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Tag: Zelenski

Il tramonto dell’imperialismo USA sarà la tomba del capitalismo?

Il mondo è già multipolare ed è, sempre più chiaramente, troppo vasto e complesso per la sete di egemonia dell’impero e gli unici che sembrano non averlo capito sono le classi dirigenti degli alleati di Washington – dall’Europa al Giappone – e di ogni colore politico, che si comportano sempre di più come cortigiani dissoluti e privi di dignità alla disperata ricerca delle ultime botte di vita e di lussuria prima di ritrovarsi, inevitabilmente, ad assistere alla decapitazione dell’imperatore al quale hanno giurato eterna fedeltà. Gli analisti di geopolitica organici alla propaganda suprematista finanziata dalle oligarchie rovesciano la realtà e a suon di fake news e di doppi standard e ci raccontano un universo parallelo, ma – purtroppo per loro – nonostante la potenza di fuoco della macchina propagandistica; e anche se negli ultimi 40 anni hanno impiegato ogni mezzo necessario per trasformarci tutti in una gigantesca massa di rincoglioniti, la verità ha la testa dura e venire sistematicamente smentiti dai fatti ne sta indebolendo, giorno dopo giorno, l’egemonia.
Gli analisti geopolitici un pochino più lucidi e indipendenti, invece, quelli che hanno un minimo di competenza e che hanno a cuore anche la loro credibilità, tentano di evitare di accumulare una gigantesca montagna di figure di merda e, di fronte a dei dati oggettivi e incontrovertibili, cercano di aggiustare il tiro, anche se quello che emerge non è esattamente in linea con gli interessi delle oligarchie dalle quali, comunque, dipendono; in entrambi i casi, però, manca completamente la capacità (e forse anche la volontà) di andare al nocciolo della questione e di chiamare le cose col loro nome e il dibattito, fondamentalmente, verte sulle scelte politiche effettuate, di volta in volta, da una forza politica piuttosto che un’altra. Le guerre – fredde o calde – e i loro esiti diventano così frutto del caso e dell’arbitrio, e il mondo potrebbe essere completamente diverso da quello che abbiamo di fronte se solo il leader di turno avesse letto il libro o il rapporto giusto o avesse ingaggiato, nella sua ristretta cerchia di consiglieri, un analista piuttosto che un altro.
Noi di Ottolina Tv abbiamo un’idea leggermente diversa; saremo eccentrici, ma siamo convinti che la storia non la fanno il gossip e la psicologia da bar, ma le strutture profonde che regolano il vivere comune, a partire dalla principale delle attività umane: l’attività economica e, da questo punto di vista, il declino dell’impero e la decadenza arraffona dei cortigiani non sono scherzi del libero arbitrio, ma sono conseguenza diretta della divisione del mondo in classi sociali e dell’eterna lotta tra loro. E quello a cui stiamo assistendo non è il declino di un impero al quale, eventualmente, se ne sostituirà un altro tutto sommato identico; quello a cui stiamo assistendo è la crisi terminale dell’imperialismo, che ricorda da vicino il termine impero e, per gli analisti amici delle oligarchie, probabilmente è del tutto sovrapponibile, ma non lo è affatto. L’imperialismo, infatti, è la forma concreta e storicamente determinata che ha assunto il capitalismo quando ha cercato di rinviare l’inesorabile collasso dovuto alle sue dinamiche intrinseche, sostituendo alle leggende metropolitane della mano invisibile e della concorrenza la creazione dei monopoli e il ricorso sistematico alla forza bruta per imporne gli interessi su scala globale, a discapito di quello delle masse popolari di tutto il pianeta, un ordine globale fondato sulla rapina e sulla violenza che, purtroppo per lui e le sue groupies, però non si limita esclusivamente a distruggere il pianeta e la comunità umana (che è qualcosa di deplorevole, ma che non significa necessariamente condannarsi da soli alla sconfitta) ma, appunto – come annunciava profeticamente, ormai oltre un secolo fa, un certo Vladimir Ilic Uljianov, in arte Lenin – fornisce alle forze sociali, che hanno tutto l’interesse a rovesciarlo direttamente, la corda con la quale lo impiccheranno.

