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Autore: OttolinaTV

Un gigante contro le oligarchie: La storia di Michael Hudson, il più grande economista vivente

Micheal hudson nasce nel 1939 a minneapolis, “l’unica città trotzkista al mondo”, l’ha definita.

Ma i legami con Trotzky di hudson andavano oltre minneapolis.

I suoi genitori avevano lavorato direttamente con lui in messico e tornati a Minneapolis, si erano messi alla testa del leggendario sciopero generale degli autotrasportatori del 1934 che bloccò l’intera logistica di dell’upper midwest per oltre tre mesi.

Sei anni dopo, il padre di Michael pagherà il suo attivismo con il carcere, grazie all’entrata in vigore del famigerato smith acts che nell’arco di un paio di decenni consentì l’arresto per motivi ideologici di oltre duecento militanti comunisti e socialisti.

“Quindi”, ricorda Hudson, “sin da piccolo ho avuto a che fare quotidianamente con i vecchi membri dei partiti comunisti americano, tedesco… passavano tutti per casa mia, e mi raccontavano continuamente storie legate alla rivoluzione. E così ero quasi predestinato a guidarne una, se mai se ne fossero riscontrate le condizioni. Il mio interesse è sempre stato capire quali fosse quelle condizioni”

Il padre di Michael, si mormora, aveva il quoziente intellettivo più alto di tutto il sistema penitenziario USA, così si convinsero che anche michael fosse fatto della stessa pasta e lo introdussero a un percorso di studi per bambini savant. A 20 anni era già laureato: filologia germanica e storia della cultura. Nonostante, in realtà, in quegli anni avesse dedicato il grosso del tempo alla sua vera passione, la musica. Sarebbe voluto diventare direttore d’orchestra:

Andò anche a New York, per seguire i corsi di Dimitri metropolis, il direttore della New York philarmonic. Poco dopo però, morì la vedova di Trotzky, Natalia, e l’esecutore del suo testamento assegnò ad hudson tutti i diritti d’autore.

Dato che ero il figlioccio di trozky, avrei dovuto creare una casa editrice”. Riesce ad ottenere anche i diritti d’autore da George Lukacs, ma non riesce a trovare nessuno disposto a pubblicare le loro opere. In compenso però, conosce Terence McCarthy. Si stava occupando della traduzione in inglese del celebre manoscritto marxiano sulla teoria del plusvalore.

Passammo un intera nottata”, ricorda Hudson, “a discutere su come il ciclo dell’attività magnetica solare stava impattando sul livello delle acque in america, e avrebbe causato una carestia che a sua volta avrebbe portato al drenaggio di denaro dal mercato azionario e obbligazionario, causando una crisi finanziaria. trovai questo ragionamento così bello, così estetico, che decisi immediatamente che avrei dedicato la mia vita allo studio dell’economia”.

Hudson allora si iscrive alla New York university. Prende una seconda laurea in economia, e trova lavoro presso la saving banks trust company, “che era l’unica banca commerciale in cui tutti i risparmiatori mettevano i loro depositi”, ricorda Hudson.

Il suo lavoro consisteva nel tracciare l’andamento dei risparmi nella città di New York, e confrontare questo andamento con quello della concessione di mutui ipotecari

E “ho visto”, ricorda Hudson, “che il grafico dei depositi sembrava quello del battito cardiaco. i depositi avevano uno sbalzo ogni 3 mesi, quando venivano pagati i dividendi. Ho capito che sostanzialmente le persone lasciavano i loro soldi in banca perché crescessero automaticamente, in modo esponenziale con gli interessi. E ho visto come questi soldi, che si accumulavano esponenzialmente, venivano reinvestiti nel mercato immobiliare per spingere al rialzo il prezzo delle case”.

Per hudson quello diventerà un vero e proprio pallino.

“Nei libri di testo sembra che le banche prestino denaro all’industria. Ma le banche non prestano un centesimo all’industria per investire in beni capitali e assumere persone. Magari li prestano per acquistare un’industria che c’è già, e poi cannibalizzarla, ma non per creare capitale. L’80% dei prestiti bancari in realtà, sono prestiti immobiliari. Ma il mercato immobiliare non viene insegnato in nessun corso di economia”, anzi, se ti azzardi a parlarne, ti segano.

Ho dovuto seguire un corso di economia monetaria tenuto da un professore che non aveva mai lavorato in una banca in vita sua”, ricorda Hudson. “Sosteneva che il ciclo economico consistesse in banche di risparmio che mettono i loro soldi in banche commerciali, che a loro volta prestano soldi all’industria. Io provai a spiegargli che quello che lui chiamava sistema bancario commerciale in realtà era una sola banca, quella dove lavoravo io, e che noi non facevamo nessun prestito all’industria. Con i soldi, molto banalmente, compravamo obbligazioni. All’esame mi dette c+. Non avevo capito l’economia dei libri di testo, però avevo capito quello che c’è scritto nei libri di testo ha poco a che vedere con il funzionamento reale dell’economia”.

I libri di testo descrivono un universo parallelo, dove la distribuzione del reddito è giusta, tutti ottengono ciò che meritano, e non esiste reddito che non sia stato onestamente guadagnato. Tutto funziona alla perfezione e devi accettare il mondo così com’è. Ma io”, ammette il nostro guru, “il mondo così com’è non l’ho mai accettato”.

Dopo l’istruttiva parentesi alla saving banks trust company, Hudson decide di approfondire il tema della bilancia dei pagamenti: “un altro tema”, sottolinea hudson, “che non viene trattato dai corsi di economia. o meglio, un tema che per come viene trattato, sarebbe meglio non lo fosse del tutto”.Per capire come funziona davvero, riesce a farsi assumere come analista dalla chase manhattan bank di david rockfeller, il fondatore del gruppo bildelberg e della commissione trilaterale. Hudson viene incaricato da rockfeller di fare uno studio sul saldo dei pagamenti dell’industria petrolifera.

Un vero e proprio rompicapo.

Hudson decide di concentrarsi in particolare sulla standard oil, vista la vicinanza a rockfeller

Ma spulciando i conti, c’è qualcosa che non gli torna. Non riesce a capire da dove standard oil tragga i suoi profitti.

Guadagna estraendo petrolio? Raffinandolo? Distribuendolo alle pompe di benzina? Dai documenti, non si riusciva a capire, fino a che il tesoriere di standard oil non gli svela l’arcano: “i soldi li guadagnamo proprio qui, nel mio ufficio”.

Ecco come Hudson ha capito il ruolo fondamentale ricoperto dai paradisi fiscali. Sostanzialmente, standard oil aveva le sue succursali in Paesi come Panama o la Liberia. che non erano veri e propri Paesi. Non avevano nessuna sovranità, e avevano adottato il dollaro, in modo da non rappresentare rischi sul versante del tasso di cambio della valuta. Queste filiali non facevano altro che una piccola operazione contabile. Compravano petrolio dai produttori a prezzi ridicoli, e lo rivendevano ai raffinatori a prezzi decuplicati. Sia produttori che raffinatori, non facevano un euro di profitto. Tutto il profitto lo facevano le succursali nei paradisi fiscali. Oggi è l’intera economia internazionale a funzionare così, ma oltre 50 anni fa, per hudson, fu una vera e propria rivelazione.

E non solo per Hudson…

Verso la fine del 1967, viene affiancato in ascensore da uno sconosciuto, che gli porge un fascicolo:

“È un rapporto del dipartimento di stato. Vorrebbero che tu ci aiutassi a calcolare quanti soldi potremmo ottenere se creassimo filiali bancari in questo tipo di paesi e diventassimo la banca per tutto il capitale criminale del mondo”, ricorda Hudson.

Non avrei potuto chiedere di meglio”, sottolinea sarcasticamente “avevo la massima collaborazione da parte di tutte le persone legate al governo, che i spiegavano come la cia lavorava con il traffico di droga e i criminali per raccogliere denaro. stavo diventando un vero specialista in riciclaggio”.

Dopo l’anno vissuto intensamente tra paradisi fiscali e riciclaggio di denaro alla chase Manhattan, per approfondire l’applicazione delle sue teorie sulla bilancia dei pagamenti, hudson decide di andare a lavorare alla Arthur Andersen. All’epoca era una delle big five, le cinque principali aziende di consulenza e di revisione degli USA. Era anche la società che doveva controllare la veridicità dei bilanci della Enron, cosa che evidentemente non faceva troppo meticolosamente: nel 2001, dopo dieci anni di crescita tumultuosa, durante i quali la Enron aveva più che decuplicato il suo fatturato diventando così addirittura la settima più importante multinazionale usa in assoluto, si scoprì che era tutta fuffa, e che l’unica cosa che i dirigenti Enron facevano, era creare una quantità esorbitante di società fittizie nei paradisi fiscali. Quasi 900 in tutto. 600 soltanto alle isole Cayman.

L’anno dopo anche la Andersen, dopo 9 decenni abbondanti vissuti al massimo, fu costretta a chiudere i battenti. Da dipendente della Andersen, Hudson si accorge che l’intero deficit della bilancia commerciale USA per tutti gli anni ‘60, era interamente dovuto alle spese militari all’estero: “il settore privato del commercio e degli investimenti era esattamente in equilibrio”.

Hudson ricorda di aver consegnato il frutto del suo lavoro a William Barsanti, uno dei principali soci della andersen, nonché fondatore della filiale italiana del gruppo:“temo che dovremo licenziarti”, fu il commento di Barsanti tre giorni dopo.

Hudson ricorda che Barsanti gli raccontò di aver inviato la bozza del dossier nientepopodimeno che a Robert McNamara in persona, l’allora potentissimo Segretario di Stato dell’amministrazione Kennedy prima e Johnson poi e che da lì a breve sarebbe diventato ancora più potente nel ruolo di Presidente della banca mondiale per tredici lunghi anni.

Ci ha detto che se pubblichiamo questo rapporto, la Arthur Andersen non otterrà mai più un contratto governativo”, avrebbe detto Barsanti ad Hudson. “In tutti i documenti del pentagono che sono stati resi pubblici successivamente”, sottolinea Hudson, “non c’è alcuna discussione sui costi del saldo dei pagamenti della guerra del vietnam”.

Una mancanza non da poco: era proprio quella voragine che di lì a poco avrebbe messo definitivamente fine all’era del gold standard. In Vietnam infatti, che era un’ex colonia francese, le banche esistenti erano tutte francesi. Soldati ed esercito USA le riempivano di dollari. e quando i dollari arrivavano in Francia, De Gaulle aveva dato mandato di convertirli subito in oro.

Con molto meno clamore, la Germania intanto stava facendo la stessa cosa. Incassava dollari dalle esportazioni, e poi li convertiva tutti immediatamente in oro

Alla fine”, ricostruisce Hudson, “gli usa hanno abbandonato la convertibilità del dollaro in oro nel 1971. e allora io ho messo insieme tutti gli articoli che avevo scritto sul tema, ed ecco come nasce il mio primo libro”.

E’ “Superimperialismo”, in assoluto uno dei testi di economia politica più importanti di tutto il ventesimo secolo. Con dovizia di particolari, prima ancora che il funzionamento dell’imperialismo finanziario usa entrasse a pieno regime, Hudson dimostra come la fine del Gold Standard imporrà nei decenni a venire ai Paesi che incassano dollari grazie all’attivo commerciale di investirlo in larghissima parte in titoli del tesoro a stelle e strisce.

Quindi gli USA fanno deficit mostruosi per imporre il loro presunto strapotere militare a tutto il pianeta, ma i dollari che spendono vengono inevitabilmente reinvestiti da chi gli incassa per rifinanziare proprio quel debito. Un gigantesco schema ponzi, tenuto in piedi però dall’uso spregiudicato della forza da parte dell’esercito più grande e costoso della storia dell’umanità.

Hudson l’aveva capito nel 1972. I liberioltristi, compresi quelli che magari hanno una cattedra di economia in qualche università blasonata, per digerirlo dovranno attendere ancora qualche generazione.

Tra quelli che invece capirono subito la portata delle intuizioni di Hudson, c’era anche un certo Hernan Khan, l’uomo che avrebbe ispirato il personaggio del dottor stranamore di Kubrick.

Khan aveva da poco lasciato il suo posto alla Rand Corporation per fondare l’influentissimo Hudson Institute. E dopo aver sentito Hudson presentare il suo libro in una conferenza dedicata agli operatori di Wall Street, lo volle immediatamente al suo fianco. Nei mesi successivi, Hudson e Khan girarono il pianeta per illustrare le idee di Michael su come avrebbe funzionato da lì in avanti la bilancia dei pagamenti.

Ma gli mancava ancora un pezzetto.

Perchè ora che Bretton Woods e la convertibilità in oro erano saltati, come avrebbero fatto gli USA a imporre al resto del pianeta di continuare a usare sempre e soltanto dollari come valuta di riserva globale?

La risposta arrivò poco dopo

Rientrati da uno dei loro infiniti tour in giro per il mondo, Hudson e Khan vengono vengono invitati alla Casa Bianca per una riunione sul petrolio e la bilancia dei pagamenti.

Al tesoro era stato nominato George Schultz, che svelò ad Hudson l’arcano. Poco prima, gli USA avevano fatto in modo che il prezzo del grano aumentasse a dismisura per finanziare una parte dell’avventura vietnamita. L’opec guidata dai sauditi aveva reagito aumentando più o meno allo stesso modo il prezzo del petrolio. Schultz però non sembrava esserne più di tanto contrariato:

Più alto è il prezzo del petrolio, più le compagnie americane avrebbero guadagnato sul petrolio domestico”, avrebbe detto Schultz ad Hudson.

Ma sopratutto, l’unica condizione che aveva posto ai sauditi era che dovevano prezzare il petrolio esclusivamente in dollari, utilizzare solo dollari per i pagamenti, e “riciclare tutti i dollari che incassavano negli stati uniti”. Altrimenti, “è un atto di guerra”.

Ma cosa ci puoi comprare negli usa con i dollari?

Di sicuro “non puoi comprare le aziende americane”, ci puoi solo comprare un po’ di azioni, senza acquisire il controllo delle aziende, e soprattutto tante tante obbligazioni.

E così finalmente eccomi qui”, scrive Hudson, “nel bel mezzo della comprensione di come funziona davvero l’imperialismo. peccato che non sia quello che viene raccontato nei libri di testo”. Per seguire la tappa successiva dell’incredibile avventura del nostro economista preferito, bisogna spostarsi in Canada.Il Governo cercava qualcuno che conoscesse a fondo il mercato azionario e obbligazionario americano Volevano capire dove avrebbero potuto trovare i soldi necessari per finanziare un ambizioso piano di investimenti interni per aumentare la produttività della loro economia. Hudson gli presentò uno studio che li lasciò basiti: “avevo scritto uno studio che dimostrava che il Canada per investire internamente a livello provinciale, non aveva necessariamente bisogno di prendere denaro in prestito dall’estero. Potevano semplicemente creare la loro stessa moneta. in pratica, era il primo esempio di ciò che oggi viene chiamata modern monetary theory. il succo è che i Paesi sovrani creano la loro moneta, che è il loro credito, e non hanno bisogno di una copertura”. Non è l’unica avventura canadese di Hudson.

Il suo rapporto suscitò grande interesse tra tutti i banchieri del regno Fino a che uno dei più autorevoli analisti finanziari dell Royal bank decise che Hudson lo doveva aiutare a portare avanti la sua grande battaglia culturale. “Mi disse che a suo avviso gli economisti in buona parte avevano un problema di personalità, e che non riescono a capire come funziona concretamente il mondo. sono affetti da una sorta di autismo che gli permette di pensare esclusivamente in termini del tutto astratti, senza riuscire ad avere un senso della realtà economica nella sua concretezza”.

Hudson si ritrova così a fare da consulente al Segretario di Stato del Canada, che è responsabile anche dell’istruzione, della cultura e dell’industria cinematografica.

Nel frattempo Hudson era diventato anche consulente economico dell’unitar, l’istituto delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca. Aveva curato alcuni rapporti sul debito dei Paesi del terzo mondo denominato in dollari, e su come questo stesse destabilizzando le loro economie

Fino a che l’allora presidente del Messico non organizzò una conferenza a Città del Messico, ed ebbe la pessima idea di invitare Hudson. Affermò pubblicamente che non c’era modo che i debiti del terzo mondo potessero essere davvero pagati: “quando lavoravo per Chase Manhattan”, ricorda Hudson, “mi ero occupato di calcolare quante esportazioni potevano potenzialmente effettuare paesi come argentina, Brasile o Cile. L’idea era che tutti i guadagni delle esportazioni dovessero essere utilizzati per pagare gli interessi sui prestiti ricevuti dalle banche americane”

Quindi prima si calcolava quanti quattrini avrebbero potuto pagare ogni anno come servizio sul debito grazie al surplus commerciale, e poi si trovava il modo di convincerli per indebitarsi per la cifra corrispondente

In questo modo i Paesi non avrebbero mai avuto la possibilità di ripagare oltre agli interessi anche il debito stesso, e sarebbero rimasti eternamente in pugno delle oligarchie finanziarie USA. “Alla conferenza in messico mi limitai a dire che visto che proprio per come erano stati architettati questi debiti oggettivamente non potranno mai essere ripagati, e che quindi molto semplicemente non sarebbero dovuti essere ripagati”.

Come venne tradotto questo semplice concetto durante la conferenza stampa che seguì la riunione?

Il giornalista che presiedeva la conferenza stampa”, ricorda Hudson, affermò che “il dottor Hudson ha presentato un rapporto dicendo che i Paesi del terzo mondo dovrebbero esportare di più per pagare i loro debiti”.

Peccato che non tornino le date, altrimenti avrei affermato con sicurezza che si trattava per forza di Federico Rampini.

Da lì in poi questa sarebbe diventata la nuova fissazione di Hudson. “Mi resi conto”, ricorda, “che l’idea che i debiti potessero non essere pagati era così controversa, che decisi di scrivere una storia delle cancellazioni del debito”. Hudson comincia così a scavare a ritroso. Prima arriva al Medio Evo. poi all’Impero romano, poi alla Grecia e alla fine a Babilonia e ai sumeri.

Mi resi conto che non esisteva una storia economica dei sumeri e di Babilonia. c’era molto materiale sulla religione e sulla cultura, ma niente su quello che mi interessava davvero: la storia delle cancellazioni del debito”.

Tramite un amico, Hudson presenta il suo piano di ricerca all’allora direttore del Peabody museum, il prestigioso museo di archeologia ed etnologia dell’università di Harvard.

““questo è fantastico”, mi disse subito con entusiamo, “nessuno sta lavorando su questo””.

Hudson diventa così ufficialmente membro del Peabody museum per l’archeologia babilonese.

Dedicherà a questa ricerca i successivi tre anni della sua vita.

Quello che Hudson riesce a ricostruire è che la maggior parte dei debiti in realtà non erano il risultato di prestiti. “La maggior parte dei debiti”, ricostruisce “si verificava quando i raccolti fallivano, e i coltivatori non potevano pagare le tasse da un alto, e gli altri beni e servizi che avevano consumato nel frattempo dall’altro”.

Secondo Hudson infatti il denaro sostanzialmente nasce così: altro non è che la misura contabile di beni e servizi consumati, che poi ripaghi una volta che arriva il momento del raccolto. Se il raccolto c’è.

