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Trump non regalerà a Putin la vittoria in Ucraina – ft. Federico Petroni

La corsa alla Casa Bianca procede a colpi di tribunale, con la condanna di Hunter Biden che arriva a meno di due settimane di quella a Donald Trump. Le decisioni dei giudici quanto determineranno le decisioni degli elettori? E nel caso di una vittoria, Trump metterebbe davvero fine alla guerra in Ucraina? Cosa farà l’Ue? Ne abbiamo discusso con Federico Petroni, analista di Limes. Buona visione   

#USA #Trump #HunterBiden #Putin #Russia #Ucraina

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Gli USA in Ucraina abbattono l’ultimo tabù e ufficializzano l’invio di armi ai neonazisti

La love story tra liberal americani e post-neofascisti europei si arricchisce di un nuovo capitolo ogni giorno che passa: dopo aver osannato i reduci nazisti della divisione Galizia, aver approfittato delle celebrazioni del D-Day per rivedere l’intera storia della seconda guerra mondiale come lotta del mondo libero contro il totalitarismo asiatico, e aver sdoganato i partiti politici post-fascisti alla vigilia delle elezioni – in quanto migliori referenti possibili immaginabili per trascinare il vecchio continente nella guerra totale contro il resto del mondo – lunedì scorso l’amministrazione revisionista USA ha infranto anche l’ultimo tabù. Che il partito unico della guerra e degli affari di Washington armi indiscriminatamente tutti i peggiori fondamentalisti invasati del pianeta e li sostenga nelle loro azioni terroristiche non è certo una novità, ma, fino ad oggi, si è sempre cercato di farlo un po’ di nascosto e mantenendo un minimo le forme, certi anche della complicità dei media mainstream sempre pronti a negare l’evidenza per coprire i peggiori crimini dell’impero; lunedì, invece, il leader del mondo libero ha approfittato del panico post-elettorale per revocare formalmente il divieto (in vigore da anni) di fornire direttamente armi USA ai neonazisti del battaglione Azov: d’altronde, come sottolinea il Washington Post, il battaglione, “noto per la sua tenace ma alla fine fallita difesa dell’acciaieria Azovstal a Mariupol… è considerato una forza combattente particolarmente efficace”. Peccato però che, nonostante le rassicurazioni di David Parenzo e di Bruno Vespa, “un decennio fa gli è stato impedito di usare armi americane perché i funzionari statunitensi hanno stabilito che alcuni dei suoi fondatori abbracciavano opinioni razziste, xenofobe e ultra-nazionaliste, e i funzionari delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno accusato il gruppo di violazioni umanitarie”; questo, ovviamente, non ha impedito fino ad oggi di armarli come, in passato, remore più o meno simili non hanno mai impedito di gestire il traffico internazionale di stupefacenti per finanziare operazioni sotto copertura, sostenere gruppi terroristici di estrema destra per reprimere movimenti sociali e architettare colpi di Stato o assistere tagliagole jihadisti per attentare alla sovranità nazionale di qualche stato in Medio Oriente. Ciononostante, dover passare da sotterfugi vari, in un modo o in un altro, complica comunque la vita e – vista la situazione sul campo – di aggiungere complicazioni che servono solo a tenere un po’ a bada gli analfoliberali più petalosi evidentemente, non è più cosa; e se questo significa arrampicarsi sugli specchi pazienza, che tanto ai media conniventi che je frega? Loro i nazisti di Azov li hanno già assolti e sdoganati da mo’.
Rispetto ai mezzi di produzione di propaganda e fake news, le istituzioni USA comunque devono rispettare qualche piccola formalità in più, almeno in teoria: il divieto a fornire armi ai neonazisti del battaglione Azov, in particolare, derivava dall’applicazione della cosiddetta Legge Leahy che, appunto, vieta al governo USA di fornire assistenza militare e finanziaria a unità straniere “laddove esistano informazioni credibili che imputano a tale unità gravi violazioni dei diritti umani”; in particolare, la legge fa riferimento esplicito a crimini quali “torture, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e stupri”, tutti crimini che “vengono esaminati sulla base dei fatti specifici”. Ergo, se gli USA non fornivano assistenza al battaglione Azov da 10 anni, in base a questa legge è perché aveva esaminato nello specifico alcuni episodi di “torture, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e stupri” dei quali i nostri beneamati lettori di Kant si erano resi colpevoli.

