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Tag: vanguard

Come 10 miliardari hanno distrutto l’economia italiana e raddoppiato il patrimonio – ft. Alessandro Volpi

Mentre l’economia italiana andava a scatafascio, una manciata di miliardari italiani nell’arco di appena un anno vedeva aumentare il suo patrimonio di oltre 80 miliardi di euro, come 3 manovre finanziarie. Ma come si fa a fare una montagna di quattrini mentre l’economia va a scatafascio? Molto semplice: si ruba; cioè, invece che creare ricchezza e prendersene una fetta anche sproporzionata (come si confà a tutti i capitalisti di buona famiglia), ci si limita proprio a fregarsela, passando prima dai paradisi fiscali e finendo poi, immancabilmente, nei mercati finanziari USA, dove la potenza di fuoco di BlackRock e Vanguard moltiplica i pani e i pesci. E i baccalà, come quelli che, di fronte a questa rapina, continuano a difendere Giorgia la madrecristiana santa protettrice dei fondi finanziari USA perché, almeno, gli permette di continuare a evadere qualche spicciolo indisturbati (che poi spendono per pagare un fondo pensionistico integrativo o un’assicurazione sanitaria privata). Ne abbiamo parlato con Alessandro Volpi.

L’Italia si compra la Germania: cosa si nasconde dietro alla scalata di UniCredit a Commerzbank

Gli italiani si comprano le banche tedesche, di nuovo: Mercati in festa, tedeschi basiti titola Libero ostentando un po’ di sano orgoglio italico; il riferimento è all’operazione che mercoledì scorso, senza che nessuno se lo aspettasse, ha portato la milanese UniCredit ad acquisire il 9% di Commerzbank, la quinta banca tedesca per patrimonio gestito. UniCredit ha approfittato della svendita di una parte delle azioni della banca detenute dallo Stato tedesco, che aveva salvato l’istituto dal default durante la grande crisi finanziaria nel 2008 e che, a operazione finita, nella migliore delle ipotesi avrà perso 2,5 miliardi di euro dei contribuenti per metterli direttamente nelle tasche della grande finanza privata; e potrebbe essere solo l’inizio: lo Stato tedesco rimane infatti ad oggi il principale azionista, ma è intenzionato a liberarsi di tutto. D’altronde, dall’Italia alla Germania, funziona così: prima si socializzano le perdite e poi si privatizzano i profitti; lo Stato al servizio dei ricchi. L’amore di UniCredit per cruccolandia non è una novità: già nel 2005, in piena era Profumo, l’istituto milanese si era accattato Hypo Vereinsbank, HVB per gli amici. E gli amici sono tanti: era, ed è tutt’ora, la quinta banca del paese. Se UniCredit, come pare abbastanza probabile (anche se non scontato), portasse a termine l’acquisizione di Commerzbank, darebbe vita al primo polo bancario del paese in mano all’Italia, ma non certo nell’interesse degli italiani: la notizia shock dell’ascesa della finanza italiana nel cuore della principale potenza economica del vecchio continente, infatti, è il primo timido tentativo di dare vita concretamente ai propositi del Rapporto Draghi sulla Competitività dell’Europa, una competitività che – recita la sacra dottrina neoliberista – può essere raggiunta soltanto attraverso lo strapotere del capitalismo privato. La creazione di colossi bancari transcontinentali è la scorciatoia individuata per creare quel mercato unico dei capitali che non siamo riusciti a creare attraverso le istituzioni; e quel mercato unico dei capitali è il requisito minimo necessario di cui avremmo bisogno per dare vita a dei campioni continentali in grado di competere con i colossi globali (in particolare cinesi e statunitensi) nei settori più promettenti dell’economia del futuro, mentre tutto il resto dell’economia – quella che dà da mangiare e la speranza di una vita quasi dignitosa alla stragrande maggioranza dei cittadini europei – verrà gradualmente privata dell’accesso al credito (che solo una rete diffusa di banche locali fortemente vincolate al territorio può garantire) e se ne potrà andare beatamente affanculo. E visto che la Germania è il primo cliente dell’export italiano, alla fine a pagare il conto saremo, di nuovo, anche noi. Ma prima di addentrarci nei particolare di questa intricata vicenda che anticipa l’Europa che verrà nel prossimo futuro, vi ricordo di mettere un like a questo video per permetterci anche oggi di combattere la nostra piccola guerra quotidiana con un monopolio che c’è già (quello degli algoritmi al servizio della propaganda dell’impero) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghino i monopoli finanziari a licenziare qualche decina di migliaia di bancari per far schizzare le azioni in borsa, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a far conoscere a sempre più persone il lato oscuro delle magnifiche sorti e progressive della grande concentrazione capitalistica.

L’Italia si compra la finanza tedesca a buon mercato: questa prima parte della scalata a Commerzbank è costata in tutto 1,5 miliardi; per UniCredit spiccioli. Con la corsa al rialzo dei tassi di interesse, le banche negli ultimi due anni hanno guadagnato cifre spropositate facendosi pagare una montagna di interessi dai debitori, senza riconoscere il becco d’un quattrino a chi, per pigrizia o per paura, lasciava i quattrini a svalutarsi sul conto corrente e con la complicità dei governi che, a un certo punto, per placare la rabbia popolare hanno annunciato tasse sugli extraprofitti, ma poi si sono scordati di applicarle sul serio perché c’avevano judo. E UniCredit è stata forse la banca che c’ha guadagnato di più in assoluto: oltre 20 miliardi di euro in due anni; per un’azienda che in borsa vale poco più di 55 miliardi, uno sproposito. Giusto per farsi un’idea, equivalgono ai profitti registrati da aziende come Pepsico, Cisco o Philip Morris o, per rimanere nel settore finanziario, a giganti come Allianz, Royal Bank of Canada o Morgan Stanley, tutte aziende ordini di grandezza più grandi e con capitalizzazioni di borsa che sono dalle tre alle quattro volte quella di UniCredit; ed ecco, così, che ora UniCredit si ritrova con una bella carta di credito illimitata per fare shopping in grande stile, tanto da presentarsi all’asta indetta dallo Stato tedesco con talmente tanta liquidità da sbaragliare la concorrenza di competitor del calibro di ING e BNP Paribas. D’altronde, Orcel, l’amministratore delegato della banca milanese, era in cerca di acquisizioni da tempo: prima aveva puntato gli occhi su MPS, ma aveva chiesto garanzie talmente pesanti che anche degli svendi-patria di professione come i meloniani di palazzo Chigi sono stati costretti a soprassedere. Poi era stato il turno di Banco BPM, un’operazione che però, evidentemente, a più di qualcuno non andava molto a genio: nel bel mezzo della trattativa c’è stata una fuga di notizie che ha fatto esplodere le quotazioni della banca che, a quel punto, non era più appetibile.
La svendita delle quote pubbliche della Commerzbank era l’occasione d’oro che stava aspettando e che aveva preparato da tempo: UniCredit, infatti, aveva già fatto una prima campagna acquisti in Germania nel 2005 con Alessandro Profumo, quando aveva scalato la proprietà di HVB che, in termini di asset, è la quinta banca del Paese, ma in termini di sportelli è la terza – che è anche il motivo per il quale ai sindacati tedeschi la scalata di UniCredit non piace manco un po’: a differenza dei concorrenti ING e BNP Paribas infatti, ovviamente (e giustamente) vedono all’orizzonte massicce sforbiciate di personale approfittando delle sinergie possibili tra Commerz e HVB. L’idea di una fusione tra UniCredit e Commerzbank, poi, era stata rispolverata da Orcel pochi mesi dopo la sua nomina, a fine 2021, ma poco dopo la guerra in Ucraina aveva fatto saltare il tavolo e non era manco la prima volta: già prima di Orcel “A provare ad affondare il colpo” ricorda Il Sole 24 Ore “era stato l’ex CEO Jean Pierre Mustler che, a più riprese, tra il 2015 e il 2019 aveva tentato di intavolare una trattativa con il governo tedesco che però era finita nel nulla anche proprio a causa della riottosità dei sindacati tedeschi”. Altri tempi. Ora però, dopo il Rapporto Draghi, l’idea è che le concentrazioni non possano più attendere e che quei conservatori dei sindacati si devono attaccare al tram. Il sindacato Ver.di (che non c’entra niente con i talebani dell’ecologismo imperiale in stile Anna Baerbock) comunque c’hanno provato e hanno “esortato il governo a interrompere la vendita e a bloccare qualsiasi potenziale acquisizione da parte di UniCredit”; la fusione tra Commerzbank e HVB darebbe vita al primo polo bancario del paese e a una ristrutturazione che pagherebbero i lavoratori: “Se i sogni di gloria di Orcel sono grandi” commenta il Sole, “la strada è in salita”.
Fortunatamente per Orcel, però, è una salita dorata: il titolo di Commerzbank mercoledì, infatti, ha guadagnato in una botta sola il 17%; anche se dovesse fallire la scalata, si sarebbe comunque trattato di un tentativo piuttosto redditizio pagato dai contribuenti tedeschi. Che uno dice: bene, ci godo, una volta tanto; peccato che i soldi non andranno in tasca di altri cittadini europei derubati dall’Europa ordoliberista a trazione tedesca. Indovinate un po’, invece, a chi andranno in tasca? Esatto, proprio a loro: le Big Three che, a questo giro, sono soltanto due; BlackRock e Vanguard, infatti, non sono solo i due azionisti principali di UniCredit, ma anche (subito dietro al governo tedesco) di Commerzbank. Almeno fino a ieri, quando – appunto – il secondo azionista è diventato UniCredit che però, a sua volta, significa principalmente BlackRock e Vanguard. Insomma: come la rigiri la rigiri, quel bel +17% di ieri guarda caso va in tasca ai grandi monopoli finanziari a stelle e strisce; come operazione per salutare la svolta eurosovranista annunciata dal Piano Draghi non c’è malaccio, diciamo. E quel +17% è solo la punta dell’iceberg: “Bene che andrà” ricorda infatti il Sole, “i contribuenti tedeschi subiranno una perdita secca di circa 2,5 miliardi di euro”; a tanto, infatti, ammonta la perdita per le casse tedesche che si registrerà quando sarà finita la svendita anche del restante 12% di Commerzbank che, per ora, è rimasto nelle casse del Fondo per la stabilizzazione del mercato finanziario, un eufemismo gentile per indicare un fondo pensato per rubare soldi ai contribuenti e metterli in tasca agli oligarchi. Per salvare la banca nel 2008 lo Stato, infatti, aveva sborsato oltre 5 miliardi; se rivendesse tutte le sue quote ai 13,20 euro per azione sborsati mercoledì da UniCredit, ne incasserebbe in tutto 2,5.
Nel 2008 l’operazione Commerzbank stava dentro a un operazione molto più grossa, dove lo Stato si comprava, a prezzi che non avevano niente a che vedere con i prezzi reali di mercato, il 25% dell’intera industria del credito tedesco “per evitare il contagio e proteggere così l’intero 100%” (Il Sole 24 Ore); subito dopo l’acquisto, le azioni pagate 26 euro sono crollate a un quinto del valore e non hanno mai ripreso il volo. Per questo sbarazzarsi delle sue quote per il governo si è sempre rivelata una mission impossible: come lo giustifichi il fatto di aver regalato qualche miliardo a degli oligarchi mentre la tua economia cade letteralmente a pezzi perché, in ossequio al rigore di bilancio, sono 20 anni che non fai un euro di investimenti? Ma non solo. Lo Stato tedesco con Commerzbank s’è comportato come il più intransigente dei padroni e ha portato avanti una cura da cavallo a forza di tagli e ridimensionamenti del personale; aggiungici il biennio d’oro per l’intero comparto bancario europeo innescato dalla corsa al rialzo dei tassi di interesse ed ecco che la ristrutturazione è avvenuta: Commerzbank è tornata ad essere redditizia e ha cominciato a portare un po’ di quattrini nelle casse dello Stato. E proprio adesso vuoi vendere? Ma sei scemo? Fortunatamente, però, adesso è arrivata l’occasione d’oro: per chiudere il budget statale del 2025 alla Germania gli mancano svariati miliardi; ovviamente, non è che mancano davvero, ma esclusivamente perché si continua a venerare il Dio dell’austerity senza nessuna motivazione razionale concreta. Ma il lavaggio del cervello sistematico della propaganda è riuscito a diffondere questa religione in buona parte del popolo tedesco, che ora è addirittura disposto a veder regalare qualche miliardo di soldi suoi ai finanzieri piuttosto che vedere infrangere il tabù del pareggio di bilancio; l’unica speranza è che il lavaggio del cervello non sia stato così profondo da impedire alle persone in carne ed ossa di battersi per difendere almeno i loro interessi concreti immediati.
In virtù del sistema di governance duale che vige in Germania, infatti, i rappresentanti dei lavoratori siedono direttamente nel consiglio di sorveglianza di Commerzbank, da dove qualche strumento per ostacolare l’operazione ce l’avrebbero pure. E i motivi per opporsi sono parecchi: basta guardarsi indietro. Quando UniCredit nel 2005 s’è comprata HPV, nel giro di poche settimane ha subito annunciato tagli per migliaia di posti di lavoro: “Non abbiamo bisogno di un altro disastro come quello che abbiamo visto con Hypo” ha dichiarato a Bloomberg uno dei sindacalisti che siede nel CdA di Commerzbank; “Non abbiamo bisogno che gli italiani vengano e facciano saltare le banche tedesche tradizionali”. E il problema non riguarda solo i posti di lavoro diretti: il processo di concentrazione bancaria infatti, al contrario delle vaccate spacciate dagli analfoliberali, non è solo e semplicemente un processo di efficientamento da affrontare come un problema tecnico; è un problema eminentemente politico. Le fusioni infatti, ovviamente, non rispondono tanto a criteri di carattere industriale, ma prevalentemente a criteri speculativi: sono solo i mega-gruppi, infatti, a spartirsi la torta della capitalizzazione in borsa. Peccato, però, che le banche non sono aziende come tutte le altre: sono il cuore di ogni sistema industriale moderno ed hanno il compito di iniettare nell’organismo il sangue e, cioè, la liquidità, i piccioli; ma mega-gruppi totalmente scollegati da qualsiasi forma di insediamento territoriale – e totalmente orientati alla rendita finanziaria e a pompare a dismisura e senza sosta il prezzo delle azioni attraverso la spartizione del mercato tra pochi colossi oligopolistici – non sono minimamente in grado di garantire al sistema produttivo di medie e piccole aziende di un territorio l’afflusso di sangue necessario. La battaglia dei sindacati contro le fusioni che creano la rendita in borsa, ma distruggono la capacità di creare valore reale, non è quindi solo una sacrosanta battaglia in difesa del loro lavoro e della loro dignità, ma una battaglia in difesa del lavoro e della dignità di tutti. Sarebbe importante ricordarselo: in Europa, infatti, spuntano come funghi forze politiche che si autodefiniscono sovraniste e si auto-rappresentano come in profondo conflitto con le oligarchie globaliste; e grazie a questa retorica, comprensibilmente, fanno il pieno di voti tra le fasce popolari. Peccato che poi, però, se minimamente ti prendi la briga di andare a vedere le loro proposte di politica economica, ti accorgi che sono più liberiste di Reagan, della Thatcher e di quel pagliaccio di Javier motosega Milei messi assieme; e che quando elencano le élite globaliste che vogliono radere al suolo, non ci sono i membri della nuova aristocrazia come Elon Musk o Jamie Dimon (che, nella loro fantasia, i soldi se li sono guadagnati col sudore, alla faccia dell’invidia di voi zecche comuniste), ma i sindacati. E non alcuni specifici sindacati, giustamente accusabili di essere troppo accondiscendenti nei confronti delle élite, ma proprio dei sindacati in quanto tali – che, quindi, vanno annientati tout court – ed eliminare così ogni ostacolo residuo ad operazioni come questa mega-fusione dove gli unici che possono eventualmente fare qualcosa, appunto, sono proprio i sindacati (che così si ritrovano a combattere da soli sia contro finto-sovranisti che contro veri analfoliberali).
La propaganda della sinistra ZTL, infatti, è spietata: La Repubblichina sottolinea come “Un’integrazione con Commerzbank creerebbe economie di scala e sinergie nel ramo imprese e Pmi in Germania, dove Commerz è già oggi leader, e l’Italia è il primo partner dei tedeschi nell’import-export”. Insomma: sempre la solita vecchia minestra riscaldata della contrapposizione tra lavoratori conservatori, che guardano solo al loro ombelico, e le magnifiche sorti e progressive della tecnocrazia turbo-liberista. La Repubblichina vuole spacciare fusioni che guardano esclusivamente alla borsa e alla rendita finanziaria come occasioni d’oro per lo sviluppo dell’economia reale, che poi però, guarda caso, non arriva mai (mentre i dividendi, quelli sì che arrivano sempre: puntuali come un orologio svizzero). Te guarda la sfortuna, alle volte…Lo sa bene il governo spagnolo che da mesi è messo sotto pressione dalle oligarchie atlantiche (e dalla propaganda che gli fa da portavoce) nel tentativo di convincerlo a mettere sul piatto della grande mangiatoia delle fusioni transfrontaliere europee fiori all’occhiello del sistema bancario spagnolo come BBVA : “La mossa di UniCredit” insiste quindi la Repubblichina “è importante proprio perché rilancia le fusioni transfrontaliere”.
Che il processo di fusione e di creazione di giganti bancari transfrontalieri presenti decisamente più rischi di quanto gli innamorati delle magnifiche sorti e progressive de La Repubblichina siano in grado di concepire, sembra essere un’idea che va ben oltre i confini del mondo Ottolino e anche di quello dei sindacati: secondo tutti i commenti dei grandi media finanziari, ad essere stati colti di sorpresa sarebbero stati per primi proprio gli stessi funzionari del governo che, scrive Bloomberg, “si aspettavano che un gran numero di diversi investitori avrebbero acquistato le azioni della Commerzbank, mantenendo la quota di ciascuno a livelli modesti”, cosa che – continua l’articolo – “avrebbe contribuito a garantire che la banca rimanesse indipendente e continuasse a concentrarsi sui prestiti alle imprese di medie dimensioni nel suo mercato interno”; “La Germania” avrebbe ribadito un funzionario al Financial Times “ha bisogno di banche nazionali per finanziare la propria economia, il Mittelstand” (e cioè, appunto, le piccole e medie aziende che rappresentano il cuore del tessuto produttivo tedesco) “e la Commerzbank da questo punto di vista è fondamentale. Questo accordo” avrebbe concluso “non è solo un accordo finanziario, è un accordo politico”. Fabio De Masi, membro del Parlamento europeo tra le fila del neonato partito di Sahra Wagenknecht e vecchio amico di Ottolina, ha sottolineato come “L’economia tedesca è attualmente esposta a grandi shock e quindi abbiamo bisogno più che mai di finanziatori affidabili per le piccole e medie imprese” ma, appunto, questa operazione va vista inquadrata in un contesto più ampio.
Il contesto più ampio dove inquadrare anche la scalata tedesca di UniCredit è, appunto, quello che è stato delineato dal rapporto sul futuro della competitività dell’Europa di SanMarioPio da Goldman Sachs: “Curiosamente” ricorda, ad esempio, Paul Davies su Bloomberg “proprio questa settimana, l’ex premier italiano ha aperto un potenziale percorso che consentirebbe finalmente a gruppi bancari realmente paneuropei di emergere”; l’idea sostanzialmente è – dopo che in 31 di Maastricht non s’è fatto mezzo passo in avanti verso una vera unione bancaria – provare a percorrere la scorciatoia di un’unione bancaria di fatto limitata ai grandi gruppi, che dovrebbero infrangere il tabù della fusione tra istituti di paesi diversi e usare il loro peso specifico per forzare i limiti che ancora oggi ostacolano la libera circolazione dei capitali. “UniCredit” scrive sempre Davis su Bloomberg “è un buon caso di studio per capire quali sono oggi gli ostacoli e perché questa forzatura è necessaria. La banca milanese è già presente oggi in Germania con HVB, ma la natura frammentata della finanza europea fa sì che i depositi e i capitali rimangano sostanzialmente intrappolati in Germania e non possano arrivare alla sede centrale di Milano per essere distribuiti tra i soci sotto forma di dividendi”; ovviamente, nell’ottica predatoria del capitale, questi ostacoli – benché non abbiano impedito ai soci di UniCredit, come delle altre banche, di accumulare una quantità spropositata di profitti – impediscono la nascita di gruppi continentali in grado di tenere il passo con i grandi concorrenti internazionali. “L’Europa” aveva sottolineato lo scorso novembre proprio dagli schermi di BloombergTV Orcel in persona “ha bisogno di banche con capitalizzazioni di mercato superiori a 100 miliardi di dollari se vogliamo che questo blocco economico regga nei confronti degli Stati Uniti o della Cina”, con una piccolissima differenza: in Cina, infatti, le grandi banche sono controllate dallo Stato e le politiche che adottano devono adeguarsi agli obiettivi politici dettati dal governo; che se quindi, per fare un esempio, decide che nella provincia soncazzoio spersa nel deserto del Gobi bisogna dare benzina alle aziende locali per ridurre il divario con le parti più sviluppate del Paese, le banche – di riffa o di raffa – sono costrette a muoversi. Insomma: l’economia reale e le finalità politiche che, attraverso lo sviluppo delle forze produttive, si vogliono raggiungere, hanno la priorità assoluta. Nel caso delle mega-banche private, l’unica finalità rimane sempre e soltanto la massima remunerazione del capitale possibile immaginabile, che si ottiene concentrando sempre più quattrini laddove ce ne sono già in abbondanza (e quindi aumentando a dismisura le differenze, invece che ridurle). Che è, appunto, esattamente la logica del Piano Draghi: concentrare le risorse in mano a pochi campioni continentali in grado di competere sui mercati internazionali – e che siano quindi in grado di garantire anche alle nostre oligarchie i super-profitti che garantiscono i mercati speculativi d’oltreoceano – mentre il resto dell’economia (e quindi tutti noi) se ne possono – appunto -allegramente andare affanculo.
Quindi, riassumendo, grazie ai soldi che UniCredit ha fregato ai correntisti negli ultimi 2 anni (e che Giorgia la Madre Cristiana ha deciso di lasciargli in cassaforte senza chiedere niente in cambio), UniCredit fa un’operazione che distrugge direttamente posti di lavoro nel settore bancario in Germania e, in prospettiva, contribuisce a distruggerne molti di più nell’industria, che è il primo cliente dei produttori italiani che quindi, dopo essere stati scippati in banca, si troveranno pure senza lavoro. Mentre BlackRock, Vanguard e le oligarchie che rappresentano guadagnano una marea di quattrini per ognuno di questi passaggi. E quindi, insomma, per rispondere alla domanda iniziale: no, non è l’Italia che si compra la Germania, ma sono le oligarchie transatlantiche rappresentate da BlackRock e Vanguard che si comprano l’Europa e lasciano i cittadini europei, a partire da quelli italiani, in mutande. E meno male che il Piano Draghi ci doveva dare la sveglia… Qui ce l’ha data la sveglia: sui denti! Speriamo almeno mi colga bene, così magari me li raddrizza un po’… Mi sa che se ci vogliamo dare una sveglia, tocca pensarci da soli e, per farlo, ci serve come il pane un vero e proprio media che, invece che fare da megafono agli interessi delle oligarchie finanziarie, dia voce agli interessi di quegli zozzoni conservatori e ottusi dei lavoratori e del 99%. Aiutaci a a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elsa Fornero

