, ex eurodeputato europeo e grande conoscitore delle dinamiche strategiche nazionali. Porcaro rifiuta l’idea paventata anche su Limes che l’Italia debba rinserrare ancora di più i rapporti con gli USA in funzione anti francese e anti tedesca per ritrovare una propria profondità strategica nel Mediterraneo. La proposta di Porcaro è opposta: una rivoluzione europea che porti ad un’alleanza forte tra gli Stati occidentali. Solo così il nostro paese potrà giocarsi le sue carte strategiche nel nuovo mondo multipolare e riottenere, passo dopo passo, la propria indipendenza e sovranità.

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Chi è Sahra Wagenknecht? La critica alla sinistra alla moda e l’accusa di rossobrunismo

Maischberger – 2023-02-08

Uno spettro si aggira per l’Europa!
È lo spettro del rossobrunismo ed ha un aspetto terrificante, il suo: si chiama Sarah Wagenknecht ed ha causato un vero e proprio terremoto in quel che rimane della così detta sinistra radicale europea.
Per la prima volta dai tempi della riunificazione tedesca, infatti, la scorsa settimana un partito ha proclamato il proprio autoscioglimento al Bundestag. Il partito in questione è Die Linke, un partito di sinistra radicale di cui Sarah Wagenknecht faceva parte e da cui in questi giorni ha annunciato la scissione insieme a un nutrito gruppo di parlamentari. Il nuovo partito si chiamerà Alleanza Sahra Wagenknecht, e il motivo della scissione è che agli occhi della Wagenknecht Die linke da forza radicale si è trasformata nell’ennesima variante di quella sinistra liberista e anti-popolare che anche noi in Italia, purtroppo, conosciamo molto bene.
Ma se anche potrebbe sembrare l’ennesima inutile scissione a sinistra e l’ennesimo partitino personalistico destinato sparire in poco tempo, questa volta le cose potrebbero andare diversamente.

Innanzitutto, la Wagenknecht è dei uno dei personaggi pubblici più conosciuti in Germania, il suo libro “critica alla sinistra neo-liberale” è stato per anni un best-seller, e secondo un sondaggio del periodico Frankfurt Allgemeine Zeitung il 27% dei tedeschi non escluderebbe di votare il suo nuovo partito.
Inoltre, l’attuale coalizione di sinistra che governa la Germania è forse uno dei più grandi fallimenti politici degli ultimi decenni, avendo spinto il paese sull’orlo della recessione a causa di una politica estera suicida, e avendo così trasformato l’AFD, il principale partito dell’estrema destra tedesca, e di gran lunga il primo partito in molti dei laender economicamente più arretrati. La sinistra liberal e alla moda insomma, in questi anni di governo del paese ha sfoggiato senza ritegno tutte le proprie ipocrisie, contraddizioni, e soprattutto incapacità di perseguire l’interesse nazionale e popolare, aprendo finalmente gli occhi a molti elettori e forse lo spazio ad un soggetto politico nuovo. La cosa sorprendente però, è che alcune delle persone interessate alla proposta politica della Wagenknecht sembrerebbero proprio molti degli attuali elettori dell’AFD.

Ma non è una novità.

Una delle accuse che le sono state più spesso rivolte in questi anni infatti, appunto, è quella di rosso-brunismo, a causa delle sue posizioni sovraniste, del suo scetticismo su alcune politiche ambientaliste e alla sua posizione decisamente conservatrice relativamente alle politiche migratorie.
Ma quale è quindi la vera linea politica della Wagenknecht? E perché le sue proposte si pongono perfettamente agli antipodi rispetto a quelle della “sinistra della ZTL”?

“Il rappresentante della sinistra alla moda è cosmopolita e ovviamente a favore dell’Europa. Si preoccupa per il clima e si impegna in favore dell’ dell’immigrazione e delle minoranze sessuali. È convinto che lo Stato nazionale sia un modello in via di estinzione e si considera cittadino del mondo senza troppi legami con il proprio paese. Non può – né desidera – essere definito un “socialista”: semmai un liberale di sinistra.”