Ma la cosa straordinaria che ha scoperto Hudson è che, per chi non riusciva a ripagare i debiti con i raccolti successivi, “per mille anni, ogni sovrano, quando saliva al trono, iniziava il suo Regno cancellando i debiti. Una vera e propria amnistia”.

Il sovrano era interessato ad annullare i debiti per permettere all’economia di ripartire. Senza debiti sulle spalle, i sudditi potevano tornare tranquillamente a lavorare la loro terra, pagare le tasse, e nel tempo che gli avanzava prestare la loro manodopera per i lavori di corvé e nell’esercito. Ma l’interesse del sovrano si scontrava contro gli interessi degli altri creditori. Loro non avevano nessun interesse affinchè l’economia ripartisse e i sudditi ritrovassero un loro equilibrio. Al contrario, il loro interesse era proprio che i sudditi non riuscissero a ripagare i debiti e per pareggiare i conti fossero costretti a cedergli i loro terreni e a fare al loro posto i lavori imposti dal palazzo facendoci la cresta sopra. “La tensione nella storia, dal terzo secolo avanti cristo coi sumeri, all’impero bizantino”, scrive Hudson, “è la tensione tra il palazzo che vuole raccogliere le tasse e avere manodopera per i lavori pubblici e per l’esercito, e ricchi creditori che vogliono avere manodopera indebitata da far lavorare al loro posto, ottenendo un surplus economico pagato direttamente a loro. Il modo per ottenere il surplus economico, non era quello che Marx ha descritto come peculiare del capitalismo, e cioè impiegare manodopera per produrre beni da rivendere ricavando un profitto, ma attraverso il debito, con il prelievo degli interessi e alla fine il pignoramento delle terre, che era l’obiettivo reale”. Non è questione di filologia.

Quel conflitto tra l’interesse pubblico di permettere alle persone di contribuire concretamente alla creazione della ricchezza e l’interesso delle oligarchie finanziarie a rendere le persone schiave attraverso l’indebitamento, è esattamente quello che ci ritroviamo di fronte oggi dopo cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista e di finanziarizzazione totale dell’economia in tutto il nord globale. Un conflitto che, come ci insegna Hudson, oggi ha assunto una dimensione anche geopolitica, perché la nuova guerra fredda è in fondo proprio guerra tra due sistemi contrapposti: lo sviluppo delle forze produttive dell’economia reale da un lato, e il parassitismo delle oligarchie finanziarie dall’altro.

Se oggi abbiamo gli strumenti per leggere lo scontro tra sud e nord globale come la partita decisiva del conflitto tra il 99% e l’1%, lo dobbiamo in buona misura proprio a lui.

Michael Hudson, il più grande economista vivente.

Del quale però, incredibilmente, non esiste nemmeno un testo tradotto in italiano.

Tra i millemila progetti futuri di OttolinaTV c’è anche questo: la pubblicazione per la prima volta in italiano per lo meno delle opere principali tra le decine e decine di capolavori prodotti da Hudson in questi cinquanta e passa anni.

Non saranno i quattrini di qualche oligarca a consentirci di colmare questa incredibile lacuna

Per farlo, come in generale per riuscire finalmente a creare un vero media che dia voce al 99%, abbiamo bisogno del tuo aiuto: Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su gofundme ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su paypal ( https://shorturl.at/knrcu ).

E chi non aderisce è Federico Rampini

Fate fuori Berlinguer: La guerra dell’impero contro un patriota che sognava il multipolarismo

Giugno 1976

Puerto Rico

Le sette principali economie del Nord Globale si incontrano per il secondo vertice del G7. Tra loro, un osservato speciale: l’Italia.

Appena una settimana prima, infatti, in Italia si erano tenute le elezioni politiche, e il Partito Comunista aveva ottenuto la bellezza di oltre il 34% dei consensi, l’8% in più delle elezioni precedenti, avvicinando così il tanto temuto sorpasso sulla democrazia cristiana.

I presunti alleati sono terrorizzati. 

Fortunatamente per loro però l’Italia versava nel frattempo anche in condizioni economiche decisamente complesse.

Ed ecco allora la soluzione: USA, Gran Bretagna, Francia e Repubblica Federale Tedesca sottoscrivono un accordo segreto. Avrebbero concesso aiuti economici all’Italia, ma a tre condizioni: l’esclusione dei comunisti dal futuro governo, l’introduzione di alcune riforme di carattere neoliberale e il ricambio radicale della leadership democristiana.

Così, giusto se qualcuno ancora si chiedesse chi sono i mandanti dell’omicidio Moro.

Non ho esperienza o conoscenza di una politica di tale ingerenza nel passato nei confronti di un paese altamente sviluppato e stretto alleato”, avrebbe dichiarato poco dopo un funzionario inglese presente al vertice.

D’altronde, tutto sommato, le loro preoccupazioni erano più che giustificate.

Nell’Aprile del 1974 in Portogallo le forze popolari guidate dalla fazione progressista delle Forze Armate avevano messo fine ai 40 anni dell’Estado Novo di ispirazione clericofascista del dittatore Antonio de Oliveira Salazar.

Pochi mesi dopo, nel Luglio del ‘74, in Grecia cadeva il governo dittatoriale instaurato sette anni prima con il golpe dei colonnelli e nel novembre del ‘75, in Spagna, a rimandare definitivamente a marcire nelle fogne dalle quali era arrivato quell’essere vomitevole di Francisco Franco ci aveva pensato Madre Natura.

Questi eventi”, scrive lo storico Antonio Varsori, “parvero per qualche tempo far ritenere possibile uno spostamento a sinistra degli equilibri politici nell’intera Europa meridionale, nonché il collasso del blocco occidentale in questa parte del continente”.

La clamorosa avanzata elettorale del PCI avrebbe accelerato in modo probabilmente irreversibile proprio questo processo.

Il terrore del Nord Globale di fronte a questa evenienza fino ad oggi è sempre stato letto con la lente, tutto sommato comprensibile, della contrapposizione tra democrazie liberali e modello sovietico.

Preferivi vivere in Russia?”, è la domanda standard che viene rivolta ogni volta che si affronta questa incredibile storia di ingerenza e di limitazione della sovranità.

Che poi, è la stessa che ci sentiamo rivolgere ancora oggi ogni volta che parliamo di multipolarismo: “Se ti piace tanto la Cina, perchè non ci vai?”

Peccato però si tratti in realtà di una narrazione totalmente farlocca, nella quale è caduta appieno anche la stragrande maggioranza di quella che una volta era la sinistra.

Perché la realtà purtroppo è molto peggiore: la guerra senza frontiere del Nord Globale contro Berlinguer e l’idea stessa del compromesso storico infatti, ovviamente, non ha niente a che vedere con la lotta tra le democrazie e dittature.

Piuttosto, al contrario, è un esempio eclatante della guerra senza frontiere che il capitalismo oligarchico del Nord Globale ha ingaggiato da quasi 50 anni contro la democrazia stessa.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno Storia e Filosofia nelle scuole superiori, e questo è il primo episodio della nuova stagione di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo di un grande eroe popolare: Enrico Berlinguer.

Al centro della nostra attenzione va posta la crisi che attraversano le società capitalistiche su scala mondiale in Europa e in Italia. Una crisi profonda e di tipo nuovo, dovuta al concorso di grandi processi di portata storica: l’ingresso e il peso crescente nell’arena mondiale di popoli e Stati prima soggetti al dominio coloniale; e l’esplodere delle contraddizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo dei paesi capitalistici più progrediti.

Nell’ultimo anno, siamo giunti a tassi di aumento dell’inflazione che, per i principali paesi capitalistici, raggiungono cifre elevatissime […]. E gli Usa stanno cercando di riguadagnare con tutti i mezzi parte del terreno perduto […] con le manovre speculative, con una crescente invadenza di capitali, e con il ricatto tecnologico”.

Sembra l’ennesimo pippone del nostro Giulianino. E invece siamo nel 1974.

E la penna è nientepopodimeno che quella di Enrico Berlinguer: comunista, democratico e patriota.

Le relazioni speciali con gli Stati Uniti”, continua Berlinguer, “sono diventate un vero e proprio anacronismo […] e costituiscono una inaccettabile limitazione del diritto sovrano del nostro popolo di decidere in piena libertà le vie per risolvere i nostri problemi nazionali e le corrispondenti soluzioni di governo”.

Ma quella di Berlinguer non è semplicemente l’ennesima lamentela inconcludente. Al contrario, perché secondo Berlinguer, in realtà, una via italiana per emanciparsi dall’egemonia a stelle e strisce c’è.

Oggi”, scrive infatti, “è possibile una politica estera italiana che non sia più fattore di divisione del nostro popolo ma sia invece fattore di unità, ed in cui si possono riconoscere tutte le forze politiche e democratiche e le grandi correnti ideali del nostro paese”.

Secondo Berlinguer, in sostanza, la lotta per un ordine internazionale più democratico che garantisca all’Italia il pieno esercizio della sua sovranità non è appannaggio di una minoranza ideologizzata, per quanto vasta, che guarda con favore al modello sovietico, ma è un obiettivo molto più generale, in grado di tenere insieme famiglie politiche anche molto diverse tra loro, in nome dell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione.

Come diciamo sempre a Ottolina, insomma, anche per Berlinguer sovranità e multipolarismo sono le parole d’ordine del 99%.

Ma Berlinguer va anche oltre: perché la conquista da parte dell’Italia di una vera sovranità non riguarda solo gli italiani, ma in generale la comunità umana, che vede minacciata la sua stessa sopravvivenza dalla reazione potenzialmente devastante del Nord Globale al tentativo di emancipazione dalle ingiustizie dell’ordine neocolonialista da parte dei paesi che allora definivano del Terzo Mondo.

Una politica estera che abbia a proprio fondamento la difesa della nostra autonomia da interferenze e condizionamenti stranieri”, scrive infatti Berlinguer, è la condizione per “un attivo contributo dell’Italia alla distensione, e alla cooperazione con tutti i paesi del Terzo mondo”.

Ma se la proposta politica di Berlinguer non ha niente a che vedere con la rivoluzione bolscevica e l’ingresso dell’Italia nella sfera di influenza sovietica, ed anzi è tutta volta al rafforzamento della democrazia italiana e alla sua indipendenza, perchè fa così paura agli alleati occidentali?

Per capirlo, bisogna forse intenderci un po’ meglio su cosa intendiamo davvero per democrazia.

Una riflessione che nel Partito Comunista Italiano era nata parecchio tempo prima.

Già nel 1964 Togliatti nel suo memoriale di Yalta notava infatti come “oggi sorge nei paesi più grandi la questione di una centralizzazione della direzione economica, che si cerca di realizzare con una programmazione dall’alto, nell’interesse dei grandi monopoli e attraverso l’intervento dello Stato. Questa questione”, osserva lucidamente Togliatti, non solo è all’ordine del giorno a livello interno in tutti i paesi dell’Occidente, ma “già si parla di una programmazione internazionale”.

Questa “programmazione capitalistica”, avverte Togliatti, “è sempre collegata a tendenze antidemocratiche e autoritarie”, contro le quali diventa assolutamente urgente e indispensabile “opporre l’adozione di un metodo democratico anche nella direzione della vita economica”.

Contro il formalismo democratico dei paesi imperialisti, Togliatti introduce un’idea di democrazia sostanziale come strumento per ribaltare i rapporti di forza tra dominanti e subalterni. È sostanzialmente il programma da contrapporre alla controrivoluzione neoliberista che travolgerà il pianeta a partire da una decina di anni dopo, ma che Togliatti con incredibile lungimiranza aveva cominciato ad avvertire già allora.

Contro la svolta autoritaria del neoliberismo che delega la programmazione economica dall’alto alle oligarchie, la soluzione non può che essere introdurre sempre più elementi di democrazia all’interno del sistema economico stesso.

Come affermava lucidamente Luigi Longo durante l’XI congresso del PCI del 1966, “si tratta di battersi per la conquista di nuove forme di partecipazione diretta, e di nuove forme di controllo, dal basso, delle molteplici attività che costituiscono la fitta rete del potere”.

Mentre le socialdemocrazie e il tradunionismo europei erano tutti concentrati esclusivamente verso l’estensione del sistema di welfare, il PCI puntava dritto al cuore del potere capitalistico, elaborando una strategia complessiva volta a spostare strutturalmente i rapporti di forza all’interno del sistema produttivo a favore dei lavoratori. Ed è proprio in questa ottica che va letta l’idea del compromesso storico che è al centro dell’elaborazione di Berlinguer. Contro la traduzione in potere politico delle grandi concentrazioni oligarchiche di potere economico, la ricetta di Berlinguer è quella di una grande alleanza popolare in grado di trasformare in profondità le istituzioni repubblicane in senso realmente democratico. A partire dalla centralità del parlamento, dove la sovranità popolare si traduce nel potere effettivo dei rappresentanti dei cittadini produttori di controllare il sistema produttivo, ponendo così un argine alle derive tecnocratiche al servizio degli interessi delle oligarchie.

Da questo punto di vista, appunto, il piano nazionale e quello internazionale appaiono inscindibili: non si dà democrazia al di fuori della possibilità di esercitare pienamente la sovranità e non si dà sovranità al di fuori di un nuovo ordine multipolare.

La Pace al primo posto, come ha deciso di intitolare la sua raccolta di scritti e discorsi di Enrico Berlinguer sulla politica internazionale una delle punte di diamante di questa famiglia allargata che è Ottosofia, il mitico Alexander Hobel, probabilmente il più profondo conoscitore e analista di quella incredibile avventura popolare che è stata la storia del Partito Comunista Italiano. Una pace che appunto è da ottenere e difendere proprio attraverso l’ampliamento continuo degli spazi di democrazia sia a livello nazionale che internazionale. Perché “una pace non precaria, ma solida e duratura, per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia”.

Per riflettere insieme sull’incredibile attualità del pensiero di Berlinguer in questa nuova fase di contrapposizione tra la volontà di emancipazione del Sud Globale e la reazione potenzialmente devastante delle vecchie potenze imperialistiche, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 20 Settembre a partire dalle 21 con una nuova imperdibile puntata di Ottosofia.

Ospite d’onore, ça va sans dire, il nostro amato Alexander Hobel.

E nel frattempo, se anche tu credi sia arrivato il momento di costruire un nuovo media che come Berlinguer metta LA PACE AL PRIMO POSTO, cosa fare probabilmente lo sai già.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Francesco Cossiga.

Fonti:

Logo Gazzetta Filosofica: https://www.gazzettafilosofica.net/

Copertina libro: https://www.ibs.it/pace-al-primo-posto-scritti-ebook-enrico-berlinguer/e/9788855225168?gclid=CjwKCAjwjaWoBhAmEiwAXz8DBWgVYNzVbxBxTlEjlaIOylt54reg_LgWLZS5h6xh57sj9WQ6VJW9YRoC92UQAvD_BwE

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Simbolo PCI: https://it.wikipedia.org/wiki/Partito_Comunista_Italiano

Antonio de Oliveira Salazar: https://it.wikipedia.org/wiki/Ant%C3%B3nio_de_Oliveira_Salazar

Foto di Enrico Berlinguer: https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Berlinguer

G20: l’umiliazione dell’unilateralismo e il mondo parallelo dei pennivendoli

Il giornale: G20, ecco la via delle spezie. La regia USA fa fuori Pechino.

La Stampa: un rotta dall’India a Venezia, gli USA danno scacco alla Cina.

Repubblica: Biden e Modi isolano Xi, ecco il nuovo corridoio India – medio Oriente contro la via della seta.

I mezzi di produzione del consenso del partito unico della guerra e degli affari, non hanno dubbi: dopo gli incredibili successi della controffensiva Ucraina, e il definitivo crollo dell’economia cinese, al G20 il nord globale è tornato in grande stile a dettare l’agenda globale. Indiani e sauditi hanno ritrovato il lume della ragione, hanno scaricato le velleità del fantomatico nuovo ordine multipolare, e sono tornati ai vecchi costumi: elemosinare una qualche forma di riconoscimento dall’Occidente globale. I rapporti commerciali con la Cina ormai sono roba da boomer e l’aria fresca di rinascimento che spirava dalle petromonarchie ai tempi di Renzi è tornata a soffiare più forte e ora irradia tutta la sua energia fino al subcontinente indiano.

L’Italia è pronta a raccoglierne i frutti: basta Cina, il futuro parla sanscrito, e se usciamo dalla via della seta non è perché ce lo ha imposto Washington, ma perché guardiamo lontano, laddove lo sguardo di voi complottisti sul libro paga di Putin e Xi, non riuscite manco ad avventurarvi.

Ma siamo proprio proprio proprio sicuri che questa narrazione sia anche solo lontanamente realistica?

“C’è un’immagine che più di tutte testimonia quanto accaduto durante il g20 di Delhi”, scrive Stefano Piazza su La Verità, “il presidente americano joe biden sorridente, stringe la mano al principe ereditario saudita mohammed bin salman insieme al padrone di casa Modi”.

Non ha tutti i torti.

Quella effettivamente è un’immagine decisamente potente. Peccato che simboleggi in modo plateale esattamente il contrario di quello che la propaganda suprematista sta cercando affannosamente di di farci credere. È la prova provata che ormai l’ameriCane abbaia, ma quando poi prova a mordere si accorge che gli mancano i denti, e allora si mette a scodinzolare. Se c’è un Paese che negli ultimi due anni ha dimostrato in modo evidente che il bastone a stelle e strisce non fa più poi così tanto male, infatti, è proprio la petromonarchia saudita. Cinque anni fa, Biden aveva inaugurato la sua campagna elettorale definendo il principe ereditario Bin Salman addirittura un pariah. Ma negli anni successivi, i sauditi non hanno fatto assolutamente niente per compiacere il vecchio alleato, anzi…

Quando è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, nonostante tutti i corteggiamenti, i sauditi hanno evitato sistematicamente di emettere una qualunque parola di condanna.

Quando la Russia ha chiesto all’OPEC+ di tagliare la produzione per tenere alto il prezzo del greggio, i sauditi hanno subito appoggiato l’iniziativa. Biden ha provato a dissuaderli, chiamandoli direttamente al telefono. Non gli hanno manco risposto ed era solo l’antipasto. Grazie alla mediazione cinese, pur di affrancarsi dalle strumentalizzazioni USA, pochi mesi dopo i sauditi sono tornati addirittura ad aprire i canali diplomatici con l’arcinemico iraniano, mettendo così le basi per la fine della pluridecennale guerra per procura in medio Oriente che è sempre stato in assoluto il pilastro fondamentale della politica estera USA per tutta l’area ed oltre. Dopodichè i sauditi hanno finalmente preso atto del totale fallimento dell’intervento USA in Siria, e hanno accolto a braccia aperte il ritorno di Assad nella Lega Araba. Subito dopo hanno inferto un colpo micidiale ad un altro degli assi portanti dell’imperialismo USA: la dittatura globale del dollaro, nata e cresciuta grazie proprio all’adozione incondizionata dei sauditi della valuta a stelle e strisce come unica valuta internazionale, utilizzabile per la compravendita del petrolio. Per scolpire sulla pietra il fatto che questi epocali cambi di posizionamento non fossero solo capricci estemporanei, i sauditi hanno prima aderito alla Shanghai Cooperation Organization, e poi addirittura ai BRICS, addirittura fianco a fianco agli iraniani.