Sviatoslav Palamar

Inizialmente, questo divieto ha escluso il battaglione Azov dai salotti buoni, almeno a favore di telecamera: lo ribadisce con forza il vice comandante del battaglione Sviatoslav Palamar proprio al Washington Post; Palamar, nonostante i suoi appena 41 anni, è un vero e proprio pezzo di memoria storica del neonazismo ucraino che ha contribuito in primissima persona a costruire e consolidare, sin dalle origini, partecipando attivamente a ogni sua evoluzione. Nel 2000, ancora minorenne, è andato infatti a ingrossare le fila della neonata organizzazione dei patrioti dell’Ucraina, l’ala militare del Partito Nazional Socialista Ucraino che, ovviamente, si chiamava così perché era una specie di club del libro per cultori di Kant e non – come pretenderebbero i propagandisti putinisti – perché vivevano nel culto di Adolf Hitler; partecipando con entusiasmo al golpe eterodiretto dagli USA, sperava di venire adeguatamente premiato e, invece, proprio mentre si preparava ad andare a fare un po’ di carne da macello di quegli impuri dei secessionisti russofoni, ecco la doccia fredda: “Palamar” riporta il Post “viene a sapere che la sua unità è stata bandita dal ricevere armi e addestramento dagli USA”. Ed ecco così che altre truppe delle guardie nazionali, spesso ideologicamente non molto diverse dalla sua, erano “invitate ad addestrarsi all’estero”; quei poveri ragazzi volenterosi (ma ingiustamente discriminati) di Azov, no. Ma siccome sono veri eroi, invece di abbattersi “si scaricavano i manuali della NATO online e imparavano da soli i vari protocolli dalle varie fonti aperte”; insomma: un po’ Hermann Goering, ma anche un po’ MacGyver. Il divieto USA è rimasto in piedi anche quando il battaglione Azov s’è ritrovato sostanzialmente da solo a resistere all’avanzata russa, come nella lunga battaglia dell’Azovstal che Palamar ha guidato direttamente dal fronte; anche in quel caso, le armi fornite copiosamente dagli USA hanno dovuto comunque almeno fare finta di fare un giro e passare da altre truppe, e anche se l’affermazione che Palamar fa al Post – addirittura di non aver mai ricevuto, durante l’assedio, sistemi d’arma USA – è piuttosto palesemente una cazzata, evidentemente questo trabagai qualche problemino l’ha provocato e ancora oggi gli ucraini sono convinti che, senza il divieto, gli aitanti neonazisti di Azov avrebbero probabilmente potuto resistere meglio e più a lungo.
Ma allora com’è che questo divieto cade proprio adesso? E, a quanto mi risulta, una volta che hai determinato “sulla base di fatti specifici” che quell’unità si è resa colpevole delle violazioni previste dalla Legge Leahy, non è che poi, di punto in bianco, decidi che chi ha dato ha dato e scordammoc o’ passat: la legge, infatti, prevede che il caso possa essere nuovamente rianalizzato, ma solo nel caso il Segretario di Stato determini – e riporti formalmente al Congresso – che il governo del paese in questione abbia compiuto passi concreti per assicurare che i membri dell’unità in questione, ritenuti responsabili di quegli atti, vengano consegnati alla giustizia; ma in Ucraina negli ultimi 2 anni non solo (per quanto è a mia conoscenza) non c’è mai stato neanche un singolo caso di un tagliagole azovita che è stato chiamato a rispondere dei suoi crimini, ma piuttosto ci sono stati vari episodi dove i tagliagole azoviti hanno minacciato (più o meno esplicitamente) Zelensky per non avergli garantito l’assistenza necessaria.