Vladimir Ilic Uljianov, in arte Lenin

E gli ultimi avvenimenti, da questo punto di vista, rappresentano una serie infinita di veri e propri esempi da manuale esattamente di questa dinamica suicida e autodistruttrice, sia dal punto di vista economico che da quello più prettamente geopolitico; mano a mano che il declino dell’impero si accentua, di pari passo aumenta la sua aggressività sia militare che economica che, paradossalmente, non sembra ottenere altro che accelerare ulteriormente il suo declino e rafforzare i suoi avversari. Ma prima di addentrarci nei dettagli tecnici su come è fatto questo cappio costruito con la corda che l’imperialismo sta fornendo ai suoi avversari, ricordati di mettere un like a questo video per permetterci di combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche: un piccolo gesto che a voi non costa niente, ma che per noi cambia molto e ci permette di provare a costruire un media veramente nuovo che, invece che parare il culo all’imperialismo in declino, contribuisca – giorno dopo giorno – a fornire gli strumenti necessari ai subalterni per bastonare il cane che affoga e liberarci, finalmente, delle nostre catene.
La svolta degli aiuti americani titolava ieri sul Corriere della serva Paolo Mieli: “Fortunatamente per i repubblicani statunitensi, e per tutti noi” sottolinea Mieli, Mike Johnson, “il cinquantaduenne legale di Donald Trump nei processi di impeachment del ‘19 e del ‘21, ultras cattolico, ostile al diritto di aborto e alle unione gay” ha stupito tutti, “si è messo in gioco” ed ha deciso di “tessere una tela tra democratici e repubblicani a vantaggio di Volodomyr Zelenski”; “Sto cercando di fare la cosa giusta” aveva affermato nei giorni scorsi Johnson per provare a giustificare il suo repentino cambio di rotta. “Sono convinto del fatto che Xi, Putin e l’Iran” ha dichiarato “costituiscano davvero l’asse del Male, e credo che si stiano coordinando. E credo che Putin, se glielo permettiamo, finita questa partita andrà sicuramente oltre, e che dopo l’ucraina verranno i paesi del Baltico, e anche la Polonia”. Mieli, che nella sua lunga e intensa vita è partito dalla militanza marxista – leninista nella sinistra extraparlamentare di Potere Operaio (simpatie per la lotta armata comprese) al comitato esecutivo dell’Aspen Institute, di giravolte se ne intende – e anche di artifici retorici per ammantarle di principi nobili; in questo caso, la giravolta opportunista di Johnson, tramite la sua penna sbarazzina, diventa la “sorpresa di un’autentica democrazia, come è, ancorché esposta a numerose ed evidenti insidie, quella degli Stati Uniti”: un discorso, dal punto di vista di una delle penne italiane in assoluto più amate dalle oligarchie, del tutto coerente. Per Paolo Mieli, come per tutta la propaganda neoliberista, democrazia – infatti – è sinonimo di potere politico saldamente in mano alle oligarchie, con la politica che deriva la sua legittimità dalla loro benedizione, invece che dal consenso popolare; e, in questo senso, gli Stati Uniti sono effettivamente ancora una democrazia, anche se cominciano ad arrivare segnali di lotta politica da parte dei subalterni – dalle mobilitazioni contro il genocidio alle battaglie sindacali – e la giravolta di Johnson, che ha rinnegato il suo mandato democratico proprio su pressione del partito unico della guerra e degli affari, è sicuramente una manifestazione di questo rapporto gerarchico, anche se tutt’altro che sorprendente.
Come sosteniamo da sempre, infatti, intorno all’approvazione degli aiuti s’è scatenata una negoziazione feroce da parte dei repubblicani per strappare qualche condizione di favore sia per gli affari personali dei loro sponsor, sia per il consenso (come nel caso della partita della lotta all’immigrazione), ma di fronte al fatto che gli aiuti diventavano sempre più indispensabili per evitare di concedere alla Russia una vittoria totale sul campo e il crollo definitivo di tutto il fronte, non ci sarebbe stata considerazione tattica possibile: l’impero sa esattamente come proteggere i suoi interessi vitali e non c’è incidente di percorso possibile che possa alterare radicalmente questo assunto; ciononostante, ce ne sono molti che lo possono alterare progressivamente. E prendere per due anni, giorno dopo giorno, una cespugliata di schiaffi nella guerra per procura contro la Russia è sicuramente uno di questi. Il pacchetto di aiuti in questione, infatti, sancisce definitivamente il gigantesco spostamento dei rapporti di forza determinato dal campo di battaglia; l’offensiva ucraina non è proprio più nemmeno un’ipotesi remota: le armi previste hanno esclusivamente carattere difensivo. Si tratta, molto banalmente, di ridare all’Ucraina i mezzi per tentare di evitare il totale controllo dello spazio aereo da parte russa e ostacolare così un’avanzata che, per quanto lenta, al momento sembra inesorabile. Come sottolinea il buon Andrew Korybko sul suo profilo Substack “Il tanto atteso pacchetto di aiuti USA all’Ucraina potrebbero impedirne il collasso, ma non respingeranno la Russia”; una condizione essenziale, sottolinea lo stesso Mieli, per provare a lavorare a un accordo tra – come li chiama lui – aggressore e aggredito e, cioè, esattamente quell’accordo che era possibile già nella primavera del ‘22, solo con qualche centinaio di migliaia di morti in più, un’economia europea completamente devastata e rapporti di forza molto più favorevoli alla Russia.
Lo spostamento dei rapporti di forza è altrettanto evidente in Medio Oriente, soprattutto dopo l’operazione True Promise da parte dell’Iran due sabati fa, all’insegna – come sottolinea The Cradle – della “precisione anziché della potenza” e, ancora di più, all’assenza di una risposta proporzionale da parte di Israele; un cambiamento radicale nella bilancia di potenza di tutta la regione dove, fino a due settimane fa, era del tutto impensabile poter attaccare direttamente Israele senza subire ritorsioni di diversi ordini di grandezza più devastanti. Una vera e propria rivoluzione resa possibile da diversi fattori; uno squisitamente militare: lo sviluppo tecnologico ha ridotto drasticamente il vantaggio che deriva da una sproporzione vistosa nei rispettivi budget militari. Con un budget limitatissimo, l’Iran, infatti, grazie all’impiego di droni low budget e di missili obsoleti (come li definisce lo stesso The Cradle) è riuscito facilmente a saturare la costosissima difesa aerea dell’alleanza messa in piedi in fretta e furia dagli USA a sostegno dello sterminio dei bambini palestinesi, permettendo così all’Iran di colpire in modo più o meno simbolico tutti gli obiettivi militari che aveva individuato e, cioè, le tre installazioni militari che avevano contribuito all’attacco criminale di Israele al consolato iraniano di Damasco; se vogliamo raccontarcela romanticamente è una classica vittoria di Davide contro Golia. Se, invece, abbiamo un bidone dell’immondizia al posto del cuore, si tratta della manifestazione di un’altra debolezza strutturale dell’imperialismo: ostaggio delle sue oligarchie, il sistema imperialista – infatti – vede il grosso di quello che spende in armamenti trasformarsi magicamente in extraprofitti per gli azionisti del comparto militare – industriale, che hanno imposto di dirottare il grosso della spesa in sedicenti sofisticatissimi sistemi d’arma che costano ordini di grandezza in più per ogni nuova generazione che arriva e che, alla prova dei fatti, possono essere agevolmente fottuti con qualche ferrovecchio.