Fino a pochi anni fa, gli USA hanno raso al suolo interi paesi e sterminato centinaia di migliaia di civili a suon di bombe umanitarie per molto, molto meno. Dopo un anno e mezzo di schiaffi a due mani in Ucraina, eccoli invece qua, a stringere mani e a ostentare sorrisoni.

Che uno dice: chissà cos’hanno ottenuto in cambio. Una luccicante cippa di cazzo, ecco cos’hanno ottenuto. Meno di quello che avevano ottenuto a Bali.

La partita ovviamente era quella di strappare di nuovo un’accusa nei confronti della Russia per la guerra in Ucraina.

All’orizzonte”, scriveva Il Giornale Sabato, “il rischio concreto che per la prima volta nella storia di questo forum, nato nel 1999, non si riesca a trovare l’intesa per un comunicato condiviso da tutti i partecipanti”. Per qualche ora, questo è stato il tormentone; sono tutti uniti come un sol uomo nel condannare la Russia, ripeteva fino all’auto convincimento la propaganda, a parte Russia e Cina.

Il più spregiudicato nel raccattare l’ennesima figura di merda, come sempre, è l’infaticabile Mastrolilli su Repubblica: “approfittare delle assenze di Xi e Putin per isolarli allo scopo di contrastare, insieme, la sfida geopolitica epocale lanciata dalle autocrazie alle democrazie”

Gli articoli di Mastrolilli ormai assomigliano sempre di più ai testi prodotti dalle pagine tipo “generatore automatico di post di Fusaro”, o di previsioni di Fassino, che andavano di moda qualche anno fa. Ci infili dentro autocrazia, democrazia, Putin e Xi isolati, mescoli bene, ed ecco pronto l’articolo.

“Putin e Xi”, insiste Mastrolilli, “si sono coalizzati nel rifiutare il linguaggio di Bali. Europei e americani però”, notate bene, “non sono disposti a cedere, e il G20 rischia di chiudersi per la prima volta senza una dichiarazione finale”.

Ci prendessero mai, proprio almeno per la legge dei grandi numeri.

Alla fine infatti, come sapete, il comunicato congiunto in realtà è arrivato in tempi record. Al contrario delle previsioni di Mastrolilli, europei e americani non hanno dovuto semplicemente cedere, si sono proprio nascosti sotto al tavolo: nel comunicato finale non c’è nessun accenno alle responsabilità russe.

In realtà, c’era da aspettarselo; al contrario di Bali, a questo giro Modi di far fare a Zelensky il solito intervento da rock star non ne ha voluto sapere.

Zelensky, persona non grata. Come gli anatemi e i doppi standard del nord globale in declino.

I gattini obbedienti delle oligarchie Occidentali allora si sono messi all’affannosa ricerca di altri specchi sui quali arrampicarsi e l’attenzione non poteva che ricadere sull’unico aspetto che effettivamente suggeriva alcune difficoltà: la misteriosa assenza di Zio Xi.

E via giù di speculazioni acrobatiche. La prima l’avevano suggerita i giapponesi di Asian Nikkei, testata di grande spessore che noi seguiamo da decenni quotidianamente per le analisi economiche, ma che diciamo, ovviamente, non è esattamente del tutto imparziale quando si tratta di Cina.

Un lungo editoriale apparso giovedì scorso, suggeriva che la scelta di Xi di non presentarsi per la prima volta al G20 fosse dovuta a una guerra intestina al partito che vedrebbe i dirigenti più anziani sul piede di guerra contro il Presidente per le difficoltà economiche che il Paese starebbe attraversando. Ma, come ha sottolineato sabato mattina il nostro amico Fabio Massimo Parenti in diretta su La7, in quell’editoriale c’è qualcosa che non torna. L’articolo parla infatti di alcune fonti interne al partito, che ovviamente non è possibile verificare. Rimane però un dubbio: ma davvero ai massimi livelli del partito ci sono dirigenti così smaccatamente antipatriottici da andare a lavare i panni sporchi di casa direttamente nel lavello dell’arcinemico giapponese?

Per carità, tutto può essere. Ma diciamo che una cosa così palesemente antiintuitiva, per essere creduta, avrebbe per lo meno bisogno di qualche prova più tangibile, diciamo.

Macchè!

I nostri media se la sono bevuta tutta d’un sorso senza battere ciglio e il famoso “contesto mancante” a questo giro non li ha dissuasi.

Che strano…

Ma non è stata certo l’unica speculazione. Il fatto di per se, offriva un’occasione più che ghiotta per rilanciare il tormentone che ci aveva già sfrucugliato gli zebedei quando tutta la stampa era alla ricerca di narrazioni fantasy di ogni genere pur di sminuire la portata delle decisioni prese due settimane fa dai BRICS: l’insanabile divergenza tra i diversi paesi del sud globale, a partire da India e Cina.

Ci provano senza sosta da decenni. Prima erano le divergenze tra Cina e Vietnam, poi tra Cina e Russia, poi tra India e Cina. Intendiamoci, le divergenze ci sono eccome e lo ricordiamo sempre: è abbastanza inevitabile quando si ha a che fare con Paesi sovrani. Ognuno è guidato fondamentalmente dal suo interesse, e gli interessi diversi spesso e volentieri entrano in conflitto. Quando non succede è semplicemente perché uno impone i suoi interessi su tutti gli altri, come accade ad esempio nell’ambito del G7, dove Washington detta la linea e gli altri possono accompagnare solo, rimettendoci di tasca loro. Quello che, proprio a chi è abituato a fare da zerbino, non vuole entrare nella capoccia, è che la necessità storica di un nuovo ordine multipolare in realtà si fonda proprio su questo: Paesi sovrani con loro interessi nazionali spesso divergenti, intenti a costruire strutture multilaterali all’interno delle quali trovare dei compromessi attraverso il confronto e il dialogo tra pari. Rimane comunque il fatto che Xi al G20 non ci è andato e non è una cosa che può essere derubricata con due battutine.

Purtroppo però qui entriamo nell’ambito delle pure speculazioni. In questi giorni la redazione allargata di OttolinaTV su questo punto s’è sbizzarrita. Alla fine le interpretazioni un po’ più solide emerse sono sostanzialmente due:

La prima effettivamente ha a che vedere con i rapporti con l’India. Come scriveva giovedì scorso il Global Times, il nord globale guidato da Washington “ha cercato di provocare conflitti tra Cina e India usando la presidenza indiana per inasprire la competizione tra il dragone e l’elefante”.

“Gli Stati Uniti e l’Occidente”, continua l’articolo, “hanno mostrato un atteggiamento compiaciuto nei confronti di alcune divergenze geopolitiche, comprese quelle tra Cina e India. Vogliono vedere divisioni più profonde e persino scontri”. Ma proprio come la Cina, anche “Nuova Delhi ha ripetutamente affermato che il forum non è un luogo di competizione geopolitica” e quindi da questo punto di vista l’assenza di Xi sarebbe stata funzionale a impedire agli occidentali di strumentalizzare queste divergenze, e permettere al G20 di ottenere qualche piccolo progresso sul piano che dovrebbe essere di sua competenza: la cooperazione economica, in particolare a favore dei Paesi più disastrati. Da questo punto di vista il piano effettivamente sembra essere riuscito: il comunicato finale sottolinea esplicitamente che il G20 non è il luogo dove affrontare e risolvere le tensioni geopolitiche.

Ma non solo…

Per quanto simbolici, i paesi del sud globale al g20 hanno portato a casa impegni ufficiali verso una riforma della banca mondiale a favore dei Paesi più arretrati e anche l’annuncio dell’ingresso ufficiale nel summit dell’unione africana. Tutti obiettivi che Delhi e Pechino condividono da sempre.

La seconda motivazione invece ha a che vedere col rapporto tra Cina e USA. Durante il G20 di Bali, la stretta di mano tra Biden e Xi aveva fatto parlare dell’avvio di una nuova distensione tra le due superpotenze. Nei mesi successivi però, a partire da quella gigantesca buffonata dell’incidente del pallone spia cinese e della cancellazione del viaggio di Blinken a Pechino che ne era seguita, le cose non hanno fatto che complicarsi. Da allora gli USA hanno provato ad aggiustare un po’ il tiro, gettando acqua sul fuoco della retorica del decoupling. Ma mentre i toni si facevano a tratti meno aggressivi, i fatti continuavano ad andare ostinati in tutt’altra direzione, a partire dalla guerra sui chip, per finire col recente divieto USA a investire in Cina in tutto quello che è frontiera tecnologica, dall’intelligenza artificiale al quantum computing. La Cina quindi, pur continuando a sfruttare ogni possibilità di dialogo, ha continuato a denunciare la discrepanza tra parole e fatti

da questo punto di vista, quindi, l’assenza di Xi a Delhi sarebbe un segnale diretto a Biden: caro Joe, co ste strette di mano a una certa c’avresti pure rotto li cojoni. Basta manfrine fino a che alle parole non farete seguire qualche fatto concreto. Volendo, con anche un avvertimento in più: per parlare con il resto del sud globale, non abbiamo più bisogno necessariamente di una piattaforma come quella del G20: Shanghai Cooperation Organization e BRICS+++ ormai sono alternative più che dignitose. A voi la scelta ora: se continuare ad avere un luogo dove discutere con il sud globale, oppure condannare il G20 all’irrilevanza.

Finite le nostre speculazioni, torniamo a quelle degli altri.

Come con la controffensiva ucraina, che andando come sta andando, costringe gli hooligan della propaganda a trasformare in vittorie epiche la conquista di qualsiasi gruppetto di case di campagna al prezzo di decine se non centinaia di vite umane e centinaia di milioni di attrezzatura militare, idem al G20, visti gli scarsi risultati, i propagandieri si sono sforzati in modo veramente ammirevole per provare ad arraparsi di fronte a un vero e proprio monumento alla fuffa.

“Ecco il nuovo corridoio india-medio oriente contro la via della seta”, titolava su repubblichina il solito Daniele Raineri, tra un articolo su qualche mirabolante vittoria ucraina e l’altro. Il progetto è così alternativo alla via della seta cinese, che approda nel pireo, che è dei cinesi. Di nuovo in sostanza ci sarebbe l’estensione della rete ferroviaria in Arabia.

A chiacchiere! A fatti, per ora, l’unico tratto ferroviario di una certa rilevanza in Arabia è quello lungo i 450 km che sperano Mecca e Medina. Un’opera monumentale, costruita dai cinesi.

E i cinesi infatti se la ridono.

Intanto, perché non capiscono bene in che modo questo fantomatico progetto andrebbe contro ai loro interessi. Come ha sottolineato il Global Times: “Per i paesi del Medio Oriente che parteciperanno all’iniziativa ferroviaria guidata dagli Stati Uniti, non vi è alcuna preoccupazione che i loro legami con la Cina si indeboliscano proprio a causa dell’accordo”.

Anzi: “la Cina ha sempre affermato che non esistono iniziative diverse che si contrastano o si sostituiscono a vicenda. Il mondo ha bisogno di più ponti da costruire anziché da abbattere, di più connettività anziché di disaccoppiamento o di costruzione di recinzioni, e di vantaggi reciproci anziché di isolamento ed esclusione”

Piuttosto, sottolineano i cinesi, il punto è che questi proclami andrebbero presi un po’ con le pinze.

“Non è la prima volta che gli Stati Uniti sono coinvolti in uno scenario “tante chiacchiere, pochi fatti””, ricorda sarcasticamente l’articolo, che insiste: “Durante l’amministrazione Obama, l’allora segretario di stato americano Hillary Clinton annunciò che gli Stati Uniti avrebbero sponsorizzato una “Nuova Via della Seta” che sarebbe uscita dall’Afghanistan per collegare meglio il paese con i suoi vicini e aumentare il suo potenziale economico, ma l’iniziativa non si è mai concretizzata”.

“Da un punto di vista tecnico”, continua perculando l’articolo, “la decisione degli Stati Uniti di concentrarsi sulle infrastrutture di trasporto, un’area in cui mancano competenze, nel tentativo di salvare la loro influenza in declino nella regione, suggerisce che il piano tanto pubblicizzato difficilmente raggiungerà i risultati desiderati”.

Ma non c’è livello di fuffa che possa distogliere i pennivendoli di provincia italiani dal prestarsi a qualsiasi operazione di marketing imposta dal padrone a stelle e strisce

magari, aggiungendoci anche del loro. Perché in ballo al G20 c’era un’altra questione spinosa, l’addio dell’Italia alla via della seta, ancor prima di aver fatto alcunché per entrarci davvero, al di là delle chiacchiere.

Ma non temete, come scrive Libero, infatti, “Giorgia sa di avere un’altra chance. si chiama India”.

“Il commercio tra India e Italia”, avrebbe dichiarato con entusiasmo la Meloni, “ha raggiunto il record di 15 miliardi di euro. Ma siamo convinti di poter fare di più”. D’altronde, che ce fai con la Cina quando c’è l’India. Un Paese, che, come scrive il corriere della serva “per popolazione ed economia ha superato la cina”.

Non è uno scherzo, è una citazione testuale. Secondo il Corriere, l’India ha superato economicamente la Cina. Deve essere successo dopo che, come scriveva Rampini, l’altro giorno, gli usa hanno cominciato a crescere il doppio della Cina.

Quanto cazzo deve essere bello di mestiere fare il giornalista ed essere pagato per dire ste puttanate.

Ovviamente, come credo sappiate tutti voi che piuttosto che lavorare al corriere della serva preferireste morire di fame accasciati per terra a qualche angolo di strada, l’economia cinese è più di cinque volte quella indiana, e l’India ogni anno spende in importazioni meno di un quinto della Cina.

Ma non solo…

L’Italia, in India, quel che è possibile esportare in quel piccolo mercato lo esporta già. Nel 2022 abbiamo esportato beni e servizi per 5,4 miliardi. Più dell’Olanda che è ferma a 3,5 e poco meno della Francia, che è a quota 6,5. Insomma, in linea con le nostre quote di export

Discorso che invece non vale per la Cina dove l’Italia esporta per 18 miliardi, la Francia per 25, il Regno Unito per 35 e la Germania per 113 miliardi. Cioè, il nostro export totale è inferiore del 25% rispetto a quello inglese e francese, ma in Cina esportano rispettivamente i 50 e il 100% in più. Ancora peggio il confronto con la Germania: l’export tedesco è circa 2 volte e mezzo quello italiano, ma in Cina esportano 7 volte più di noi. Quando saggiamente avevamo deciso di essere l’unico paese del G7 che avrebbe aderito al memorandum della belt and road, era per recuperare questo gap. Dopo la firma non abbiamo mosso un dito, e ora rinunciamo a una crescita potenziale di svariate decine di miliardi di export, e ci raccontiamo pure che li sostituiremo con i 2 o 3 miliardi in più che potremmo guadagnare dall’India.

Ora, io non ti dico di finanziare un vero think tank indipendente coi controcazzi invece di affidarti a quelli a stelle e strisce e in Italia dare i soldi a Nathalie Tocci per trasformare l’istituto affari internazionale nel milionesimo ufficio stampa di Washington e delle sue oligarchie finanziarie.

Ma almeno i soldi per una cazzo di calcolatrice trovateli! Se volete, famo una colletta noi su gofundme.

E sia chiaro, io lo dico da grande amante dell’India, da tempi non sospetti. Quando ho cominciato a fare il giornalista a fine anni ‘90, il mio obiettivo era raccontare l’ascesa del peso Internazionale di questo incredibile paese continente. Non è andata benissimo, e ogni fallimento dell’india in questi 30 anni per me è stata una pugnalata al cuore, a prescindere da chi ci fosse al governo. Modi compreso.

Ora non mi posso che augurare che di fronte a questi teatrini imbarazzanti che offre continuamente l’Occidente, Modi sia abbastanza lucido da capire che gli attriti con la Cina, che sono legittimi e anche normali, non possono certo distoglierlo dal perseguire il vero interesse del suo disastrato Paese, che potrà crescere davvero se e solo se il sud globale riesce finalmente a mettere fine all’ordine unipolare della globalizzazione neoliberista guidata da Washington.

Per parlare del mondo nuovo che avanza, senza i paraocchi della vecchia propaganda vi aspettiamo sabato 16 settembre all’hotel terme di Fiuggi con Fulvio Scaglione, Marina Calculli, Elia Morelli, Alessandro Ricci e l’inossidabile generale Fabio Mini.

È solo uno dei dodici panel messi in fila dagli amici dell’associazione Idee Sottosopra per questo fondamentale week end di studio e di approfondimento, per costruire insieme un’alternativa credibile e non minoritaria alla dittatura del pensiero unico del partito degli affari e della guerra.

Per chi vuole maggiori informazioni, trovate il link nei commenti.

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Fonti:

Editoriale del Global Times: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297861.shtml

Il piano ferroviario USA in Medio Oriente: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Il Premier Li chiede solidarietà e cooperazione al G20: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Articolo “Il Giornale”: https://www.ilgiornale.it/news/politica/g20-ecco-delle-spezie-india-emirati-arabia-europa-regia-usa-2208113.html

Articolo “la Repubblica”: https://www.repubblica.it/esteri/2023/09/08/news/ferrovia_arabia_india_cina_via_della_seta-413788548/

Chi ha rapito Khaled El Qaisi: L’incredibile Storia degli arresti illegali in Israele e la connivenza dei suprematisti italiani

Lui si chiama Khaled El Qaisi.

Nonostante il nome esotico, è più italiano di me. Ma a vedere i media italiani, non si direbbe. Da 14 giorni infatti Khaled è stato preso in ostaggio e rinchiuso in un carcere da un feroce regime teocratico per ragioni esclusivamente di carattere ideologico e di discriminazione etnica.

In passato, abbiamo visto invocare l’interruzione delle relazioni diplomatiche, se non addirittura l’escalation bellica, per molto, molto meno. Ma a questo giro, niente, silenzio assoluto. Alla Farnesina c’avevano judo, e non c’è traccia di un comunicato ufficiale. Nelle redazioni dei giornali e dei TG invece erano troppo occupati a festeggiare gli incredibili successi della controffensiva Ucraina e il boom economico che stanno attraversando tutte le democrazie avanzate, e ci hanno detto di ripassare il 31 settembre del duemilacredici. Che strano…

Su eventi del genere di solito si buttano a capofitto. Spesso, ancora prima di avere elementi solidi, sopratutto quando il Paese in questione è uno Stato canaglia, messo sotto accusa dalla comunità internazionale. A questo giro, il Paese in questione, numeri alla mano, è di gran lunga il più canaglia di tutti: delle duecentootto risoluzioni di condanna emesse dall’ONU dal 2015 al 2022, la bellezza di centoquaranta riguardano proprio lui. Il doppio di tutto il resto del Mondo messo assieme. Russia inclusa, anche dopo la guerra in ucraina.

No, non è la Corea del Nord di Kim Jong Un e neanche l’Afghanistan dei talebani. È quella che contro ogni minima parvenza di dignità, i media nostrani continuano a definire “l’unica democrazia del medio Oriente”, dove per democrazia evidentemente intendono che applica l’apartheid in modo democratico a tutti gli abitanti non Ebrei dei territori occupati illegalmente, senza fare troppe distinzioni di censo o di orientamenti sessuali. Come la definisce il compagno Roberto Saviano, una “democrazia sotto assedio”, “piena di vita e sopratutto di tolleranza”, “che permette alla comunità gay israeliana e sopratutto araba di poter gestire una vita libera e senza condizionamenti, frustrazioni, repressioni e persecuzioni”.

