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Tag: Xi Jingping

La Cina di Xi umilia l’impero e costringe Rimbambiden e le oligarchie a chiedere la grazia

Alleluja, alleluja! Forse Rimbambiden, finalmente, comincia a prendere atto della realtà e abbassa un po’ la cresta: Stati Uniti e Cina tornano al dialogo titolava ieri Libero; Una telefonata per il disgelo rilanciava Il Giornale. Martedì scorso, infatti, Rimbambiden ha smesso per ben 105 minuti la divisa da padrone del pianeta e ha chiesto udienza a Xi Dada; avrebbe preferito continuare a provocarlo con i suoi berretti verdi mandati ad addestrare il personale taiwanese a 2 chilometri dalla costa della Repubblica Popolare, ma probabilmente ha realizzato che, giorno dopo giorno, la grande strategia per arrivare al conflitto diretto contro l’unica superpotenza in grado di sfidare il primato USA perde sempre più pezzi. Il braccio armato dell’impero per il dominio del Medio Oriente ha perso la capa e, dopo 6 mesi di sterminio indiscriminato, rischia di impantanare gli USA in una guerra regionale in Medio Oriente senza via d’uscita; dopo due anni di guerra per procura in Ucraina, la Russia sembra più in forma che mai e l’Europa non è riuscita a fare mezzo passo per accollarsi la guerra di logoramento e lasciare gli USA liberi di concentrarsi sul Pacifico e il terzo fronte, quello della guerra economica e commerciale contro la Cina, ha raggiunto risultati soddisfacenti solo negli editoriali de Il Foglio e der Bretella Rampini. Per Foreign Affairs, invece, meglio non farsi troppe illusioni perché “La Cina sta ancora crescendo” e, in un lungo e dettagliato articolo, spiega – numeri alla mano – perché tutto l’allarmismo della propaganda suprematista occidentale è, molto banalmente, completamente infondato.
L’unica nota positiva, non da poco, è che sono riusciti a bastonare talmente forte gli altri membri della NATO che nessuno ha più neanche l’ambizione di far sentire la sua voce e gli USA si sono garantiti un altro anno di crescita economica letteralmente rapinando gli alleati, ma anche qui le perplessità non mancano perché, per scippare gli investimenti ai vassalli, gli USA hanno dovuto aprire i rubinetti del debito pubblico e proprio mentre, per attirare capitali, alzavano i tassi dei buoni del tesoro USA a livelli record. Risultato: Bloomberg Economics ha eseguito un milione di simulazioni per valutare le prospettive del debito americano e “L’88% mostra che l’indebitamento segue un percorso insostenibile”, ma non solo; per tentare di tornare ad essere una grande superpotenza manifatturiera – che è una precondizione necessaria anche solo per pensare di poter fare una guerra contro la Cina e uscirne vivi – gli USA hanno rinunciato a rafforzare i legami commerciali con il resto del mondo, a partire dai paesi dell’ASEAN, i 10 paesi del Sudest asiatico strategicamente indispensabili per accerchiare la Cina. Gli USA partivano pure avvantaggiati perché, ovviamente (e anche legittimamente), come sempre, i paesi temono di più il gigante cinese che hanno dietro casa che non quello USA che sta a migliaia di miglia di distanza, anche se è strutturalmente più aggressivo e, infatti, ancora l’anno scorso, secondo un sondaggio dello Yusof Ishak Institute, il 61% degli abitanti dei paesi dell’ASEAN dichiarava di preferire gli USA alla Cina; un anno dopo il quadro era totalmente stravolto, con i filocinesi che diventavano, per la prima volta nella storia, maggioranza assoluta raggiungendo quota 50,5%, un’evoluzione che vi avevamo anticipato qualche mese fa quando, proprio mentre Xi e Biden si stringevano la mano a San Francisco, il vertice dell’APEC si concludeva con un clamoroso nulla di fatto. Gli USA, infatti, sulla spinta sacrosanta dei principali sindacati del paese, si sono rifiutati di siglare l’Indo-Pacific economic framework, l’accordo di libero scambio che avrebbe aperto i mercati statunitensi ai produttori del sud est asiatico, e hanno lanciato così un segnale chiaro ai paesi dell’area: abbiamo bisogno di voi per contrastare l’ascesa cinese, ma non ci chiedete qualcosa in cambio perché, in questo momento, non ce lo possiamo permettere.