La Meloni distrugge l’Italia e accoglie a braccia aperte i coloni statunitensi che invadono l’Europa

Mercoledì, CNN: Il NASDAQ registra il suo giorno peggiore dal 2022 (dipende un po’ per chi). Ed ecco i titoli del giorno dopo: Bloomberg – La crescita dell’Eurozona si ferma a causa della crisi tedesca, mentre sul Wall Street JournalLa crescita economica degli USA accelera, raggiungendo il tasso del 2,8% nel secondo trimestre. Cosa diavolo sta succedendo? Il punto è che il declino dell’Occidente non va in vacanza e l’imperialismo a guida USA continua imperterrito la sua guerra contro il resto del mondo; peccato, però, che dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per la guerra commerciale contro la Cina, la stia perdendo malamente e, mano a mano che cominciano a realizzarlo, si incendia lo scontro sul fronte interno e, con le presidenziali che si avvicinano, negli Stati Uniti è scoppiata una sorta di vera e propria guerra civile che però – guarda un po’ a volte il caso – non ha assolutamente niente a che fare con le analisi strampalate diffuse in egual misura da propaganda analfoliberale e analfosovranista. In campo, infatti, non c’è nessuna battaglia epocale in difesa della democrazia (che analfoliberali e analfosovranisti di tutto l’Occidente sono ugualmente impegnati a finire di demolire completamente) e non c’è nemmeno nessun conflitto tra pacifisti e guerrafondai, dal momento che l’uso sistematico della violenza, per l’imperialismo, è fondamentale e inevitabile, a prescindere da chi è al timone in un determinato momento. Entrambi gli schieramenti, in realtà, sono parimenti determinati a fare tutto quanto in loro potere per portare avanti senza indugi la doppia rapina che caratterizza il mondo libero da qualche decennio a questa parte e che consiste, appunto, da una parte nella rapina che gli USA, in quanto centro imperiale, compiono nei confronti della periferia dell’impero e, cioè, noi (noi italiani, noi francesi, noi tedeschi, ma anche, se non di più, noi giapponesi o noi coreani; insomma, i vassalli) e, dall’altra, la rapina che le oligarchie compiono col sostegno di tutti i governi occidentali nei confronti di tutte le altre fasce di popolazione e che, giusto per fare un esempio – come ha certificato Oxfam proprio negli ultimi giorni – dal 2013 al 2022 ha permesso all’1% più ricco del pianeta di aumentare il suo patrimonio di oltre 42 mila miliardi e cioè “un incremento pari a 34 volte quello registrato, nello stesso periodo, dalla metà più povera della popolazione mondiale”; da allora, il problema che le oligarchie rapinatrici hanno cominciato a trovarsi di fronte è che questa benedetta metà più povera della popolazione mondiale che, in larghissima parte, ovviamente abita le ex vecchie e nuove colonie, ha cominciato ad esprimere la sua ostilità nei confronti di questa rapina infinita e, soprattutto, ha cominciato a dimostrare di avere ormai gli strumenti per provare a mettergli (almeno in parte) fine – com’è il caso, ad esempio, di una ex colonia molto recente e, cioè, la Federazione Russa che, col crollo dell’Unione Sovietica, era diventata una vera e propria colonia pronta a farsi saccheggiare dalle oligarchie finanziarie dell’impero, in combutta con un manipolo di prenditori autoctoni elevati, in Occidente, a paladini della democrazia e della libertà.
Da un paio d’anni a questa parte, però, la musica sembra essere drasticamente cambiata: Il sorprendente boom della spesa al consumo in Russia titolava venerdì il Financial Times il suo lungo e dettagliato approfondimento giornaliero; “Mentre la guerra si trascinava” si legge nell’articolo “l’aumento dei salari in un’industria della difesa in forte espansione in tempo di guerra ha costretto le imprese civili a seguire l’esempio per attrarre lavoratori in un momento di grave carenza di manodopera. Il risultato è che la Russia si è trovata inaspettatamente nel mezzo di un boom della spesa al consumo”. “I salari reali sono alle stelle” avrebbe dichiarato al Times Janis Kluge, esperta di economia russa presso l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza: “Ci sono persone che difficilmente guadagnavano soldi prima che, improvvisamente, hanno enormi quantità di denaro”. Ecco: per capire perché lo scontro tra diverse fazioni dell’oligarchia del centro dell’impero sta degenerando verso una specie di guerra civile, invece che dalle narrazioni strampalate della propaganda, sarebbe il caso di partire da qua; la nave dell’imperialismo unitario sta inesorabilmente affondando ed è arrivata l’ora di farsi letteralmente la guerra in casa per decidere chi si spartirà il bottino prima di darsi alla fuga. Ma prima di snocciolare nel dettaglio tutti i numeri e i fatti accaduti la scorsa settimana che, a nostro avviso, dimostrano questa tesi, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi e (se ancora non lo avete fatto) anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche; a voi costa solo pochi secondi di tempo, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di portare un’alternativa concreta alla propaganda guerrafondaia e classista dei media mainstream in casa e sui telefoni di sempre più persone.