Ma, evidentemente, non di andare a trovare i tuoi parenti con moglie e figlio di quattro anni a seguito.

31 agosto, valico di Allenby, al confine tra i territori occupati palestinesi della Cisgiordania e la Giordania. Khaled El Qaisi ha appena finito le vacanze che aspettava da anni. Insieme alla moglie e il figlio di quattro anni, dopo tanto tribolare, è finalmente riuscito ad andare a trovare i parenti che si trovano imprigionati nel minuscolo campo profughi di Al-azza, nella periferia di Betlemme, altrimenti noto come campo di Beit Jibrin.

Che culo…

Sono tremila anime costrette a convivere in un’area di appena 0,02 km², meno di tre campi di calcio. Le abitazioni sono fatiscenti. l’acqua potabile dalla rete non funziona, e la fognatura è ingolfata. quando “essere nella merda” non è un modo di dire. Quando i bambini escono dall’insediamento per andare a scuola nel vicino campo di Aida, passano sotto a una bella torretta di controllo delle forze armate israeliane.

Un’area”, si legge nella scheda dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, “dove si registrano frequenti scontri, ed è comune trovare residui di bombole di gas lacrimogeno e di proiettili nel cortile della scuola”.

L’educazione siberiana, diciamo.

Ma anche quando a scuola non ci vanno e decidono di starsene ammucchiati come sardine a casa loro, le cose non vanno meglio. Sempre secondo l’UNRWA infatti, soltanto nel 2022 il campo è stato teatro di ben nove operazioni delle forze di polizie, che hanno portato all’arresto di 7 persone.

Durante queste incursioni”, si legge nella scheda, “le forze armate israeliane impiegano regolarmente gas lacrimogini e munizioni di ogni genere”. Ciò nonostante, racconta la moglie, Khaled era contento come un bambino. Sono fatti così i palestinesi: dopo un tentato genocidio e 60 anni di feroce occupazione militare votata a cancellarli dalla faccia della terra come popolo, hanno messo su una bella corazza, e non c’è disagio e sopruso in grado di levargli la gioia di riabbracciarsi.

E allora cosa fa il valoroso occupante democratico? Li separa. Quando Khaled e famiglia arrivano alla frontiera, dopo aver passato i controlli della autorità palestinesi, si ritrova di fronte a quelli israeliani. Allenby funziona così: superarla è una corsa a ostacoli. devi superare tre controlli. I servizi di sicurezza israeliani appaiono subito sospettosi e per una mezz’ora abbondante aprono e chiudono le valigie, controllano e ricontrollano i documenti, parlottano tra loro. Fino a quando una guardia di frontiera si avvicina a Khaled con tono perentorio, gli fa incrociare le braccia dietro la schiena, e lo ammanetta.

Così, de botto, senza senso, davanti al figlio di 4 anni. La moglie, italiana, prova a chiedere spiegazioni ma la rimbalzano, anzi, rincarano. Vogliono sapere qualcosa di più sulle idee politiche del marito.

Khaled infatti è colpevole di un crimine enorme. Non solo è figlio di un palestinese. ma manco se ne vergogna, anzi. Ne fa quasi un vanto, tanto che insieme ad alcuni amici e colleghi ha addirittura fondato il centro di documentazione palestinese, dove invece di far finta che la Palestina non sia mai esistita, si permettono addirittura di diffondere materiale storico di vario genere tutto teso a spargere questa leggenda metropolitana che la Palestina c’avrebbe addirittura una sua storia e tutto il resto. Un vizietto di famiglia. Durante la prima intifada, il padre di Khaled, Kamal, ora scomparso da diversi anni, aveva addirittura provato a convincere gli italiani che in Palestina ci fossero addirittura anche i lavoratori, e anche i sindacati. E aveva addirittura convinto la CGIL a realizzare alcuni progetti di cooperazione con loro. Dopo un po’ di santa inquisizione, i simpatici e democratici servitori dell’ordine israeliano prendono mamma Francesca e figlio Kamal e li spediscono oltre confine in Giordania. Trattenendole mezza roba, quattrini e telefono compreso.

Quando ho chiesto a due addette israeliane come avrei potuto proseguire il viaggio senza telefono e soldi”, ha raccontato Francesca a Michele Giorgio del manifesto, “mi hanno risposto “questo è un tuo problema”.

E così ecco Francesca alla frontiera della Giordania senza una lira, senza possibilità di comunicare, e con un figlio di quattro anni appresso. Quando uno dice “le mie vacanze sono differenti”.

Come c’ha levato le gambe? Grazie all’elemosina: quaranta dinari regalati così, a caso da delle signore palestinesi che avevano assistito alla vicenda. La solidarità degli oppressi, contro le barbarie degli oppressori. Una dicotomia plateale, che però a sto giro non ha commosso gli ultras manicheisti della lotta del bene contro il male. Da allora Khaled è stato deportato in Israele e ora si trova nella famigerata prigione di massima sicurezza di Shikma, alla periferia di Ashkelon, tristemente nota per la struttura per gli interrogatori gestita dall’agenzia per la sicurezza israeliana, dove sono stati documentati innumerevoli casi di tortura e dove vige un regime di sistematica deprivazione.

Di cosa sia accusato in realtà nessuno lo sa. Ad assisterlo, un avvocato arabo israeliano che si sarebbe limitato a confermare di “non poter rivelare alcun particolare del procedimento in corso per ordine dei giudici”. Sempre che li conosca.

Durante l’ultima udienza infatti, stando a quanto riportato da Michele Giorgio sul manifesto, “El Qaisi e il suo difensore locale non sono potuti comparire insieme, perché impossibilitati per legge a vedersi e comunicare”.

Secondo l’avvocato della famiglia “al giovane ricercatore non è consentito conoscere gli atti che hanno determinato la sua custodia e la sua possibile durata”.

Oggi, Giovedì 14 Settembre, si dovrebbe tenere una nuova udienza, difficile prevedere come andrà.

Il timore è che, quella che ad oggi è una misura cautelare, possa trasformarsi in uno dei tanti istituti criminali che costituiscono l’ossatura di questo regime di apartheid, e cioè l’incubo della detenzione amministrativa. È una delle tante eredità dello stato di emergenza proclamato nel 1945 durante il mandato britannico in Palestina. Prevede che per motivi di sicurezza chiunque possa essere arrestato e detenuto sostanzialmente a oltranza senza processo. Ma ovviamente per una forza che da oltre cinquant’anni occupa casa altrui con l’uso sistematico della violenza, la sicurezza può significare tutto. Qualunque palestinese, solo per il fatto di esistere, è sostanzialmente una minaccia alla sicurezza di chi fonda il suo sistema sul suo annichilimento. Nel 1951 il Parlamento israeliano votò per una sua abrogazione ma è sempre lì, più in forma che mai. Secondo il rapporto pubblicato in luglio da Francesca Albanese, relatrice speciale delle nazioni unite sui territori palestinesi occupati, dal 1989 a oggi in media è stato utilizzato circa cinquecento volte l’anno. Spesso, anche nei confronti di minori e bambini. Oggi però siamo arrivati oltre quota mille.

Fa parte del new normal dell’occupazione israeliana. Addomesticata l’autorità palestinese, da qualche anno, qualsiasi timido accenno alla ribellione viene represso sul nascere senza tanti tentennamenti. Mentre nel frattempo coloni illegali armati fino ai denti si fanno giustizia da soli con il pieno sostegno delle forze armate israeliane. È quello che si vede chiaramente in questo video pubblicato ieri sull’account twitter di B’tselem

Due cittadini palestinesi vengono fermati e bullizzati senza motivo da civili armati, manco fossimo in una scuola media negli USA, e quando dopo un po’ di polemiche finalmente arrivano le forze di occupazione, gli dicono pure bravi. Da sessant’anni Israele ha il merito di svelarci senza tanti fronzoli, il contenuto reale che sta dietro a termini pomposi come democrazia e società aperta: la divisione del mondo tra chi ha diritti, e chi dovrebbe stare sotto e prenderle affinché i pochi che hanno dei diritti se li possano continuare a permettere.

Che il Governo degli svandipatrioti non faccia sentire la sua voce contro il rapimento criminale di Khaled, tutto sommato, da questo punto di vista, in realtà è anche abbastanza coerente. Per tutti gli altri che schifano l’imperialismo e la ferocia coloniale invece, da oggi c’è una nuova battaglia che non ci possiamo permettere di non combattere.

Vogliamo Khaled El Qaisi libero subito.

Per chiunque ne ha la possibilità, l’appuntamento è per domani venerdì 15 settembre alle 16.00 presso la facoltà di lettere del’Università la Sapienza di Roma insieme alla moglie di Khaled, la madre e il legale della famiglia.

OttolinaTV purtroppo non ci sarà. Ma farà in modo di far sentire la sua vicinanza anche da Fiuggi, dove saremo in primissima fila insieme agli amici di Idee Sottosopra alla loro scuola estiva dal titolo “Interferenze oltre la crisi”.

Ora, di fronte alla storia di khaled in effetti fare la solita questua può sembrare un po’ bruttino

Ma sticazzi

Anche no

Perché l’assenza della storia di Khaled da ogni media grida vendetta.

Quindi oltre a sostenere Khaled e la sua famiglia, anche oggi, come sempre, dobbiamo fare un passetto in avanti nella costruzione finalmente di un vero e proprio media che dia voce a tutti i Khaled, tutti i palestinesi, e tutto il 99%.

Per farlo, abbiamo bisogno del tuo sostegno.

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E chi non aderisce è Roberto Saviano

Fonti:

Foto di Khaled El Qaisi: https://www.facebook.com/photo?fbid=6613052398786385&set=ecnf.100002450717343

Articolo de “il Manifesto”: https://ilmanifesto.it/khaled-el-qaisi-resta-in-cella-cresce-la-mobilitazione-in-italia

Rapporto della relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese: https://rapporto-dol.tiiny.site/

Scheda UNRWA: https://www.unrwa.org/sites/default/files/beit_jibrin_camp_profile_-2022.pdf

“Cambieremo le regole del gioco”: Il G77 e la rivolta del Sud Globale contro il neocolonialismo

Fermi un attimo, fermi un attimo perchè qui veramente siamo di fronte a un capolavoro da manuale della propaganda suprematista occidentale.

Venerdi scorso all’Havana si è tenuta una piccola riunioncina, na cosa ‘e niente, proprio.

Appena centotrentaquattro Paesi, che rappresentano l’80% della popolazione mondiale e che all’unisono hanno detto una cosuccia che forse non è proprio esattamente irrilevante: il vecchio ordine globale è morto, finito.

È arrivato il momento di Cambiare alla Radice le Regole del Gioco, e porre fine una volta per tutte a secoli e secoli di dominio attraverso la violenza e lo sfruttamento economico da parte di una piccola minoranza su tutto il resto del pianeta.

Ripeto. raissumendo: l’80% della popolazione mondiale si è riunita e ha detto all’unanimità che l’occidente ha rotto il cazzo.

A me sembra una notizia che dovrebbe occupare paginate su paginate nei quotidiani, e ore e ore di palinsesto e invece…

Ora, quello che mi chiedo è: quanto a lungo permetteremo ancora alla propaganda suprematista di sfrucugliarci le gonadi con la descrizione di un mondo vecchio che ormai esiste soltanto nelle fantasie psichedeliche di un esercito di pennivendoli analfoliberali? 

Non è certo la prima volta che l’eroica Repubblica rivoluzionaria cubana ottiene un clamoroso successo diplomatico. Nonostante le innumerevoli e impacciate operazioni propagandistiche della propaganda suprematista di ogni colore politico come la gigantesca merda che pestò il sempre pessimo Roberto Saviano un paio di anni fa.

Non so se vi ricordate. Stremate dalle conseguenze dell’utilizzo politico che gli USA stavano facendo della crisi pandemica per infliggere un’altra mazzata alla popolazione cubana, vi furono alcune mobilitazioni contro il Governo rivoluzionario. Sempre tutte cose ultraminoritarie, che il sostegno popolare alla rivoluzione cubana, nonostante le gigantesche difficoltà economiche dovute all’embargo illegale da parte dell’imperialismo USA, rimane quasi unanime.

Ma evidentemente, abbastanza per far arrapare il suprematismo analfoliberale, che è convinto che a Cuba non ambiscano ad altro che poter leggere liberamente la repubblichina e a eleggere presidente Lia Quartapelle. Tra loro, appunto, il nostro Robertino:

“Cuba finalmente insorge contro la dittatura del partito comunista cubano”, avevo twittato. “Cuba merita democrazia e la conquisterà”. D’altronde, è un’affermazione coerente col Saviano pensiero: uno che decanta le lodi e definisce democrazia il regime di apartheid di Tel Aviv, non può che coerentemente spregiare l’eroica resistenza popolare antimperialista del popolo cubano.

Basta però, per lo meno, che si scelga i testimonial giusti. Nel tweet di Saviano infatti c’era allegata anche questa foto

secondo Saviano, un’icona della rivolta democratica e filooccidentale contro il regime.

Insomma…

La persona ritratta nella foto infatti si chaima Betty Pairol Quesada e come la stragrande maggioranza dei suoi concittadini, è una sostenitrice accanita del Governo rivoluzionario cubano, e quando è stata scattata questa foto, stava partecipando a una manifestazione contro El Bloqueo, contro l’embargo illegale imposto a Cuba dalle potenze democratiche che tanto piacciono a Saviano.

La nostra Betty s’è accorta della cosa, e ha diffidato i suprematisti analfoliberali alla Saviano dall’utilizzare la sua immagine per legittimare le proteste di quelle che lei definisce apertamente “delinquenti e vandali”.

Saviano, senza scusarsi, ha sconigliato quatto quatto e ha rimosso l’immagine. Due anni dopo, il suo account twitter è sempre attivissimo e seguitissimo, ed è l’ennesimo importante strumento della peggiore propaganda woke imperiale. Quello della povera Betty invece appare temporaneamente limitato.

Non fosse mai che si azzardasse a far fare qualche altra colossale figura di merda a qualche propagandista.

Nonostante la potenza di fuoco della propaganda suprematista comunque, Cuba non è nuova ai successi diplomatici. Negli ultimi trenta anni ogni anno l’assemblea generale delle Nazioni Unite mette ai voti una mozione per chiedere agli USA la fine dell’embargo. La prima volta fu il 1992, e votarono a favore in appena 59. Anno dopo anno quei voti sono progressivamente sempre aumentati, e da una quindicina di anni abbondanti ad approvare la mozione è sempre invariabilmente sostanzialmente la totalità dei 193 Paesi rappresentati alle nazioni unite. A votare contro infatti sono sempre e solo in due: Stati Uniti e Israele, i due stati canaglia della comunità Internazionale. A loro si affiancano sempre due o tre Paesi che optano per l’astensione. Prima erano gli Stati fantoccio insulari del Pacifico, come Palau e le Isole Marshall. Poi si sono rotti il cazzo pure loro, ma sono stati sostituiti per un periodo dal Brasile del presidente fascioterrapiattista Jair Bolsonaro e da un paio di anni dall’Ucraina, che vale la pena sottolineare, visto che la propaganda suprematista Occidentale parla sempre del presunto isolamento di Putin: l’Ucraina all’ONU vota da sola con altri 3 paesi contro tutto il resto del mondo. Dal punto di vista dell’autonomia geopolitica, l’Ucraina appunto, è come erano Palau e le Isole Marshall una decina di anni fa. Questa volta però Cuba è andata oltre, perchè a questo giro non si trattava semplicemente di votare contro un embargo palesemente criminale e illegale. Questa volta si trattava di andare all’Havana, e non solo dimostrare simbolicamente la propria doverosa solidarietà nei confronti della rivoluzione castrista, ma di sedere al fianco di Cuba in un’organizzazione multilaterale che, proprio a partire dall’appello di ormai una ventina di anni fa di Fidel Castro in persona, ha deciso di marciare unita per porre fine al dominio del nord globale.

“Una vittoria diplomatica contro il bloqueo”, la definisce senza mezzi termini People dispatch, che sottolinea come la storica riunione dell’Havana si sia tenuta giusto pochi giorni dopo la proroga di un altro anno da parte della democratica amministrazione Biden non solo dell’embargo criminale che è in piedi da oltre sessant’anni, ma anche dell’ulteriore ondata di sanzioni aggiuntive introdotte dall’amministrazione ultrareazionaria ed esplicitamente suprematista di Donald Trump.

Ma lo straordinario successo diplomatico di Cuba è soltanto un pezzetto della storia.

Per capirne il resto, non rimane che leggere attentamente i 47 punti della dichiarazione finale sottoscritta all’unanimità da tutti i paesi partecipanti. Il primo fondamentale punto è la richiesta di democratizzazione delle Nazioni Unite come istituzione. Ma attenzione, non contro lo spirito della carta delle Nazioni Unite e del diritto Internazionale, ma proprio nell’ottica di una loro reale attuazione.

“Riaffermiamo il pieno rispetto degli scopi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”, sottolineano esplicitamente nel comunicato. Chi non li rispetta, evidentemente, sono le Nazioni Unite stesse, per come sono oggi. L’assemblea generale infatti non ha nessun potere reale che è tutto esclusivamente nelle mani del consiglio di sicurezza, che però è di un’altra epoca. Appena cinque potenze, o meglio tre. Tra i cinque infatti ci sono Gran Bretagna e Francia, che ormai sono piccole potenze subregionali a sovranità limitata, e completamente allineati agli USA. In pratica, quindi, il consiglio di sicurezza è composto da tre paesi, con uno che conta più degli altri due messi assieme. Che nel 2023 non vengano rappresentati in nessun modo l’Africa, l’America Latina, il sud ed il sud est asiatico è una cosa semplicemente ridicola e da sabato è chiaro che gli unici che tentano di ostacolare quello che è evidentemente ineluttabile, sono i rappresentanti di quel 20% scarso della popolazione globale che continuano a vivere in una bolla anacronistica tutta loro.

Il continuo richiamo da parte di tutte le organizzazioni multilaterali del sud globale alla riaffermazione dello spirito della carta delle Nazioni Unite ricorda molto da vicino il continuo richiamo delle forze popolari dell’Europa occidentale alle carte Costituzionali emanate dopo la seconda guerra mondiale.

D’altronde, sono i due lati della stessa medaglia. Le carte Costituzionali nazionali e la carta delle Nazioni Unite, nascono nel momento di massima affermazione della democrazia moderna, ed hanno lo stesso identico impianto concettuale. Cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista le hanno trasformate entrambe in lettera morta. Compito delle forze realmente democratiche è riaffermarne lo spirito sia a livello dei singoli Paesi, sia su scala internazionale. Questa rivendicazione assume un significato ancora più urgente proprio oggi, mentre a New York si scaldano i motori per il principale evento annuale nell’agenda delle Nazioni Unite: l’assemblea generale che avrà inizio tra poche ore e dove sarà difficile riuscire a ottenere qualche risposta concreta: dei cinque Paesi del consiglio di sicurezza, soltanto i padroni di casa, gli USA, hanno garantito la partecipazione del presidente, che è anche il principale bersaglio delle critiche del G77.

“Rigettiamo tutti i tipi di misure economiche coercitive”, si legge nella dichiarazione dell’Havana, “a partire dalla sanzioni unilaterali contro i paesi in via di sviluppo, per le quali chiediamo l’eliminazione immediata”.