Oltre al piano prettamente militare, però, l’imponente cambio della bilancia di potenze in Medio Oriente è anche il frutto di alcuni aspetti ancora più strutturali: il primo riguarda il difficile rapporto tra il centro imperialistico e i suoi avamposti regionali; la fase suprema dell’imperialismo prevede, infatti, il dominio totale del centro su tutto il pianeta, un pianeta che però, a causa dello sviluppo di molte periferie che esso stesso ha determinato a suon di globalizzazione e di delocalizzazioni, è sempre più grande e sempre più complesso. Per esercitare questo dominio, allora, diventano sempre più importanti – appunto – gli avamposti regionali, come è il caso di Israele nel Medio Oriente: in virtù del ruolo sempre più vitale che ricoprono all’interno del sistema imperialistico, questi avamposti acquisiscono, però, sempre maggiore potere, fino ad essere in grado di imporre scelte strategiche almeno in parte in contraddizione con il disegno strategico complessivo del centro imperialistico; che è proprio il caso di Israele, dove, sfortunatamente per gli USA, questo potere crescente si è ritrovato ad essere fortemente influenzato da delle fazioni di fondamentalisti guidati più dal fanatismo che dallo spietato calcolo razionale utilitaristico.
Completamente avulsi da una valutazione realistica dei rapporti di forza concreti, questi millenaristi invasati hanno condotto gli USA in una specie vicolo cieco, a partire dai rapporti con le petromonarchie del Golfo; nonostante le petromonarchie siano terrorizzate dal rafforzamento dell’egemonia regionale dell’Iran e delle forze popolari e antimperialiste dell’asse della resistenza, gli eccessi dell’imperialismo in declino le hanno spinte sempre di più alla ricerca di un difficile compromesso con gli avversari regionali come l’alternativa più realistica e razionale a un’egemonia USA sempre più compromessa e insostenibile. A spingere in questa direzione c’aveva già pensato l’irruzione della Cina come principale partner economico dell’area; un altro aiutino era poi arrivato dalla fine del mito dell’invincibilità dell’apparato militare USA sconfitto in Siria, incapace di permettere ai sauditi di chiudere a loro vantaggio la lunga battaglia per il controllo dello Yemen e, infine, pesantemente ridimensionato in Ucraina. Il sostegno incondizionato allo sterminio dei bambini palestinesi, che ha dimostrato l’incapacità degli USA di esercitare la loro egemonia su Israele, potrebbe essere la goccia che fa definitivamente traboccare il vaso: l’evidente precarietà di questo equilibrio è tra i fattori che hanno spinto USA e anche Israele a limitare al massimo la reazione all’attacco iraniano, al costo di certificare una sconfitta clamorosa dal punto di vista degli equilibri tra le opposte deterrenze.
L’egemonia dell’imperialismo su questi paesi è ogni giorno più fragile e ogni ulteriore passo falso potrebbe risultare essere fatale, dal Medio Oriente al Pacifico: l’imperialismo in declino, infatti, ha compreso che per poter pensare di fare la guerra alla Cina, dopo decenni di delocalizzazioni e finanziarizzazione, ha bisogno di ricostruire una base industriale comparabile e, per farlo, è tornato alle vecchie politiche protezionistiche; e a pagarne le conseguenze sono spesso proprio i paesi dove, invece, gli USA avrebbero bisogno di dimostrare tutta la loro magnanimità per convincerli che, ancora oggi, rappresentano un’alternativa migliore alla Cina esportatrice e mercantilista. Nel caso dei paesi dell’ASEAN, ad esempio, gli USA hanno girato le spalle all’accordo di libero scambio che avrebbe dovuto sostituire il vecchio trattato annullato dall’amministrazione Trump, lasciando alla Cina campo libero; ma non solo: con la politica del friendshoring, che punta a sostituire i legami economici e commerciali con i paesi considerati ostili – a partire proprio dalla Cina – con quelli con paesi considerati più amichevoli, gli USA hanno ottenuto, ad oggi, esattamente l’opposto di quanto sperato. Paesi come Vietnam o Indonesia, infatti, non hanno fatto che rinforzare i loro legami con la Cina, dalla quale importano la stragrande maggioranza dei semilavorati che impiegano nella loro industria, rendendole così sempre più dipendenti da Pechino. che viene spinta ogni giorno di più proprio dal panico diffuso nell’Occidente collettivo dal declino dell’imperialismo, a investire tutte le sue forze verso un’indipendenza tecnologica sempre più marcata.
Nonostante la Cina sia un paese che sta percorrendo la sua strada verso un’economia avanzata di tipo socialista e nonostante non abbia mai ceduto ai deliri più vistosi del misticismo neoliberista – a partire dalla volontà di mantenere una fetta consistente dei principali mezzi di produzione saldamente in mano alla Stato (a partire dal credito che, tra i mezzi di produzione, è in assoluto quello gerarchicamente più importante) – allo stesso tempo l’élite del partito, in buona parte formatasi nelle grandi università americane, è stata infatti a lungo fortemente influenzata dall’economia politica classica liberale; e nonostante sia diventata l’unica vera grande superpotenza manifatturiera del paese, in ossequio ai dictat della dottrina di Adam Smith ha sempre continuato a dipendere dall’estero per una bella fetta delle tecnologie che avrebbe dovuto spendere troppo per sviluppare in casa. Fino a che gli USA, giorno dopo giorno, sanzione dopo sanzione, non le hanno impedito di comprarle all’estero e l’hanno costretta a investire tutte le sue energie per svilupparsele da sola e accelerare in maniera esponenziale il lungo cammino che porta verso l’indipendenza tecnologica, come – ad esempio – sta succedendo nell’industria dei microchip, dove la Cina continua a scontare un ritardo significativo rispetto all’impero, ma è un gap che si è già ridotto sensibilmente negli ultimi 2 anni e non le ha impedito di costruire, con tecnologia autoctona, uno smartphone come il Mate 70 pro di Huawei che in Cina ha letteralmente asfaltato Apple. Risultato: Huawei nel 2023 è cresciuta del 10%; Apple è rimasta sostanzialmente al palo.