Il punto è che nonostante – per stessa ammissione degli USA – si tratti di un battaglione capeggiato da criminali neonazisti, la guerra si fa con quello che si ha, soprattutto quando le cose diventano complicate; e che le cose siano complicate, soprattutto dal punto di vista dell’arruolamento, sembra abbastanza conclamato. L’ultimo indizio sono queste foto pubblicate dall’agenzia di stampa turca Anadolu: mostrano alcune fasi dell’addestramento di un reparto di mobilitati ucraini nella zona di Kahrkiv e, come sottolineava un paio di giorni fa il nostro dall’Aglio sul suo account Facebook tra un eufemismo e l’altro, “oltre ad essere piuttosto anziane, le reclute non sembrano nemmeno particolarmente in salute, conseguenza probabilmente dell’eliminazione della categoria parzialmente abile che ha consentito di arruolare personale che prima non era preso in considerazione per il servizio attivo”. Per non dare adito a eccessivo wishful thinking, il nostro Bulgaro sottolinea come la mobilitazione “tutto sommato funziona”, ma – sottolinea con un altro eufemismo – “il materiale umano che si riesce a trovare non è più di prima scelta”.
Gli unici che sembrano riuscire ancora ad attirare quel pochissimo che rimane di gente veramente arruolabile sono, appunto, gli azoviti: in particolare, dall’assedio dell’Azovstal il battaglione è diventato il simbolo per eccellenza della resistenza del popolo ucraino “e Azov libero” sottolinea il Post “è diventato un grido di battaglia comune nelle proteste a Kiev”; grazie a questa aura, in pochi mesi il battaglione che, da circa un anno, è stato trasformato definitivamente in brigata all’interno della Guardia Nazionale, è stato in grado di reclutare 5000 nuovi soldati in perfetta forma fisica e psichica. Continuare a dover fare i peggio rigiri per armarli come si deve e quando serve è un lusso che evidentemente non ci si può più permettere, anche se significa riabilitare formalmente dei criminali neonazisti e pure violare, in modo piuttosto palese, la stessa legge statunitense. E voi che pensavate che il problema era che ormai avevano sdoganato addirittura la Le Pen… L’impero in guerra contro il resto del mondo è costretto a gettare la maschera della fiction liberaloide e ad affidarsi sempre più alle care vecchie camice nere, da Bruxelles all’Ucraina: forse, sarebbe il caso di darsi una svegliata. Per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che al partito unico della guerra e degli affari, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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La Russia reagisce alla minaccia dei missili NATO diventando l’arsenale dell’anti-imperialismo

Se gli occidentali stanno prendendo in considerazione l’idea di “consegnare armi agli ucraini da usare per attaccare direttamente il nostro territorio, perché mai non dovremmo avere anche noi il diritto di fornire sistemi d’arma dello stesso tipo in qualche area del pianeta che potrebbero essere usati per lanciare attacchi su qualche obiettivo sensibile dei paesi che fanno la stessa cosa con la Russia?” (Vladimir Putin): fino ad oggi l’impero ha sempre propagandato l’idea degli USA come arsenale della democrazia, anche quando sterminavano i bambini col napalm in Vietnam o firmavano coi cuoricini le bombe che il regime fasciosionista di Tel Aviv lanciava sui campi profughi; e se ora la Russia invece diventasse l’arsenale dell’anti-imperialismo?

Guido Crosetto

Nell’inevitabile escalation ucraina, gli ultimi 10 giorni sono stati i giorni dello sdoganamento definitivo dell’utilizzo delle armi fornite dagli alleati occidentali per colpire direttamente il territorio russo; come tutti i passi compiuti a intervalli più o meno regolari dall’inizio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina e che portano gradualmente, ma inesorabilmente, verso il conflitto diretto tra potenze nucleari, anche questa escalation ovviamente viene introdotta a piccole dosi, con tanto di finta dialettica interna tra le forze coinvolte giusto per far sembrare che i singoli paesi, in realtà, mantengono una qualche forma di autonomia. Ed ecco, così, che gli USA hanno dato il via libera all’utilizzo delle loro armi in territorio russo, ma solo per colpire obiettivi militari nella zona di Belgorod, da dove partono i raid contro Kharkiv e dintorni: Francia, Olanda, Gran Bretagna e Norvegia hanno detto agli ucraini che, sostanzialmente, possono fare un po’ cosa cazzo gli pare; il Belgio, invece, sembra non volerne sapere. E in Italia Crosetto, ancora venerdì scorso sul Corriere, continuava a sostenere che “chi parla di armi usate per colpire la Russia, sbaglia” e che “su questioni così serie c’è troppa superficialità”: in Italia, infatti, le informazioni sul tipo di armi che mandiamo e come vengono utilizzate, sin dai tempi di San MarioPio da Goldman Sachs sono secretate e Crosetto ci tiene a sottolineare che non sarà certo lui “a infrangere una legge dello Stato”; ciononostante, ribadisce che, come ha già detto “mille volte: le armi italiane non colpiranno il territorio russo”.