Come dimostra in modo evidente questo grafico,

il ricorso allo strumento illegale dal punto di vista del diritto internazionale delle sanzioni economiche unilaterali negli ultimi anni è diventata una vera e propria barzelletta. Sostanzialmente ormai è sufficente non essere completamente allineati agli obiettivi strategici di Washington per vedersi applicare una qualche forma di sanzione, alla quale poi il resto del mondo è costretto ad adeguarsi. Se fino a qualche anno fa si cercava per lo meno di confondere un po’ le acque, tirando in ballo qualche fantomatica violazione dei diritti umani che vale sempre e solo per gli altri, ma che almeno fa dormire tranquilli i fintoprogressisti suprematisti delle ztl di tutto il nord globale, con l’acuirsi del conflitto tecnologico con la Cina ormai il Re è completamente nudo, e le sanzioni vengono utilizzate sistematicamente anche solo per ostacolare lo sviluppo economico altrui. Ed è proprio il contrasto a questo utilizzo arbitrario dello strumento delle sanzioni per impedire l’autonomia tecnologica della Cina e di tutto il sud globale, a nostro avviso, a rappresentare l’aspetto più importante della risoluzione dell’Havana.

I paesi del g77, schierandosi apertamente con la Cina nella guerra tecnologica a forza di sanzioni con l’impero USA, affermano infatti di rifiutare categoricamente “i monopoli tecnologici e altre pratiche sleali che ostacolano lo sviluppo tecnologico dei paesi in via di sviluppo. Gli Stati che detengono il monopolio e il dominio nell’ambiente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione non dovrebbero utilizzare i progressi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione come strumenti per contenere e reprimere il legittimo sviluppo economico e tecnologico di altri Stati”

È la critica fondamentale al cuore pulsante del neocolonialismo. Durante la fase coloniale infatti i paesi del nord globale, e cioè i difensori della democrazia di sto cazzo riuniti oggi nel g7, hanno accumulato un vantaggio tecnologico enorme sul resto del pianeta attraverso il semplice esercizio della forza bruta. Quando il dislivello è diventato sufficentemente ampio, dalle politiche coloniali, che comunque comportavano anche una lunga serie di costi e di disagi, sono passati a quelle neocoloniali che consistono semplicemente nello sfruttare questo gap per impedire strutturalmente al sud globale di recuperare terreno. Fino a che il sud globale è totalmente dipendente tecnologicamente dai Paesi ricchi, si può anche far finta di essere per il libero mercato, che non fa che aumentare il vantaggio di partenza dei paesi più sviluppati. Con loro grande disappunto però c’è chi non è fatto infinocchiare, e quando ha messo a disposizione dei capitali stranieri la forza del suo stato, la manodopera a basso costo della sua popolazione e anche la salubrità del suo ambiente naturale, ha chiesto però una cosa in cambio: il trasferimento di tecnologia.

È esattamente quello che ha fatto la Cina. Col tempo, grazie a questo trasferimento iniziale di tecnologia, la Cina è stata in grado di ridurre il gap con l’Occidente, e quindi di guadagnare la sua indipendenza, che è esattamente quello che adesso chiedono di fare tutti i Paesi del sud globale, mutuando completamente da questo punto di vista il modello di sviluppo del dragone. Contro questa prospettiva, ecco allora che per il nord globale diventa prioritario ostacolare con ogni mezzo necessario la capacità del sud del mondo di emanciparsi tecnologicamente dai paesi più avanzati, anche a costo nell’immediato di rimetterci economicamente. Un po’ come succede anche con l’austerity: la priorità è mantenere i rapporti gerarchici di forza tra capitale e lavoro, e per riaffermare il dominio del capitale sul lavoro la stagnazione economica, se non addirittura la recessione, sono un costo che vale la pena affrontare. Per ostacolare l’autonomia tecnologica del sud globale, gli USA e i suoi vassalli non si limitano a introdurre sanzioni unilaterali contro la Cina, che è il competitor diretto, ma tentano di impedire a tutti gli altri di usufruire degli sviluppi tecnologici che la CIna ha già conseguito.

La gigantesca e ipercompetitiva capacità produttiva cinese infatti sta permettendo anche ai Paesi più poveri di cominciare a intraprendere la strada dello sviluppo tecnologico, ad esempio attraverso la infrastrutture di rete di Huawei.

Le sanzioni contro Huawei quindi hanno una doppia valenza: ostacolare il superamento della Cina come produttore di tecnologia da un lato e ostacolare i primi passi del resto del sud globale come acquirenti di tecnologia cinese. Una strategia che però forse non sta funzionando alla perfezione. Huawei ha continuato a sviluppare tecnologia autoctona colmando sempre più gap, prima con lo sviluppo di infrastrutture 5g e l’implementazione a livello industriale dell’intelligenza artificiale su una scala che l’Occidente manco si sogna, e ultimamente anche con i microchip. Dall’altro lato, l’atteggiamento punitivo e predatorio del nord globale non ha fatto che saldare ulteriormente l’alleanza tra la Cina e il resto del sud globale. La risoluzione dell’Havana è proprio il risultato di questo completo allineamento tra gli interessi di Paesi che nella realtà hanno livelli di sviluppo molto diversi tra loro.

“Ai paesi in via di sviluppo”, si legge infatti chiaramente nella risoluzione, “non dovrebbero essere imposte restrizioni all’accesso ai materiali, alle attrezzature e alla tecnologia delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione al fine di mantenere uno sviluppo sostenibile”

Da questo punto di vista, il g77 dell’havana oltre ad essere un piccolo capolavoro diplomatico della Repubblica rivoluzionaria cubana, è un ulteriore capolavoro anche della diplomazia cinese, ed è anche una piccola speranza per la pace. Ultimamente, infatti, parlando della creazione di un nuovo ordine realmente multipolare, abbiamo posto l’accento sulla dedollarizzazione. Eppure di dollaro nella risoluzione non si parla. Si parla di riforma dell’architettura finanziaria e di democratizzazione delle istituzioni finanziarie globali, ma c’è una bella differenza. La democratizzazione delle istituzioni finanziarie, come la banca mondiale e il fondo monetario internazionale infatti, si riferiscono semplicemente a una maggiore rappresentanza del sud globale e a un uso meno predatorio dei finanziamenti allo sviluppo, che fino ad oggi sono stati utilizzati per imporre l’agenda della globalizzazione neoliberista in lungo e in largo. Ma a differenza della dedollarizzazione, queste riforme non rappresentano una minaccia esistenziale immediata per gli USA. La fine del dollaro come valuta di riserva globale infatti significa di per se la fine dell’imperialismo finanziario USA per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni, che si fonda proprio sulla necessità da parte dei paesi esportatori di accumulare dollari come riserve, sotto forma di titoli di stato USA. Sostanzialmente obbliga tutto il Mondo che produce, a finanziare il debito crescente e anche le bolle speculative che sole giustificano questo livello di ricchezza in un Paese che ormai sostanzialmente produce poco o niente. Da questo punto di vista l’egemonia del dollaro per gli USA rappresenta una redline invalicabile, e la minaccia di un suo declino non può che spingere gli USA verso il conflitto, a prescindere da quali siano le possibili conseguenze, con buona pace del pacifismo più moralista e naif.

La riforma graduale delle istituzioni finanziarie multilaterali invece, ovviamente comporta un ulteriore spinta al graduale declino dell’egemonia USA, ma non una minaccia esistenziale. Aver spostato in questa fase il focus della rivolta del sud globale contro il vecchio ordine unipolare dalla dedollarizzazione alla guerra tecnologica, rappresenta quindi un importante gesto distensivo. La Cina e il sud globale sono convinti in questa fase di poter continuare a colmare il gap con il mondo sviluppato anche nell’ambito di un’architettura finanziaria globale ancora incentrata sul dollaro, proprio come d’altronde la Cina ha già fatto negli ultimi trent’anni, a patto però di rimuovere gli ostacoli introdotti per impedire il loro ulteriore sviluppo tecnologico. Il processo della dedollarizzazione è inarrestabile e nel frattempo proseguirà, ma il suo ritmo dipenderà anche molto dalle prossime mosse statunitensi: se continueranno ad utilizzare le sanzioni contro chiunque in modo sistematico, il processo si velocizzerà, se invece faranno un bagno di realtà e realizzeranno di non avere più il coltello dalla parte del manico, il processo potrebbe proseguire anche molto lentamente.

Da questo punto di vista, la risoluzione dell’Havana e il rafforzamento di un organo come quello del g77 non rappresentano soltanto una presa di coscienza della forza che il sud globale se davvero unito può avere e dei diritti che può rivendicare, ma anche la speranza, per quanto flebile, che questa unità possa allontanare lo spettro di una guerra totale che continua a sembrare allo stesso tempo tanto inconcepibile, quanto ineluttabile. Che questa dialettica fondamentale per il destino stesso dell’umanità non trovi minimamente spazio nel nostro ecosistema mediatico, a me non sapete quanto mi fa girare il cazzo!

Allo stesso tempo però mi fa anche credere che quello che stiamo provando a fare non è solo utile, ma necessario anche se, ovviamente, del tutto insufficiente.

Contro la putrescenza dei vecchi media, per raccontare il nuovo mondo che avanza, mai come adesso abbiamo bisogno di un nuovo media che stia dalla parte della pace e del 99%

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e chi non aderisce è rimbambiden

Fonti:

Discorso del Presidente Cubano Díaz-Canel alla sessione inaugurale del G77+Cina: https://www.presidencia.gob.cu/es/presidencia/intervenciones/discurso-pronunciado-por-el-presidente-de-la-republica-en-la-sesion-inaugural-del-grupo-de-los-77-y-china/?_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it

Relazione finale del G77+Cina: https://cubaminrex.cu/en/declaration-summit-heads-state-and-government-group-77-and-china-current-development-challenges

Tweet Roberto Saviano e Betty Pairol Quesada: https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/cuba-cosi-saviano-ha-diffuso-una-clamorosa-fake-news-201809/?noamp=mobile

Grafico delle sanzioni: http://www.globalsanctionsdatabase.com/

Il declino dell’impero: Perché gli USA non sono in grado di combattere contro Cina e Russia

Potrebbe essere il caso ad esempio delle loro gigantesche navi da guerra, che da sempre costituiscono il fiore all’occhiello della proiezione globale della superpotenza militare a stelle e strisce.

Con i venti di guerra che spirano, per costruirne di nuove il congresso ha approvato un nuovo budget da trentadue miliardi. Solo per quest’anno. Il più generoso di tutti i tempi.

Ma potrebbero non essere esattamente soldi spesi benissimo.

Secondo un articolo del South China Morning Post dello scorso Maggio, infatti, i cinesi avrebbero fatto una simulazione per capire come si sarebbero potuti comportare i colossi del mare statunitensi di fronte a un attacco cinese a base di missili ipersonici.

Gioco di guerra: i missili ipersonici cinesi affondano una portaerei americana. Ogni volta”, riassumeva Asia Times.

La simulazione infatti sarebbe stata ripetuta per venti volte e per venti volte avrebbe dato lo stesso identico risultato. E negli USA è partito l’allarme.

Di fronte alle minacce in continua evoluzione, la Marina americana fatica a cambiare”, titolava allarmato il New York Times qualche giorno fa.

Secondo Asia Times, addirittura, “La frenesia della costruzione navale della marina americana potrebbe causare più danni che benefici”.

I piani multimiliardari per costruire altre navi da guerra tradizionali”, continuava l’articolo, “fanno parte di una strategia USA obsoleta destinata al fallimento in un conflitto con la Cina

Ma è mai possibile che gli USA, nonostante da soli spendano per la loro gara a chi c’ha il missile più grosso quasi quanto tutto il resto del mondo messo assieme, siano così fessi da non trasformare tutti questi quattrini in concreta superiorità militare nei confronti degli avversari?

Contea di Jackson, Mississippi. Se non fosse stato per il famosissimo presunto rapimento alieno che nel 1973 vide coinvolti Charles Hickson e Calvin Parker, la piccola cittadina di Pascagoula sarebbe stata relegata per sempre nell’anonimato.

Invece, è uno dei cuori pulsanti dell’industria bellica a stelle e strisce: con i suoi settemila dipendenti, infatti, i cantieri navali di Huntington Ingalls rappresentano il più grande datore di lavoro nel settore manifatturiero di tutto lo stato.

Producono quelli che sono considerati i cavalli di battaglia della Marina USA: i celebri cacciatorpedinieri Arleigh Burke.

Come ricorda il Times: “Possono gestire una serie di missioni, tra cui la caccia e la distruzione di sottomarini nemici, l’attacco ad altre navi nelle acque vicine e”, soprattutto, “il lancio di missili di precisione per colpire bersagli lontani sulla terraferma”.

E il Congresso, ha deciso di investirci una montagna di quattrini senza precedenti.

La Marina”, ricorda il Times, “ne ha già settantatré. L’accordo è di costruirne altri sedici, alla modica cifra di due miliardi di dollari l’uno”.

Il problema però”, sottolinea il Times, “è che, nonostante la loro straordinaria potenza, questi cacciatorpedinieri, come d’altronde il grosso delle navi da guerra tradizionali, sono sempre più vulnerabili, specialmente nel caso di un conflitto diretto contro la Cina per difendere Taiwan”.

Stessa situazione, almeno stando ad Asia Times, per il programma Next-Generation Guided-Missile Destroyer, per la nuova classe di combattenti di superficie che a partire dal 2030 dovrebbero affiancare gli Arleigh Burke, alla modica cifra di tre miliardi e mezzo l’uno.

Tuttavia”, sottolinea sarcasticamente Asia Times, “il loro valore strategico e la loro sostenibilità sono già messi in discussione a causa della crescente preoccupazione sull’espansione navale della Cina”.

Asia Times cita un rapporto del Congressional Research Service del Marzo scorso che solleverebbe più di una perplessità circa l’opportunità di concentrare così tante capacità, e così costose, in un numero tutto sommato limitato di navi, tutte potenzialmente più che vulnerabili.

Piuttosto, sottolineerebbe sempre lo stesso rapporto, gli sforzi dovrebbero essere concentrati per munire la Marina americana di armi a lungo raggio.

Quello che dovrebbe avvenire ad esempio con l’installazione di tutto il necessario per lanciare missili ipersonici sui cacciatorpedinieri della classe Zumwalt, che è cominciata sempre nei cantieri di Hurlington nell’Agosto scorso e dovrebbe concludersi entro un paio di anni.

Tuttavia”, sottolinea sempre Asia Times, “lo scafo della classe Zumwalt è stato criticato per essere instabile in mare mosso e facilmente rilevabile dai radar a bassa frequenza”. Tanto che, riporta sempre Asia Times, secondo alcuni: “Sarebbe più ragionevole progettare un nuovo cacciatorpediniere pensato ad hoc per l’utilizzo di armi supersoniche, invece che rimettere le mani sugli Zumwalt”. Nel frattempo però, in questo ammodernamento degli Zumwalt sono già stati impegnati poco meno di quindici miliardi.

Secondo il Times, se l’obiettivo è essere in grado di combattere una guerra con un pari grado tecnologico o quasi, come la Cina o la Russia, sarebbe meglio spenderli diversamente.

In nessun momento dalla seconda guerra mondiale ad oggi”, scrive il Times, “abbiamo dovuto affrontare una richiesta più urgente di abbracciare nuove tecnologie e nuovi sistemi d’arma”.

Il riferimento, in particolare, è alla necessità di sviluppare una flotta di navi e droni armati e senza pilota.

Secondo David Ochamanek della Rand Corporation, questa sostanzialmente è l’unica via per riuscire ad avvicinarsi alle coste cinesi senza vedere andare in fumo in un colpo solo una quantità di uomini e di mezzi difficilmente sostenibile.

Ma”, avrebbe affermato Ochamanek, “devo confessare di non essere rimasto per niente impressionato dalla velocità con la quale si stanno muovendo in questa direzione”. E i tentativi fatti, non sono stati esattamente un successo.

La Marina”, ricorda il Times, “Aveva già stipulato contratti con fornitori tradizionali, come Boeing, per sviluppare navi senza pilota. Ma molti di questi progetti erano già in ritardo di anni rispetto al programma, e presentavano problemi enormi nonostante avessero già pesantemente sforato il budget, tanto da venire silenziosamente cancellati”.

Visto che non riuscivano a svilupparne di loro, a un certo punto avevano provato a capire cosa potevano riuscire ad accaparrarsi sul mercato.

La missione era stata affidata all’Ammiraglio Lorin Selby, a capo della ricerca scientifica della marina USA fino allo scorso Giugno.

L’Ammiraglio Selby”, scrive il Times, “Ha provato a lungo a convincere i colleghi del Pentagono a trovare un modo per acquistare rapidamente migliaia di dispositivi di questo genere in tutto il mondo. Ma purtroppo”, sottolinea il Times, “si è imbattuto in una serie infinita di ostacoli”. “Ci siamo scontrati con la macchina”, avrebbe dichiarato l’Ammiraglio Selby al Times, “e cioè le persone che vogliono semplicemente continuare a fare quello che hanno sempre fatto. I budget, l’approvazione del Congresso, gli sforzi delle lobby. Tutto è progettato per continuare a produrre ciò che già abbiamo, e al limite migliorarlo un po’. Ma questo purtroppo ormai non può più bastare”.

Non sarebbe l’unico a pensarla così: secondo quanto riportato dal Times, “Diversi ufficiali di alto rango della Marina e del Pentagono”, interrogati dal loro giornale, avrebbero tutti emesso la stessa sentenza: “L’avversione all’assunzione di rischi, e alla rottura con le tradizioni, mescolata con la spavalderia e la fiducia nel potere della flotta tradizionale avrebbe gravemente ostacolato il progresso della Marina”.

La Marina degli Stati Uniti è arrogante”, avrebbe rincarato il solito Ammiraglio Selby, “abbiamo queste gigantesche portaerei e questi fantastici sottomarini, e non vogliamo sapere di nient’altro”. E anche sui fantastici sottomarini comincia a emergere più di qualche dubbio

Come sottolinea sempre Asia Times infatti: “I miglioramenti nelle capacità di guerra antisommergibile compiuti dai cinesi negli ultimi anni potrebbero minacciare il ruolo deterrente dei potenti sommergibili nucleari USA”.

Secondo Asia Times la Cina avrebbe compiuto enormi progressi nello sviluppo di sensori a frequenza estremamente bassa in grado di rilevare “le bolle quasi impercettibili prodotte dai sottomarini”, e anche di rilevatori sottomarini “in grado di rilevare minuscole vibrazioni superficiali di appena 10 nanometri”.

Insomma, tutto quello che avevamo fino ad oggi considerato invisibile, tanto invisibile potrebbe ormai non esserlo più.

Come scrive Andrei Martyanov nel suo “Disintegration: Indicators of the Coming American Collapse”:

Negli ultimi 50 anni, abbiamo dato per scontata la superiorità tecnologica americana. In particolare, grazie al crollo dell’Unione Sovietica, che però era dovuto in realtà più che altro a dinamiche interne scollegate dal contesto della Guerra Fredda. Questo ha illuso gli USA, e gli ha impedito di affrontare la realtà del loro declino che era già evidente negli anni ‘90. Nei 20 anni successivi, senza competitori, gli USA hanno sperperato il loro capitale politico e i gravi limiti del suo potere militare e tecnologico sono cominciati a venire a galla”.