La Cina invece, nel frattempo, consolidava la sua posizione di principale partner commerciale per tutti i paesi dell’area e, in parte, è proprio grazie alle geniali strategie di USA e vassalli all’insegna del decoupling e del friendshoring che hanno avuto una conseguenza paradossale: importiamo meno dalla Cina e di più da altri paesi asiatici che, però, spesso non fanno altro che assemblare prodotti cinesi e, quindi, diventano sempre più dipendenti dalla Repubblica Popolare. Ma non solo: la Cina, infatti, che è a corto di risorse solo sui nostri giornali, è tornata a investire pesantemente lungo la via della Seta e, come al solito, nonostante badi ai suoi interessi, in modo molto meno predatorio di quanto fatto in passato dalle ex potenze coloniali. Come, ad esempio, in Indonesia: Widodo ha deciso di mettere fine al furto di nichel da parte delle multinazionali e ha introdotto il divieto all’esportazione della materia prima non lavorata, imponendo così alle aziende di investire nel paese per introdurre la lavorazione della materia prima e portare così occupazione e ricchezza. Le oligarchie occidentali si sono incazzate come bestie; i cinesi, invece, l’hanno sostenuto e hanno fatto investimenti giganteschi. Risultato: il 70% degli indonesiani afferma di preferire la Cina agli USA. Ma prima di andare avanti e raccontarvi, per filo e per segno, come Rimbambiden è riuscito a inimicarsi mezzo pianeta, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi e, già che ci siete, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare le notifiche: a voi non costa niente e a noi aiuta a provare a rompere il muro della propaganda suprematista.

Joe rimbamBiden

Prima che Rimbambiden si decidesse ad alzare la cornetta, a capire che non era tanto il caso di fare troppo i bulli con Xi Dada erano stati le stesse oligarchie USA: il primo appuntamento risale al novembre scorso quando, a latere dell’APEC di San Francisco – mentre gli USA facevano infuriare gli uomini d’affari americani e asiatici rifiutandosi di siglare l’Indo-Pacific economic framework – Xi veniva accolto, come titolava il Financial Times, dal mondo del business con una standing ovation; il 22 marzo, poi, una delegazione di dimensioni mai viste si è recata ricca di speranza al China Development Forum, la Davos cinese e, due giorni dopo, una rappresentanza di una ventina di multimiliardari capitanati da Stephen Schwarzman di Blackstone e Cristiano Amon di Qualcomm sono andati a rendere omaggio direttamente a Xi nella Grande sala del Popolo, il luogo in assoluto più iconico del governo indiscusso del Partito Comunista cinese. Il motivo è piuttosto semplice: tutte le favolette sulla crisi cinese che leggete dagli analfoliberali del gruppo Gedi o sentite farfugliare sul web dai vari Boldrin e Forchielli, molto semplicemente, sono sostanzialmente puttanate e chi, nella vita, non ambisce ad altro che a fare sempre più quattrini, lo sa bene. E per scoprirlo non c’ha manco bisogno di seguire Ottolina Tv: basta leggersi l’Economist o Foreign Affairs, dove Nicholas Lardy del Peterson institute for international economic si è preso la briga di smontare, una per una, le principali leggende metropolitane della propaganda suprematista.