Xi Jinping

Le sanzioni USA contro quelli che la propaganda suprematista definisce Stati canaglia e, cioè, tutti gli Stati che non obbediscono in silenzio a Washington, non li ha spinti solo a investire di più: li ha anche obbligati a superare le loro differenze, a cooperare sempre di più e a integrarsi economicamente, andando a costruire gradualmente una sorta di blocco che, in condizioni meno burrascose, nella migliore delle ipotesi avrebbero impiegato enormemente di più a consolidare; riassumendo, quindi, l’aggressività con la quale l’imperialismo ha deciso di reagire al suo progressivo declino ha spostato gli equilibri geopolitici di diverse aree del pianeta a favore del nuovo ordine multipolare, velocizzato l’indipendenza tecnologica degli avversari, favorito la creazione di un vero e proprio blocco ormai incompatibile con il vecchio ordine e spostato sempre più in direzione di questo blocco anche i paesi più neutrali e titubanti. Rimane, però, il golden billion, il mondo del miliardo dorato composto, in gran parte, dalle ex potenze coloniali più qualche aggiunta qua e là, che rappresentano i veri e propri alleati degli USA, un insieme di Paesi che, però, sta vedendo diminuire il suo peso specifico nell’economia mondo a vista d’occhio, col G7 che è passato, nell’arco di 30 anni, da pesare più del doppio dei BRICS ad esserne addirittura superato.
Ma come fanno gli USA, quindi, a continuare a coltivare il loro sogno unipolare se non sono altro che il leader di un blocco che ormai è tutt’altro che egemone? Semplice: fottendo gli alleati, tutti gli alleati; ma proprio a saltelli. L’ultimo esempio la Corea del Sud, che non solo vede nella Cina di gran lunga il più importante partner commerciale – come ormai succede alla stragrande maggioranza dei paesi del mondo – ma è anche uno dei rarissimi casi che vanta nei confronti della Cina un consistente surplus: insomma, buona parte del benessere coreano è dovuto al mercato cinese, in particolare proprio per quanto riguarda la componentistica elettronica a partire dai chip, un mercato che su pressioni statunitensi ha dovuto gradualmente abbandonare, spingendo i cinesi a produrseli da soli. Risultato? Un grande quesito esistenziale: come titolava ieri il Financial Times, Il miracolo economico sudcoreano è finito? E loro son quelli messi meglio perché, almeno, hanno ancora qualche dubbio; Giappone e Germania, ormai in piena recessione, il dubbio non ce l’hanno più; entrambi, ormai, sono in recessione piena e – a quanto pare – rischia di essere solo l’inizio.
Bloomberg: La Banca Centrale Europea non dovrebbe affrettare ulteriori tagli dei tassi dopo giugno; a dichiararlo sarebbe stato Madis Mueller, presidente della Banca Centrale Estone e membro del consiglio della BCE. La dichiarazione segue le recenti affermazioni di Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, che aveva recentemente congelato le aspettative per una nuova stagione della riduzione generalizzata dei tassi che, a partire dagli USA, avrebbe contagiato il grosso delle economie avanzate; il punto è che l’economia USA continua a correre e, con essa, l’inflazione: ma com’è possibile? Non era tutto in declino? Il punto, come sapete, è che proprio per reagire al declino dell’imperialismo gli USA hanno aperto i cordoni della borsa e stanno aumentando il deficit pubblico a dismisura per attrarre investimenti dai paesi alleati e questo, ovviamente, fa crescere il PIL e continua a mantenere alta anche la pressione inflazionistica (che è un’ottima scusa per dire ai bamboccioni che la FED deve continuare a mantenere i tassi alti); in realtà però, come sempre, mantenere i tassi alti a parole è una reazione dovuta, una scelta tecnica. In realtà è una precisa scelta politica: più alti sono i tassi, più i capitali più deboli crollano, a favore di quelli più forti. La rapina sistematica delle economie degli alleati per rafforzare l’egemonia USA sull’Occidente collettivo continua indisturbata e, anzi, rilancia; fino a quando i cortigiani si accontenteranno di poter banchettare alla corte dell’imperatore mentre i suoi uomini gli confiscano terre e gioielli di famiglia? Fino ad oggi, l’accettazione di questa subalternità era sostenuta anche dalla percezione dello strapotere militare USA, ma gli ultimi risultati dal campo, anche tra le groupies di Washington indeboliscono l’idea dell’invincibilità della patria di Capitan America.