Un errore strategico enorme”, continua Martyanov, “perché una superpotenza deve sempre accompagnare il potenziale dichiarato con risultati proporzionati. E invece non hanno fatto altro che sovrastimare il loro potenziale, sottovalutare il nemico, e fraintendere il tipo di guerra a cui stavano andando incontro”.

“Come sostengo da anni, l’arrivo dei missili ipersonici hanno cambiato per sempre la guerra e hanno reso i mastodonti da 100.000 tonnellate della Marina USA obsoleti e costosissimi agnelli sacrificali in ogni guerra reale”. Come sostiene il ministro della difesa russo Sergej Shoigu: “Non abbiamo bisogno di portaerei, ci basta avere le armi in grado di affondarli”.

Come il PIL denominato in dollari e composto per oltre la metà di trucchi contabili non restituisce un quadro realistico del declino della supremazia USA, così anche le ottocento basi in giro per il mondo e il budget stratosferico delle forze armate USA potrebbe restituire un’immagine piuttosto distorta della loro capacità reale di ottenere una vittoria, una volta che si trovassero testa a testa non più a qualche paesino in via di sviluppo ma a un pari grado tecnologico o quasi.

Nel caso dell’economia, la percezione distorta suggerita da numeri poco rappresentativi e enfatizzata da pennivendoli, ci ha già condannato all’impoverimento e alla crisi.

Nel caso dei rapporti di forza militari, la stessa percezioni distorta applicata alla valutazione di chi ha il missile più grosso, potrebbe portarci direttamente all’estinzione.

Ecco, sarebbe opportuno fare un piccolo sforzo per essere leggermente meno superficiali. Alla crisi economica, volendo, una soluzione la si può anche trovare: all’estinzione è già più difficile.

Bibliografia

https://www.nytimes.com/2023/09/04/us/politics/us-navy-ships.html?smid=nytcore-ios-share&referringSource=articleShare

https://asiatimes.com/2023/09/us-navy-building-spree-could-do-more-harm-than-good/

https://www.scmp.com/news/china/science/article/3221495/chinese-scientists-war-game-hypersonic-strike-us-carrier-group-south-china-sea

https://asiatimes.com/2023/05/war-game-china-hypersonics-sink-us-carrier-every-time/

https://asiatimes.com/2023/06/us-navys-ddgx-destroyer-design-is-full-of-holes/

https://crsreports.congress.gov/product/pdf/IF/IF11679

https://asiatimes.com/2023/02/us-fumbling-to-close-hypersonic-gap-with-china-russia/

https://asiatimes.com/2022/06/us-building-its-most-advanced-nuclear-ballistic-sub/

https://asiatimes.com/2023/08/china-claims-breakthrough-in-us-nuke-sub-detection/

https://asiatimes.com/2023/09/chinas-terahertz-tech-heralds-the-future-of-underwater-war/

https://www.amazon.com/Disintegration-Indicators-Coming-American-Collapse/dp/1949762343

Wall street consensus: come la Finanza trasforma la crisi climatica in guerra contro i poveri

È possibile essere a favore della transizione ecologica senza odiare i poveri?

Di fronte alla polarizzazione del dibattito sulla crisi climatica, tra chi la nega perché una volta sul manuale delle medie ha letto che Annibale ha attraversato le Alpi di gennaio in scooter con l’infradito e chi invece si indigna quando quei cafoni delle pevifevie s’incazzano se la benzina gli costa il doppio, effettivamente, il dubbio viene.

D’altronde, è uno dei dispositivi di dominio in assoluto più potenti dell’egemonia neoliberista: riuscire a spostare il dibattito in una puntata di Ciao Darwin tra due fazioni diverse, ma uguali di destra reazionaria, mentre dietro le quinte oligarchie finanziarie dedite al greenwashing e cari vecchi petrolieri si gonfiano le tasche.

Non è che per caso c’è un modo per mandare a cacare entrambi?

Shkusi, signor miliardario, che me la farebbe mica un poco di transizione ecologica?

L’appecoramento agli interessi dell’oligarchia finanziaria che sta determinando le modalità con le quali l’élite politica del Nord Globale sta affrontando la transizione ecologica, è senza pari: con la mano sinistra si fa finta di aderire senza se e senza ma alle indicazioni che arrivano dalla comunità scientifica; con la destra però poi si pone una condizione che è destinata inesorabilmente a far fallire miseramente ogni tentativo di cercare una soluzione ovvero va bene la transizione, ma solo se non mette in discussione il dominio delle oligarchie finanziarie. Anzi, è pure peggio di così: va bene la transizione, ma solo se riusciamo a trasformarla in un ulteriore gigantesco trasferimento di ricchezza nelle tasche della finanza. Nell’epoca dell’egemonia neoliberista, la guerra culturale tra scienza e superstizione viene trasformata senza ritegno in un altro capitolo della guerra dell’1% contro il 99%: se vuoi piegare le esigenze della transizione ecologica agli interessi della finanza, sei un illuminato progressista; se pretendi che la transizione non venga fatta sulla pelle del 99%, eccoti infilato automaticamente nel calderone del negazionismo più becero.

E il bello è che in questa dicotomia ci casca anche il grosso del 99%!

Invece di rivendicare con forza il fatto che la transizione è necessaria e che per effettuarla veramente, e non solo a chiacchiere, a guidarla non possono essere gli interessi economici immediati dell’1%, si nega la scienza. Per l’1%, è un doppio regalo: da un lato continuano tranquillamente a fare una montagna di quattrini con il fossile e il modello di sviluppo vecchio, e dall’altro si apprestano a imporre la transizione, che è inevitabile, alle loro condizioni.

Non deve per forza andare così.

Come scrive da anni l’economista Daniela Gabor infatti, ci sono sostanzialmente due modi per organizzare la transizione a un’economia a basso tasso di carbonio. Il primo, più efficace, lo chiama Green New Deal e “delinea un programma radicale di trasformazione ecologica ed economica guidato dallo Stato”. Secondo la Gabor: “questo comporta massicci investimenti in attività a basse emissioni di carbonio – politiche industriali verdi sostenute da politiche fiscali e monetarie verdi, garantendo al contempo che la decarbonizzazione avvenga in modo giusto. Fondamentalmente questo richiede la demolizione dell’ordine politico del capitalismo finanziario: annullare la sua avversione ideologica all’attivismo fiscale e all’intervento statale, il suo impegno per l’indipendenza” delle banche centrali e il potere politico dei finanziatori del carbonio”. Proprio come il New Deal di Roosevelt, insomma, presuppone uno spostamento del potere dal capitale al lavoro e allo Stato e, proprio come per il New Deal – contro il quale l’oligarchia finanziaria si è costruita a sua immagine e somiglianza lo Stato neoliberale in cui siamo immersi – anche a questo giro la risposta è già pronta. E visto che lo Stato neoliberale c’è già e il potere politico le oligarchie finanziarie ce lo hanno già, non ci sarà manco da aspettare che si organizzino per reagire: ogni alternativa è uccisa nella culla.
Sostenuta involontariamente da chi invece che giocarsi questa partita, preferisce negare la scienza, questa alternativa neoliberista al Green New Deal la Gabor l’ha chiamata Wall Street Consensus, e “promette che”, specifica la Gabor, “con la giusta spinta, il capitalismo finanziario può realizzare una transizione a basse emissioni di carbonio senza cambiamenti politici o istituzionali radicali”. Il mantra del Wall Street Consensus è creare le condizioni affinché sia possibile “sfruttare il capitale privato per lo sviluppo“.

Un po’ quello che dicono i cinesi insomma.

Peccato che nel nostro caso i rapporti di forza siano invertiti e ad essere sfruttato sia il miraggio dello sviluppo per favorire il capitale privato. “I finanziatori del carbonio”, infatti, scrive la Gabor, “vedono sempre più la crisi climatica non come una minaccia, ma come un’opportunità per realizzare profitti elevati, attraverso il greenwashing sovvenzionato”.

Greenwashing sovvenzionato: quanto amo la Gabor!

Significa in sostanza che creiamo le condizioni affinché la transizione sia una gigantesca opportunità di guadagno per le oligarchie finanziarie, ma senza manco pretendere che poi questa transizione la facciano davvero: basta che lo dicano! Ad esempio, attraverso il rating ESG, che sta per “Environment, Social and Governance”, e cioè la pagella delle aziende non in base agli indicatori economici e finanziari, ma appunto alla loro sostenibilità ambientale, sociale e di governance: una gigantesca presa per il culo!

Non tanto per il principio in sé, ovviamente – che sarebbe cosa buona e giusta – ma proprio perché in mano al mondo della finanza privata, e senza nessuna capacità da parte del potere politico di mettere dei paletti, e di controllare che vengano rispettati, s’è inevitabilmente trasformato in una barzelletta.

Il mercato delle agenzie di rating e dei fondi ESG è il cuore del greenwashing globale.

Se per anni ci siamo scandalizzati per lo strapotere di tre sole agenzie di rating finanziario, Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, ecco, calcolate che quando si parla di rating di sostenibilità, una società da sola, MSCI, pesa per oltre il 60% del mercato globale e le sue valutazioni hanno dell’incredibile.

Nel 2021 fece scalpore la vicenda McDonald che, cuore di un modello economico incredibilmente insostenibile e predatorio, era stata promossa proprio da MSCI, nonostante generasse più gas serra di Stati come il Portogallo o l’Ungheria e le sue emissioni nell’arco di quattro anni fossero salite ulteriormente del 7%. McDonald ora ha un rating tripla B, che equivale ad una bella sufficienza. Ma niente al confronto con quello di JP Morgan, la più grande banca privata del mondo: nonostante con quattrocentotrentaquattro miliardi in sette anni sia in assoluto il più grande finanziatore al mondo di progetti legati al fossile, per MSCI s’è guadagnata una bella A, un bel sette in pagella. Non dovrebbe sorprendere. MSCI infatti, non valuta l’impatto che la singola azienda ha sul clima, ma l’impatto che il clima ha sui conti dell’azienda: cioè, puoi anche contribuire a devastare il pianeta, ma se il tuo modello di business ti permette di continuare a fare profitto anche in un pianeta ambientalmente devastato, sei promosso. Così se nel 2021 MSCI ha migliorato il rating di 155 grandi corporation, soltanto 1, RIPETO 1, aveva effettivamente registrato una diminuzione delle emissioni.

Ma non è ancora finita perché se MSCI pesa per il 60% del mercato, anche il restante 40% ha ovviamente il suo peso e la sua utilità che principalmente consiste nel fatto che se cerchi per una qualsiasi azienda un’agenzia disposta a dare un buon rating, la trovi

Qualche tempo fa fece scalpore il caso Enbridge. Era riuscita a farsi concedere un finanziamento di 1 miliardo di dollari, legato proprio alla sostenibilità: serviva per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose.

Cosa significa?

Lo raccontava magistralmente il buon vecchio Andrea Barolini in un articolo su Valori.it , “Istruzioni per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose. Per raggiungere gli strati di sabbia ricchi di bitume, radete al suolo le foreste sovrastanti; trasportate tonnellate di sabbia all’impianto; utilizzate enormi quantitativi di acqua e solventi per estrarre il bitume; raffinatelo consumando altra energia; e alla fine ottenete del petrolio un po’ scadente da bruciare allegramente, con un ciclo che produce tra le 3 e le 4 volte le emissioni che si ottengono quando si estrae petrolio con tecniche tradizionali”.

E così, dopo Enbridge, nel tuo fondo “sostenibile” ci puoi mettere letteralmente cosa ti pare.

Blackrock di fondi sostenibili, ad esempio, ne ha quanti ne vuoi e Larry Fink nel 2020 era salito alla ribalta per la sua famosa rituale lettera annuale agli investitori, che a questo giro annunciava una decisa svolta green. Tutt’ora Blackrock investe 85 miliardi in società che producono energia col carbone.

Quindi non è altro che greenwashing?”, chiedevano sempre gli amici di Valori un po’ di tempo fa a Tariq Fancy, un ex pezzo grosso proprio di Blackrock poi pentito.

Complessivamente sì, è assolutamente greenwashing”, è stata la risposta.

Per evitare queste distorsioni qualche anno fa il mondo della finanza ha messo in piedi uno strumento innovativo: si chiama TNFD, che sta per Taskforce on Nature-related Financial Disclosure. Si fonderà su dei report dettagliati, che però funzionano esattamente come il rating di MSCI: “i rapporti che le aziende saranno chiamate a stilare non riguardano direttamente l’impatto che la loro attività ha sulla natura”, scriveva nell’agosto scorso il nostro Lorenzo Tecleme. “Viceversa”, continuava, “alle corporation è richiesto di spiegare se il loro modello di business è messo in qualche modo a rischio da fattori legati alla natura. O, all’opposto, se dal rapporto con gli ecosistemi possano nascere nuove opportunità economiche”.

Non era il primo esperimento in questo senso.

L’anno precedente infatti era entrata in funzione un’altra taskforce, la taskforce on climate-related financial disclosure. A capo c’era un ambientalista senza macchia: Michael Bloomberg, il settimo uomo più ricco del pianeta. Siccome evidentemente questi sistemi di valutazione privati non servono a una sega-niente, le istituzioni hanno cominciato a elaborare i loro, in particolare l’Europa. Per farlo, indovinate chi hanno assunto come consulente? Blackrock.
Nel caro e vecchio tradizionale capitalismo di rapina, i ricchi dovevano investire quattrini per fare lobbying presso le istituzioni; ora le istituzioni li pagano. Alla luce di queste evidenze, la guerra civile tra ambientalisti delle ZTL e negazionisti dei bassifondi può essere riqualificata come una guerra tra due negazionismi: i secondi negano la realtà scientifica sul clima, i primi quella sul capitalismo, e – visto che per quanto complesso, per capire il capitalismo tutto sommato non servono complessissime equazioni differenziali non lineari – tra i due, se proprio vogliamo trarre le somme, le più capre sono abbastanza chiaramente i primi.

Lo scozzo un po’ si riequilibra però quando al discorso sul potere della finanza, ci aggiungiamo anche quello geopolitico. Gli ambientalisti delle ZTL infatti sono di fronte a un dilemma esistenziale straziante: sono carichissimi per la guerra che il Nord globale ha finalmente deciso di ingaggiare contro l’asse delle autocrazie; peccato però che quella guerra, significa fare “ciao ciao” con la manina alla tanto agognata transizione.

Mentre l’Occidente infatti si crogiolava nella sua manifesta superiorità, i cinesi la transizione cominciavano a farla concretamente e soprattutto, costruivano i presupposti per portarla a termine.

Ancora nel 2007 infatti l’Europa era il principale hub manifatturiero per l’industria solare al mondo con circa un terzo della capacità produttiva globale di pannelli. Da allora, i cinesi -che evidentemente non leggevano La Verità – come per l’auto elettrica, hanno investito una quantità clamorosa di soldi per diventare i primi della classe. E li hanno investiti bene: non regalandoli a pioggia ai petrolieri privati e ai finanzieri che si improvvisavano avanguardie delle rinnovabili, ma facendo trainare tutta la conversione dallo Stato.

Tre anni dopo, erano già diventati i primi della classe. Noi, da bravi amanti del libero mercato, abbiamo reagito con dazi che si avvicinavano al 50%. Conseguenza: la svolta green di Europa e USA si sono fermate, senza fare grosso danno alla Cina. Abituati a essere i maggiordomi della finanza, i politici europei non hanno calcolato che in un Paese dove a guidare la carretta è lo Stato, non sarà qualche scaramuccia commerciale a far sviare da quello che viene considerato un obiettivo strategico, e così, nonostante i dazi, dal 2011 a oggi la Cina nell’industria solare ha investito 50 miliardi: 10 volte l’Europa. Grazie a questi investimenti, oggi la Cina produce pannelli in modo incommensurabilmente più efficienti ed economici che chiunque altro al mondo, mentre l’Europa e gli USA, si limitano a provare a limitare i danni: regalando quattrini ai privati.

L’obiettivo ora in Europa sarebbe arrivare a prodursi da sola il 40% dei pannelli che le servono per fare la transizione. Auguri!

Non possiamo scalare abbastanza rapidamente per soddisfare la domanda europea“, avrebbe affermato al Financial Times Steven Xuereb, direttore del Photovoltaik-Institut Berlin. “Tutti sono entusiasti del nuovo impianto [Enel] in Sicilia, che produrrà 3GW. I colossi cinesi stanno annunciando nuove fabbriche da 20GW”.

Riprendersi un pezzo del mercato, oltre a costare una quantità di quattrini spropositata, e quindi rallentare la transizione, potrebbe in realtà essere proprio infattibile perché nel tempo la Cina non ha conquistato soltanto il quasi monopolio dei prodotti finiti, ma anche di tutti i prodotti intermedi che servono per farli.

Il grafico pubblicato qualche settimana fa dal Financial times è piuttosto impietoso: divide la filiera dei pannelli in quattro stadi: produzione di polisilicio, produzione di wafer di silicio, produzione di celle e infine di pannelli veri e propri. Se per gli ultimi due stadi, celle e pannelli, la Cina oggi controlla circa l’80% del mercato, ma già nel 2010 era sopra il 50%, per il polisilicio è passata in 12 anni dal 25 a oltre il 90% del mercato, e per i wafer di silicio è diventata sostanzialmente l’unico produttore al mondo.

Recuperare è impossibile e forse anche solo provarci. La produzione di polisilicio e quella dei wafer infatti è enormemente energivora e l’energia in Cina costa la metà che da noi, senza contare gli incentivi.

Difficile credere”, conclude il Financial Times, “che qualcuno investirà miliardi senza la sicurezza di prezzi competitivi e prevedibili dell’energia”.

Ed ecco così che dopo il negazionismo climatico e quello economico, abbiamo il terzo negazionismo che impedirà di farla davvero sta transizione: quello che nega il fatto che il Mondo Nuovo ci sta facendo un culo così!

Contro il negazionismo, la finanza che ci banchetta sopra e la politica e l’informazione che assistono senza avere niente da ridire, quello di cui abbiamo bisogno è sempre di più un media che dia voce al 99%.

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E chi non aderisce è Michael Bloomberg.

Privatizzare la Natura: : il piano delirante del capitale per salvare il pianeta

Il piano delirante del capitale per salvare il pianeta: far naufragare definitivamente ogni residua speranza di un’efficace transizione ecologica affidandola a un petroliere, per poi costringerci ad accettare l’unica soluzione che il capitale sa immaginare per salvare il pianeta ossia privatizzare e finanziarizzare anche la Natura.

Sembra il plot dell’ennesimo blockbuster post apocalittico, ma in realtà è esattamente quello che sta succedendo sotto ai nostri occhi.

Nonostante la COP28 si terrà soltanto il prossimo novembre, i preparativi sono già in corso. Ad ospitare capi di stato, diplomatici, attivisti e uomini d’affari di quasi 200 paesi a questo giro toccherà a Dubai e la regia del tutto sarà affidata a lui: il Sultano Al Jaber, una scelta che sa di trollata.