Nel suo libro “Critica alla sinistra neo-liberale”, uscito nel 2021 e pubblicato in Italia da Fazi editore, la Wagenknecht condensa il proprio manifesto politico e dipinge un ritratto realistico della sinistra occidentale degli ultimi decenni. Ad esser sinceri il titolo italiano non rende giustizia all’originale tedesco, che sarebbe Die Selbstgerechten, letteralmente “i pieni di sé”, “i presuntuosi”, con riferimento all’atteggiamento presuntuoso ed elitario dell’elettore medio della sinistra liberale.

«“Sinistra”, scrive Wagenknecht “era un tempo sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale, di resistenza, di rivolta contro la classe medio-alta e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra”, prosegue la Wagenknecht, “voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale, rendere loro la vita più facile, più organizzata e pianificabile. Chi era di sinistra credeva nella capacità della politica di plasmare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato. Nel complesso”, conclude la Wagenknecht, “una cosa era chiara: i partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o, in molti paesi dell’Europa occidentale, comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati».

Ma oggi le cose sono evidentemente cambiate. L’autrice individua il punto di svolta nella cosiddetta “terza via” di Clinton, Blair e Schröder, che diede inizio alla seconda ondata di riforme economiche neoliberali dopo quella di Reagan e di Thatcher, e che trovò come sappiamo illustri imitatori anche nella sinistra italiana. Se un tempo al centro dell’interesse dei partiti di sinistra c’erano i problemi sociali ed economici da cui lo Stato aveva il dovere di emancipare la maggioranza della popolazione, oggi per la “sinistra alla moda” come la chiama Wgenknecht, sembra che i problemi fondamentali delle persone comuni non riguardino la sicurezza sociale e la povertà, ma bensì questioni come gli stili di vita, le abitudini di consumo, e i giudizi morali sul comportamento individuale. Problemi insomma più facilmente risolvibili con qualche lezione di bon ton e qualche appuntamento dall’armocromista piuttosto che con nuove politiche sociali ed economiche. Frutto di questo approccio ai problemi secondo Wagenknecht sono due distinti cambi di linea politica: il primo è lo spostamento dal campo dei diritti sociali a quello dei diritti civili e, più di recente, della salvaguardia ambientale; il secondo è la sostanziale adesione all’identificazione concettuale e politica, prima solo della destra, tra politiche economiche neoliberiste e l’idea di “progresso”.

Altro aspetto distintivo della sinistra alla moda, scrive la Wagenknecht, è quello di risultare ipocrita e poco simpatica, e questo perché: “pur sostenendo una società aperta e tollerante, mostra di solito nei confronti di opinioni diverse dalle proprie un’incredibile intolleranza”.

E Di questo atteggiamento intollerante e presuntuoso la stessa Wagenknecht ci offre diversi esempi che ci ricordano le etichette dispregiative e gli slogan a cui anche noi in Italia siamo purtroppo abituati. «Chi si aspetta che il proprio governo si occupi prima di tutto del benessere della popolazione interna e la protegga dal dumping internazionale e da altre conseguenze negative della globalizzazione – un principio, questo, che per la sinistra tradizionale sarebbe stato ovvio – viene oggi etichettato come nazionalsociale” (L’insulto corrispettivo di “sovranista” in Italia) E «chi non trova giusto trasferire sempre più competenze dai parlamenti e dai governi prescelti a un’imperscrutabile lobbycrazia a Bruxelles è di certo un antieuropeo».
Come ci viene ripetuto continuamente in Italia, chi desidera che l’immigrazione sia regolamentata è un razzista, chi ritiene che il Trattato di Maastricht e la moneta unica abbia in gran parte danneggiato i lavoratori e la nostra economia è un “nostalgico della liretta”, chi ritiene che lo Stato debba recuperare alcune prerogative fondamentali è una persona fuori dal tempo che non ha capito che siamo nell’epoca della globalizzazione. Come ricorda anche Vladimiro Giacchè nell’Introduzione al libro, tra gli aspetti importanti di questo saggio c’è poi il coraggio di mettere direttamente in questione valori fondamentali della sinistra alla moda come l’individualismo e il cosmopolitismo.