Purtroppo, però, c’è un fattore ancora più profondo che continua a tenere legate le varie borghesie nazionali allo stradominio USA, nonostante – stringi stringi – le stia vistosamente penalizzando e questo fattore è lo stesso che, alla fin fine, continua a garantire la fedeltà all’imperatore anche dei cortigiani più bistrattati e, cioè, che l’imperatore è la garanzia che continui il dominio dell’aristocrazia come classe sociale, della quale (anche se in posizione subordinata) fanno comunque parte. Lì oltre una certa soglia il problema, comunque, si superava: morto un imperatore, tutto sommato, se ne fa un altro; il dubbio è che questa continuità valga anche oggi. A differenza del mondo a immagine e somiglianza del dominio delle aristocrazie, infatti, il capitalismo ha una sua peculiarità: se non cresce, muore; ma i limiti oggettivi di questo processo di crescita infinita si sono fatti sentire chiaramente già decenni fa. Per due volte è potuto ripartire solo in seguito a una devastante guerra mondiale, poi si è provato a tenerlo artificialmente in vita con il trentennio d’oro delle politiche keynesiane che, però, erano talmente aliene ai meccanismi fondamentali dell’accumulazione capitalistica da mettere le classi dominanti di fronte a un bivio: o superiamo il capitalismo o azzeriamo le politiche keynesiane. La scelta che, per le classi dominanti, è stata un scelta di sopravvivenza la conosciamo tutti: si chiama controrivoluzione neoliberale e il sistema che ne è derivato è, appunto, l’imperialismo, l’accanimento terapeutico delle oligarchie per tenere in vita un capitalismo che, nella realtà, non esiste già più.
Il meccanismo fondante del capitalismo infatti è, stringi stringi, tutto sommato piuttosto semplice: investo dei soldi, produco una merce, rivendo la merce e ottengo i soldi investiti più un profitto; questa cosa che, secondo la vulgata, sarebbe ancora oggi il meccanismo fondamentale dell’attività economica dell’uomo in ogni angolo del pianeta, molto banalmente non funziona più. Al suo posto, un gigantesco schema Ponzi, dove la ricchezza prodotta non aumenta di un centesimo e, invece, il valore fittizio delle bolle speculative si ingigantisce senza sosta: i grandi patrimoni di oggi sono, sostanzialmente, in gran parte azioni o prodotti finanziari di altro tipo che, se un giorno dovessero essere venduti, non esisterebbero abbastanza soldi in tutto il mondo per comprarseli; un castello di carte dove le oligarchie dell’Occidente collettivo vivono protette dall’impero militare e finanziario USA e sanno benissimo che, una volta venuta meno la difesa dei suoi F-35, delle sue portaerei e del suo dollaro, non potrebbe che crollare definitivamente mettendo così fine alla finzione.
Per quanto saremo ancora così coglioni da farci derubare di tutta la ricchezza che produciamo – e che saremo ancora di più in grado di produrre – perché non riusciamo a vedere che la roccaforte che dobbiamo abbattere, dietro la facciata, non è altro che un castello di carte? Contro il castello di carta dell’imperialismo e del capitalismo finanziario, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che non si faccia abbindolare dalle leggende metropolitane e che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bill Gates (ma povero, però)

Donatella di Cesare – Ecco come la censura e lo squadrismo occidentale stanno rovinando l’Italia

La censura e lo squadrismo del partito unico della guerra e degli affari stanno toccando il loro apice con la guerra in Ucraina e Gaza. Donatella di Cesare potrebbe finire nelle liste nere di Zelenski ed è stata più volte attaccata per le sue posizioni politiche in chiara opposizione al mainstream.

PUTIN ACCOLTO DA IMPERATORE NEL GOLFO – Il Nord Globale è in preda al panico

Fermi tutti! Fermi tutti, che qui c’è da brindare; è tornata – più in forma che mai – la mia crush numero 1: Nathalie Tocci! Dopo averci deliziato per mesi e mesi con una quantità infinita di vere e proprie perle di doppiopesismo suprematista e previsioni strampalate di ogni genere, sistematicamente smentite tempo zero dalla realtà, la Tocci – ultimamente – aveva iniziato a battere un po’ la fiacca e, per spiazzarci ancora di più, era arrivata addirittura a scrivere cose non dico condivisibili, ma – tutto sommato – perlomeno ragionevoli sullo sterminio in corso a Gaza. Ma quando poi, venerdì mattina, abbiamo aperto la prima pagina de La Stampa, lo spiazzamento si è trasformato in vero e proprio stato confusionale; accanto alla sua graziosa fotina, infatti, campeggiava un titolo sconcertante: Perché adesso in Ucraina rischia di vincere Putin. E’ stata rapita? Lo zio Vladimiro gli ha segretamente fatto impartire un vecchio trattamento Ludwig? L’ha sostituita con una sosia?