Alessandro Volpi

Da un paio d’anni a questa parte non abbiamo fatto altro che parlare delle Tre Sorelle del risparmio gestito, le ormai famigerate BlackRock, Vanguard e State Street; vi abbiamo raccontato di come, col sostegno di Washington e dei governi dei paesi vassalli, siano riuscite a costruire dei veri e propri monopoli finanziari di dimensioni mai viste nell’intera storia del capitalismo e di come abbiano utilizzato questa gigantesca liquidità, di gran lunga superiore addirittura all’intero PIL dell’Eurozona, per gonfiare a dismisura la bolla finanziaria dei mercati azionari statunitensi riuscendo a garantirne l’ascesa addirittura anche quando, tutto attorno, l’economia mondiale e l’intera architettura dell’ordine neo-liberale cadeva letteralmente a pezzi. Negli ultimi 2 anni, proprio mentre gli USA accumulavano una mazzata dietro l’altra sul campo in Ucraina, le borse statunitensi continuavano a galoppare felici sui prati come se niente fosse, raggiungendo capitalizzazioni mai viste e senza mai un minimo accenno di tentennamento fino almeno a mercoledì scorso, quando le borse USA hanno vissuto una vistosa battuta d’arresto e, in particolare, proprio il NASDAQ, il listino dei principali titoli tecnologici a stelle e strisce – e quindi proprio di quei titoli che maggiormente hanno beneficiato, negli ultimi anni, della gigantesca immissione di liquidità operata dalle Tre Sorelle: in un solo giorno, l’indice è crollato del 3,6%, il peggior risultato dall’ormai lontanissimo ottobre 2022.
I media specializzati sono immediatamente corsi a gettare acqua sul fuoco: il problema – è la tesi che va per la maggiore – starebbe nelle aspettative legate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale; sostanzialmente, la prospettiva di una nuova grande rivoluzione tecnologica ha creato aspettative gigantesche che hanno attirato una quantità sconfinata di capitali, che hanno alimentato una corsa al rialzo delle azioni del settore. Ora, però, ci si comincia a chiedere se – al di là delle magnifiche sorti e progressive della nuova frontiera tecnologica – l’intelligenza artificiale possa concretamente essere tradotta (e in che tempi) in una serie di prodotti tangibili in grado di creare un flusso di denaro sufficiente a giustificare tutti questi investimenti – e questa riflessione sicuramente avrà giocato un suo ruolo, per carità; io però, che sono complottista e che alla favoletta dei mercati trasparenti che reagiscono in modo razionale alle informazioni non c’ho mai creduto, ho sempre l’impressione che queste spiegazioni, più che cogliere le cause profonde di quanto accade (anche quando sono, come questa, abbastanza verosimili), siano in buona parte riflessioni ex post che le cause profonde, più che svelarle, corrono sempre il rischio di dissimularle. E quindi, consapevole del rischio di sovra-interpretare un po’ quello che è successo, non posso fare a meno di vederci qualcosa di decisamente più strutturale.
Ora, sgombriamo il campo da malintesi: nessuno (e men che meno noi) ha interpretato questa battuta d’arresto come qualcosa di apocalittico, l’esplosione della bolla. Assolutamente no: la potenza di fuoco dei fondi è ancora tutta lì, più salda che mai, e la loro liquidità è più che sufficiente per continuare a mantenere intatta la bolla speculativa. Piuttosto, molto più laicamente, credo il tutto possa anche essere letto come un primo timido episodio di una nuova tendenza che, in vario modo, preannunciamo da qualche tempo: il ritorno della volatilità dei mercati e cioè, appunto – contro la logica dei grandi fondi del risparmio gestito – il ritorno a forti oscillazioni dei prezzi dei titoli azionari, e che questo ritorno della volatilità sia il risultato della guerra civile tra fazioni delle oligarchie finanziarie che è scoppiata con l’avvicinarsi della scadenza elettorale negli Stati Uniti. Come si stanno delineando, con sempre maggiore chiarezza, i due blocchi sociali in guerra tra loro lo abbiamo provato a descrivere in numerosi altri video e durante le ormai consuete chiacchierate con Alessandro Volpi e quindi non mi dilungo; in estrema sintesi, da un lato – appunto – c’è l’asse di ferro tra i giganti del risparmio gestito e i democratici, che potremmo chiamare il partito del derisking: l’obiettivo del partito del derisking è allargare a dismisura la platea dei soggetti che delegano ai fondi la gestione dei loro risparmi e, con questa potenza di fuoco, consolidare il dominio monopolistico di alcuni grandi gruppi nei rispettivi settori e stabilizzare i mercati azionari. Dall’altro c’è il blocco sociale composito che tiene insieme i fondi speculativi e un pezzo di vecchio capitalismo produttivo e che ha trovato nel Trump di Make America Great Again e nel suo vice (cresciuto tra i capitali di ventura della Silicon Valley) JD Vance la migliore sintesi politica possibile, che potremmo definire il partito degli spiriti selvaggi; il partito degli spiriti selvaggi punta a rilanciare la concorrenza, più che alla costruzione di monopoli, e vede nella volatilità dei mercati – invece che un nemico – un’opportunità per ricreare un habitat dove only the strong survive: partito del derisking e partito degli spiriti selvaggi hanno interessi contrapposti, in particolare modo per quel che riguarda le politiche monetarie.
Il partito del derisking vede di buon occhio politiche monetarie restrittive e, quindi, alti tassi d’interesse da parte della Banca Centrale e un dollaro forte – e questo perché, in questo modo, la liquidità che manca al sistema ce la mettono direttamente le Tre Sorelle che diventano il centro non solo finanziario, ma anche politico dell’intero sistema; il partito degli spiriti selvaggi vede invece di buon occhio politiche monetarie più espansive e, quindi, tassi d’interesse più contenuti e un dollaro più debole: le politiche monetarie espansive servono a fornire ai fondi la liquidità che serve per fare le classiche operazioni di leverage buy-out e, cioè, di comprare aziende ricorrendo al debito, ristrutturarle, spezzettarle e rivenderle con ampi margini. Un dollaro più debole, invece, serve a rendere le aziende statunitensi più competitive sui mercati internazionali e tornare a fare profitti anche attraverso gli investimenti produttivi e non più solo ed esclusivamente attraverso la finanza; ma la cosa che qui ci preme sottolineare, in particolare, è che il conto della guerra feroce che si è scatenata tra questi due partiti del derisking e degli spiriti selvaggi, tanto per cambiare, lo paghiamo noi: per una strana coincidenza, subito dopo il mercoledì nero del ritorno della volatilità sui mercati azionari, Standard&Poors ha pubblicato il suo Purchasing Managers Index, il famigerato indice PMI; come chi ci segue ha imparato da tempo, l’indice PMI è un indice che viene costruito a partire da una lunga serie di interviste ai responsabili agli acquisti delle principali aziende di ogni paese ai quali vengono chieste informazioni dettagliate su produzione, ordini, livelli occupazionali, prezzi (e molto altro ancora) e indica le prospettive di crescita dei relativi settori che, nel caso della manifattura dell’Eurozona, sono disastrose. L’indice indica una prospettiva di crescita quando è sopra i 50 punti, di flessione quando è inferiore; il PMI manifatturiero dell’Italia è a 45,7 – e non siamo manco quelli messi peggio, anzi: la Polonia è a 45, la Francia a 44,1, l’Austria a 43,6, la Germania – addirittura – a 42,6. E il problema non è solo che sono cifre drammatiche, ma che sono decisamente peggiori del previsto e non tanto perché sono peggiori, ma perché pone un grosso interrogativo sulle capacità di comprendonio dei nostri quadri aziendali.
Poche ore dopo la pubblicazione degli indici PMI, infatti, sono arrivati altri dati significativi: questa volta riguardano la crescita effettiva del PIL statunitense nel secondo trimestre del 2024; anche qui i migliori economisti in circolazione hanno preso una cantonata, ma questa volta in meglio. Si aspettavano una crescita del 2%; s’è avvicinata al 3 e indovinate un po’ cos’è che, in particolare, ha contribuito a questo risultato? Come sottolineiamo da tempo, a trainare sono gli investimenti delle imprese, che sono cresciuti di un corpulento 5,2% a discapito degli investimenti in Europa e il tutto, come ormai avrete imparato, grazie ai finanziamenti pubblici che Washington ha messo in campo per convincere le aziende ad abbandonare a se stessi i paesi vassalli e a concentrarsi tutte per Make America Great Again, finanziamenti che, ormai, fanno letteralmente esplodere il debito pubblico statunitense che cresce di mille miliardi ogni 60 giorni che, in buona parte, finanziamo noi con il 70% dei nostri risparmi che ogni anno abbandonano l’Italia (come gli altri paesi europei) per dirigersi oltreoceano. Insomma: tutto ampiamente prevedibile, a parte per i nostri dirigenti e i nostri economisti che continuano a pensare che la propaganda che leggono sui media mainstream corrisponda alla realtà. Per la cronaca: indovinate a quanto sta, nel frattempo, l’indice manifatturiero dei paesi contro i quali l’invincibile Occidente collettivo ha ingaggiato la sua inarrestabile guerra economica (e non solo)? La Cina – che, secondo i nostri media, è anche a questo giro sull’orlo della bancarotta – è a 51,8, in forte crescita; la Russia, a 54,9. Gli USA, nonostante tutto il debito che stanno accumulando a spese nostre, registrano un non esattamente incoraggiante 49,5, in calo rispetto al mese precedente e al di sotto delle aspettative, una vera beffa: non solo per permettere agli USA di mantenere il loro primato, nella speranza che l’Occidente collettivo continui ancora a dominare sul resto del pianeta, ci facciamo serenamente derubare, ma poi questo benedetto primato (che non si capisce chi dovrebbe favorire concretamente) manco arriva. Cornuti e mazziati.
Anzi no, perché, in realtà, qualcosa da guadagnare ce lo abbiamo anche noi; lo annunciava entusiasta a 6 colonne in prima pagina l’inserto economico de La Repubblichina lunedì scorso: Boom degli arrivi dagli Stati Uniti – titolava – ossigeno per la crescita dei paesi del sud Europa. L’articolo riporta festante come addirittura “Gli americani sono la prima nazionalità a Capri, Forte dei Marmi e Portofino” e come “a settembre 2023 il 55% del volume degli acquisti dell’isola di Capri è stato effettuato da cittadini americani”; “Negli ultimi anni temevamo di avere perso una quota importante di turisti alto-spendenti” avrebbe dichiarato la presidente di Federturismo Marina Lalli: “La crescita del turismo americano ha abbondantemente compensato quel calo”. “Gli americani” continua la Lalli “sono in assoluto i turisti che spendono di più, alloggiano in alberghi di lusso, mangiano nei migliori ristoranti” (e a quanto pare, se ti comporti bene, ti lanciano pure le noccioline): ed ecco così che, dopo aver perso la possibilità di una brillante carriera in un’azienda ad alto tasso d’innovazione perché s’è spostata negli USA a caccia dei finanziamenti pubblici, l’ingegnere medio italiano potrà finalmente puntare a preparare una bella pizza ai grani antichi con la burrata a qualche analfabeta funzionale texano, magari al nero e senza un vero salario (tanto si sa che i texani, con le mance, sono di manica larga) e quando avrà finito di stare intorno a un forno a legna per 12 ore per un salario da Africa subsahariana, sarà costretto a stare in una città completamente rasa al suolo socialmente e culturalmente dal divertentificio per vecchi rincoglioniti di tutte le età che è quest’abominio chiamato industria turistica. Anzi, no; giusto questo non se lo dovrà accollare: nella città turistica dove lavora, una casa (nonostante le laute mance dei petrolieri fai da te texani) non se la potrà permettere perché, nel frattempo, la piaga degli affitti brevi ha fatto esplodere il prezzo degli affitti. A parte la schiavitù nelle piantagioni di cotone, sinceramente faccio fatica a pensare a un modello di sviluppo più degradante e aberrante di questo, tant’è che in tutta Europa la gente, piano piano, si comincia a ribellare; l’altro giorno a Barcellona, durante una manifestazione di circa 3000 persone, un gruppo di turisti bello spaparanzato sulla terrazza di un caffè è stato bullizzato dai colpi di centinaia di pistole ad acqua, che gli avrà anche comportato uno shock culturale: “A casa nostra” avrà pensato il turista colonizzatore statunitense medio “le pistole le usiamo diversamente”. Alcune amministrazioni particolarmente illuminate hanno cominciato a prendere delle contromisure: a Lisbona il rilascio di nuove licenze per l’affitto a breve è stato congelato e, sempre a Barcellona, l’amministrazione ha promesso di chiudere i 10 mila appartamenti in affitto su Airbnb entro il 2028; spinti da questa ondata di proteste, anche il PD (in cerca di un rapido restyling d’immagine, ora che – finalmente – è all’opposizione e può far finta di essere minimamente progressista in alcune vertenze senza indispettire troppo i suoi mandanti) ha depositato una legge che mirerebbe a ostacolare perlomeno gli eccessi più palesi. Una legge farlocca, che lascerebbe la facoltà ai Comuni di porre qualche limite al numero di abitazioni che è possibile destinare agli affitti brevi esentando, inoltre, dai limiti chiunque abbia ottenuto un finanziamento non ancora estinto per l’acquisto o la ristrutturazione di un immobile – ovviamente per trasformarlo da abitazione per residenti a scannatoio per il divertentificio. Insomma: una legge che dire all’acqua di rose è un eufemismo, eppure più che sufficiente per far chiudere la vena alle bimbe del governo Meloni. Agguato PD agli affitti brevi titolava Libero indignato la scorsa settimana: Attacco alla proprietà privata. Cioè, per questi svendere la patria è proprio un istinto; gli viene naturale: dalla Germania hitleriana agli USA della guerra civile tra oligarchi, l’importante è stendere tappeti rossi al prepotente e all’invasore di turno, alla faccia del sovranismo.
Sarebbe arrivata l’ora di organizzarsi per mandarli tutti a casa e riprenderci tutto quello che è nostro: per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che agli interessi dei parassiti che campano di rendita, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Flavio Briatore

“L’Europa potrebbe morire”: se Macron fomenta la guerra per far arricchire le oligarchie francesi

L’Europa può morire: con questa affermazione, il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron la settimana scorsa aveva cercato di riconquistare il centro del dibattito politico in Europa dopo che l’effetto shock delle dichiarazioni sulle truppe europee in Ucraina del febbraio scorso aveva già abbondantemente perso gran parte del suo hype. Un’operazione riuscita: venerdì scorso, infatti, l’Economist, la bibbia delle oligarchie suprematiste occidentali, dedicava la sua homepage interamente al wannabe novello Napoleone; nella lunga intervista, corredata da svariati commenti e approfondimenti, il sempre pimpantissimo Manuelino spiega che la sua provocazione era una citazione colta e, cioè, quando nientepopodimeno che Paul Valery, dopo la prima guerra mondiale, aveva affermato che “Oggi sappiamo che una civilizzazione può anche morire”. Più prosaicamente, il pimpantissimo Manuelino si accontenta di sottolineare che l’Europa, negli ultimi decenni, ha investito sensibilmente meno nella sua sicurezza di quanto non abbiano fatto Stati Uniti e Cina che poi – in termini di percentuale del PIL e, ancora meno, in termini assoluti – manco è vero, visto che la Cina è probabilmente la superpotenza mondiale che spende meno in armamenti di tutti i tempi (ad esempio meno della metà di Polonia e Grecia, giusto per fare un esempio), ma, comunque, diciamo che è una licenza poetica. Il succo del discorso invece, appunto, è che “L’Europa non è il posto più sicuro del mondo” e questo “significa che l’Europa deve legittimamente porsi la questione della propria protezione militare” e visto che “deve prepararsi a non godere più della stessa protezione da parte degli Stati Uniti d’America”, “Dobbiamo prepararci a proteggerci da soli”.
Non si può certo dire sia un fulmine a ciel sereno: come ricorda il pimpantissimo Manuelino Macaron in persona personalmente, già nel 2019 si era intrattenuto con i ligi funzionari delle oligarchie dell’Economist per denunciare che la NATO stava diventando “cerebralmente morta”, che “L’America sta voltando le spalle al progetto europeo” e che “è arrivato il momento di svegliarci”. Ma la sfera della sicurezza non è l’unica che preoccupa il sempre pimpantissimo Manuelino: “La sfida per l’Europa” sottolinea, è anche, se non soprattutto “economica e tecnologica” perché “Non può esistere una grande potenza senza prosperità economica, né senza sovranità energetica e tecnologica” e, quindi, dobbiamo costruire la nostra autonomia strategica anche “in termini di energia, di materiali e di risorse rare, ma anche in termini di competenze e tecnologie chiave”; il pimpantissimo Manuelino ricorda inoltre che, rispetto alle altre potenze maggiori, non produciamo abbastanza ricchezza pro capite e che la “nostra grande ambizione, in un’era nella quale i fattori produttivi vengono riallocati, sia nel campo delle tecnologie pulite che dell’intelligenza artificiale, deve essere di diventare un continente in grado di attrarre i grandi investimenti in questi settori”.