Lardy ricorda come “Per oltre due decenni, la fenomenale performance economica della Cina ha impressionato e allarmato gran parte del mondo. Ma dal 2019, la crescita lenta della Cina ha portato molti osservatori a concludere che la Cina ha già raggiunto il picco come potenza economica e il presidente Biden lo ha anche affermato chiaramente nel suo discorso sullo Stato dell’Unione di marzo: Per anni, ha dichiarato, ho sentito molti dei miei amici repubblicani e democratici dire che la Cina è in crescita e l’America è in ritardo. E’ il contrario della realtà”, “ma questa visione sprezzante del paese” sottolinea sarcastico Lardy “potrebbe sottovalutare la resilienza della sua economia”; secondo Lardy, il pessimismo sulle prospettive dell’economia cinese si fonda su una lunga serie di fraintendimenti, regolarmente contraddetti dai dati oggettivi: il primo è “che il reddito delle famiglie, la spesa e la fiducia dei consumatori in Cina siano deboli”. Purtroppo però, fa notare Lardy, “I dati non supportano questa visione”; nel 2023, infatti, ricorda Lardy, sono successe due cose significative: la prima è che mentre in tutto l’Occidente collettivo il potere d’acquisto delle famiglie crollava a causa dell’inflazione e della moderazione salariale, “in Cina il reddito reale pro capite è aumentato del 6%” – mentre a noi, in Italia, in due anni ci levavano dalle tasche l’equivalente di poco meno di due stipendi. Ma non è tutto, perché in Cina, al contrario delle leggende, il consumo pro capite aumentava ancora di più: +9%; in Italia, per dire, il consumo al dettaglio è in diminuzione da 20 mesi consecutivi. “Il secondo fraintendimento” continua Lardy “è che la Cina sia entrata in una fase deflattiva” e, cioè, quando i prezzi – nel tempo – diminuiscono invece che aumentare, disincentivando sia i consumi che gli investimenti e aprendo, così, le porte alla recessione. Ora, “E’ vero che i prezzi sono aumentati soltanto dello 0,2% l’anno scorso”, ma questo è dipeso, in buona parte, dal fatto che ad essere diminuiti sono stati i costi di cibo ed energia mentre il resto, quella che si chiama inflazione core, è aumentata dello 0,7%, tant’è che le aziende, invece di usare i profitti per abbattere il debito (come si fa quando è in arrivo una recessione), si sono indebitate ulteriormente per investire e “gli investimenti nel manifatturiero, minerario, dei servizi pubblici e dei servizi in generale”: ed ecco così che, alla fine del 2023, nel paese si contavano la bellezza di 23 milioni di nuove aziende familiari; in Italia ne erano state chiuse qualche decina di migliaia.
Quello che confonde gli analfoliberali e i cantori della finanziarizzazione, come sottolinea l’Economist, è che “quando un paese raggiunge il livello di sviluppo della Cina, l’economia tipicamente ruota verso i servizi”. Ma nel caso del socialismo con caratteristiche cinesi “il cuore del governo è altrove”; come sottolinea Tilly Zhang di Gavekal Dragonomics “Ciò che la Cina vuole veramente essere è il leader della prossima rivoluzione industriale” e non è solo questione di crescita nominale del PIL – e fa specie che, per vederlo scritto, si debba leggere una bibbia dell’ortodossia come l’Economist, perché la sinistra progressista non ci arriva manco se ce li accompagni per mano. Il tema è quello dello sviluppo delle Nuove forze produttive, il nuovo tormentone del vocabolario ufficiale del partito: “L’espressione nuove forze produttive” scrive l’Economist “evoca l’idea dialettica secondo cui un accumulo di cambiamenti quantitativi può provocare una rottura qualitativa o un salto improvviso, come diceva Hegel, come quando un aumento incrementale della temperatura a un certo punto trasforma l’acqua in vapore. Marx” continua l’Economist “notava che quando nuove forze produttive raggiungono un peso sufficiente nell’economia, possono stravolgere l’ordine sociale: Il mulino a mano ti dà la società con il signore feudale, scrisse; il mulino a vapore, la società con il capitalista industriale”.