Ovviamente, come sottolineava anche il sempre lucidissimo Gianandrea Gaiani in un articolo pubblicato su AnalisiDifesa mercoledì scorso, sono tutti distinguo un po’ farlocchi: “Le diverse posizioni assunte dagli alleati” scrive infatti Gaiani “renderebbero ambigua la gestione delle armi contro obiettivi sul territorio russo. Per esempio, gli ucraini potrebbero impiegare missili Aster 30 forniti dalla Francia per abbattere un aereo nemico nello spazio aereo russo, ma non potrebbero farlo impiegando un esemplare dello stesso missile fornito dall’Italia”; idem con patate per l’impiego di missili da crociera Storm Shadow/SCALP, utilizzabili se arrivano da Francia o Gran Bretagna, vietati se arrivano dall’Italia. Un’ottima idea, effettivamente, potrebbe essere mandare direttamente sul campo a controllare un po’ di membri del nostro governo, così vedrai le ruzze gli passano. Teatrini come questi sono la prassi dall’inizio del conflitto, ma in queste ultime settimane di campagna elettorale per le europee la messinscena è stata particolarmente spregiudicata; d’altronde, di fronte alla crescente insofferenza della stragrande maggioranza dei cittadini europei di fronte a una guerra che piano piano – a parte i giornalai de La Repubblichina e del Giornanale – un po’ tutti hanno capito che è l’ennesima guerra di aggressione USA non solo contro la Russia, ma anche contro i popoli europei, qualche cazzata se la dovevano pur inventare; e che la situazione è così delicata da dover lasciare mano libera ai vari governi zerbini di giocare al meglio le poche carte che gli rimangono per dare un contentino ai rispettivi elettorati a Washington l’hanno capito benissimo e hanno dato mandato a Stoltenberg di chiarire che, per ora, ognuno po’ fa finta di fa un po’ come cazzo je pare: “Alcuni alleati hanno imposto restrizioni sulle armi che hanno consegnato” ha affermato “altri non lo hanno fatto. Non si tratta di decisioni della NATO”.
Chiusa la partita elettorale, il via libera all’uso dei missili di tutti gli alleati NATO anche in territorio russo è solo questione di tempo e non può essere altrimenti: la situazione sul campo di battaglia è quella che è e la sproporzione tra le due basi industriali, nonostante gli annunci roboanti sulla corsa al riarmo e la nuova stagione dell’economia di guerra, invece che diminuire non fa che aumentare, con l’Occidente nel suo insieme che, come conferma una recente ricerca della società di consulenza Bain & Company, nel 2024 riuscirà a produrre al massimo 1,3 milioni proiettili di artiglieria contro i 4,5 milioni della Russia (dove, tra l’altro, ogni pezzo costa circa mille euro, contro i 4 mila dei superproduttivi paesi a capitalismo avanzato) e siccome il blocco imperialista, molto semplicemente (checché ne dicano i pacifisti) non può permettere in nessun modo alla Russia di vincere la guerra, prima di rassegnarsi sarà ovviamente costretto a un’escalation dopo l’altra qualsiasi rischio implichi. Il primo – che ovviamente, legittimamente, è in cima alle nostre preoccupazioni – è quello nucleare e che, nelle ultime settimane, ha subìto un’accelerazione decisamente inquietante che abbiamo già analizzato in lungo e in largo: il riferimento ovviamente, in particolare, è all’attacco sferrato il 23 maggio scorso contro il sito radar di Armavir, a nord della Georgia e a circa 