Nathalie Tocci

Fortunatamente, però, era solo un falso allarme: superate le prime righe, infatti, ecco che riappare subito la vecchia Natalona che tutti noi abbiamo imparato ad amare, determinata come non mai a sacrificare ogni minimo residuo di dignità in nome della propaganda e del suprematismo. D’altronde la posta in gioco è alta; la Tocci, infatti, che – va detto – ha sempre tifato escalation senza se e senza ma, convinta che le minacce di Putin fossero sempre e solo bluff e che il dovere dell’Europa fosse distruggere la Russia senza tanti fronzoli, lamenta il fallimento di una strategia europea che definisce eccessivamente cauta e attendista. E’ l’abc di ogni suprematista che si rispetti: l’Occidente collettivo è una civiltà superiore e, in quanto tale, non può perdere; se perde è perché ha deciso, per eccesso di ingenuità, di essere troppo docile e gentile, come d’altronde dimostra anche la guerra a Gaza. Proprio la civiltà dei guanti di velluto, diciamo. La Tocci, quindi, torna a lamentare la “stanchezza” dell’Occidente nei confronti di una guerra che – ovviamente – sarebbe in grado di vincere con la mano destra legata, e accusa “chi pensa che da questa stanchezza possa uscire qualcosa di buono”, ovvero “un negoziato che porti un compromesso tra Kiev e Mosca, magari mandando a casa il presidente ucraino Zelensky”.
Poveri illusi! Non tengono in conto, sottolinea la nostra Nathalie, che “per arrivare a un compromesso serve l’accordo tra le due parti. E a questa soluzione il presidente russo Vladimir Putin non pensa proprio” e non tanto perché ormai la Russia ha asfaltato sul campo di battaglia l’Occidente collettivo e quindi ormai, prima di trattare, vuole finire l’opera – che ne so – prendendosi pure Odessa, o per lo meno Kharkiv – che è un’ipotesi tutto sommato verosimile. No, no! Secondo la Tocci, semplicemente, “Putin ha bisogno di uno stato di conflitto perpetuo per sorreggersi”; infatti, sottolinea, “Se dovesse finire la guerra, il regime sarebbe chiamato a fare i conti con” – udite udite – “centinaia di migliaia di morti”: cioè, non 100 mila, che è già una barzelletta, e nemmeno 200, ma proprio centinaia e centinaia di migliaia. Cioè, non solo tutti quelli schierati in Ucraina, nessuno escluso, ma pure quelli rimasti a casa, che sono morti dal dispiacere. E viste le basi fattuali così solide su cui fonda il suo ragionamento, ecco che la Tocci, spregiudicata, decide di fare un passo oltre e si lancia in un’altra delle sue fantastiche previsioni: se, infatti, un compromesso adesso è impensabile – sostiene la Tocci – le cose potrebbero cambiare tra un anno, una volta terminata la lunga corsa per le presidenziali USA, soprattutto se alla Casa Bianca arrivasse Trump; allora un accordo sarebbe il regalo di investitura di Putin all’amico The Donald. Ma non fatevi illusioni, perché “naturalmente, per Putin, questo sarebbe soltanto una pausa temporanea”, giusto “il tempo di riarmarsi, e poi proseguirebbe la rincorsa dell’obiettivo rimasto invariato sin dall’inizio della guerra” che indovinate un po’ quale sarebbe? Ma ovviamente “il controllo di Kiev” scrive Natalona, ma non solo, perché – a quel punto – perché fermarsi? Perché “non proseguire” dice la Tocci “con la casella successiva, cioè la Moldavia e poi, magari, avventurarsi in territorio NATO, nei Baltici”? E poi ancora più in là, dritti verso Lisbona e, da lì, in canotto verso il nuovo continente. Ma chi gliel’avrà messa in testa questa gigantesca sequela di puttanate? E perché proprio adesso, quando – dopo qualche intervento ragionevole sulla guerra a Gaza – stava lentamente riuscendo a ricrearsi un minimo di credibilità?
Washington, martedì 5 dicembre: il Congresso degli Stati Uniti è in procinto di discutere il pacchetto da 100 e oltre miliardi messo assieme dall’amministrazione Biden; in larga parte, dovrebbero servire a permettere all’Ucraina di tenere occupato Putin ancora un po’ senza dichiarare definitivamente la bancarotta, almeno fino al voto per le presidenziali USA del prossimo novembre e, tra le fila del partito repubblicano, le perplessità si sprecano. Ovviamente sanno benissimo che tirare il freno a mano adesso significherebbe, potenzialmente, permettere a Putin di aumentare a dismisura il suo bottino di guerra e, anche, che questo comporterebbe un danno enorme per gli interessi strategici USA, ma sanno anche che, dopo due anni di umiliazioni sul campo, il loro elettorato di questa guerra per procura ne ha le palle piene e per recarsi alle urne vuole vedere tornare in cima all’agenda politica qualcosa che li riguarda da vicino, a partire dalla lotta senza se e senza ma a quelle che ormai definiscono apertamente le invasioni barbariche dei migranti latinos dal confine meridionale – che vorrebbero blindato e con licenza di uccidere. Ecco allora che il segretario alla difesa Lloyd Austin prova l’ultima carta: un lungo incontro riservato con i senatori più riottosi per provare a cercare una quadra prima che inizi il voto; ma è un fallimento totale. Dopo appena 20 minuti – riporta il buon vecchio Stephen Bryen su Asia Times – ecco che i senatori repubblicani escono in fretta e furia dalla sala, inviperiti. Cos’è successo? Secondo le prime ricostruzioni, appunto, i repubblicani volevano impegni formali sostanziosi sul muro col Messico, ma sono stati rimbalzati. Ma c’è dell’altro: secondo Tucker Carlson, Lloyd Austin li avrebbe letteralmente minacciati:

“Il segretario alla Difesa Lloyd Austin” – ricostruisce il Messengers – “avrebbe sostenuto che se i legislatori non riusciranno ad approvare ulteriori aiuti all’Ucraina, ciò molto probabilmente porterà le truppe statunitensi sul terreno in Europa a difendere gli alleati della NATO in altri paesi che la Russia potrebbe prendere di mira”; insomma, gli aveva letto l’editoriale che poi avrebbe pubblicato anche il suo ufficio stampa in Italia Nathalie Tocci. Carlson, come sempre, aggiunge, anche un altro po’ di pepe: Lloyd Austin infatti – sostiene – avrebbe detto esplicitamente che “Se non stanziamo più soldi per Zelensky, manderemo i vostri zii, cugini e figli a combattere la Russia”; insomma, “O paghi gli oligarchi o uccideremo i tuoi figli” sintetizza Carlson, con Musk sotto che gli chiede “Ma ha davvero detto così?”. “Lo ha fatto davvero” replica Carlson. “E’ confermato”. Ora, io di Carlson mi fido più o meno come della Tocci ma, comunque si sia svolto davvero il colloquio segreto, un paio di cose risultano chiare:
uno – la minaccia, comunque sia stata formulata, non ha convinto i repubblicani, che infatti – alla fine – hanno bocciato il pacchetto di aiuti;
due – la minaccia, invece, ha convinto Nathalie Tocci, che l’ha trasformata nel suo ennesimo illuminante editoriale indipendente e privo di condizionamenti.
D’altronde, fallita miseramente la controffensiva ucraina, l’unica speranza che i sostenitori senza se e senza ma della guerra per procura contro la Russia hanno di salvare almeno un pezzettino di faccia è portare avanti una controffensiva mediatica in grande stile. Il primo tassello di questa controffensiva consiste nel riformulare gli obiettivi della guerra: se fino a due settimane fa l’obiettivo era, attraverso la controffensiva, riprendersi tutti i territori conquistati dalla Russia dopo il 24 febbraio – e magari, già che ci siamo, pure la Crimea – e poi mettere fine al regime di Putin, ora che – con poco meno di un annetto di ritardo – si è costretti a prendere atto del fallimento, non rimane che rivedere gli obiettivi retroattivamente; ed ecco così che la debacle diventa una mezza vittoria perché, comunque, abbiamo impedito a Putin di conquistare Kiev.

Euromaidan

Ma chi l’ha detto che Putin voleva conquistare Kiev? Certo Zelensky, Biden, la Tocci, ma Putin – di sicuro – no (e anche noi abbiamo avuto sempre più di qualche dubbietto, diciamo); la storiella è sempre stata che s’è ritrovato di fronte una resistenza ucraina che non si aspettava – per carità, tutto può essere -, ma la resistenza che s’è ritrovato di fronte mica era la resistenza ucraina dei patrioti armati di fucili di legno che ci rifilavano ovunque all’inizio. E’ la resistenza della NATO che, in 8 anni dal colpo di stato dell’Euromaidan, ha trasformato l’esercito ucraino, in assoluto, in uno dei più cazzuti del vecchio continente, e mica era un segreto eh? Cioè, magari non lo sapevano Jacoboni e David Parenzo, ma Putin tendenzialmente sì, ecco. Ciononostante, gli uomini impiegati dalla Russia erano pochini e la loro avanzata non era stata anticipata da qualche campagna democratica di bombardamento a tappeto in stile NATO; quindi, o Putin e tutti i suoi generali e tutta la sua intelligence sono scemi, oppure – probabilmente – il piano non era esattamente quello che gli attribuisce la propaganda occidentale e io, se fossi un hooligan della propaganda suprematista, su questa cosa che sono tutti scemi non ci punterei troppo, ecco, perché se sono scemi loro, te – che ti sei fatto a prendere a pizze in faccia per due anni – probabilmente proprio proprio un aquila non sei, ecco.
Ma al di là di tutte le deduzioni che possiamo fare – che comunque, ovviamente, rimangono sempre opinabili – ora finalmente sembra emergere qualcosa che tanto opinabile non è: come sottolinea il buon vecchio Mearsheimer, infatti, ormai “esistono prove sempre più convincenti che dimostrano che Russia e Ucraina erano coinvolte in seri negoziati per porre fine alla guerra in Ucraina subito dopo il suo inizio”. La prima testimonianza eccellente di questi negoziati risale allo scorso ottobre; a parlare è l’ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder, secondo il quale Mosca aveva proposto un piano di pace molto concreto in 5 punti: “Il rifiuto dell’Ucraina di aderire alla NATO, due lingue ufficiali in Ucraina, l’autonomia del Donbass, le garanzie di sicurezza per l’Ucraina e i negoziati sullo status della Crimea”. Altro che conquista di Kiev, quindi: “Durante i colloqui” ricorda però Schroeder “gli ucraini non hanno accettato la pace perché non gli era stato permesso. Dovevano prima coordinare tutto ciò di cui parlavano con gli americani”; ma Schroeder, si sa, è uomo di Gazprom e non è indipendente come Nathalie Tocci. A novembre, però, ecco che arriva un’altra conferma; a parlare, a questo giro, è nientepopodimeno che Davyd Arakhamia, leader parlamentare di Servitori del Popolo, il partito di Zelensky: “I russi” avrebbe dichiarato “erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo accettato la neutralità e ci fossimo impegnati a non aderire alla NATO” ma “quando siamo tornati da Istanbul” ricorda Arakhamia “Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo firmato nulla con loro e che combattevamo e basta”.