Secondo Barry Naughton dell’Università della California, “La strategia di innovazione della Cina è il più grande impegno di risorse governative della storia verso un obiettivo di politica industriale”; “I risultati” continua l’Economist “sono stati migliori di quanto qualsiasi paese a reddito medio potesse aspettarsi” e ricorda come l’Australian Policy Research, l’anno scorso, aveva documentato come – in una lunga lista di 64 tecnologie critiche – la Cina, in termini di impatto delle pubblicazioni scientifiche in materia, dominava in tutte, a parte una decina. “Il Paese” continua l’Economist “è il numero uno nelle comunicazioni 5G e 6G, nonché nella bioproduzione, nella nanoproduzione e nella produzione additiva. È all’avanguardia anche nei droni, nei radar, nella robotica e nei sonar, nonché nella crittografia post-quantistica”. Il Global Innovation Index, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale, combina circa 80 indicatori che abbracciano infrastrutture, normative e condizioni di mercato, nonché investimenti in ricerca, numero e importanza dei brevetti e numero di citazioni nella letteratura scientifica: un paese a reddito medio con un PIL pro capite come quello cinese si dovrebbe collocare, su per giù, verso la sessantesima posizione; la Cina è al 12° posto.
E mentre la Cina continua a concentrare una quantità incredibile di risorse per sviluppare le nuove forze produttive, anche a costo di rinunciare a qualcosina in termini di crescita nominale del PIL e in attesa che l’intensità tecnologica sia tale da imporre un cambio radicale anche dei rapporti di produzione, le occasioni per fare una montagna di quattrini non mancano: basta vedere l’incredibile caso di Huawei che nel 2023, nonostante la guerra commerciale a 360 gradi ingaggiata dall’Occidente collettivo (che, ormai, ha abbandonato completamente la retorica del libero mercato e combatte la concorrenza esclusivamente a colpi di protezionismo e restrizioni), ha registrato una crescita dell’utile netto del 144%; oltre alle infrastrutture per le telecomunicazioni, dove Huawei – nonostante tutto – rimane leader indiscussa, a trainare i conti dell’azienda a partire dall’ultimo trimestre, in particolare, è stato il Mate 60 pro, lo smartphone che ha fatto sudare freddo tutto l’Occidente. Come ricorda Asia Times, infatti, il Mate 60 pro è dotato di un processore che “a causa delle sanzioni imposte dagli USA e che hanno impedito all’olandese ASML di vendere in Cina i suoi sistemi di litografia ultravioletta estrema, il dipartimento del commercio statunitense aveva pensato che sarebbe stato impossibile produrre”; per arrivare a questo risultato, Huawei “ha speso per la ricerca e lo sviluppo nel 2023 il 23,4% dei suoi ricavi, più del doppio di quanto investe la coreana Samsung. E’ il terzo anno di fila che la spesa supera il 20% del fatturato, e permette di diversificare la linea di prodotti e aggirare le sanzioni imposte dagli USA”. In generale, sottolinea uno studio del Center for Strategic and International Studies, “Il sostegno statale cinese per la politica industriale è eccezionalmente alto, stimato a 406 miliardi di dollari, ovvero l’1,73% del PIL, nel 2019. Contro lo 0,39% del PIL negli Stati Uniti e allo 0,5% in Giappone”; il Financial Times ricorda come “Negli Stati Uniti e in Europa, i politici temono che una spesa così pesante si tradurrà in un’ondata di esportazioni di prodotti high tech a basso costo dalla Cina che potrebbero spostare le industrie nazionali e mettere a rischio la sicurezza nazionale”.
Ma quanto saranno belli gli imperialisti e i suprematisti? Fino a che gli torna comodo, spacciano la libertà del commercio come l’unica vera religione civile rimasta; quando poi non sono più competitivi, gettano la religione nel cesso e reintroducono sanzioni arbitrarie e misure protezionistiche di ogni tipo e quando, poi, uno reagisce investendo tutto quello che ha per guadagnarsi l’indipendenza tecnologica, si mettono a frignare perché, grazie a quegli stessi investimenti, minaccia di invaderli con prodotti enormemente più competitivi anche nei settori tecnologicamente più avanzati, che pensavano fossero appannaggio dell’uomo bianco per manifesta superiorità culturale, se non – addirittura – genetica. E poi uno si chiede del perché l’Occidente non faccia altro che scatenare guerre ovunque… e graziarcazzo: non è che gli rimangano poi tante carte da giocarsi, a meno che non lo rovesciamo come un calzino e mandiamo a casa i Rimbambiden di tutto il pianeta; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che alla fuffa suprematista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Michele Boldrin


















VIA DALLA SETA: L’Export italiano rinuncia al più grande mercato del Mondo per far contenti gli USA

Addio a Pechino”, titola La Stampa; Il Foglio: “Meloni smaschera il bluff della seta”; “Il patto stracciato con la Cina rafforza Meloni”. L’entusiasmo per la fine ufficiale dell’anomalia italiana, unico paese del G7 ad aver aderito al megaprogetto cinese dalla Belt and Road Initiative, è totalmente bipartisan con un’unica eccezione: “Conte grida all’autogol” titola Il Giornalema nemmeno i suoi alleati lo ascoltano”.