300 chilometri dall’estremità della Crimea; come sicuramente saprete già, in questa località, da quasi una ventina di anni, la Russia ha installato e reso operativo un radar Voronezh, che fa parte dell’infrastruttura complessiva russa di allarme contro gli attacchi missilistici. Si tratta di un asset strategico di primissimo piano che permette alla Russia di monitorare eventuali attacchi missilistici contro il suo territorio provenienti da un settore che copre tutto il Mediterraneo, il Medio Oriente e parte del Mare Arabico, dove sono in grado di operare gli Ship Submersible Ballistic Nuclear statunitensi (SSBN, per gli amici) e, cioè, i sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare armati con testate nucleari. Su chi abbia realmente dato il via libera all’attacco – e con quali finalità – ci sono opinioni molto diverse: è infatti possibile, come sottolineava il 28 maggio scorso Ruggero Stanglini sempre su AnalisiDifesa, “che i russi si servissero del radar di Armovir anche per scoprire il lancio da parte dell’Ucraina di missili balistici tattici o da crociera contro obiettivi in Crimea” a partire, in particolare, dall’antiaerea che, come abbiamo sottolineato svariate volte, rappresenta uno dei principali ostacoli all’impiego efficace degli F-16 sul fronte; il punto, però, è che al netto di tutte queste valutazioni, “In base alla dottrina pubblicata dal governo russo nel 2020 circa l’impiego di armi atomiche, questo rientra proprio tra i casi suscettibili di far scattare una rappresaglia nucleare, prevista a fronte di qualsiasi attacco avversario contro infrastrutture governative o militari della Federazione Russa, la cui distruzione comprometta la capacità di risposta delle forze nucleari come appunto, chiaramente, è il caso del radar di Armavir”.
Ma c’è anche un altro risvolto che probabilmente le élite dell’Occidente collettivo non hanno ancora valutato attentamente ed è il rischio che, procedendo ineluttabilmente di escalation in escalation, si costringa la Russia di Putin a trasformarsi definitivamente, appunto – come anticipavamo nell’apertura di questo video – nell’arsenale dell’antimperialismo. La domanda, a questo punto, è proprio quella che l’analista americano di nascita, ma russo di adozione, Andrew Korybko si pone espressamente sul suo profilo Substack e, cioè “Chi potrebbe armare concretamente la Russia come risposta asimmetrica all’Occidente che arma l’Ucraina?” e cioè chi è che, concretamente, potrebbe avere sia la possibilità, sia l’interesse (eventualmente) a colpire direttamente un pezzo del blocco imperialista? Secondo Korybko, “l’unica forza che ha la volontà politica di colpire i siti occidentali sensibili” sarebbe l’Asse della Resistenza: Korybko ricorda come “questi gruppi alleati dell’Iran hanno già attaccato le basi americane in Siria, Iraq e Giordania, le prime delle quali sono state costruite senza l’approvazione di Damasco mentre le altre contribuiscono a questa occupazione illegale”; da qui, l’idea che la Russia “potrebbe prendere seriamente in considerazione l’idea di affidarsi al suo partner strategico iraniano per armare questi gruppi al fine di forzare un umiliante ritiro americano almeno da alcune parti dell’Asia occidentale, in particolare dalla Siria, o coinvolgerlo in un grave conflitto regionale proprio prima le elezioni di novembre”.