Francesco dall’Aglio

A confermare il vero scopo della Russia e il ruolo dell’Occidente collettivo c’ha pensato pure l’ex premier israeliano Natali Bennett, presente ai negoziati: “Tutto ciò che ho fatto” avrebbe affermato “è stato coordinato fino all’ultimo dettaglio con Stati Uniti, Germania e Francia. E la decisione è stata quella di continuare a colpire Putin”. I partner occidentali, quindi, hanno deciso di bloccare l’accordo e “io ho pensato che si sbagliassero” ha concluso Bennet; è esattamente la stessa identica cosa che il nostro Francesco Dall’Aglio ha sostenuto – durante le nostre dirette – ogni benedetta settimana da quando è iniziato il conflitto e che ora, finalmente, diventa sostanzialmente ufficiale – ma, evidentemente, non abbastanza per spingere la Tocci a prendere consapevolezza della realtà e a smarcarsi un po’ dai deliri dell’amministrazione Biden. Purtroppo per la propaganda analfoliberale, però, continuare a sostenere vaccate che cozzano palesemente con la realtà non sembra ormai più essere una strategia vincente; nonostante il bombardamento mediatico ininterrotto, il grosso della popolazione mondiale – anche nel cuore dell’Occidente collettivo – ormai il giochino l’ha capito eccome; ma allora perché continuare imperterriti sulla stessa strada, rilanciando con questa buffonata di Putin che, una volta conquistata Kiev, invade pure i paesi Baltici?
Per capirlo, basta vedere le immagini dell’arrivo di Putin, giovedì scorso, negli Emirati Arabi Uniti: ad aspettarlo c’erano “il picchetto d’onore, bandiere russe ovunque, l’inno russo eseguito dall’orchestra, il saluto dell’artiglieria” sottolinea Ria Novosti, e anche gli aerei acrobatici che hanno disegnato una gigantesca bandiera russa nel cielo ; un’accoglienza un po’ diversa da quella che, pochi giorni prima, aveva trovato il presidente tedesco Stenmeier in Qatar. Se l’erano dimenticato; è rimasto lì ad aspettare per mezz’ora. I media occidentali hanno rosicato di brutto: “L’accoglienza disgustosamente sontuosa del despota Putin ha titolato il britannico Sun. “Vladimir Putin” scrive La Bretella Rampina sul Corriere della serva “umilia i suoi nemici con la tournée nel Golfo”; “tutto” rilancia Libero “per mandare all’Occidente una sorta di pernacchia metaforica”. Dopo il tour nel Golfo, Putin ha ricevuto a Mosca il presidente iraniano Raisi e, poche ore prima, era stato il turno del principe ereditario dell’Oman che, con Putin a fianco, avrebbe affermato di fronte alle telecamere che “L’ingiusto ordine mondiale dominato dall’Occidente deve finire”; “è necessario” ha continuato il principe “creare nuovi meccanismi per le relazioni internazionali che non impongano alcuna ideologia”. “Gli Stati Uniti” ha dichiarato Putin “hanno cercato di utilizzare la globalizzazione come strumento per garantire il proprio dominio nel mondo”; “ora, tuttavia” ha continuato “il vecchio modello con un processo drammatico e irreversibile sta per essere sostituito da un nuovo ordine multipolare”. E la Russia darà il suo contributo per la creazione di un nuovo modello economico globale veramente democratico, basato sulla concorrenza leale tra tutti gli attori. Il palcoscenico era il forum annuale organizzato da VTB Bank: seconda banca del paese, a quest’ora si sarebbe dovuta ritrovare in ginocchio a causa delle sanzioni; nel 2023 registrerà i profitti più alti della sua storia. Bene, ma non benissimo, diciamo.

E ora una brevissima interruzione pubblicitaria: i nostri media provano a fuggire a questo destino – che per i loro editori è drammatico e irreversibile – cercando di cambiare retroattivamente la storia: mi sa che servirebbe un media che la storia cerca di capirla per quello che è per evitare di farsi prendere sempre e solo a sberle per l’eternità. Per costruirlo, serve un editore un po’ diverso: tu; aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è… Spe’ che sono emozionato, che non lo dicevo da tanto…
E chi non aderisce è Nathalie Tocci