Emmanuel Macron

Ma c’è anche un terzo aspetto che tormenta il sempre pimpantissimo Manuelino: “L’Europa” denuncia accorato “è colpita da questa crisi delle democrazie”; noi abbiamo inventato la democrazia liberale, ricorda, e “il nostro sistema sociale è fondato su queste regole”, ma ciononostante “siamo stati colpiti dalle vulnerabilità create dai social network e dalla digitalizzazione delle nostre società”, che “alimentano questo impulso illiberale”. Tradotto: con il sistema mediatico e culturale tradizionale avevamo in mano tutti i mezzi di produzione del consenso, grazie ai quali eravamo addirittura riusciti a convincere le masse popolari che la lotta di classe dall’alto contro il basso che abbiamo portato avanti in modo feroce negli ultimi 40 anni fosse cosa buona e giusta; poi quando dai media tradizionali, che sono alla portata esclusivamente delle oligarchie, siamo passati a un sistema ancora più oligarchico come quello delle piattaforme digitali monopolistiche, pensavamo di limitare ancora di più l’espressione democratica di ogni forma di dissenso e, invece, abbiamo lasciato la porta aperta e tutti i mal di pancia; per il sistema brutale e demenziale che avevamo creato hanno trovato il modo di farsi spazio. E, quindi, oggi alle oligarchie serve un bel bagno di realtà e bisogna che capiscano che vale la pena rinunciare a qualche euro di fatturato per salvaguardare la dittatura del pensiero unico; altrimenti, sottolinea il sempre pimpantissimo Manuelino, il combinato disposto di questi tre fattori di destabilizzazione del giardino ordinato – la sicurezza, l’arretratezza tecnologica e la fine dell’egemonia neoliberale – rischia di far andare tutto in pezzi “molto rapidamente”. “Le cose possono accadere molto più rapidamente di quanto pensiamo” ribadisce il pimpantissimo Manuelino “ e possono portare a una morte più brutale di quanto immaginiamo”; per invertire questa deriva, insiste, ci vuole un possente scatto di reni.
Ed ecco così che il pimpantissimo Manuelino rivendica con forza la sua dichiarazione del 26 febbraio scorso quando, appunto, mise a soqquadro il dibattito pubblico di tutto l’Occidente collettivo affermando che i paesi europei non potevamo escludere l’invio di truppe direttamente in Ucraina: “Non escludo nulla” dichiara di nuovo all’Economist “perché siamo di fronte a qualcuno che non esclude nulla. E senza dubbio siamo stati troppo titubanti nel definire i limiti della nostra azione nei confronti di un avversario che non ne ha più e che è l’aggressore!”; d’altronde, sottolinea il sempre autorevolissimo Manuelino, “La nostra credibilità dipende anche dalla capacità di deterrenza”, che significa anche non dare “piena visibilità a ciò che faremo o non faremo. Altrimenti ci indeboliamo, ed è questo il quadro nel quale abbiamo operato finora”. “Il nostro obiettivo strategico deve essere molto chiaro” continua: “La Russia non può vincere in Ucraina”; è lo stesso concetto sottolineato da un altro fenomeno da baraccone delle classi dirigente europee, il dandy Boris Johnson che, con l’orgoglio colonialista che si addice a un erede diretto della casa reale britannica, ha detto fuori dai denti che in ballo c’è “l’egemonia dell’Occidente” e, cioè, il diritto dell’uomo bianco di sottomettere gli altri popoli del pianeta agli interessi della sue ristrettissime oligarchie. Il pimpantissimo Manuelino che, con tutti i limiti rispetto a questa imbarazzante aristocrazia parassitaria, è comunque figlio della rivoluzione francese – e quindi, antropologicamente, un’evoluzione della specie – la mette in termini più digeribili e parla più semplicemente di “sicurezza dell’Europa” e anche di credibilità: “Che credibilità avrebbero gli europei” si chiede “se dopo aver speso miliardi, e affermato che era in gioco la sopravvivenza del continente, non si dotano dei mezzi necessari per fermare la Russia?”.
Ma la differenza non è solo nella forma: per il pimpantissimo Manuelino, che è a capo dell’unico grande paese europeo che, nonostante l’appartenenza senza se e senza ma all’internazionale imperialista, ha mantenuto – nonostante tutto – un qualche residuo di sovranità, la minaccia russa sembra essere più che altro una scusa; Manuelino sottolinea come, dal 1990, “L’Europa ha pensato alla propria sicurezza essenzialmente in termini dello scudo americano e della NATO” e questo ha impedito all’Europa di sviluppare un’idea condivisa di “sicurezza comune, perché ci ha messo nella condizione di pensare alla nostra sicurezza solo attraverso un alleato al quale abbiamo chiesto di pensarci al posto nostro, e di accollarsene anche il peso”. Difficile capire se il pimpantissimo Manuelino è semplicemente mosso da opportunistica piaggeria o se crede davvero alle puttanate che dice: ovviamente gli USA non si sono accollati nessunissimo peso; piuttosto, gli USA, d’amore e d’accordo con le nostre classi dirigenti equamente divise tra svendipatria volontari e semplici ebeti sprovveduti, hanno letteralmente impedito all’Europa di sviluppare una sua difesa autonoma perché temevano che a un’Europa unita e sufficientemente armata – magari dopo un ricambio di classe dirigente che, nonostante tutto, non può mai essere totalmente escluso a priori – sarebbe potuta venire la tentazione di cominciare a ritagliarsi qualche spazio di autonomia e di sovranità. E il bello, ovviamente, è che – alla fine – agli USA questo giochino sostanzialmente costava anche pochino perché grazie all’esorbitante privilegio del dollaro come valuta di riserva globale, una bella fetta del debito crescente USA (necessario proprio a finanziare la sua supremazia bellica) alla fine del giro la pagavamo noi e, cioè, i paesi che – al contrario degli USA – per campare sono costretti a lavorare e quindi accumulano dollari derivanti dal surplus commerciale, che poi non sanno dove mettere se non nell’acquisto di titoli del tesoro a stelle e strisce; un meccanismo che, tra l’altro, i francesi (come il sempre pimpantissimo Manuelino) dovrebbero conoscere piuttosto bene visto che il primo grande dirigente europeo a parlare espressamente di esorbitante privilegio del dollaro fu il più volte ministro delle finanze Valery Giscard d’Estaing. Al di là di questa valutazione, comunque, il punto è che secondo il pimpantissimo Manuelino l’AGGRESSIONEH RUSSAH ha comportato per l’Europa una sorta di risveglio strategico: “Lo vediamo oggi” insiste Manuelino “con la proposta tedesca dello scudo antimissile europeo. O con la Polonia, che si dice pronta a ospitare le armi nucleari della NATO”; ora, continua Manuelino, si tratta di sedersi attorno a un tavolo e concordare per bene quello che è necessario fare per garantire in modo credibile e sostenibile la difesa del nostro spazio vitale. “La NATO” precisa “fornisce già una risposta, e non è il caso di metterla da parte. Ma questo quadro è molto più ampio di quello che viene attualmente fatto all’interno della NATO”.
Ma perché mai gli USA dovrebbero permettere ora quello che hanno sistematicamente impedito in passato? Beh, molto semplice: perché, nel frattempo, l’idea stessa di un’Europa in cerca di un suo spazio di autonomia si è dissolta completamente nel niente; non che sia mai stata particolarmente in auge, ma in passato qualche accenno, anche se probabilmente del tutto velleitario, comunque c’era stato. Basta tornare con la memoria al 2003, quando Francia e Germania ebbero addirittura il coraggio di dire no alla guerra illegale di aggressione fondata sulle fake news di Bush junior contro l’Iraq, con tanto di sterminio feroce e gratuito di decine e decine di migliaia di bambini iracheni: oggi, ai tempi della Germania che si fa bombardare (dopo essere stata abbondantemente avvisata) un’infrastruttura strategica come il Nord Stream 2 senza battere ciglio e dell’Europa tutta che accetta passivamente una recessione senza fine per permettere a Washington di pompare la sua economia sulla nostra pelle, sembra fantascienza. Il fatto è che, nel frattempo, la gerarchia all’interno del blocco suprematista e imperialista tra il centro USA e le periferie dell’Atlantico e del Pacifico (che prima, per essere mantenuta, aveva bisogno di fondarsi sul monopolio della forza e, quindi, su una supremazia militare USA indiscutibile), a ormai oltre 15 anni dall’inizio della terza grande depressione inaugurata con la crisi finanziaria del 2008, si fonda saldamente su ben altri presupposti molto più strutturali e, cioè, sul dominio incontrastato dei grandi monopoli finanziari privati USA – a partire dai colossi dell’asset management come BlackRock e Vanguard – dove le borghesie nazionali europee, nel frattempo, sono corse a far affluire tutti i soldi estratti dall’economia europea e che oggi hanno un potere quasi assoluto all’interno dell’Occidente collettivo di decidere dove vanno i soldi e per fare cosa: grazie a questo rapporto gerarchico strutturale, gli alleati vassalli degli USA, dall’Europa al Giappone, oggi sostanzialmente non possono nemmeno essere più considerati veri e propri Stati nazione, ma molto semplicemente – appunto – appendici di un sistema imperiale che ha il suo unico centro decisionale a Washington e a Wall Street.
E’ il Wall Street Consensus, come lo chiama Daniela Gabor: in questo contesto, il riarmo dell’Europa invocato da Macron non rappresenta più il rischio di favorire la costruzione di una qualche forma di autonomia strategica, ma è semplicemente il rafforzamento di uno dei bracci armati dell’imperialismo, sempre più necessario mano a mano che procede la guerra totale dell’imperialismo contro il resto del mondo; e il comparto militare – industriale USA che, fino a ieri, gli ha garantito il dominio non è più in grado di garantire da solo all’imperialismo un vantaggio sostanziale sull’asse che si sta formando tra i paesi che si sono ribellati al dominio imperialista, a partire, in particolare, da Cina, Russia, Iran e Corea del nord. Ciononostante, Macron sembra sforzarsi, anche con un po’ di piaggeria (come, ad esempio, quando sottolinea il fardello del quale si sarebbero fatti carico i poveri americani per garantire la sicurezza a noi sfaticati europei) per rassicurare gli USA: il punto è che il riarmo dell’Europa è un’esigenza vitale dell’imperialismo e, quindi, è fuori discussione; quello che, invece, è ancora in discussione è chi lo guiderà e come: quando, ad esempio, la Germania, subito dopo l’inizio della seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, aveva annunciato un megapacchetto da 100 miliardi per riarmarsi, il grosso era destinato all’acquisto di sistemi d’arma made in USA; oggi anche la Germania, proprio per il discorso che facevamo prima sulla necessità dell’imperialismo di estendere anche alla periferia la crescita esponenziale del suo comparto militare – industriale, rivendica un ruolo per la sua industria bellica, ma – appunto – si tratta della Germania che è, sotto molti punti di vista, un vero e proprio protettorato USA quanto, se non più, dell’Italia. E per garantire che i suoi piani di rilancio industriale nel settore bellico non hanno niente a che vedere con la rivendicazione di maggiori spazi di autonomia, ha scelto il portavoce che, agli occhi di Washington, è in assoluto il più affidabile di tutti: San MarioPio da Goldman Sachs, a tutti gli effetti un funzionario delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce.
La Francia del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron invece, appunto, sembra più che altro impegnata a percorrere tutte le strade percorribili per provare a trasformare la nuova realtà della guerra totale dell’imperialismo unitario contro il resto del mondo nell’ultima opportunità per riproporsi come l’unica guida possibile di un’Europa subalterna sì agli USA, ma – ciononostante – con un piccolo margine di autonomia strategica rispetto a Washington (che, astrattamente, non suona nemmeno poi malissimo). Sostanzialmente, si tratterebbe di approfittare del vincolo esterno imposto dalla nuova guerra mondiale ibrida per accelerare un processo di trasformazione politica che in tempo di pace è stato ostacolato dall’inerzia del sistema vigente, sulla falsariga di quanto già fatto dalle grandi potenze mondiali: Putin ha sfruttato la guerra per fare i conti con le oligarchie, centralizzare il potere riducendo l’influenza dei vari feudi che hanno sempre parassitato il sistema di potere del Cremlino e impossessarsi, così, degli strumenti necessari per portare avanti il suo ambizioso new deal; Rimbambiden ha sfruttato la guerra per provare a rimettere al loro posto alcune oligarchie parassitarie che continuano a estrarre valore dall’economia statunitense sottoforma di rendita parassitaria (a partire da Big Pharma) e ostacolano così il tentativo di reindustrializzazione del Paese. Xi Jinping, da parte sua, sta cercando di sfruttare una guerra commerciale di cui farebbe volentieri a meno per cercare di sostituire i vecchi motori della crescita economica – dalla speculazione immobiliare alle esportazioni di prodotti a medio – basso valore aggiunto – a un nuovo motore fondato sulle nuove forze produttive e il raggiungimento dell’indipendenza tecnologica; ora il sempre pimpantissimo Manuelino sembra voler approfittare della guerra per raggiungere quell’unità politica (ostacolata fino ad oggi dall’architettura stessa delle istituzioni ordoliberiste dell’Unione europea) facendo leva sull’inderogabile necessità, appunto, di dotarsi di una difesa comune e di creare un mercato unico sufficientemente ampio ed omogeneo da riuscire ad attrarre investimenti in grado di farci recuperare il gap tecnologico.
Ma il sempre pimpantissimo Manuelino potrebbe fare i conti senza l’oste: a differenza delle altre potenze, infatti, il problema di fondo è che questa Unione europea è stata creata proprio dalle fondamenta in modo e maniera da impedire ogni forma di vera sovranità, a partire da una moneta monca e da una Banca Centrale che non può fare il mestiere di una vera banca centrale, e che sono state pensate per fare da satelliti al sistema fondato sul dollaro; tant’è vero che, proprio mentre le altre potenze non pongono limiti al ricorso al debito pubblico per finanziare gli obiettivi politici che vogliono imporre ai loro sistemi economici, l’Unione europea si ritrova a reintrodurre un patto di stabilità che, per quanto riformato, reintroduce l’austerity e i vincoli esterni e ci porta nella direzione esattamente opposta e, cioè, proprio a rinunciare a priori a imporre obiettivi politici al cosiddetto mercato (che poi, ovviamente, non sono altro che le oligarchie e quindi, in ultima istanza, stringi stringi, Wall Street).