Che l’amministrazione Biden non abbia nessuna intenzione di essere coinvolta in un’escalation regionale è stato abbondantemente dimostrato dalla gestione del massiccio attacco iraniano contro Israele che ha costretto gli amici dello sterminio dei bambini palestinesi a spendere una quantità spropositata di quattrini per respingere un attacco costato poche decine di milioni di dollari senza poi, sostanzialmente, ricorrere a nessuna ritorsione concreta, un episodio che ha radicalmente modificato il bilancio di potenza nella regione a favore dell’Iran e che lascia presupporre che armando l’Asse della Resistenza la Russia non avrebbe poi granché da temere; ciononostante, ci sono diverse complicazioni possibili che potrebbero spingere Putin a non inoltrarsi lungo questo cammino. La prima è che “c’è sempre la possibilità che un’escalation regionale rischi di trasformarsi in una spirale fuori controllo a causa del fatto che Netanyahu è una mina vagante”; la seconda è che armare l’Asse della Resistenza significherebbe, inevitabilmente, anche indispettire le petromonarchie del Golfo a partire da emirati e sauditi che, come dimostra anche il Forum economico di San Pietroburgo conclusosi sabato scorso, Mosca continua a considerare interlocutori economici di primissima importanza che è fondamentale continuare a coccolare per evitare che decidano di riallinearsi completamente con l’imperialismo occidentale. Ciononostante, insiste Korybko, “La risposta asimmetrica più probabile all’Occidente che lascia che l’Ucraina usi le sue armi per colpire obiettivi all’interno dei confini universalmente riconosciuti della Russia è che la Russia armi l’Asse della Resistenza con armi migliori attraverso l’Iran in modo che abbiano maggiori possibilità di distruggere le basi degli Stati Uniti nell’Asia occidentale. Detto questo” conclude Korybko “il presidente Putin non ha ancora deciso questa linea d’azione poiché è sempre riluttante a fare mosse importanti per paura di conseguenze indesiderate, ma sembra certamente che ci stia pensando”.
In realtà, però, il Medio Oriente e l’Asse della Resistenza potrebbero non essere esattamente quello che aveva in mente Putin quando, da San Pietroburgo, ha pronunciato quelle parole: Una flottiglia della Marina russa, titolava venerdì nella sua home page The War Zone, si sta dirigendo a Cuba per delle esercitazioni, mentre Putin minaccia di armare i nemici “regionali” degli alleati dell’Ucraina: “Una flottiglia russa” specifica l’articolo “incluso un moderno sottomarino a propulsione nucleare armato di missili da crociera, è diretta a Cuba per un dispiegamento di dimensioni rare” e anche se “funzionari cubani” sottolinea l’articolo “affermano che nessuna delle navi della Marina russa dirette verso i Caraibi trasporterà armi nucleari”, il pensiero non può che correre immediatamente all’ottobre del 1962, quando la scoperta di missili balistici sovietici r-12 e r-14 su suolo cubano scatenò quella che, probabilmente, è stata la più grave e pericolosa crisi dell’intera guerra fredda; da allora Cuba resiste eroicamente al più grave e devastante embargo di tutti i tempi e continua a rappresentare l’avamposto più avanzato della resistenza antimperialista a due bracciate dalle coste statunitensi. Da Washington, continua l’articolo, fanno sapere di non essere “preoccupati dagli schieramenti della Russia, che non rappresentano una minaccia diretta per gli Stati Uniti”, anche perché non è certo la prima volta che la Marina russa fa le sue incursioni nell’area, compreso il luglio scorso quando all’Avana attraccò la nave scuola Perekop per una visita di 4 giorni.
A questo giro, però, lo schieramento messo in campo sembra, sia qualitativamente che quantitativamente, tutta un’altra cosa: tra le imbarcazioni che compongono la flottiglia, infatti, ci sarebbero anche la Kazan e la Admiral Groshkov, entrambe “dotate di silos del sistema di lancio verticale che possono ospitare missili da crociera a lungo raggio Kalibr, che possono essere utilizzati per attacchi antinave e attacchi terrestri, nonché missili da crociera supersonici antinave Oniks”; “Inoltre” continua l’articolo “l’ Admiral Gorshkov è stata la prima nave da guerra della Marina russa a schierare operativamente i nuovi missili da crociera ipersonici Zircon, almeno secondo le dichiarazioni ufficiali russe”. Ma ad alzare l’asticella, in particolare, ci sarebbe proprio il sottomarino nucleare russo classe Yasen-M: “A differenza della generazione precedente” spiega The War Zone, i sottomarini di questa classe “sono molto più versatili delle semplici piattaforme missilistiche da crociera, in grado di operare come imbarcazioni d’attacco per uso generale, nonché raccoglitori di informazioni e potenzialmente come piattaforme per missioni speciali”. Che i sottomarini Yasen, in termini di silenziosità, siano quasi alla pari con i pezzi più pregiati della marina statunitense, lo ha affermato esplicitamente anche il generale dell’aeronautica statunitense Glen Van Herck, che avrebbe “aggiunto che questa crescente classe di sottomarini rappresenterà presto una minaccia persistente per la patria americana come mai prima d’ora”. E Cuba, come avamposto della lotta antimperialista nella regione, potrebbe non essere più isolata: “All’inizio di questa settimana” sottolinea infatti ancora l’articolo “un alto funzionario statunitense ha suggerito che l’attuale dispiegamento della Marina russa potrebbe includere anche uno scalo in Venezuela”; ma quello che ha fatto drizzare ancora di più le antenne sono le recenti parole di Gustavo Petro, il primo presidente della storia recente della Colombia a non essere espressione diretta delle oligarchie nazionali a totale servizio dell’imperialismo USA.