Wagenknecht osserva infatti che: «con questi valori si può sottrarre legittimità tanto a una concezione dello Stato sociale elaborata entro i confini dello Stato nazionale, quanto a una concezione repubblicana della democrazia. Ricorrendo a questo canone di valori, è possibile inserire il liberismo economico, la globalizzazione e lo smantellamento delle infrastrutture sociali in una narrazione che li fa apparire alla stregua di cambiamenti progressisti: una narrazione che parla di superamento dell’isolamento nazionalista, dell’ottusità provinciale e di un opprimente senso della comunità, una narrazione a favore dell’apertura al mondo, dell’emancipazione individuale e della realizzazione di sé».

Naturalmente, questa mutazione antropologica delle sinistre occidentali non poteva che spianare la vittoria delle destre più reazionarie proprio tra gli strati più disagiati della popolazione. Questi elettori vedono nella retorica e nelle politiche della sinistra alla moda un duplice attacco nei propri confronti: un attacco ai loro diritti sociali, in quanto viene descritta come modernizzazione progressista proprio la distruzione di quello stato sociale che dava loro benessere e la sicurezza; ma al tempo stesso un attacco ai loro valori e al modo in cui vivono, costantemente delegittimato moralmente e squalificato come retrogrado.
Insomma, conclude la Wagenknecht, possiamo tranquillamente dire che i partiti di sinistra occidentale oggi non rappresentino più gli interessi degli ultimi e dei più svantaggiati, ma anzi quelli di una up-middle class metropolitana che anche attraverso la sua sostanziale egemonia negli apparati mediatici e culturali combatte ogni giorno con gli artigli per conservare i propri privilegi e contemporaneamente affossare, come fisiologico in ogni lotta di classe, le condizioni di vita delle classi sociali inferiori.
Eppure, nonostante tutto questo, i rappresentanti della sinistra alla moda non sembrano proprio capacitarsi di come mai non vengano più votati nelle provincie e nelle periferie, o meglio, lo hanno capito. Il motivo è che essendo i poveri (detto tra noi) un pò ignoranti e retrogradi, non sono nemmeno in grado poverini di capire quali sono o loro veri interessi, e così si lasciano facilmente abbindolare da quei rozzi populisti e sovranisti. Insomma, se il popolino fosse un tantino più illuminato e moralmente progredito, immediatamente capirebbe che i populisti stanno parlando alla loro pancia e non alla loro testa, che la realtà è più complessa di come sembra, e che costruire ponti è sempre molto più saggio che costruire muri.

La seconda parte del libro della Wagenknecht è dedicata invece alla sua proposta politica.

Ovviamente qui ci limitiamo a richiamare i punti più interessanti, non potendo analizzare tutto nel dettaglio né discutere alcune delle sue teorie più controverse sul clima e sull’immigrazione. Uno dei motivi per i quali molti ex elettori di sinistra hanno cominciato a votare a destra, riflette la Wagenknecht, è che una certa destra sociale anche se quasi sempre solo a parole, ha continuato a fare riferimento a concetti come comunità, nazione, e difesa senza e senza ma dei propri cittadini, che invece la sinistra alla moda ha sostanzialmente abbandonato in nome del liberismo economico, del cosmopolitismo, dell’individualismo. La sinistra del futuro quindi, riallacciandosi alla propria tradizione socialista, dovrà recuperare questi valori, che non sono valori retrogradi o identitari, ma anzi possiedono una forte carica democratica e di emancipazione umana e materiale.

“Una sinistra che ridicolizzi il pensiero comunitario e i valori che da esso derivano perde consensi e diventa sempre più ininfluente. Ma non si tratta solo di questo. La vera domanda è un’altra: i valori comunitari sono davvero invecchiati e superati? Il desiderio di vivere in un mondo fidato e riconosciuto, di avere posti di lavoro sicuri, di risiedere in quartieri tranquilli e godere di rapporti familiari stabili è davvero un sentimento retrogrado? Oppure questi valori non sono invece un’alternativa molto più convincente al capitalismo sfrenato, che si fa portavoce dell’individualismo, dell’autorealizzazione priva di vincoli, dell’idea tipica del liberalismo di sinistra di essere cittadini del mondo, un’idea che, guarda caso, si adatta particolarmente bene all’ambiente economico dei mercati globali e alle aspettative di mobilità e flessibilità delle imprese?”