Enrico Letta con Rowan Atkinson

Un limite strutturale invalicabile che, tutto sommato, conosce benissimo anche il pimpantissimo Manuelino che, infatt,i sta lavorando a un piano B: è il famoso rapporto sul mercato unico di Enrico Mitraglietta, che sta alle oligarchie finanziarie francesi esattamente come San MarioPio da Goldman Sachs sta a quelle d’oltreoceano. La formula di Mitraglietta e delle oligarchie finanziarie che lo sostengono – a partire da Credit Agricole e, quindi, Amundi, che è il più grande fondo di gestione patrimoniale d’Europa e l’unico a fare capolino nella top 10 mondiale interamente occupata, appunto, dagli americani – è quella, appunto, di copiare il modello di finanziarizzazione USA e creare intorno ad Amundi un monopolio finanziario privato europeo in tutto e per tutto simile ai vari BlackRock, Vanguard o State Street che però, a differenza di Amundi, fondano il loro dominio sulla collaborazione con le istituzioni che gestiscono la valuta di riserva globale. Amundi si dovrebbe accontentare di lavorare in tandem con una Banca Centrale che non solo non emette una moneta che gode dell’esorbitante privilegio di essere la valuta di riserva globale, ma che non può nemmeno essere considerata una valuta sovrana a tutti gli effetti; questo, in soldoni, significa una cosa sola: Amundi, o chi per lei, non potranno mai essere la BlackRock o la Vanguard europei, ma soltanto un altro fondo, magari anche più intimamente legato ai risparmi e alle corporation europee, ma che – alla fine – non è altro che un pezzettino di un unico mercato finanziario dell’Occidente collettivo diretto da Washington e da Wall Street.
La ricetta Mitraglietta, quindi, strutturalmente non è minimamente in grado di garantire alla nuova Unione europea (sognata dal pimpantissimo Manuelino) maggiori margini di autonomia strategica nell’ambito dell’impero, anzi! Nel frattempo, però, per costruire questo polo finanziario che, più che alternativo, è aggiuntivo e perfettamente organico a quelli già esistenti, ecco che torna in auge l’austerity e, con lei, i tagli al welfare che costringeranno i lavoratori europei a destinare una quota sempre maggiore dei loro redditi a investimenti nei vari fondi integrativi per garantirsi quei diritti essenziali – dalla sanità alla pensione – che fino ad oggi, anche se sempre meno, erano considerati ancora in buona parte diritti universali essenziali. La Francia, quindi, e le altisonanti boutade del pimpantissimo Manuelino non ambiscono ad altro che a ritagliare per le oligarchie nazionali un posto, se non proprio al sole, almeno – diciamo – alla penombra, in questa nuova stagione dell’ormai trentennale rapina dall’altro contro il basso; ed in questo contesto, quindi, è del tutto comprensibile e razionale che il pimpantissimo Manuelino ponga il tema della concentrazione del potere politico in seno alle istituzioni antidemocratiche comunitarie, in modo da sopprimere sul nascere i già limitatissimi spazi di democrazia residui a livello di stati nazionali che, nonostante tutto, ancora a tratti permettono ai popoli – se non altro – di testimoniare la loro opposizione al partito unico della guerra e degli affari che la propaganda suprematista, finanziata dalle oligarchie, definisce fake news e disinformazione russa.
La buona notizia è che anche se – per ora – solo a livello molto superficiale e decisamente confuso, che questo meccanismo non stia più in piedi ormai lo cominciano a pensare in parecchi: lo stiamo toccando con mano anche noi in prima persona da quando abbiamo messo in piedi MULTIPOPOLARE e, in tutti i posti dove siamo andati, abbiamo riscontrato sistematicamente una consapevolezza e anche una combattività che va ben oltre ogni nostra aspettativa; e, da questo punto di vista, non possiamo che dare ragione al pimpantissimo Manuelino quando ricorda, appunto, che “Le cose possono accadere molto più rapidamente di quanto pensiamo, e possono portare a una morte più brutale di quanto immaginiamo”. Carissimo Manuelino, stai pur certo che faremo tutto quello che è in nostro potere affinché la tua profezia si avveri, a partire dalla costruzione di un vero e proprio media in grado di squarciare il velo di Maya della propaganda del partito unico della guerra e degli affari e che ci aiuti a vedere il mondo dal punto di vista degli interessi concreti del 99%. Per farlo, ovviamente, non possiamo sperare nel sostegno delle oligarchie che vogliamo abbattere e, quindi, dobbiamo contare su di te: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Enrico Letta

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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

TECNOFEUDALESIMO: come Apple, Google, Meta e Amazon si impossessano di tutto e distruggono il pianeta

Quasi nessuno se ne è accorto, ma il capitalismo è già morto da un pezzo ed è stato rimpiazzato da qualcosa di ben peggiore. Tecnofeudalesimo: così Yanis Varoufakis, uno dei più lungimiranti studiosi della nostra epoca, ha ribattezzato nel suo ultimo libro il sistema economico delle nostre società, sostenendo che in meno di vent’anni i proprietari delle big tech abbiano scalzato al vertice i vecchi industriali capitalisti e siano diventati i nuovi padroni del mondo occidentale; Google, Amazon, Meta, Apple e pochi altri, con l’aiuto della finanza internazionale hanno prima completamente privatizzato internet creando oligopoli e monopoli mai visti prima nella storia, e poi hanno esteso sempre di più il loro controllo sulle nostre vite e sulle leve politiche della nostra società. “Forse eravamo troppo distratti dalla pandemia” scrive Varoufakis, “dalle varie crisi finanziarie, o da tutti quei teneri e simpatici gattini su TikTok; in ogni caso, mentre ci preoccupavamo d’altro, un nuovo sistema economico ha preso il controllo. Da vent’anni, ormai, le basi sulle quali è stato costruito il capitalismo – il profitto e il mercato – non sono più fondamentali: il capitale tradizionale non è più al comando, ma è diventato vassallo di una nuova classe di padroni feudali, i proprietari del capitale cloud”.

Yanis Varoufakis

Fondamentalmente, sostiene l’economista greco, il capitale cloud ha demolito i due pilastri del capitalismo: i mercati e il profitto; da una parte i mercati sono stati rimpiazzati da piattaforme di trading digitale, dove gran parte della nostra vita e degli scambi commerciali si svolge, molto più simili ai vecchi feudi pre – capitalisti, dall’altra il profitto, che era il motore del capitalismo, è stato rimpiazzato dal suo predecessore feudale: la rendita. E, cioè, quella rendita che viene pagata dalle aziende e dai cittadini ai proprietari dei feudi digitali per poter accedere alle loro piattaforme e al mercato e ai servizi che queste ospitano; di conseguenza, riflette Varoufakis, il vero potere oggi non risiede nei proprietari di capitale tradizionale – come macchinari, edifici, reti ferroviarie e telefoniche, robot industriali; questi continuano certo a ricavare profitti dal lavoro salariato, ma non sono più al comando come un tempo e il loro posto è stato preso dai proprietari dei feudi cloud e dalle loro piattaforme, da cui i capitalisti produttori di merci e sevizi, ormai, dipendono quasi completamente.
Naturalmente, come la vecchia classe dominante, anche Amazon, Facebook, Apple e Google investono nella ricerca e nell’innovazione, in politica, in marketing, in tattiche antisindacali etc., ma lo fanno non per vendere merci per il massimo profitto, come nel vecchio capitalismo, ma al fine di riscuotere le rendite più alte dagli utenti e dai capitalisti che producono: “Immagina la scena seguente come uscita da un libro di fantascienza.” ci suggerisce Varoufakis; “Vieni teletrasportato in una città piena di persone che si occupano dei loro affari, commerciano in gadget, scarpe, libri, canzoni, giochi e film. All’inizio, tutto sembra normale. Fino a che non inizi a notare qualcosa di strano. Salta fuori che tutti i negozi, in realtà ogni edificio, appartengono a un tizio di nome Jeff. Può non essere il proprietario delle fabbriche che producono la merce in vendita nei suoi negozi, ma possiede un algoritmo che incassa una quota per ogni vendita e lui decide cosa può essere venduto e cosa no”. “In realtà” continua “è addirittura peggio rispetto a un mercato totalmente monopolizzato – lì, almeno, i compratori possono parlare tra loro, formare associazioni, magari organizzare un boicottaggio dei consumatori per costringere il monopolista a ridurre il prezzo o migliorare la qualità. Non vale lo stesso nel regno di Jeff, dove tutto e tutti sono intermediati non dalla disinteressata mano invisibile del mercato, ma da un algoritmo che lavora per il risultato di bilancio di Jeff e balla esclusivamente al ritmo della sua musica.” Ma questa trasformazione epocale ha davvero una qualche importanza per le nostre vite? Certamente, risponde Varoufakis; riconoscere che il nostro mondo è diventato tecnofeudale ci aiuta a risolvere piccoli e grandi rompicapi: dalla sfuggente rivoluzione delle energie rinnovabili, alla decisione di Elon Musk di comprare Twitter, alla nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, fino al modo in cui la guerra in Ucraina sta minacciando il regno del dollaro. Ma anche la grande inflazione e la crisi del costo della vita che sono seguite alla pandemia non possono essere comprese adeguatamente al di fuori di questo contesto.
In generale, come era prevedibile, possiamo dire che l’incredibile ritorno delle rendite dal passato pre – capitalista ha significato solamente una stagnazione ancora più grave e più tossica: “Gli stipendi vengono spesi dalla maggioranza che lotta per arrivare a fine mese. I profitti vengono investiti in beni capitali per mantenere la capacità di profitto dei capitalisti” afferma Varoufakis, “ma la rendita viene accumulata in proprietà (ville, yacht, opere d’arte, criptovalute ecc.) e si rifiuta ostinatamente di entrare in circolazione, di stimolare gli investimenti in beni utili e di rivitalizzare le flaccide società capitalistiche. E quindi inizia un circolo vizioso: ne consegue una stagnazione più profonda, che induce le banche centrali a stampare più moneta, consentendo più estrazione e meno investimenti, e così via.” Insomma: secondo l’economista greco, il tecnofeudalesimo sta aggravando le fonti di instabilità preesistente trasformandole in ancor più gravi minacce esistenziali. In questa puntata parleremo del modo in cui, secondo Varoufakis, le big tech in questi anni hanno conquistato le redini economiche del mondo occidentale, di come noi ci siamo ridotti ad essere delle specie di servi della gleba dei feudi digitali e di quanto questo condizioni la politica interna ed estera delle nazioni.
Centinaia di racconti, film e serie tv di fantascienza dipingono un mondo distopico in cui è avvenuta la cosiddetta singolarità, il momento in cui una macchina, o una rete di macchine, acquisisce una coscienza; a quel punto, di solito, le macchine calcolano che non siamo adatti ai loro scopi e decidono di eliminarci o ridurci in schiavitù. Il problema con questa narrazione è che, enfatizzando una minaccia non esistente, ci ha lasciato esposti a un pericolo molto più reale: i programmi come Alexa o ChatGPT sono infatti ben lontani dalla temuta singolarità e nel frattempo, invece, in combutta con il modo in cui le banche centrali e i governi hanno agito a partire dal 2008 (e, cioè, la più grande crisi finanziaria di sempre), i proprietari di internet sono diventati in parte i proprietari delle nostre economie e hanno rivoluzionato il mondo adattandolo ai propri scopi; come spesso è accaduto nella storia, una nuova e magnifica scoperta tecnologica, internet, ha generato una nuova forma di capitale, le piattaforme private del cloud, che vengono sfruttate da una nuova classe rivoluzionaria che mira a prendere il potere.

Nel suo libro Tecnofeudalesimo, Yanis Varoufakis ci racconta la storia di come tutto questo sia potuto accadere: il primo internet era una zona libera dal capitalismo; era una rete centralizzata, statale, non commerciale. Allo stesso tempo, possedeva elementi di liberalismo primigenio, quasi di anarco – sindacalismo, riflette Varoufakis: una rete senza gerarchia basata su un processo decisionale orizzontale e sullo scambio reciproco di doni, non scambi di mercato. In un quarto di secolo le cose sono, però, radicalmente cambiate e la nostra esperienza quotidiana di internet è oramai filtrata e controllata attraverso piattaforme private che ne hanno sostanzialmente assunto il controllo; nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, il potere di comando venne trasferito dai proprietari terrieri ai proprietari dei mezzi di produzione dell’industria e, affinché questo avvenisse, i contadini dovettero prima perdere l’accesso autonomo ai terreni comuni (il fenomeno delle cosiddette enclosure); allo stesso modo, nell’universo neoliberale che ha in odio tutto ciò che è comune e in cui gli algoritmi erano già diventati le ancelle dei finanzieri, il libero accesso a internet è stato sostanzialmente trasformato in una macchina da soldi per pochi tecnofeudatari. Nel XVIII secolo, con le enclosures originali, per spingere le masse tra le braccia dei capitalisti fu negato l’accesso ai terreni comuni; nel XXI secolo non si è trattato dell’accesso alla terra, ma si è trattato dell’accesso alla nostra stessa identità digitale.
La nostra identità digitale, infatti, non appartiene più né a noi né allo Stato: “Disseminata in innumerevoli regni digitali di proprietà privata, ha molti proprietari, nessuno dei quali siamo noi: una banca privata possiede i tuoi codici di identificazione e tutto il tuo registro di acquisti. Facebook ha un’intima dimestichezza con chi – e cosa – ti piace” scrive Varoufakis; “Apple e Google sanno meglio di te che cosa guardi, leggi, compri, chi incontri, quando e dove. Spotify possiede un registro delle tue preferenze musicali più completo di quello immagazzinato nella tua memoria cosciente.” E dietro di loro ce ne sono un’infinità di altri invisibili che raccolgono, monitorano, setacciano e scambiano le tue attività per ottenere informazioni su di te; ogni giorno che passa, una società basata sul cloud di cui non ti interesserà mai conoscere i proprietari, possiede un altro aspetto della tua identità. Nel mondo di internet due quindi, modellato dalle nuove enclosures, sei costretto a cedere la tua identità a una parte del regno digitale che è stata recintata, come ad esempio Uber o Glovo o qualche altra società privata: quando richiedi una corsa per l’aeroporto o ordini una pizza, il loro algoritmo manda un autista di sua scelta con l’obiettivo di massimizzare il valore di scambio che la società proprietaria dell’algoritmo estrae sia da te che dal conducente. Queste nuove enclosures hanno permesso il saccheggio dei beni comuni digitali che ha reso possibile l’incredibile ascesa del capitale cloud; ma è questo quello che rende il capitale cloud così fondamentalmente nuovo, diverso e inquietante. Il capitale è stato finora riprodotto all’interno di un mercato del lavoro – all’interno della fabbrica, dell’ufficio, del magazzino; sono stati i lavoratori salariati, aiutati dalle macchine, che hanno prodotto la merce che è stata venduta per generare profitto, che a sua volta ha finanziato le loro paghe e la produzione di più macchine; è così che il capitale si accumulava e riproduceva. Il capitale cloud, al contrario, può riprodurre sé stesso in modi che non coinvolgono alcun lavoro salariato, imponendo a quasi tutta l’umanità di partecipare alla sua riproduzione gratuitamente. “Pensa a ciò da cui è costituito il capitale cloud” riflette Varoufakis: “software intelligenti, server farms, torri cellulari, migliaia di chilometri di fibra ottica. Eppure tutto questo non avrebbe valore senza contenuti. La parte più preziosa dello stock di capitale cloud non sono le sue componenti fisiche ma piuttosto le storie postate su Facebook, i video caricati su TikTok e YouTube, le foto su Instagram, le battute e gli insulti su Twitter, le recensioni su Amazon o, semplicemente, il nostro movimento nello spazio, che permette ai nostri telefoni di segnalare a Google Maps l’ultima situazione del traffico.” Nel fornire queste storie, video, foto, movimenti, siamo noi che produciamo e riproduciamo – al di fuori di qualsiasi mercato – lo stock di capitale cloud”.
Per fare ancora degli esempi di come funzionano i tecnofeudi, Varoufakis ne ricostruisce la genesi e la storia: come sappiamo tutti, quello che ha fatto fare la svolta ad Apple e l’ha trasformata in un’azienda da triliardi di dollari è stato l’iPhone; e questo non solo perché era un ottimo cellulare, ma anche perché ha consegnato ad Apple le chiavi per uno scrigno del tesoro totalmente nuovo – la rendita del cloud. Il colpo di genio che ha sbloccato la rendita del cloud per Steve Jobs è stata la sua idea rivoluzionaria di invitare “sviluppatori terzi/esterni” a utilizzare il software Apple gratuitamente e creare così applicazioni da mettere in vendita tramite l’Apple Store. In un colpo solo Apple aveva creato un esercito di lavoratori non retribuiti e vassalli capitalisti il cui duro lavoro ha prodotto una serie di funzionalità disponibili esclusivamente per i possessori di iPhone sotto forma di migliaia di app desiderabili che gli ingegneri di Apple non avrebbero mai potuto produrre da soli in una simile varietà e quantità; improvvisamente, un iPhone era diventato molto più di un telefono accattivante: era un biglietto di accesso a una vasta area di piaceri e poteri che nessun altro produttore di smartphone poteva fornire. Anche se un concorrente di Apple come Nokia, Sony o Blackberry fosse riuscito a rispondere rapidamente producendo un telefono più intelligente, più veloce, più economico e più bello, non sarebbe importato, afferma Varoufakis. Solo un iPhone, infatti, spalanca i cancelli dell’Apple Store: “Per essere competitivi, gli sviluppatori non pagati di Apple, essenzialmente partnership o piccole società capitaliste, non avevano altra scelta che operare attraverso l’Apple Store. Il prezzo? Un 30% di rendita a lungo termine, pagata a Apple su tutti i loro ricavi. Così una classe di vassalli capitalisti sorse dal terreno fertile del primo feudo cloud: l’Apple Store.”
Solo un’altra multinazionale è riuscita a convincere una considerevole porzione di quegli sviluppatori a creare app per il proprio store: Google; molto prima dell’arrivo dell’iPhone, il motore di ricerca di Google era diventato il fulcro di un impero cloud che comprendeva Gmail e YouTube e che, in seguito, avrebbe aggiunto Google Drive, Google Maps e una serie di altri servizi online. “Desiderosa di sfruttare il proprio capitale cloud già dominante, Google ha seguito una strategia diversa da quella di Apple” scrive Varoufakis: “Anziché produrre un cellulare in competizione con l’iPhone, ha sviluppato Android – un sistema operativo che poteva essere installato gratis sugli smartphone di qualsiasi costruttore, compresi Sony, Blackberry e Nokia, che hanno scelto di utilizzarlo.” È così che Google ha creato Google Play, l’unica alternativa seria all’Apple Store; il risultato è stato un’industria globale degli smartphone con due corporation dominanti- Apple e Google – con la maggior parte della loro ricchezza prodotta da sviluppatori terzi non retribuiti dalle cui vendite estraggono una quota fissa: questo non è profitto. È rendita cloud, l’equivalente digitale della rendita fondiaria. Nel frattempo, mentre Amazon stava intrappolando i creatori di prodotti fisici all’interno del suo feudo cloud, altre aziende hanno inglobato nei loro feudi cloud una vasta gamma di autisti, addetti alle consegne, addetti alle pulizie, ristoratori – perfino dog sitter – riscuotendo anche da questi lavoratori non retribuiti e a cottimo una quota fissa dei loro guadagni; in un tweet rivelatore, Elon Musk ha ammesso la sua ambizione di trasformare Twitter in una app di tutto: cosa intendeva con “app di tutto”? “Non intendeva niente di meno che una porta di accesso al tecnofeudalesimo, che gli permetterebbe di attirare l’attenzione degli utenti, modificare il loro comportamento di consumatori, ottenere manodopera gratis da loro come servi della gleba del cloud e, dulcis in fundo, far pagare ai venditori la rendita del cloud per vendere i loro prodotti.”