Al Jaber infatti è nientepopodimeno che l’amministratore delegato dell’Abu Dhabi National Oil Corporation, il dodicesimo più grande produttore al mondo di gas e petrolio, e il quattordicesimo più grande produttore di emissioni climalteranti del pianeta. Sotto la sua direzione, ancora lo scorso autunno, il colosso emiratino delle fossili aveva annunciato un piano di espansione molto ambizioso, anticipando di 5 anni, dal 2030 al 2025, l’obiettivo di arrivare a estrarre 5 milioni di barili di greggio al giorno. “Il secondo piano più aggressivo di espansione dell’industria energetica mondiale”, denunciano oltre 400 organizzazioni ambientaliste in una lettera di protesta inviata alle Nazioni Unite, “che”, continua la lettera, “rende i suoi piani del tutto incompatibili con lo scenario disegnato dell’agenzia internazionale dell’energia, che chiarisce come per provare a raggiungere l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura sotto gli 1,5°C non ci possano essere ulteriori aumenti di estrazione di gas e petrolio”. Nella lettera, le associazioni ricordano come “anche prima della nomina di Al Jaber, gli Emirati Arabi Uniti” abbiano“ampiamente dimostrato di non prendere sul serio l’obiettivo dell’eliminazione graduale delle fonti fossili”. “Durante la COP27 dello scorso novembre” infatti, ricorda la lettera, “oltre 630 lobbisti delle fonti fossili si registrarono per partecipare ai negoziati sul clima e la delegazione degli Emirati era in assoluto quella col numero più alto di lobbisti”.

Ora sembra che la situazione si stia ribadendo. Al cubo.

A sette mesi dal fischio d’inizio, secondo quanto riportato da Bloomberg sarebbero già emersi numerosi casi di consulenti e membri dello staff di COP28 pagati direttamente dalla Abu Dhabi National Oil Corporation. “È davvero incredibile quanto sia andato in lungo e in largo, comprese alcune persone molto anziane” avrebbe dichiarato Sandrine Dixson-Declève riferendosi ai quattrini dispensati dalla corporation emiratina.

Al Jaber sul fronte delle mancate promesse in tema di rinnovabili ha già accumulato un curriculum di tutto rispetto. Dopo aver conseguito una laurea in business administration alla California State University di Los Angeles e aver terminato un dottorato in economia alla Coventry University in Gran Bretagna, era tornato a casa con un progetto visionario: voleva costruire un’intera città ecosostenibile da 50 mila abitanti a due passi dall’aeroporto di Abu Dhabi e convinse il governo a dargli la bellezza di 15 miliardi. Si sarebbe dovuta chiamare Masdar City; era il 2008. Quindici anni dopo, ci sono giusto una manciata di edifici semideserti e sono pure alimentati in gran parte con gas naturale! “Il grosso delle zone di sviluppo dopo 15 anni sono ancora completamente vuote”, scrive Bloomberg, “e la deadline è stata spostata al 2030.  Inizialmente era al 2016”.

In compenso, a capo della Abu Dhabi National Oil Corporation Al Jabar non ha saputo neanche tenere il passo nemmeno di altri killer del clima come Saudi Aramco e Exxon Mobil, che per lo meno vantano una trasparenza dei dati sulle emissioni aggregate decisamente migliore. D’altronde, Al Jabar non è esattamente un paladino della trasparenza e della libertà di informazione: da presidente del Consiglio Nazionale per i Media, secondo fonti raccolte da Bloomberg che avrebbero chiesto l’anonimato per timore di ritorsioni, “Al Jaber si occupa direttamente di mantenere uno stretto controllo sui media locali e sulle partnership con Sky News e CNN per i contenuti in lingua araba”.

Le organizzazioni ambientaliste lamentano giustamente che nessuna COP supervisionata da un pezzo grosso dell’industria fossile potrà mai essere ritenuta legittima e che le regole non possono essere scritte dai grandi inquinatori o sotto la loro influenza.

“Anno dopo anno”, scrivono nella lettera “la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite non è riuscita a fornire l’azione necessaria per porre fine all’era dei combustibili fossili e passare rapidamente e in modo equo a un nuovo sistema globale”.

In compenso però, le COP sono diventate un’ottima occasione per vendere. “Il vertice sul clima della Nazioni Unite”, ammette financo Bloomberg, “è ormai un raduno annuale per aziende che hanno un punto di vista sulla transazione energetica e un modo per venderlo; in pratica, una fiera”. E in grande stile: per la COP 28 Gli Emirati Arabi Uniti prevedono di ospitare un record di 70.000 partecipanti e il prodotto più in voga quest’anno, è roba da far accapponare la pelle.

Facciamo un balzo indietro. 9 novembre 2021. Un titolo sulla piattaforma online di scienze ambientali Mongabay recita: “Le comunità del Borneo sono rimaste incastrate in un accordo sul carbonio per 2 milioni di ettari di foresta di cui non sono a conoscenza”. Una storia allucinante, altro che land grabbing. Siamo nello Stato di Sabah, nel Borneo malese e secondo l’articolo, le autorità governative avrebbero firmato un accordo con un misterioso partner privato per lo sfruttamento del così detto “capitale naturale” di un’area di foresta grande quanto la Slovenia della durata di 100 anni, tenendo completamente all’oscuro le popolazioni indigene locali.

L’accordo sarebbe un così detto “nature conservation agreement”, un accordo sulla conservazione della Natura. L’obiettivo è ripristinare gli ecosistemi, per poi vendere crediti sui mercati finanziari, a partire da quelli sulle emissioni di carbone, ma non solo. Il meccanismo sicuramente lo conoscete già: io imprenditore con la fabbrichetta di bulloni nella provincia bresciana dovrei investire per abbattere le mie emissioni, ma visto che c’ho un’azienda che sta in piedi a malapena grazie a un po’ di evasione e qualche regola sulla sicurezza sul lavoro non rispettata, non me lo posso permettere. Allora come si fa? Si fa che tu, imprenditore anonimo che ti nascondi dietro una società anonima registrata nelle Isole Vergini britanniche corrompi qualche amministratore di qualche angolo del Sud globale, ti fai regalare un pezzo di terra dove vive qualche popolo indigeno, ci pianti qualche alberello che assorbe un po’ di carbonio ed ecco fatto che l’abbattimento delle emissioni l’hai fatto tu al posto mio. E che ce vo’?

Sembra una barzelletta o un film distopico, ma è esattamente quello che hanno fatto in questo caso o almeno, quello che hanno provato a fare su una scala gigantesca.

Secondo Al Jazeera, un affare da 80 miliardi. I carbon credit infatti, in prospettiva sarebbero soltanto uno dei tanti prodotti finanziari da costruire sulla conservazione e la rivitalizzazione degli ecosistemi: lo stesso meccanismo a breve dovrebbe essere applicato anche ad altri servizi ecosistemici, come l’approvvigionamento idrico, la riforestazione sostenibile e la conservazione della biodiversità. Per una società senza nessun curriculum e sulla quale è impossibile trovare informazioni, un obiettivo piuttosto ambizioso: la società infatti si chiama Hoch Standard e nessuno fino ad allora l’aveva mai nemmeno sentita nominare.

Il vice primo ministro dello Stato di Sabah, Jeffrey Kitingan, ha provato a rassicurare: la Hoch Standard è una startup con 10 milioni di capitale sociale e alle spalle fondi globali multimiliardari, ma i documenti visionati di Mongabay dimostrerebbero che in realtà allora il capitale sociale della società ammontava ad appena 1000 dollari. D’altronde, avere le spalle solide potrebbe non essere così necessario. Secondo l’accordo infatti, mentre il governo della Stato di Sabah non avrebbe il diritto di rescindere il contratto, Hoch Standard sarebbe liberissima di trasferire a terzi i diritti acquisiti sul capitale naturale.  Insomma, un mero faccendiere, creato ad hoc soltanto per capitalizzare rapporti privilegiati con la politica che gli garantiscono una rendita monopolistica su un pezzo gigantesco del pianeta e che è pronto a rivenderla al miglior offerente non appena dai pezzi di carta si deve passare al lavoro vero, facendoci sopra una bella cresta senza aver mai mosso foglia.

A fare da mediatore per l’accordo, un personaggio misterioso: Stan Lassa Golokin, che secondo i Panama papers in passato è stato associato a ben 4 società anonime registrate nelle Isole Vergini britanniche. Tra gli anni ‘80 e ‘90, Stan Lassa Golokin è stato coinvolto insieme al vice primo ministro Kitingan nello scandalo della Sabah Foundation: si sarebbe dovuta occupare di regolare la deforestazione dell’isola per fare spazio alla produzione dell’olio di palma, ma in 20 anni registrò un inspiegabile buco da 1,6 miliardi di dollari, mentre la ricchezza personale di Kitingan raggiungeva, altrettanto inspiegabilmente, la cifra esorbitante di 1 miliardo di dollari. Una quantità di zone d’ombra eccessiva anche per un territorio dove la resistenza delle popolazioni indigene è completamente sovrastata dall’intreccio tra politica e affari.

Dopo che con il suo scoop Mongabay ha portato alla luce l’accordo tenuto fino ad allora completamente segreto, la storica attivista dei diritti delle popolazioni indigene locali Anne Lasimbag è riuscita a mettere in piedi una vasta coalizione di organizzazioni indigene che hanno avviato una battaglia legale che è arrivata a coinvolgere i massimi vertici delle Nazioni Unite. Da allora l’accordo è precipitato in una sorta di Limbo, con il procuratore generale dello Stato di Sabah che ha affermato pubblicamente che “nella sua forma presente l’accordo è impotente dal punto di vista legale, e non potrà entrare in vigore a meno che non siano soddisfatte determinate disposizioni”, anche se esattamente quali siano queste disposizioni nessuno sembra averlo ancora capito; ma come si dice sempre in queste occasioni, ormai il re è nudo. Come scrive John Bellamy Foster, docente di sociologia all’università dell’Oregon e storico direttore della Monthly Reviewl’accordo di Sabah è un gigantesco e inquietante campanello d’allarme su come si sta concretizzando la corsa all’oro globale per assicurarsi i diritti di sfruttamento del capitale naturale”. Foster ricorda come “appena poche settimane prima dalla firma dell’accordo, il New York Stock Exchange e l’Intrinsic Exchange Group avevano annunciato la creazione di un’intera nuova categoria di società denominate Natural Asset Companies”, NAC per gli amici, che, “creano e commerciano veicoli finanziari per la proprietà, la gestione e il controllo delle risorse del capitale naturale mondiale”. Un mercato gigantesco. Come ricorda esplicitamente il sito dell’Intrinsic Exchange Group, “Le persone spesso dicono che la Natura non ha prezzo, con l’intenzione di indicare quanto sia preziosa. Sarebbe più corretto dire che nel sistema economico odierno il valore della Natura semplicemente non viene conteggiato”. Loro lo hanno fatto: “il valore finanziario della biodiversità è stimato tra 598 e 824 miliardi di dollari all’anno, il cambiamento climatico a circa 5 mila miliardi di dollari all’anno e la transizione verso un’economia più sostenibile, resiliente ed equa, ancora ordini di grandezza maggiori”. L’idea è semplice: la Natura e tutto quello che gli ecosistemi producono sono un fattore indispensabile della produzione e come ogni fattore della produzione vanno trasformati in merci, gli va dato un valore nominale e vanno scambiati sui mercati finanziari. “La trasmutazione del cosiddetto capitale naturale in valore di scambio negoziabile”, scrive Foster, “nell’ultimo decennio è vista come un’apertura di opportunità quasi illimitate per le società e i gestori di denaro”.

Già nel 2012, durante il Corporate EcoForum, un gruppo di venti corporation multinazionali, da Coca-Cola a Nike, avevano pubblicato un report, dove sottolineavano come si stimi “che 72 mila miliardi di dollari di beni e servizi” gratuiti “associati al capitale naturale globale e ai servizi ecosistemici siano monetizzabili ai fini di una crescita più sostenibile”. Il rapporto sottolineava inoltre le enormi opportunità di “leva” del debito rappresentate da “mercati di capitali naturali emergenti come il commercio della qualità dell’acqua, il sequestro naturale del carbonio e la conservazione delle zone umide e delle specie minacciate”. Di conseguenza, era imperativo “dare un prezzo al valore della Natura” o, in altre parole, “un valore monetario a ciò che la Natura fa per… le imprese”. “Il futuro dell’economia capitalista”, scrive Foster, “sta nel garantire che il mercato paghi “per servizi ecosistemici una volta gratuiti”, che potrebbero quindi generare nuovo valore economico per quelle società in grado di convertire i titoli in capitale naturale in attività finanziarie”. Tradurre le funzioni degli ecosistemi in quantità di denaro, permette di scambiarli tra loro: stermino i panda nelle foreste dell’Asia centrale? E che problema c’è? Mal che vada avrò causato un danno quantificabile, mettiamo in 100. Ora basta che mi compri un credito equivalente da una società che ha espropriato qualche tribù indigena dell’Amazzonia per permettere il ripopolamento dell’armadillo gigante, e siamo tutti contenti!

Come sottolinea Bellamy Foster, “la continua distruzione della Natura, conseguenza ineluttabile dell’accumulazione di capitale, può essere così compensata dalla valorizzazione di un altro servizio fornito da un altro ecosistema altrove”.

Non è un’interpretazione complottista: è proprio un fine dichiarato.

Come scrive il Nobel per l’economia Robert Solow infatti, “La storia ci dice un fatto importante, ovvero che beni e servizi possono essere sostituiti l’uno con l’altro. Se non mangi una specie di pesce, puoi mangiare un’altra specie di pesce. Non esiste un oggetto specifico che l’obiettivo della sostenibilità ci imponga di lasciare intatto… La sostenibilità non richiede la conservazione di una particolare specie di pesci o di un particolare tratto di foresta “. Purtroppo però la Natura non funziona esattamente così: ogni specie e ogni ecosistema è unico e insostituibile, e la sua estinzione è irreversibile. La logica della vita, anche in questo caso, soprattutto in questo caso, è incompatibile con la logica intrinseca dell’accumulazione del capitale.“Monetizzare l’ambiente”, scrive Bellamy Foster, “significa in ultima analisi trascinarlo nel mercato e sottoporlo alla dinamica incontrollabile dell’accumulazione. I sistemi di produzione ed evoluzione naturali saranno sostituiti sempre di più da sistemi basati sul mercato, il cui unico obiettivo è l’espansione del capitale. I beni comuni globali saranno sminuzzati e monopolizzati da pochi interessi privati, che li trasformeranno in attività finanziarie di ogni genere. Quello di cui stiamo parlando” continua Foster, “è dare le chiavi del mondo naturale alla City di Londra. Cosa mai potrebbe andare storto?”.

Il fallimento di ogni negoziato globale su come invertire la catastrofe ambientale, da questo punto di vista, non può essere considerato semplicemente un incidente, o il frutto di incapacità e incompetenze varie; va invece visto chiaramente per quello che è: uno strumento in mano al capitale per creare anche sul fronte dei servizi ecosistemici quella scarsità che facilita l’ingresso a gamba tesa della finanziarizzazione come unica soluzione possibile.

Se la politica non è in grado di tutelare il bene comune, trasformarlo in merce da contrattare sui mercati finanziari ci verrà spacciato facilmente come il minore dei mali possibili. È la famosa cura Friedman, che in passato è stata applicata a tutti i servizi pubblici essenziali: devastare scientemente la capacità del pubblico di fornire i servizi in modo efficiente a forza di tagli e taglietti, per poi spacciare le privatizzazioni come unica soluzione realistica possibile e chi c’ha da ridire è un rosicone, vittima di un’ideologia stantia. L’ideologia del dominio totale delle logiche del capitale su ogni aspetto della vita invece è sempre fresca come una rosa, anche quando ormai, dati alla mano, è sotto gli occhi di tutti che l’impresa privata e la dittatura del profitto, se lasciate a se stesse, non creano mai maggiore efficienza e competizione, ma solo monopoli da cui estrarre valore a piacimento a discapito di tutto il resto per poi costruirci sopra una bella bolla speculativa, che le statistiche trasformeranno magicamente in aumento della ricchezza prodotta: più un manipolo di oligarchi si appropria della nostra vita e riduce in miseria gli uomini e il pianeta, più il PIL procede a gambe levate!

Per capire le prossime mosse a questo punto non ci rimane che aspettare la prossima COP di Dubai.

Durante quella di 2 anni fa uno spavaldo Golokin, il faccendiere dell’accordo truffa di Sabah, era stato accolto in pompa magna col suo piano per mettere a reddito il capitale naturale del Borneo. “Lazy assets”, li aveva definiti. beni pigri: è l’ora che la Natura la pianti di ozieggiare come un percettore del reddito di cittadinanza qualsiasi e si metta finalmente a disposizione del capitale!

Se al contrario di Golokin, anche tu ami la vita, la natura e l’ozio, ultime frontiere della resistenza al dominio della tristezza mortifera del capitale, aiutaci a costruire il primo media che dà voce al 99%. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe e su PayPal

E chi non aderisce è Milton Friedman.

L’alba di tutto: ovvero perché tutto quello che ci hanno raccontato sulle origini della specie umana è falso

Ma secondo voi l’essere umano, di per sé, è una merdina o è pucciosissimo? 

Teotihuacan, 40 km dall’attuale Città del Messico. Con oltre 120 mila abitanti, circa 1800 anni fa era tra le 5 città più grandi del mondo

Era stata fondata un paio di secoli prima e all’inizio tutti gli sforzi si erano concentrati sulla costruzione di una gigantesca e sfarzosa città sacra al centro, a partire dall’incredibile colossale impresa di ingegneria civile necessaria per modificare il corso dei canali del Rio San Juan e del Rio San Lorenzo per farli aderire alla griglia ortogonale della città e, soprattutto, per trasformare gli argini paludosi in fondamenta solide dove erigere le gigantesche piramidi del Sole e della Luna e il tempio del Serpente Piumato, che a sua volta si affacciava su una piazza incassata che raccoglieva le acque alluvionali del San Juan per formare un lago stagionale. Senza l’ausilio di animali da soma o di utensili di metallo, richiese il lavoro di migliaia di persone. Ne morirono centinaia e altre ancora vennero sacrificate in uccisioni rituali associate a ciascuna delle fasi più importanti dei lavori. 

Una classica città stato governata da nobili ereditari, con il loro solido bagaglio di tradizioni da aristocrazia guerriera. Eppure, attorno ai palazzi monumentali della città sacra, non c’è traccia di resti di palazzi lussuosi, perché una volta terminata la città sacra, i cittadini di Teotihuacan, fecero una scelta sorprendente: “anziché costruire palazzi e quartieri esclusivi, gli abitanti si imbarcarono in uno sbalorditivo progetto di rinnovamento urbano, fornendo appartamenti di qualità all’intera popolazione, a prescindere dallo status o dalla ricchezza”. Non solo: “il tempio del Serpente Piumato fu sconsacrato, i mucchi di offerte saccheggiati e molte delle teste simili a gargouille sulla facciata furono mandate in frantumi o ridotte a monconi”. E non è ancora finita: “la costruzione delle piramidi si fermò in via permanente, e da lì in poi non ci sono più prove di ulteriori uccisioni rituali. Tutte le risorse invece furono impiegate per la costruzione di eccellenti alloggi in pietra, non solo per i ricchi e i privilegiati, ma anche per la stragrande maggioranza della popolazione. Teotihuacan aveva davvero voltato le spalle alla monarchia e all’aristocrazia”. 

Non era un caso del tutto isolato. Qualche secolo dopo, quando arrivano i coloni spagnoli, raccontano dei costumi in vigore nella città di Tlaxcala, dove “a governare era una giunta elettiva i cui membri venivano regolarmente frustati dai cittadini, giusto per ricordargli chi comandasse veramente” . 