La fine della luna di miele tra l’amministrazione coloniale italiana e la più grande economia del pianeta è una morte annunciata dopo 4 anni di coma; nata dal colpo di mano dell’unico presidente del consiglio della seconda repubblica a non essere espressione diretta di Washington e delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce, la gigantesca opportunità di rappresentare il terminale mediterraneo delle rotte commerciali cinesi è stato affossata dai suprematisti ultra – atlantisti sin dall’inizio; una innata vocazione al suicidio. L’Italia, infatti, tra i grandi paesi europei è – in assoluto – quello che, fino ad allora, era riuscito meno di tutti a cogliere le occasioni che l’ascesa cinese presentava, subendone esclusivamente gli aspetti negativi: colpa della natura del suo tessuto produttivo fatto di piccolissime imprese a bassissimo valore aggiunto che, invece di integrarsi con la potenza industriale cinese, si sono limitate a delocalizzare il delocalizzabile senza mai riuscire ad attrarre investimenti significativi e, addirittura, senza mai riuscire a conquistare fette di mercato. Quando sono andato per la prima volta in Cina nel 2015 – proprio per provare a toccare con mano come ci stavamo muovendo – quello che mi sono trovato di fronte era da mani nei capelli: nei supermercati di prodotti importati di alta fascia, Spagna, Francia e Cile occupavano interi settori; i prodotti italiani erano relegati agli angoli, e spesso era solo italian sounding. Il padiglione italiano che, dopo l’Expo di Shanghai del 2010, era rimasto attivo come vetrina del made in Italy veniva smantellato proprio in quei giorni e, mano a mano che si procedeva verso l’alto della catena del valore, le cose andavano solo peggio. L’Italia era assente in tutto: automotive, meccanica, chimica, energia; l’adesione alla Via della Seta era un tentativo disperato per cominciare a colmare quel gap, una necessità talmente evidente che in realtà – anche se a siglare l’accordo, alla fine, è stato il governo Conte – le trattative erano in corso già da un paio di anni, e ad avviarle era stato uno dei politici italiani più sensibili ai dictat di Washington, l’ex maoista pentito Paolo Gentiloni – e addirittura con la benedizione di Mattarella. Purtroppo però, sottolinea Antonio 7 cervelli Tajani, l’accordo “non ha prodotto gli effetti sperati”, e graziarcazzo: le trattative su un ruolo dei cinesi nei nostri porti sono state sistematicamente boicottate dai Chicago boys infiltrati nelle nostre amministrazioni.

Mario Draghi

Poi è arrivato il covid, e poi è arrivata una pandemia ben peggiore: san Mario Pio da Goldman Sachs, noto come il migliore – nel senso di il migliore emissario ufficiale delle oligarchie finanziarie a stelle strisce. Tajani oggi si lamenta di quanto l’adesione alla Belt and Road non abbia fatto aumentare gli investimenti cinesi in Italia: maddai! San Mario Pio – liberista a giorni alterni -sin dal suo insediamento, per compiacere il padrone a Washington, ha bloccato sistematicamente ogni investimento cinese in Italia ricorrendo al Golden power; da quando è entrata in vigore la norma sul Golden power nel 2012, infatti, l’Italia l’ha utilizzata appena sette volte, sei delle quali contro la Cina, cinque delle quali con il governo Draghi. Insomma: com’è ovvio, il mancato rinnovo dell’accordo non ha niente a che vedere con i nostri interessi di stato sovrano – molto banalmente perché sovrani non siamo; è un messaggio politico e simbolico che Washington manda a Pechino, sulla nostra pelle: il Nord globale è cosa nostra e, se tocchi me, tocchi tutti.