Elon Musk

La storia dell’ascesa del capitale cloud comincia sulla scia del crollo del 2008, quando il denaro di Stato ha iniziato a essere stampato in grande quantità dalle banche centrali di tutto il mondo; nei quindici anni successivi i banchieri centrali hanno stampato denaro e lo hanno convogliato ai finanzieri, di loro spontanea volontà: a loro avviso, hanno salvato il capitalismo. In realtà, lo hanno stravolto, contribuendo a finanziare l’emergere del capitale cloud: “Questa specie di socialismo a favore dei finanzieri” come lo chiama Varoufakis “fece sorgere un altro agglomerato di sovrani della finanza in combutta con cloudalisti; le tre aziende statunitensi BlackRock, Vanguard e State Street che oggi, di fatto, posseggono il capitalismo americano. Queste comprendono le maggiori compagnie aeree americane (American, Delta, United Continental), gran parte di Wall Street (JPMorgan Chase, Wells Fargo, Bank of America, Citigroup) e produttori di automobili come Ford e General Motors.” Inoltre, i Big Three sono anche i maggiori azionisti di quasi il 90% delle aziende quotate alla Borsa di New York, comprese Apple, Microsoft, ExxonMobil, General Electric e Coca-Cola. Per dare un senso a questi numeri: gestiscono un patrimonio che equivale al reddito nazionale degli Stati Uniti, o alla somma dei redditi nazionali di Cina e Giappone; da allora, l’ascesa al potere finanziario supremo è stata quasi ineluttabile e, ora che sono lì, i Big Three godono di due vantaggi insormontabili: un potere monopolistico senza precedenti su interi settori – dalle compagnie aeree e bancarie all’energia – e alla Silicon Valley.
Ma è durante la pandemia che, secondo Varoufakis, il passaggio al tecnofeudalesimo è stato completo: “Mentre l’economia degli Stati Uniti perdeva 30 milioni di posti di lavoro in un solo mese, Amazon andò in controtendenza, apparendo agli occhi di una fetta di americani” scrive Varoufakis “come un ibrido tra la Croce Rossa, che consegnava beni di prima necessità ai cittadini confinati, e il New Deal di Roosevelt, con l’assunzione di 100.000 dipendenti in più e il pagamento di un paio di dollari in più all’ora.” Vero, le big tech hanno investito il denaro delle banche centrali e questo ha creato posti di lavoro, ma i lavori che hanno creato erano quelli del proletariato del cloud e gli investimenti erano atti a incrementare il loro capitale cloud.
Nella seconda parte di questa analisi del testo di Varoufakis vedremo in che modo il tecnofeudalesimo stia distruggendo la democrazia, il modo in cui sta influenzando la guerra fredda tra Usa e Cina, il diverso modo in cui il governo di Pechino si rapporta alle piattaforme online e le possibili soluzioni che Varoufakis prospetta per cambiare questo stato di cose. Nel frattempo, se anche tu credi che i nuovi tecnofeudatari dovrebbero fare la stesse fine dei vecchi signori feudali, aiutaci a costruire un media completamente libero e indipendente che rappresenti il 99 per cento e che combatta il loro potere e la loro avidità. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elon Musk

CONTADINI contro OLIGARCHIE – Se “col TRATTORE in Tangenziale, andiamo a…” occupare BLACKROCK

La rivolta sacrosanta dei trattori ha preso di mira numerosi obiettivi: ha preso di mira i governi nazionali che vogliono scaricare almeno una parte della crisi economica che hanno contribuito a causare con le loro stesse mani su pezzi di mondo produttivo già stremato; ha preso di mira le istituzioni europee che vogliono scaricare i costi della transizione ecologica sulle ultime ruote del carro mentre si prodigano per garantire che la stessa transizione, per le oligarchie, sia solo un’altra succulenta occasione di sommare nuove fonti di rendita a quelle vecchie e, almeno nel caso italiano, ha preso di mira pure le associazioni di categoria che, in questo gioco dello scaricabarile dall’alto verso il basso invece di difendere la parte più debole, si occupano spesso di proteggere esclusivamente i soggetti più forti. Al netto delle contraddizioni, sono tutti obiettivi non solo legittimi, ma doverosi e che, però, rischiano di spostare i riflettori da quello che probabilmente dovrebbe essere il principale degli obiettivi: similmente a qualsiasi altro settore produttivo che, al netto delle contraddizioni, crea comunque una qualche forma di valore e di ricchezza tangibile, anche per i produttori agricoli – infatti – il nemico pubblico numero 1 non sono altro che le solite oligarchie finanziarie che, invece, di valore non ne creano nessuno e si appropriano senza limiti di tutta la ricchezza prodotta da tutti gli altri. Al netto delle gerarchie interne ai produttori – che non vanno mai dimenticate perché, per quanto sotto attacco del grande capitale, un imprenditore agricolo che ha anche solo una decina di dipendenti non è certo la stessa cosa del bracciante agricolo stagionale che lavora per lui in condizioni di semischiavitù – tutte le componenti del mondo produttivo, infatti, hanno nei grandi monopoli finanziari un nemico comune; i grandi monopoli finanziari, infatti, estraggono sotto forma di rendita il grosso della ricchezza prodotta a tutti i livelli: a monte perché sono i principali azionisti del monopolio degli input produttivi fondamentali – dalle sementi ai prodotti chimici – e, a valle, attraverso la dittatura della grande distribuzione organizzata.
Ma non solo: i grandi monopoli finanziari, infatti, estraggono ricchezza attraverso il controllo dell’input produttivo più importante di tutti e, cioè, il credito e, da un po’ di tempo a questa parte, anche da tutti quegli strumenti derivati che erano nati per permettere ai produttori di assicurarsi dalle conseguenze di un cattivo raccolto e che, invece, oggi sono diventati pure loro sempre di più strumento della speculazione più spregiudicata; metti insieme tutti questi passaggi ed ecco che al mondo produttivo vero e proprio non rimangono che le briciole e, appunto, non è altro che l’ennesimo esempio del furto sistematico di ricchezza operato dalle oligarchie dei rentier nei confronti dell’economia reale. E, come in tutti gli altri casi, le istituzioni che operano sempre più da semplice comitato d’affari in difesa degli interessi più inconfessabili delle oligarchie non fanno che assecondare, se non addirittura accelerare, questo vero e proprio furto e pretendono pure di ammantarlo di buoni propositi, tra una tinteggiata di verde qua e là. Ora, ovviamente anche la ripartizione delle poche briciole che rimangono ai produttori è tutt’altro che egualitaria e anche tra le loro fila si combatte quotidianamente una guerra feroce che però, appunto, ha tutte le caratteristiche di una guerra tra poveri, anche se non tutti poveri allo stesso modo; mette quindi enormemente tristezza vedere come una parte consistente di sinistra non trovi di meglio che guardare il dito dello scontro interno ai produttori, indugiando autocompiaciuta nella produzione in serie delle solite etichette di buzzurri complottisti negazionisti fascistoidi, e trascuri completamente la luna del furto sistematico operato dalle oligarchie col supporto della politica e dei governi.

Alessandro Volpi

A costo di risultare pedanti, quindi, con il buon vecchio Alessandro Volpi abbiamo deciso di provare a uscire da questa asfissiante guerra tra opposte strumentalizzazioni e abbiamo provato a rimettere in fila i punti fondamentali di questo processo di spoliazione generalizzata da parte delle oligarchie finanziarie e, per farlo, siamo partiti da qualcosa di apparentemente distante dal mondo agricolo. Perché l’apparenza, molto spesso, inganna. Non so se è chiara la morale della favola: tutto, e dico letteralmente tutto, è minuziosamente programmato per estrarre denaro dall’economia reale e utilizzarlo per sostenere la bolla speculativa dei titoli azionari. E’ quello, sostanzialmente, l’unico vero grande prodotto del capitalismo avanzato dell’Occidente collettivo; millenni di duro lavoro e di evoluzione tecnologica e scientifica per incentrare l’intera economia sul valore immaginario di qualche pezzo di carta, ed è proprio da questo punto di vista che si riesce a capire il ruolo fondamentale dei supermegafondi: avere abbastanza liquidità per sostenere all’infinito l’aumento virtuale di valore di questi pezzi di carta, sottraendo risorse all’economia reale. Per farlo, ai megafondi vengono affidati tutti i nostri risparmi; il risparmio gestito in Europa, che è ancora un mercato minuscolo rispetto a quello USA, ha superato la soglia psicologica dei mille miliardi di euro, in gran parte gestiti da fondi USA: BlackRock, Vanguard, seguiti da JP Morgan e Fidelity che, però, hanno tra i maggiori azionisti di nuovo BlackRock e Vanguard. Se la cantano e se la suonano.
Ma cosa c’entra questa digressione con la questione agricola? Purtroppo c’entra, eccome, perché nella top 6 dei fondi, accanto al monopolio USA, c’è anche un operatore europeo: si chiama Amundi e indovinate un po’? E’ di proprietà di Credit Agricole, e sapete per cosa era nata Credit Agricole? Per dare ai contadini il credito necessario per portare avanti la loro attività produttiva: insomma, doveva rastrellare un po’ di risparmi improduttivi per dare ossigeno alla produzione e permettere agli agricoltori di fare investimenti e svilupparsi; in soldoni, esattamente il contrario di quello che accade oggi. Sono queste le grandi innovazioni che, ancora oggi, ci fanno essere orgogliosi di vivere nel nostro giardino ordinato e ci convincono a tenere lontana con ogni mezzo necessario la giungla selvaggia che ci circonda: trasformare un’assicurazione per gli agricoltori in oggetto di speculazione cosicché gli oligarchi ci guadagnano i miliardi e i contadini che si devono assicurare non se lo possono più permettere, ma se poi si incazzano…. “reazionari”, “fascisti”. Anche guardandola dal punto di vista dei nostri campi e dei nostri orti, quello che abbiamo di fronte – come dice Hudson – è davvero uno scontro di civiltà, altro che la fuffa islamofoba di Huntington: da una parte procedere verso il ritorno al feudalesimo e alla dittatura degli oligarchi, dall’altra asfaltare coi trattori le oligarchie parassitarie e tornare alla traiettoria avviata con le rivoluzioni borghesi e poi bruscamente abbandonata dagli ex rivoluzionari stessi non appena hanno capito che, per continuare su quella strada, a rinunciare a qualche privilegio sarebbe toccato pure a loro. Contro ogni forma di privilegio, per un’informazione a immagine e somiglianza degli interessi concreti del 99%, abbiamo bisogno di un vero e proprio nuovo media, indipendente, ma di parte, rigoroso, ma nazionalpopolare. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal

E chi non aderisce è Johnny il contrario del giornalismo Riotta

SINNER l’ANTI-ITALIANO: se un EVASORE TOTALE viene spacciato per Eroe della Patria

“Lavoro, famiglia e la rimonta da Slam”; Jannik Sinner, “l’arcitaliano che vorremmo essere”: nei giornali dei fintosovranisti, lunedì – la prima volta di un italiano agli Open di Australia – veniva salutata, comprensibilmente, con incontenibile entusiasmo. Ora, a noi il tennis piace, piace vedere il tricolore in cima al podio e piace pure Sinner, ma cosa intendono esattamente quando parlano dell’arcitaliano che vorremmo essere? Intendiamoci: sul che vorremmo essere magari ci può anche stare, ma siamo proprio sicuri che si parli esattamente di un arcitaliano? Jannick Sinner infatti, come d’altronde anche l’allenatore e 4 componenti su 5 del team che ci ha regalato di nuovo, dopo decenni, la Coppa Davis, in realtà sono italiani un po’ a modo loro: hanno tutti la residenza a Montecarlo, dove pagano le tasse (o meglio, dove non le pagano); il principato di Monaco, infatti, è un gigantesco paradiso fiscale e per l’Italia è un problema enorme. Ogni anno ci finiscono una quantità spropositata di quattrini che a noi che non ambiamo a essere arcitaliani, ma ci accontentiamo di essere italiani semplici, servirebbero come il pane per finanziare i servizi essenziali che hanno permesso anche ai nostri campioni di diventare quello che sono (dalla scuola alla sanità, a tutto quello che fa del nostro paese – ancora per poco – un paese moderno e sviluppato), ma anche per rilanciare la nostra moribonda economia. Siamo proprio sicuri che il modello del perfetto patriota sia qualcuno che prende dalla nostra comunità tutto quello che gli serve e poi, quando gli va bene, ci fa ciao ciao con la manina e non restituisce niente? Con patrioti così – e con chi li eleva a role model di cui vantarsi e da ostentare – non è che rischiamo di darci una martellata nei coglioni?