Al contrario delle favolette degli analfoliberali e dell’aperisinistra delle ZTL, il nazifascismo altro non è stato che la fazione più cruenta dell’imperialismo che sperava, attraverso il ricorso indiscriminato alla violenza, di recuperare il gap che la separava dagli imperialismi più consolidati e avanzati; oggi come oggi, quella fazione si incarna perfettamente nelle élite di tutto l’imperialismo unitario, senza grosse distinzioni tra chi tutto sommato se lo rivendica e chi, invece, prova a trasformare anche il 25 aprile e anche il D Day in feste del revisionismo storico e della rinnovata ferocia neocolonialista. Contro i nuovi fascismi più o meno mascherati, siamo tutti chiamati a dare il nostro contributo, dall’Asia all’America Latina, passando per casa nostra; e a casa nostra, il modo più immediato che abbiamo oggi per farlo è lanciare una sfida all’egemonia in declino propagandata dai pennivendoli al servizio della ferocia dell’impero. Per farlo davvero, però, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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A Singapore l’impero dichiara guerra alla Cina e riempie di missili Taiwan

Tutti i fronti della grande guerra ibrida dell’imperialismo contro la Cina ribelle sono in movimento: gli USA riempiono di armi Taiwan e supportano i deliri indipendentisti del suo nuovo presidente, mentre minacciano la Cina con le esercitazioni nelle Filippine; Xi Jinping risponde concentrandosi sulla sua battaglia per la sovranità tecnologica e striglia i funzionari del partito che non hanno ancora capito che lo sviluppo delle nuove forze produttive per il Dragone è questione di vita o di morte. Nel frattempo, il sogno USA di puntare sul Messico per portare avanti i suoi sogni di decoupling dal colosso manifatturiero cinese si infrangono sull’incredibile risultato elettorale della Sheinbaum e di tutta la nuova classe dirigente popolare e sovranista di MORENA e i risultati di Modi in India fanno emergere tutta la differenza tra propaganda e realtà quando si parla di disinvestire dalla Cina per puntare tutto sul subcontinente.