Ma cosa si saranno inventati, a questo giro, i nostri media di regime per coprire questa ennesima sconigliata masochistica dell’Italia?
“Meglio tardi che mai” scrive Gian Micalessinofobia su Il Giornale, “ma soprattutto” sottolinea “meglio adesso”; infatti, spiega Micalessinofobia – che capisce qualchecosellina di come non beccarsi una pallottola mentre fai un reportage di guerra, ma in economia non è esattamente ferratissimo – ora “la nave dell’economia cinese sta rivelando tutte le sue falle”. Il riferimento, però, non è tanto alle boiate di Rampini sul PIL o a quelle della Pompili sul calo immaginario della produttività; Micalessinofobia, infatti, spiazza tutti e si inoltra in sentieri inesplorati: il riferimento è a “un comunicato pubblicato venerdì scorso che intima a banche, fondi pensione, assicurazioni e istituzioni finanziarie” – pensate un po’ – addirittura “di allinearsi ai principi del marxismo”. Hai capito il turbocapitalismo cinese? Micalessinofobia – porello – non lo può sapere, ma il “comunicato” a cui fa riferimento, in realtà, è probabilmente il documento che più di ogni altro testimonia quanto la Cina, in questa fase storica, sia perfettamente allineata con gli interessi del 99%: “Seguire fermamente il percorso dello sviluppo finanziario con caratteristiche cinesi” si intitola, ed è il documento che detta la linea delle riforme finanziarie che la Cina dovrà mettere in campo nei prossimi 5 anni; un vero e proprio vademecum per la lotta alla finanziarizzazione e alle oligarchie finanziarie, in difesa del lavoro e dell’economia reale. “Nel processo di sviluppo dei paesi occidentali” si legge nel documento “la rivoluzione finanziaria incentrata su banche commerciali, moderni mercati dei capitali, banche di investimento e capitale di rischio, ha promosso le tre rivoluzioni industriali dell’umanità, e fornito il sostegno finanziario che ha permesso la modernizzazione dei paesi occidentali, ma allo stesso tempo” continua “sotto l’ideologia capitalista, il capitale finanziario ha messo in luce la sua tendenza ai monopoli, la sua predatorietà e anche la sua fragilità, che non solo hanno causato un enorme divario tra ricchi e poveri, ma hanno anche innescato innumerevoli crisi economiche e finanziarie”. Tutta colpa della finanziarizzazione, e cioè dell’inversione del rapporto gerarchico tra economia reale ed economia finanziaria: non più l’economia finanziaria al servizio dell’economia reale come strumento per una più efficace allocazione delle risorse e per la riduzione dei rischi e la stabilizzazione dei cicli economici, ma – al contrario – come meccanismo per l’estrazione di risorse dall’economia reale per alimentare le bolle speculative. “La finanza separata dall’economia reale” prosegue il documento “è un albero senza le radici. Senza il sostegno di un’economia reale forte, la prosperità finanziaria sarà soltanto una bolla”.