Non sono due aneddoti, ma le tappe finali di una incredibile avventura intellettuale che copre 200mila anni di storia dello sviluppo umano e che è destinata a rappresentare una rivoluzione scientifica al pari di quelle introdotte da Darwin, da Galileo o da Karl Marx. 

L’alba di tutto si intitola ed è l’ultimo lavoro di David Graeber (scritto a quattro mani con David

Wengrow, professore di archeologia comparativa al University College di Londra – NDR), l’antropologo della London School of Economics che ai tempi di Occupy Wall Street aveva coniato lo slogan “we are 99%” che Ottolina ha fatto suo. Tre settimane dopo aver consegnato le bozze del libro, a soli 59 anni, è morto in un ospedale di Venezia. Questo video è un omaggio nei suoi confronti e anche un po’ la promessa che non permetteremo che il suo lavoro rimanga invano come Galileo aveva ridimensionato il posto del nostro pianeta nel cosmo, Darwin quello della nostra specie nel regno animale e Marx quello del capitalismo nella storia della società umana, anche l’opera di Graeber ricorre all’evidenza scientifica per smontare la storiellina dell’evoluzione umana che l’uomo contemporaneo si è costruito negli ultimi secoli retroattivamente a sua immagine e somiglianza. La storiella più o meno dice così: la nostra specie per come la conosciamo oggi fa la sua comparsa circa 200 mila anni fa e per 190 mila anni è rimasta sempre uguale a se stessa: piccole bande nomadi di cacciatori e raccoglitori, sostanzialmente uguali tra loro e senza nessun tipo di vera e propria organizzazione sociale e di autorità, fino a che un bel giorno un omino non ha scoperto l’agricoltura. Da allora se non c’hai un pezzetto d’orto non sei nessuno e grazie ai prodigi dell’agricoltura l’uomo s’è moltiplicato come i conigli, e s’è fatto prima la baracca e poi il villino nel suburb. Comunque sia, ha cominciato a vivere in comunità sempre più grandi e nelle comunità più grandi, siccome non c’hai più gli occhi della cugina della cognata della zia sempre puntati addosso, hanno dovuto chiamare le guardie giurate; e così è nata la società moderna, dove c’è chi sta sopra e chi sta sotto e te anche se sei tra quelli che stanno sotto c’hai poco da lamentarti che comunque è sempre meglio che stare con una pelle d’orso morto sul groppone a rincorrere i conigli nani nei prati e a raccogliere le bacche. Che poi c’è anche qualcuno che, di fronte a questo bivio, ti dice pure che alla fine di tornare a cacciare gli gnu mezzo ignudo non gli dispiacerebbe manco tanto, ma non David Graeber, che era un rivoluzionario, mica uno sciroccato, e che ha fatto una cosa molto più utile: ha messo in fila 150 anni di dati scientifici che aiutano a capire cosa è successo davvero in quei 190 mila anni, durante i quali secondo la narrativa ufficiale l’uomo non si è evoluto mai nemmeno di un millimetro, e ha scoperto che la storiella che ci hanno sempre raccontato è una gran vaccata.  Ha così messo in fila 600 pagine di letteratura destinata a rimanere scolpita nella pietra.  

Giusto alcuni passaggi che ci sono rimasti più impressi e poi per chi vuole approfondire ne parliamo in dettaglio nelle prossime dirette. 

Il primo mito da sfatare appunto è quello per il quale nel paleolitico superiore, da 50 a 15 mila anni fa, l’umanità fossa composta esclusivamente da minuscole bande di cacciatori raccoglitori, totalmente egualitarie al loro interno, e prive di ogni forma organizzativa 

In realtà esistono numerosi esempi di società gerarchiche e stratificate. Nelle caverne delle Arene Candide a Finale Ligure, c’è quella che è nota come sepoltura del “Giovane principe”. Ci sono corpi interi di giovani uomini e adulti, collocati in pose innaturali e ornati di gioielli – tra cui perline ricavate da conchiglie marine e canini di cervo – e quello che appunto viene denominato il principe c’ha pure quelle che sembrerebbero insegne reali: uno scettro di pietra focaia, bastoni di corna d’alce e un elaborato copricapo fatto di conchiglie perforate. Come dice Graeber: “millenni prima l’introduzione dell’agricoltura, parrebbe che le società umane fossero già divise secondo criteri di status, classe e potere ereditario” e laddove vigevano forme più egualitarie, non era la semplice applicazione istintiva di un dato di natura, il buon selvaggio, ma una scelta consapevole. Sono state identificate anche un’intera gamma di tattiche utilizzate collettivamente per far abbassare la cresta agli aspiranti sbruffoni: lo scherno, l’isolamento, e nel caso di sociopatici inveterati anche l’assassinio vero e proprio. I buoni selvaggi, sapevano chiaramente come si sarebbe potuta configurare la loro società se avessero permesso agli sbruffoni di prevalere. Che come dice Graeber “è l’essenza stessa della politica: la capacità di fare una riflessione conscia sulle diverse direzioni che la propria società potrebbe prendere e addurre argomentazioni esplicite del perché dovrebbe seguire un percorso anziché un altro”. 

In Turchia, vicino al confine con la Siria, negli anni ‘90 sono stati portati alla luce gli incredibili resti di Göbekli Tepe, una serie di recinti intervallati da oltre 200 giganteschi pilastri a forma di T alti fino a 5 metri e pesanti 15 tonnellate l’uno, collegati da muri di pietra grezza, interamente scolpiti, con su incise immagini di carnivori pericolosi e rettili velenosi. Risalgono a oltre 10 mila anni fa. Un’opera creata grazie a un coordinamento su vasta scala. È la prova inconfutabile che le società di cacciatori-raccoglitori avevano istituzioni abbastanza evolute per portare a termini progetti di questa portata. 

D’altronde Levi-Strauss l’aveva intuito ormai quasi un secolo fa. Il sospetto gli era venuto negli anni ‘30, quando si era imbattuto nel popolo dei nambikwara nel Mato Grosso. Un concentrato di ribaltamenti di stereotipi: non solo, nonostante fossero cacciatori, avevano una gerarchia sociale ben codificata e decisamente autoritaria, ma soprattutto, quando arrivavano i mesi delle piogge, da cacciatori si trasformavano per incanto in agricoltori stanziali. Facevano la stagione e senza i voucher perché, proprio quasi a prendere per il culo la narrativa prevalente, in questi mesi cambiavano completamente organizzazione sociale: da autoritari diventavano democratici; dove prima valeva l’eroismo, qui a caratterizzare i leader era la capacità persuasiva e la moderazione 

Anche tra gli inuit, in Alaska, andava di moda fare la stagione: in estate si disperdevano in bande di venti o trenta persone per andare in cerca di renne, caribù e pesci d’acqua dolce e nei lunghi mesi invernali, invece, si riunivano per costruire grandi case comuni di legno, pietra e costole di balena. Anche qua, come per i nambikwara, quando era stagione di caccia c’era il maschio anziano che tiranneggiava senza contraddittorio, e quando invece se ne stavano alla casa, prevaleva l’uguaglianza e l’altruismo e anche il sesso promiscuo. Sembra infatti trombassero come ricci, scambiandosi partner sessuali senza alcuna inibizione. 

Questo andare avanti e indietro tra la vita da cacciatore e quella da agricoltore pare quasi più la regola che l’eccezione. 

Anche dietro al mistero di Stonehenge c’è un misunderstanding di questo tipo come per Göbekli Tepe: si tratta di comunità di raccoglitori che però avevano la capacità di organizzarsi su larga scala. Ma la cosa più interessante è che nel caso dei popoli che poi ogni anno si riunivano a banchettare a Stonehenge, prima di tornare ad essere raccoglitori avevano già sperimentato l’agricoltura; solo che poi avevano deciso che la terra è bassa e che stare dietro ai campi è troppo sbattimento e avevano preferito ritornare a raccogliere le bacche. 

D’altronde che la vita da cacciatore/raccoglitore non fosse poi tutta questa sofferenza lo aveva già affermato più volte anche Marshall Sahlins: “tutte le prove indicano che nella storia dell’umanità il numero complessivo di ore passate a lavorare tende ad aumentare. A quanto sappiamo il grosso dei cacciatori-raccoglitori passavano da 2 a massimo 4 ore al giorno a fare qualcosa che si possa definire lavoro”. La battaglia per le 30 ore settimanali è da signorine: i veri uomini lottano per stare abbondantemente sotto le 20, altroché! 

E grazie al lavoro monumentale di Graeber oggi abbiamo un potentissimo strumento in più per controbattere a tutti i tromboni che ci vogliono convincere che non si può, spacciandoci leggende su come si è sviluppata la società umana, inventate ad hoc per legittimare un sistema di potere disumano e fondate letteralmente sul nulla

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Cambiamento climatico: Chi sono gli eco-imperialisti?

Il disastro delle Marche è soltanto l’ultimo degli eventi atmosferici catastrofici che hanno caratterizzato questi ultimi mesi. La cronostoria degli eventi climatici che hanno travolto l’Africa centrale durante l’estate è un vero e proprio bollettino di guerra: dai 100 mila sfollati a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, ai 150 mila del Sudan. Secondo il coordinamento degli affari umanitari dell’ONU, il doppio rispetto soltanto all’anno scorso. In Kentucky ad agosto le inondazioni hanno causato 30 vittime, in Iran, a fine luglio, nell’arco di una settimana, 80.

Quisquilie: in Pakistan 8 cicli monsonici contro i soliti 3,4, hanno stravolto la vita di oltre 30 milioni, inondando circa un terzo dell’intero paese, e causando oltre 1500 vittime: “La peggior catastrofe umanitaria degli ultimi 15 anni” – ha dichiarato Sherry Rehman, ministro del cambiamento climatico. Perché ovviamente il tema è quello: il cambiamento climatico.

Perché se è vero che nessun evento atmosferico catastrofico può essere linearmente e semplicemente ricondotto all’innalzamento di 1,1 gradi della temperatura media globale, mettendo in fila i puntini ad un certo punto anche al ragionier Fantozzi venne un leggero sospetto.

Il bello è che il problema non è che piove troppo: è che piove troppo poco! Terna ha comunicato che la produzione idroelettrica ad agosto è calata di oltre il 40%. Idem in Cina, dove il corso principale del fiume Yangtze, che da solo da da bere a 400 milioni di persone, è arrivato ad essere il 50% più basso della media degli ultimi 10 anni e dove il calo della produzione idroelettrica ha costretto alla chiusura fabbriche-città come quella della Toyota e della Foxconn. In Germania la siccità ha reso sostanzialmente impossibile utilizzare il fiume Reno per i trasporti commerciali. Henry Ford nel 1930 aveva deciso di aprire la prima fabbrica Ford in Europa a Colonia proprio perché poteva trasportare le auto via fiume verso il porto di Anversa. Per decenni 5 navi hanno fatto la spola, trasportando 500 veicoli a volta: hanno dovuto ridurli a 150, altrimenti le navi si incagliavano. I problemi di navigabilità del Reno da soli si stima costeranno alla Germania mezzo punto di PIL tondo tondo. È la peggiore siccità da 500 anni, si stima e il record non risaliva a 50 anni fa, ma a 4, al 2018.

D’altronde, ha fatto caldino: secondo il centro europeo di monitoraggio climatico, l’estata più calda mai registrata, + 0,8 gradi rispetto anche all’anno scorso, che già aveva fatto registrare temperature record. L’unica soluzione realistica l’hanno adottata a Bajardo, in provincia di Imperia: hanno assoldato un rabdomante. “Di scientifico non c’è nulla, lo so – ha spiegato il sindaco – ma due delle nostre cinque sorgenti si sono seccate negli ultimi mesi. non sapevo dove sbattere la testa. Un po’ come quando si ha una malattia e si è disperati: si provano tutte”.

Sarebbe meglio concentrarsi sulle cose che sappiamo possono dare qualche risultato a partire da mettere in sicurezza il territorio. 

Torniamo alle Marche e a quel maledetto fiume Misa. A maggio 2018 erano state bandite due gare d’appalto per la manutenzione del fiume per complessivi 2,5 miliardi. C’erano da rifare gli argini, da togliere i detriti, da adeguare gli scarichi e le paratie, ma ad oggi i lavori sono terminati solo su una porzione minuscola rispetto al previsto. I quattrini hanno preso altre vie. Per la gestione degli appalti a giugno erano scattate le manette per ben 8 funzionari. Capi d’accusa: corruzione e turbativa d’asta. 
Più in generale è il “piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico”, che, letteralmente, fa acqua da tutte le parti. Lo ha certificato l’ottobre scorso la relazione di Rossanna Rummo, consigliera della corte dei conti: “la capacità progettuale delle regioni e la scarsa pianificazione del territorio restano criticità non risolte”. Secondo Massimo Gargano dell’associazione nazionale dei consorzi di bacino: “per ogni euro che si potrebbe spendere in prevenzione, se ne spendono cinque in interventi di emergenza”. 

Senza contare il costo inestimabile delle vittime.

I soldi, in teoria, ci sarebbero. 14,3 miliardi, stanziati ormai 4 anni fa e da spendere entro il 2030, ma ad oggi siamo al palo. In Italia quando si dice che una cosa è da fare entro solitamente significa alla cazzo di cane la settimana dopo la scadenza. Con i fondi europei, ad esempio, è la regola. È andata comunque meglio che al piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici: è stato completato nel 2017, ma è ancora in attesa di autorizzazione. Nel 1984 frane e alluvioni costarono al nostro paese 87 milioni, aggiustati al valore di oggi. Dal 2011 non si è quasi mai rimasti al di sotto del miliardo. Conto complessivo: 51 miliardi; campioni d’Europa, davanti ai 36 della Germania e ai 35 della Francia.
Insomma, al di là dei massimi sistemi ci mettiamo sempre del nostro, ma le due cose, ritardo nella lotta ai cambiamenti climatici e incapacità di adattarsi e prendere le cautele necessarie, non sono così separate come appare: entrambe sono frutto di una sistematica e in parte fisiologica sottovalutazione di cosa siamo chiamati ad affrontare. Non ci arriviamo e ancora meno ci arrivano le istituzioni delle quali la specie umana ad oggi è riuscita a dotarsi: la mano invisibile del Mercato, da un lato, e la competizione geopolitica o alleanze militari tra Stati nazionali, dall’altro, molto semplicemente non sono all’altezza e rischiano di fare buchi più grandi della toppa. In un mondo caratterizzato da disuguaglianze intollerabili, le nostre classi dirigenti, che piano piano stanno realizzando come il contrasto al cambiamento climatico non sia più rinviabile, più che ad affrontare il problema in sé, sembrano occupate a trovare il modo per scaricare tutti i costi su chi se la passa già maluccio ed aumentare i guadagni e il potere di chi se la passa già alla grande.
Poi si dice che la gente comune si rifugia nel complottismo e non accetta la verità della scienza! Ma te guarda: se strumentalizzi la scienza per trovare un altro modo per fregarci, ti dovrei dire anche bravo? Le conseguenze le abbiamo viste chiaramente noi di Ottolina. Un paio di giorni fa abbiamo pubblicato un estratto dell’intervista che avevamo fatto a luglio al climatologo Luca Mercalli.  Apriti cielo!
“Che schifo! Ma sto tipo non si rende conto di quello che dice?”; “pessima trasmissione e pessime domande”; “dal World Economic forum è tutto, a voi la linea”; “perché non dite delle scie chimiche dei jet?”; “Ottolina, state abbracciando il gretinismo e l’élite satanica del new world order?”.
Certo, uno potrebbe limitarsi a puntare il dito contro i complottismi che ostacolano le sorti progressive della scienza e del buon governo delle democrazie liberali illuminate, ma per quello c’è già Carlo Calenda.  Noi invece vorremmo provare a fare un passetto in più, perché a differenza di Carlo Calenda questa roba ci riguarda da vicino. Il punto è che la totale irresponsabilità di chi detiene il potere rischia di essere in assoluto l’ostacolo più grande in questa sfida esistenziale per la specie umana anche perché una sfida del genere non può essere vinta soltanto imponendo qualche cambiamento dall’alto, ha chiaramente bisogno di una rivoluzione copernicana nello stile di vita di ognuno, ma chiedere sacrifici a chi di sacrifici ne ha sempre fatti, mentre dall’altro lato riempi le tasche di chi le ha già stracolme e magari mi percula pure perché si nutre solo di prodotti bio a chilometro zero che costano 15 volte di più quelli del supermercato e si muove solo in bici perché tanto vive di rendita e non ha mai lavorato mezz’ora in vita sua, non solo è ingiusto, ma è proprio poco realistico.

Idem sul piano internazionale. È inutile che in campagna elettorale mi presenti il tuo libro dei sogni per la transizione ecologica, con l’impegno a tappezzare il paese di pale eoliche e pannelli fotovoltaici, e poi ti arrapi di fronte alla guerra. Se non esiste il socialismo in un solo paese, figurarsi la transizione ecologica. La lotta ai cambiamenti climatici può ottenere qualche risultato se la fanno tutti, ma se te a tutti fai la guerra commerciale, la vedo dura.

Lo hanno sottolineato chiaramente i leader dei paesi che si sono riuniti la settimana scorsa a Samarcanda per il summit annuale della Shanghai Cooperation Organization e che rappresentano metà popolazione mondiale. Hanno riconosciuto le implicazioni catastrofiche del cambiamento climatico e hanno ribadito il bisogno di adottare misure urgenti straordinarie, ma hanno anche detto che – cito -: “misure unilaterali coercitive minano seriamente la cooperazione multilaterale e indeboliscono la capacità dei singoli paesi di affrontare i cambiamenti climatici”. Tradotto: se pensate di sfruttare la catastrofe climatica per imporci misure che fanno comodo a voi e impediscono a noi di ridurre il divario nei vostri confronti, accomodatevi! 

Senza questa cooperazione multilaterale, i libri dei sogni degli ambientali imperialisti si trasformano come d’incanto in carta da cesso. Lo sa bene il ministro dell’economia e della protezione climatica tedesco, Robert Habeck, presidente del partito ambientalista e uno dei più convinti sostenitori del coinvolgimento europeo nella guerra ucraina, a causa del quale ha dovuto dare il via libera al ritorno del carbone e anche della lignite, che è la fonte energetica di gran lunga più inquinante del pianeta.
Per ripartire col piede giusto c’è solo un’opzione sensata: andare a prendere le risorse laddove ci sono, a partire dall’industria fossile, a partire dall’Italia. In Italia ad oggi Eni, Shell e Total estraggono ogni anno dal nostro sottosuolo 4,8 milioni di tonnellate di petrolio e 3,5 miliardi di metri cubi di gas, su cui dovrebbero pagare delle royalties, ma dal 1998 ad oggi lo Stato ha incassato in tutto poco più di 5 miliardi. Niente. Lo Stato italiano applica infatti royalties che vanno dal 4 al 10%. In Germania, nello Schleswig-Holstein, il principale territorio tedesco per estrazione di fonti fossili, l’aliquota è del 21, nonostante i costi di produzione siano sensibilmente superiori a quelli medi italiani. Se avessimo fatto altrettanto, oggi avremmo in cassa poco meno di 13 miliardi e ai prezzi attuali, con 13 miliardi, ci fai nuovi impianti per 15 GW, il 12,4% della potenza lorda attualmente installata.

Che ci fanno un po’ schifo si può dire o anche quello è complottismo?