Ma il vero e proprio nemico politico del pensiero liberista di destra e di sinistra, è secondo la Wagenknecht lo Stato nazionale. Secondo la retorica della destra liberista, che combatte ogni giorno e senza ipocrisie contro la redistribuzione della ricchezza e a favore delle oligarchie finanziare, lo Stato deve essere abbattuto in quanto il welfare sarebbe troppo costoso, la burocrazia limiterebbe la libera impresa, e la gestione privata dei servizi sarebbe ontologicamente più efficiente di quella pubblica. La variante di sinistra a questo attacco allo Stato invece, consiste nel rappresentare lo Stato nazionale:«non solo come obsoleto, ma addirittura come pericoloso, ovvero potenzialmente aggressivo e guerrafondaio. Per questo i contributi del liberalismo di sinistra sul tema culminano quasi sempre con l’avvertimento che non ci deve essere un ritorno allo Stato nazionale, come se esso facesse parte del passato e noi vivessimo già in un mondo transnazionale».
In Italia, dove l’esterofilismo snob della elite di sinistra ha ormai raggiunto livelli surreali, va di moda dire che per loro limiti ontologici gli italiani non sarebbero in grado di governarsi da soli, e che quindi dovremmo immediatamente cedere quanti più poteri e sovranità possibile ai tecnici dell’Unione europea, i quali non essendo stati eletti non sarebbero populisti e saprebbero sicuramente tutelare meglio di noi il nostro interesse. Ma al di là di questa parentesi un pò folkloristica e tornando al testo della Wagenknecht, all’autrice l’idea che l’UE possa sostituire le democrazie nazionali appare invece una pericolosa illusione.

I diritti attribuiti al Parlamento europeo infatti non solo sono ben poco rilevanti, ma funzionano oggi da malcelata copertura a una deterritorializzazione delle decisioni politiche a vantaggio di poteri sovranazionali opachi e sostanzialmente privi di legittimazione democratica.

«Il progressivo scivolamento delle competenze decisionali dal piano nazionale più controllabile ed esposto alla sorveglianza pubblica” scrive Wagenkncht “a quello internazionale, poco trasparente e facilmente manovrabile da banche e grandi imprese, significa allora soprattutto una cosa: la politica perde il suo fondamento democratico».

Alla pericolosa utopia europeista, per la quale per incanto i 27 Stati membri a suon di pacche sulle spalle si unificheranno in un grande abbraccio democratico e fraterno, Wagenknecht contrappone allora un’altra prospettiva: «il livello più alto in cui potranno esistere istituzioni, che si occupino del commercio e della soluzione di problemi condivisi e siano controllate in modo democratico, non sarà in tempi brevi né l’Europa né il mondo. Sarà, invece, il tanto vituperato e troppo precocemente dato per morto Stato nazionale. Esso rappresenta al momento l’unico strumento a disposizione per tenere sotto controllo i mercati, garantire l’uguaglianza sociale e liberare determinati ambiti dalla logica commerciale. È quindi possibile ottenere maggiore democrazia e sicurezza sociale non limitando, bensì accrescendo la sovranità degli Stati nazionali».

Per concludere, vorrei fare infine un accenno alla politica estera.

In questi anni la Wagenknecht ha spesso preso posizione contro le politiche americaniste del proprio paese, soprattutto durante la guerra in Ucraina e riguardo alle suicide sanzioni economiche imposte alla Russia. Ma sia nel suo libro che nelle sue ultime dichiarazioni la questione della vitale lotta di indipendenza tedesca dagli Usa non viene affrontata abbastanza, e questo nonostante sia assolutamente evidente come tutte le derive della sinistra europea che lei dice di combattere siano una chiara importazione dei valori e del modello culturale del partito democratico americano. In generale, credo si possa però dire che la descrizione della Wagenknecht della sinistra alla moda sia giusta e calzante, e che la sua proposta politica sia interessante in moltissimi aspetti anche se decisamente discutibile in altri.

E se anche tu ti auguri che anche in Italia possano affermarsi nuovi soggetti politici liberi dalle maglie ideologiche collaborazioniste, abbiamo bisogno di un media libero e indipendente che combatta l’egemonia culturale della sinistra alla moda

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