Jannik Sinner

Il patriottismo italiano ai tempi del governo dei fintosovranisti al servizio di Washington e delle oligarchie finanziarie sembra un po’ strambo: i personaggi dello sport si fottono beatamente i soldi che dovrebbero servire per garantire i servizi essenziali a chi ha più bisogno e per far ripartire l’economia anche per tutti gli altri e, ciononostante, diventano eroi della patria; come si dice in questi casi, la mia idea di patria evidentemente è differente. Il caso di Montecarlo è un caso scuola di come funziona il grande furto di ricchezza delle oligarchie e dei super – ricchi a danno dei loro – a quanto pare – tanto odiati compatrioti e riguarda, in particolare, proprio l’Italia; in appena due chilometri quadrati, infatti, a Montecarlo si concentrano circa 38 mila abitanti, 19 mila per chilometro quadrato: la più grande concentrazione di popolazione al mondo e senza che ci siano i megagrattacieli di Dubai o di Abu Dhabi. Tutti fitti fitti come formichine; insomma, un vero posto di merda. Eppure, come riporta Idealista, è proprio qui che ci sono i monolocali più cari del mondo: 51 mila euro al metro quadrato, contro gli oltre 43 mila del centro di Hong Kong; un gap che aumenta se, invece che i soli monolocali del centro, ci si allarga anche alle altre aree e alle altre tipologie di abitazione. A Montecarlo, infatti, il prezzo al metro quadro medio continua ad essere di oltre 44 mila euro, mentre a Hong Kong scende a poco più di 16 mila: 44 mila euro al metro quadro, 4 milioni e mezzo per un umile appartamento di 100 metri quadrati. Perché?
Semplice: nel principato di Monaco le tasse sul reddito e sulle plusvalenze non sono semplicemente scandalosamente basse; proprio non ci sono del tutto, come non ci sono tasse sul patrimonio, sull’eredità e manco l’IMU, e per acquisire il diritto di non pagare le tasse a Montecarlo ti devi comprare per forza quattro mura. Ecco così che decine di migliaia di ultra – ricchi di tutto il pianeta fanno a gara per spartirsi i mattoni che si accumulano uno sopra l’altro in questi orrendi 2 chilometri quadrati di territorio; i 39 mila abitanti di Montecarlo, infatti, si dividono in poco meno di 140 nazionalità di provenienza diverse : solo nel 2022 – riporta l’ufficio di statistica monegasco – sono state effettuate transazioni immobiliari per 3,54 miliardi, oltre 90 mila euro pro capite. In Italia, giusto per avere un parametro di confronto, il valore delle transazioni immobiliari in un anno equivale a meno di 2000 euro pro capite. Tutti soldi che non solo vengono sottratti al fisco, ma anche all’economia reale.
E’ un esempio paradigmatico di bolla speculativa che si sostiene grazie alla fuga dei capitali e all’elusione fiscale internazionale: te sei azionista di un’azienda che opera in un paese X, ma hai la residenza fiscale a Montecarlo; quando arrivano i dividendi, invece di reinvestirli li porti nel principato di Monaco e ci compri uno di questi appartamenti: un quadrilocale standard da 123 metri quadrati per 5,4 milioni, oppure un modesto bilocale da 70 metri quadrati per appena 4,9 milioni o, se ti è andata particolarmente di lusso quell’anno, magari anche un bel duplex da oltre 400 metri quadrati per la modica cifra di 22,9 milioni. Ovviamente quei soldi non creano nessuna forma di ricchezza reale e, a parte quell’1% scarso che va a chi la casa l’ha costruita davvero, non aiutano nessuna forza produttiva a svilupparsi, e però te sei tranquillo che il tuo patrimonio è al sicuro, completamente detassato e che si rivaluterà continuamente grazie ai tuoi amici che sono al governo nel tuo paese di provenienza, che ti garantiscono che la fila di super – ricchi che fanno a pugni per comprarsi le quattro mura necessarie per farli diventare parte di questo sogno distopico ci sarà sempre e che nessuno farà mai niente per mettere fine a questa rapina . E, anzi, eleggeranno a eroe della patria dell’anno chi ci partecipa, che, va ricordato, sarà pure il primo italiano a vincere gli Open d’Australia, ma in questo giochino a chi frega più soldi all’Italia e agli italiani arriva esimo. Dopo i meno di 9 mila abitanti autoctoni e i poco meno di 10 mila cittadini francesi, a guidare la classifica dei residenti monegaschi per paese di provenienza – e di gran lunga – infatti, c’è proprio l’Italia: oltre 8000, seguiti a gran distanza dai meno di 3000 cittadini britannici e dai poco più di mille svizzeri e belgi. Gli statunitensi, invece, sono proprio pochini: meno di 400; strano eh? Beh, mica tanto: insieme ai francesi, infatti, gli statunitensi sono gli unici che non hanno diritto all’esenzione totale dalle tasse sui redditi e sulle plusvalenze; chiamali scemi… I governi USA hanno steso tappeti rossi in casa ai loro super – ricchi creandosi anche paradisi fiscali interni; ma i capitali non li fanno fuggire a caso. Loro sono quelli che i capitali li fregano agli altri, non certo quelli che se li fanno fregare.

Valentino Rossi’s “Ciao poverih”

Ora, i nostri 8 mila connazionali che con i loro magheggi fiscali hanno dichiarato guerra all’economia del nostro paese, diciamo che in media hanno un modesto appartamento da un centinaio di metri quadrati per uno anche se non ci stanno mai: come avviene nella stragrande maggioranza dei casi,100 metri per questi parassiti sono un misero pied-à-terre. Ecco: fanno 800 mila metri quadrati di bolla speculativa edilizia a 50 mila euro al metro quadrato, e cioè 40 miliardi sottratti all’economia reale del nostro paese, perché fare soldi investendoli nell’economia reale comunque è troppo più faticoso e rischioso che non depositarli in una bolla speculativa in un paradiso fiscale. E 40 miliardi sono tantini, eh? Sono oltre 30 volte i soldi che servono per salvare l’ILVA, ma soprattutto sono circa 4 volte il totale degli investimenti esteri diretti che l’Italia riceve in media in un anno; non so se è chiaro: con la scusa di attrarre più investimenti, nell’arco di 30 anni abbiamo completamente azzerato i diritti dei lavoratori italiani e poi scopriamo che attiriamo in tutto una quantità di investimenti che è un quinto dei quattrini che i nostri super – ricchi hanno fregato all’economia italiana per comprarsi casa in quel cesso di posto che è Montecarlo, e il bello è che questa è solo la punta dell’iceberg. La bolla speculativa immobiliare dei paradisi fiscali, infatti, è una parte infinitesimale del gigantesco schema Ponzi in cui è stata trasformata dalla controrivoluzione neoliberista l’intera economia dell’Occidente collettivo; il grosso della ciccia, infatti, è dall’altra parte dell’oceano, a Wall Street: è il sistema che Daniela Gabor ha ribattezzato il Wall Street consensus, il vero nodo – insieme alla proiezione militare – del superimperialismo dominato da Washington e che gode di una vasta rete di alleanze.
Alessandro Volpi, in particolare, a questo giro si è concentrato su un asse: quello che lega a Washington la Norvegia. La Norvegia infatti, mentre fa la ramanzina al resto del mondo sulla transizione ecologica, fonda la sua potenza economica nazionale su un gigantesco fondo che si occupa di investire gli enormi profitti che arrivano dalle care vecchie fonti fossili e che sono aumentati a dismisura da quando l’Unione Europea ha deciso di uccidere l’economia dei paesi che vi aderiscono per far finta di fare un dispetto a Putin mentre, in realtà, facevano solo un regalo a Zio Biden: una quantità spropositata di quattrini che – come i quattrini degli italiani che finiscono nelle case di Montecarlo – non contribuiscono in nessun modo allo sviluppo economico del vecchio continente, ma solo ed esclusivamente ad alimentare le bolle speculative dei mercati finanziari, in particolare quelli USA, rimandando così il crollo definitivo dello schema Ponzi dell’economia Occidentale mentre, allo stesso tempo, contribuiscono a scavare il baratro in cui precipiteremo quando inevitabilmente, a un certo punto, la everything bubble – la bolla di tutto – scoppierà. Quindi, in soldoni, le cause profonde che hanno scatenato la grande depressione del ‘29 (che è stata la seconda grande depressione del capitalismo globale) sono le stesse identiche che hanno causato la terza grande depressione – come la chiamano Vijay Prashad e i ricercatori della Tricontinental – che è quella che stiamo vivendo noi in diretta da una quindicina di anni abbondanti. Nel ‘29, però, ancora non esisteva il Wall Street consensus e, cioè, questa gigantesca concentrazione monopolistica dei capitali finanziari privati che è quella che tiene insieme, in una strategia unica coordinata, i mega – fondi come BlackRock, Vanguard, State Street e altri fondi enormi – ma in termini assoluti comunque secondari – come, appunto, quello sovrano della Norvegia che campa di sfruttamento delle fonti fossili: in quel caso, allora, a salvare il capitalismo dal suo suicidio ci dovette pensare Roosevelt con il suo New Deal che le oligarchie furono costrette ad accettare perché, altrimenti, sarebbe saltato definitivamente per aria tutto, ma che non digerirono mai fino in fondo. Con il New Deal, infatti, per salvare il sistema, una fetta enorme di potere politico che – in soldoni – è il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa, passò dai grandi gruppi capitalistici privati allo stato; da allora le oligarchie hanno imparato la lezione e, a partire dagli anni ‘70 – gli anni, cioè, dello scoppio della grande controrivoluzione neoliberista inaugurata ufficialmente dall’avvio della lotta contro la democrazia moderna in Occidente da parte della Commissione Trilaterale – hanno pianificato in ogni minimo dettaglio la costruzione del più grande monopolio finanziario privato della storia del capitalismo globale, trasferendo di nuovo il potere politico di decidere dove vanno i soldi per fare cosa in mano alle oligarchie che, bisogna ammetterlo, fino ad oggi hanno fatto un ottimo lavoro: a oltre 15 anni dallo scoppio di quella che chiamano la crisi finanziaria ma che in realtà, appunto, è la terza grande depressione della storia del capitalismo globale, il monopolio finanziario privato è riuscito a garantire profitti e dividendi stellari alle oligarchie senza che fosse necessario rimettere in moto l’economia reale e, quindi, senza che il potere dovesse essere di nuovo trasferito – almeno in parte – agli stati come ai tempi del New Deal al punto che oggi, anche quando si parla di finanziamenti pubblici – come nel caso della transizione ecologica o dei giganteschi incentivi pubblici messi in campo dall’amministrazione Biden nel tentativo di Make america great again come Trump e più di Trump – i quattrini vanno tutti, senza esclusione, a finire nei bilanci dei gruppi privati. Come dire… chapeau.

Sergio Marchionne

Scemi noi, il 99%, che – come per le case degli evasori di Montecarlo – continuiamo a occuparci a dividerci sulle fregnacce mentre questi ci fregano da sotto il naso tutta la ricchezza che produciamo con il nostro sudore. Sarà perché sono un po’ vagabondo, ma io sinceramente mi sarei anche abbondantemente rotto i coglioni di lavorare per pagare i duplex da 22 milioni a Montecarlo a qualcuno che non ha mai lavorato mezz’ora in vita sua. Ottolina Tv l’abbiamo fondata per questo: per convincervi che è arrivata l’ora di riprenderci i nostri soldi. Che dici? Ci dai una mano? Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Jannik Sinner

No dai, scherzo, che poi sembra che ce l’abbiamo con lui. Invece a me Sinner mi gasa anche, ci mancherebbe! Rifamo:

E chi non aderisce è Valentino Rossi

Ah no? Manco lui. Va beh.

E chi non aderisce, allora, è Sergio Marchionne
(eh si, anche lui c’aveva la residenza a Montecarlo: grande patriota pure lui?)

Le conseguenze economiche della guerra [pt1]: chi pagherà l’inflazione che arriva dal Medio Oriente?

“I venti di guerra gelano la crescita” titolava già martedì scorso Il Sole 24 ore. Ma – non per essere puntiglioso eh – di quale cazzo di crescita parlano?

in foto: Alessandro Volpi

Come insieme ad Alessandro Volpi abbiamo spiegato con dovizia di particolari già la settimana scorsa, ben prima che si riaprisse questo ennesimo capitolo di questa terza guerra mondiale a rate, l’economia del nord globale era già bella che affacciata sul bordo di un gigantesco baratro. Quella italiana in particolare poi si è già portata un bel pezzo avanti: non solo è già in caduta libera, ma ha anche raggiunto il fondo ed ha già iniziato a scavare, ma solo con le mani. L’escalation in Medio Oriente, diciamo, non fa altro che fornirci una bella trivella nuova di pacca per scavare più velocemente. Il meccanismo è di nuovo quello che si è già ampiamente manifestato dopo lo scoppio nel febbraio del 2022 della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. A partire da una tensione di carattere geopolitico, a prescindere dal suo impatto concreto sull’economia reale, parte un’offensiva speculativa che innesca una spirale inflazionistica; le banche centrali colgono la palla al balzo e, con la scusa della lotta all’inflazione, avviano una corsa al rialzo dei tassi d’interesse. All’inflazione però, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie, perché ormai il mercato e la concorrenza sono solo ricordi del passato: in tutti i settori che contano davvero vige un regime oligopolistico, e a determinare i prezzi sono una manciata di imprese che continuano a tenerli alti anche quando la crescita dei prezzi delle materie prime ormai è rientrata.
In compenso però la corsa al rialzo dei tassi d’interesse un effetto lo scatena eccome: la recessione, e nella recessione, la fuga dei capitali verso i beni rifugio, e cioè i titoli di stato USA e le bolle speculative denominate in dollari. D’altronde chi te lo fa fare di investire nell’economia reale in tempi così turbolenti quando puoi parcheggiare i tuoi quattrini in macchine infernali che non fanno altro che generare soldi da altri soldi? Ed ecco così che le economie più deboli, per far finta di tenere un minimo in ordine i conti, si ritrovano costrette a vendere i gioielli di famiglia, e le oligarchie finanziarie col portafoglio ovunque ma col cuore a Washington fanno shopping in giro per il mondo a prezzi di saldo e riempono le tasche all’1%, sulla pelle del 99.
Con questo video, grazie al contributo essenziale del mitico Alessandro Volpi e dell’amico Matteo Bortolon de La Fionda, abbiamo deciso di inaugurare una piccola miniserie che nel corso di questa settimana cercherà non solo di farvi una cronaca di quello che sta accadendo, ma anche di fornirvi gli strumenti analitici per capire perché sta accadendo e che ripercussioni avrà sulla nostra vita quotidiana e di provare a convincervi che l’unica soluzione realistica e razionale è distruggere una volta per tutte il meccanismo perverso imposto dall’1% e tornare a dare voce e potere al 99.
Con l’avvio dell’operazione Diluvio di al Aqsa da parte della resistenza palestinese sabato scorso, e con l’intensificarsi della pulizia etnica da parte del regime sionista che ha scatenato, il Medio Oriente, dopo una fase di apparente relativa calma, è tornato a incendiarsi e con lui, inevitabilmente, anche il mercato dell’energia, ridando così rinnovato slancio alla spirale inflazionistica che questi due anni di politiche monetarie suicide non erano in realtà riuscite mai a spezzare sul serio.