L’innovazione finanziaria con caratteristiche cinesi, al contrario, deve servire interessi diametralmente opposti: deve favorire la circolazione dei capitali, ma solo per garantire un’allocazione più rapida ed efficace delle risorse laddove lo richiede lo sviluppo dell’economia reale e dei suoi protagonisti – il popolo cinese – e, invece di creare bolle sempre pronte ad esplodere in nome della massimizzazione dei profitti a breve termine, deve garantire la stabilità. L’innovazione finanziaria con caratteristiche cinesi, sottolinea il documento, “deve mantenere la stabilità come massima priorità”; “le politiche finanziarie” sottolineano “devono essere prudenti, e la gestione del rischio deve essere prudente”. Ma attenzione, perché “stabilità” sottolineano “non significa inerzia”: al contrario, “il progresso”, piuttosto, deve essere continuamente stimolato; anzi, addirittura deve essere aggressivo, “con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo, adeguare le infrastrutture, e colmare tutte le carenze”. Insomma: Micalessinofobia, a sostegno delle sue tesi, mi sa che ha portato le prove sbagliate; quel documento elegge di diritto la Cina e Xi Jinping a Nuovo Principe nella guerra contro le oligarchie finanziarie e la finanziarizzazione dell’economia. Al limite si può criticare quanto questa dichiarazione di principio trovi effettivo riscontro nella realtà; la nostra opinione la sapete ma, insomma, su quello è lecito e anche sano discutere – anche animatamente – ma il fatto che un documento magistrale su come dovrebbe essere riformata l’intera industria finanziaria, e quindi l’intera economia, venga citato per sostenere che abbiamo fatto bene a uscire dalla via della seta dovrebbe farci capire immediatamente cosa c’è realmente in gioco. Intendiamoci: non che Micalessinofobia o qualsiasi altro giornalista mainstream abbia la più pallida idea di quale sia il motivo del contendere, ma quelli che gli pagano gli stipendi sì, loro lo sanno benissimo.
La lotta della Cina contro la dittatura delle oligarchie finanziarie, comunque, non è l’unica prova astrusa che Micalessinofobia porta a sostegno della sua strampalata tesi; il reporter di guerra improvvisato economista de noantri, infatti, cita anche la persecuzione di benefattori come “il fondatore di Alì Baba”, come d’altronde di “tutti gli imprenditori illusi di potersi sottrarre al controllo del partito”. Insomma: chi tra di voi è un multimiliardario può tirare un sospiro di sollievo; tra le povere vittime del sistema illiberale cinese, continua Micalessinofobia, ci sarebbero anche degli enti benefici come Bank of America e, addirittura, Vanguard che – secondo Micalessin – sarebbe “una banca statunitense”. Certo. Vanguard è una banca e Stellantis una concessionaria: bene, ma non benissimo, diciamo.
Che di fronte alla persecuzione di tutti questi enti benefici l’uscita dell’Italia dalla Via della Seta non possa che essere salutata con giubilo – secondo Micalessin – è talmente evidente che non appena Conte, che definisce “l’ultimo samurai”, ha provato a obiettare qualcosa, anche i suoi alleati gli si sono scagliati contro; in particolare, Micalessin cita due statisti di indiscusso livello: la Emma Bonino dei poveri Lia Squartapalle e, addirittura, Ivan Scalfarotto che, però, è rimasto deluso dal fatto che l’uscita non sia stata annunciata con sufficiente trionfalismo. Nel frattempo, comunque, l’Occidente globale – va detto – è corso in aiuto dell’Italia: ieri Ursula von der Leyen e Charles Michel, infatti, erano attesi a Pechino; si svolgeva il XXIV vertice bilaterale tra Unione Europea e Cina che, però, sui media cinesi non è mai stato snobbato come quest’anno. E graziarcazzo: a Pechino, ormai – dopo due anni di guerra per procura contro la Russia che ci ha letteralmente devastati economicamente – che hanno a che fare con due amministratori coloniali l’hanno capito fin troppo bene e, se ancora avevano qualche dubbio, per fugarlo definitivamente gli è bastato dare un’occhiata ai temi in agenda; dopo aver sostenuto incondizionatamente per due mesi la guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, mentre la Cina provava in tutti i modi a raggiungere il cessate il fuoco, l’Unione Europea – infatti – voleva andare a Pechino a fare polemica sul mancato rispetto dei diritti umani della popolazione islamica dello Xinjiang. Capito come? Per la von der Leyen e per Michel questa

si chiama autodifesa dell’unica democrazia del Medio Oriente e questa, invece,

violazione dei diritti umani. Valli a capi’…
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E chi non aderisce è Gian Micalessinofobia