Alessandro Volpi: “il prezzo del gas, che prima che iniziasse questa nuova tensione bellica era indicativamente intorno ai 32 – 34 € a megawattora. Oggi siamo a cinquantatré, quindi nel giro di pochissimi giorni il gas ha preso venti euro senza che in realtà sia successo nulla sul piano delle forniture reali. Questo è il preludio di un’ulteriore crescita, perché è evidente che è ripartita la speculazione. Non dimentichiamoci che durante l’ondata inflazionistica 2021 – 2022 il petrolio era stato sostanzialmente intorno ai 70 – 75 $ al barile. Ora siamo ormai ampiamente sopra gli 80. Ci dirigiamo verso i 90 e quindi è abbastanza evidente che ci troveremo con una bolletta energetica molto pesante. Questo è un quadro per niente rassicurante e ancora una volta figlio delle ventate speculative prima ancora che dell’economia reale, perché dieci giorni di tensione militare, pur nella loro crudezza, non hanno inciso in nessun modo su quelli che sono gli approvvigionamenti reali e siamo anche certi che non incideranno negli approvvigionamenti reali dei prossimi mesi e probabilmente di tutto il prossimo anno.
Quindi, veramente, stiamo facendo stiamo facendo pura speculazione che determina di nuovo un’inflazione pesantissima.
Ma come fa concretamente la finanziarizzazione e la speculazione finanziaria ad alterare alla radice il meccanismo attraverso il quale i così detti mercati, che è l’eufemismo che la propaganda liberale ha adottato per descrivere un manipolo di oligarchi, determinano il prezzo reale delle materie prime senza le quali tutto il mondo si blocca. Il buon Alessandro Volpi ci ha fatto un riassuntino for dummies, perchè anche se il giochino ormai dovrebbe essere arcinoto, la potenza di fuoco della propaganda che usa ogni mezzo per dissimulare i crimini contro l’umanità sui quali si fonda la dittatura globale delle oligarchie finanziarie rischia sempre di distrarci dai nodi fondamentali. Ecco allora che con grande piacere vi introduco questa piccola rubrica di Rieducottolina, dove spieghiamo perché la finanziarizzazione dei mercati delle materie prime rappresenta uno ‘mbuto gigantesco per l’economia reale.

Alessandro Volpi: “Il prezzo del gas europeo continua a essere fatto, appunto, in questo listino privato che si chiama TTF che – mettiamolo in chiaro con evidenza – è di proprietà dei grandi fondi speculativi, perché gli azionisti di TTF sono in larga misura Vanguard, Black Rock e State Street, quindi gli stessi soggetti che direttamente e indirettamente – in quanto azionisti di banche che operano sul listino su questo TTF – contribuiscono a determinare il prezzo perché fanno scommesse sui contratti reali. In altre parole lo scambio di gas viene definito in termini reali fra un compratore e un venditore nel listino TTF a un prezzo pari a 32 – 33 € per megawattora a parte, una serie di scommesse che prevedono un’ipotetica mancanza di gas, perché c’è stato un boicottaggio? Perché? Partono queste scommesse prodotte da questi grandi fondi o dalle banche che sono possedute, dei fondi che sono a loro volta i proprietari del listino dove vengono fatte queste scommesse che dicono: scommettiamo che fra tre mesi il prezzo, al momento dell’eventuale consegna dei gas, non sarà trentatré ma sarà cinquantatré? Immediatamente il prezzo sale arriva a cinquantatré. Il contratto successivo di vendita reale non è più firmato, non è più concluso a trenta, trentatré euro a megawattora, ma cinquantatré e così via. Questo perché, appunto, il TTF è un listino privato che definisce i prezzi, che ammette al proprio interno non solo compratori e venditori reali, ma anche tutta una serie di oggetti finanziari che sono di proprietà di questi stessi fondi che alla fine, peraltro, sono gli stessi che sono in larga misura gli azionisti principali delle società di produzione e distribuzione dei gas del petrolio. Noi peraltro ci siamo invaghiti ormai del gas liquido naturale che per sua natura è il più soggetto alle ondate speculative, perché è un mercato dove la speculazione si può fare: nella Borsa dove si definisce; durante i transiti doganali; sul noleggio della nave. Una roba dove la definizione del il prezzo, lo sanno bene gli operatori, è praticamente impossibile Quindi noi non abbiamo più in questo momento una dimensione dell’economia reale. Abbiamo una dimensione dell’economia dove i prezzi sono finanziarizzati e quindi la valutazione è semplicemente quella di stabilire, in un clima di forti aspettative o comunque di probabili aspettative di tensione, significhi la possibilità di scommettere al rialzo. Si scommette al rialzo, la forza di questi soggetti è tale che è come se tutti scommettevano nella stessa direzione. Chi capisce il vento, ovviamente, va dietro a quel tipo di scommesse. I prezzi si sganciano dalla realtà e ogni tensione si traduce appunto per effetto di questa finanziarizzazione, in un’ondata inflazionistica che travolge il potere d’acquisto reale delle popolazioni. E chi scatena le tensioni è consapevole che dietro c’è l’effetto amplificatore estremo della finanziarizzazione.
Aggiungerei peraltro, un’ultima annotazione: non so se hai notato negli Stati Uniti hanno inasprito alcune sanzioni nei confronti della Russia proprio in questi giorni, guarda caso nel momento in cui i prezzi del petrolio hanno cominciato a risalire. Perché in effetti questo dato ha contribuito a un ulteriore aumento del prezzo del petrolio e del gas e qui è una sorta di braccio di ferro. Perché paradossalmente l’aumento del prezzo dei gas poi alla fine finisce per favorire anche la stessa Russia di Putin. Gli americani ne traggono beneficio perché certamente c’è un aumento del prezzo del petrolio. Alla fine chi ne subisce le conseguenze in maniera chiara sono gli importatori di questo tipo di produzione, di questo tipo di energia, quindi in larga parte buona parte del sistema del sistema produttivo europeo.”

La concorrenza sleale del finto alleato USA a partire dai costi dell’energia, è ormai un vecchio classico, come d’altronde è un vecchio classico la risposta che le banche centrali si sentono in dovere di dare ogni qualvolta si ripresenta una spinta inflazionistica. Anche se, come abbiamo visto, le cause sono meramente di carattere speculativo e quindi l’arma di distruzione di massa della corsa al rialzo dei tassi di interesse molto banalmente, non funziona. Ancora meno funziona nella fase successiva e cioè quando la speculazione rientra, i costi delle materie prime ritornano a livelli più o meno ragionevoli, ma non quelli dei prodotti delle aziende, che anzi continuano ad aumentare senza nessunissima ragione concreta, con l’unico risultato che fette sempre più grandi di ricchezza passano dalle tasche di chi lavora alle tasse di chi campa sul lavoro altrui. La corsa al rialzo dei tassi di interesse serve a qualcosa per contenere l’inflazione soltanto nella fase ancora successiva, e cioè quando i lavoratori finalmente si incazzano, e si organizzano per pretendere un adeguamento dei salari all’aumento del costo della vita. Che è un po’ la fase che stiamo attraversando adesso, anche se in Italia non si direbbe.

Ma negli USA ad esempio si.

Come sta succedendo ad esempio nell’industria automobilistica, dove i sindacati sono ormai da oltre un mese sul piede di guerra per pretendere aumenti salariali nell’ordine del 40%, e anche la riduzione dell’orario di lavoro. Ora si che i tassi di interesse alti servono: ai padroni. come arma contro le rivendicazioni di chi lavora.
Ed ecco perchè, nonostante l’intera economia del nord globale sia ormai più o meno ufficialmente in recessione, le banche centrali continuano in questa politica folle e con il medio oriente che torna a incendiarsi, ogni speranza di un cambiamento di rotta nel prossimo futuro, per quanto esile, va definitivamente a farsi benedire.

Alessandro Volpi: “È probabile che questo significhi che la Banca centrale europea non riveda le proprie strategie, quindi continui con una politica di tassi che è una politica di alti tassi alti, con le conseguenze che ne derivano in termini di collocamento del debito pubblico a partire dai Paesi più deboli. Questo che cosa farà? Favorirà chi ci ha già la liquidità. Chi ce l’ha la liquidità? I grandi fondi. È chiaro che si determina una soluzione per cui invece tutti quelli che hanno bisogno del credito bancario lo pagano l’ira di Dio e quindi sono fuori dal mercato. Quindi chi è che si compra le aziende in difficoltà che non hanno più credito bancario? I grandi fondi che la liquidità ce l’hanno. Quindi è evidente che il gioco funziona e c’è questa selezione, perché è ovvio che questi soggetti potranno comprare grandi fondi, pezzi di imprese, potranno comprare parti di società pubbliche messe in dismissione. Voglio vedere chi si comprerà questo famoso venti e i famosi venti miliardi delle privatizzazioni italiane, probabilmente venti non basteranno, ne faranno venticinque. Avranno bisogno di soldi e cosa venderanno? All’Italia e Monte dei Paschi? Ci credo poco proveranno, ma venderanno qualcosa che sia appetibile. Quindi titoli di Eni, titoli di Enel. Io penso che questo non sia soltanto una follia. È una follia che ha una sua profonda lucidità. La finanziarizzazione consente di fatto una inflazione stellare, non rende più possibile il finanziamento dei debito per far fronte all’aumento del costo della vita e quindi obbliga alla riduzione del perimetro degli interventi pubblici, obbliga prima alla privatizzazione dei settori e poi, appunto, la riduzione del perimetro e questo va a vantaggio di quelli che si possono appunto comprare Eni, Enel e via dicendo. Al tempo stesso va a vantaggio di quelli che diventeranno i destinatari dei risparmi degli italiani. Blackrock e Vanguard invece che fare ventiduemila miliardi di attivi faranno anche venticinque, trentamila miliardi, perché ci saranno anche risparmi degli italiani. Che ad oggi sono solo in parte e finiranno lì. Questo è il mondo nel quale siamo drammaticamente avviluppati, è l’affermazione della centralità assoluta dei grandi fondi che stanno occupando gli spazi non solo della finanza, ma anche dell’esistenza degli Stati in quanto tali.”

La cosa più divertente in queste ore, è proprio vedere come di fronte alle evidenti ripercussioni catastrofiche che l’escalation in Israele avrà necessariamente anche sulla nostra economia già tramortita, la nostra classe dirigente sia tra le più entusiaste sostenitrice della soluzione finale. Se è raccapricciante vedere come le oligarchie non abbiano nessuna remora a sostenere un genocidio pur di arraffare un po’ di quattrini in più, vedere qualcuno sostenere apartamente con entusiasmo un genocidio addirittura contro i suoi stessi interessi, non ha prezzo. Nell’attesa di portare avanti il loro piano complessivo per il dominio globale, infatti, almeno le oligarchie finanziarie a stelle e strisce e i loro fondi speculativi intanto sono già passati all’incasso. Grazie alla carneficina in corso a Gaza, nell’arco di poche ore Lockheed Martin ha guadagnato in borsa il 9,8%, General Dynamics il 9,9%, Northrop Grumman, poco meno del 14%. Indovinate chi sono i principali azionisti? la risposta la sapete già: sempre loro, blackrock, vanguard e state street, il simbolo per eccellenza della più grande concentrazione di potere e di ricchezza nelle mani di un manipolo di aristocratici del’intera storia dell’umanità.

Una bella boccata d’ossigeno.

In media infatti dall’inizio dell’anno le azioni dei tre colossi delle forniture militari avevano perso intorno al 20%. Era l’effetto delle magnifiche sorti e progressive della controffensiva ucraina, che mano a mano che si rivelava anche agli occhi dei liberali più ottusi per il grandissimo inevitabile fallimento che era, lasciava presagire che l’era d’oro delle supercommissioni per portare avanti la guerra per procura sarebbe presto tramontata. Nel frattempo, lontano dagli uffici delle oligarchie del fronte democratico, il mondo è alla fame, letteralmente.
Come ricorda Stephen Devereux dell’Institute of Development Studies su Project Syndicate infatti, “Dagli anni ’60 fino alla metà degli anni 2010, la fame è diminuita in tutto il mondo”. Il Contributo di gran lunga più importante è arrivato dalla Cina, che è talmente ferocemente turbocapitalista che ha emancipato dalla schiavitù della fame tutta la sua popolazione. Risolto il problema della fame in Cina, ricorda Devereux, “nonostante la produzione alimentare record, la tendenza è tornata a invertirsi, con circa 828 milioni di persone colpite dalla fame a livello globale nel 2021 – un aumento di 46 milioni rispetto al 2020 e di 150 milioni rispetto al 2019”.

E potrebbe essere soltanto l’inizio.

Alessandro Volpi: “I prezzi agricoli sono definiti fondamentalmente da due, tre borse a livello mondiale. Le più importanti sono la Borsa di Chicago, la Borsa di Parigi, la Borsa di Mumbai. La Borsa di Chicago, che è la più importante, in parte anche la Borsa di Parigi, sono totalmente finanziarizzate, cioè la proprietà della Borsa di Chicago è ancora una volta di State street, Vanguard e Black Rock. Quindi il luogo dove si definisce il prezzo dei prodotti agricoli, il contenitore dove si definisce è di proprietà di questi fondi. Questi fondi sono presenti, come nel caso del gas, nonostante c’entrano nulla con la produzione di beni agricoli, che peraltro sono beni assolutamente sensibili e le prime tre, quattro società di produzione di cereali e non solo, ma anche di altri beni in giro per il mondo, sono di proprietà di questi fondi. Le altre tre, quattro, le famose Big Three che regolano i prezzi. Quindi anche nel momento in cui si decide che per determinate aspettative futuribili ci può essere una carenza di determinati prodotti agricoli, abbiamo visto il caso dello zucchero, per esempio, che ha avuto un balzo del 45% in virtù di una carenza di produzione limitata al 4% complessivo. Quindi senza nessuna giustificazione, perché dietro quel contenitore sono partite le scommesse. Quindi noi dobbiamo avere ormai chiaro che il mondo nel quale viviamo non è più un mondo nel quale esiste un mercato che è in grado di fare un qualche tipo di valutazione sull’impatto geopolitico delle questioni. Cioè scoppia una tensione fra Hamas e Israele, c’è un conflitto fra Hamas e Israele? Bene, valutiamo il mercato. Dovrebbe servire indicativamente a valutare che tipo di effetti produca. Ecco, questo non esiste più.

È il libro nero del capitalismo globalizzato neoliberista, che ogni anno genera direttamente oltre dieci milioni di morti. Fortunatamente sono morti democratiche e per la libertà dei mercati, quindi non sono proprio morti vere, sono danni collaterali, in nome della democrazia e della libertà. Oltre alle decine di milioni di morti dirette, poi, c’è la schiavitù del debito che generano, e della quale ci occuperemo domattina nella seconda puntata di questa miniserie, con un lavoro a quattro mani scritto insieme all’amico Matteo Bortolon. Affinchè il libro nero del capitalismo finanziario globalizzato, che proviamo a scrivere giorno dopo giorno, raggiunga il maggior numero di persone, affidarsi ai media pagati da chi di tutto questo è la causa potrebbe essere piuttosto velleitario

Piuttosto, ci serve un media tutto nostro, che stia dalla parte del 99%.

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E chi non aderisce è Antonio Tajani.