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Il piano USA per sciogliere gli eserciti nazionali e fondare l’esercito unico dell’imperialismo

Come l’America si può preparare per la guerra in Asia, Europa e nel Medio Oriente: dopo tanto tergiversare, finalmente ci siamo. Con questo titolo, ieri, Foreign Affairs – che, ricordiamo, è la testa ufficiale del think tank neocon bipartisan in assoluto più influente degli USA – finalmente chiarisce il perimetro della partita in gioco: le guerre e i conflitti a cui stiamo assistendo sono pezzi dell’unica grande guerra che l’imperialismo ha dichiarato al resto del mondo per impedire la transizione a un nuovo ordine multipolare che metterebbe fine agli Stati Uniti per come li conosciamo oggi; “Sotto i presidenti Barack Obama, Donald Trump e Joe Bidenscrive Thomas Mahnken della John Hopkins University, “la strategia di difesa degli Stati Uniti si è basata sull’idea ottimistica che gli Stati Uniti non avranno mai bisogno di combattere più di una guerra alla volta”. Mahnken ricorda con disprezzo la scelta dell’amministrazione Obama di ridurre, per la prima volta nella storia contemporanea degli USA, non solo la spesa militare in termini di percentuale del PIL, ma addirittura in termini assoluti: dai 730 miliardi annui del 2009 ai 640 scarsi del 2017, a fine mandato; questa riduzione, sottolinea Mahnken, equivaleva all’abbandono della politica di lungo periodo che prevedeva che gli USA dovessero essere pronti a combattere contemporaneamente due grandi guerre e questo, denuncia, “ha ristretto le opzioni a disposizione dei politici statunitensi, dato che impegnare gli Stati Uniti in una guerra in un luogo precluderebbe un’azione militare altrove”. Capito Obama, eh? Manco la libertà di combattere contro tutti ‘ndo cazzo je pare ha lasciato ai suoi successori: un vero despota. “Questo passaggio” si lamenta Mahnken “fu fuorviante già allora, ma è totalmente fuori luogo in particolare oggi” con gli USA che sono impegnati in una costosissima guerra per procura in Ucraina e nello sterminio dei bambini palestinesi proprio mentre si devono preparare alla Grande Guerra del Pacifico.

Thomas G. Mahnken

E non è che possono fare altrimenti: come ricorda Mahnken, infatti, questi 3 teatri “sono tutti vitali per gli interessi USA, e sono tutti intimamente interconnessi”. Mahnken sottolinea ancora come i tentativi passati di disimpegnarsi sia dall’Europa che dal Medio Oriente abbiano profondamente indebolito la sicurezza statunitense: “Il ritiro delle forze armate statunitensi in Medio Oriente, ad esempio, ha creato un vuoto che Teheran ha riempito con entusiasmo” e ogni volta che una potenza regionale alza la cresta e gli USA tentennano nel portare a termine la loro missione divina di raderla al suolo, mandano un messaggio di debolezza al resto del mondo che mette a rischio la tenuta complessiva dell’impero; e già questa, sostiene Mahnken, dovrebbe essere di per se una linea rossa, dal momento che il mito dell’invincibilità militare USA – fondato sull’incommensurabilità della sua spesa con qualsiasi altra potenza del pianeta e sulla sua proiezione globale dovuta alle quasi 1000 basi sparse in giro per tutto il mondo, ma anche su quella gigantesca macchina di propaganda bellica che è Hollywood – è essenziale alla sopravvivenza stessa del feroce regime superimperialista che impongono a tutti gli altri e che oggi, per la prima volta, si trova di fronte ad avversari di tutto rispetto “che collaborano l’uno con l’altro: L’Iran vende petrolio alla Cina, la Cina invia denaro alla Corea del Nord e la Corea del Nord invia armi alla Russia”. Che, tutto sommato, come esempi di collaborazione non sono nemmeno sto granché, ma poco conta: come i padroni delle ferriere dell’800 – o come in qualsiasi film distopico su società post-apocalittiche rigidamente divise tra schiavi e schiavizzatori (modello Snowpiercer) – quando il sistema che imponi con la violenza è così palesemente e ferocemente ingiusto, ogni forma di collaborazione può essere sufficiente ad innescare l’incendio e va stroncata sul nascere, come ogni buona esperienza di repressione antisindacale insegna. La preoccupazione di Mahnken, quindi, è che il mito dell’invincibilità USA, già messo duramente alla prova dalla debacle siriana in poi, oggi sembra essere del tutto inadeguato ad affrontare con la sicurezza necessaria questi nuovi nemici, in particolare se in qualche modo coordinati tra loro; per dare nuovo slancio al mito dell’invincibilità, quindi, è necessario fare un salto di qualità sostanziale e questo salto di qualità può avvenire se e solo se la macchina bellica dell’imperialismo, invece che essere solo quella USA, può basarsi sempre di più su una rete di solide alleanze. La fortuna di Washington, sottolinea infatti Mahnken, è quella di avere buoni amici, sia nell’est asiatico, sia in Europa, sia in Medio Oriente, perché definirli vassalli (come essenzialmente sono) suona male, “ma per avere successo” insiste Mahnken, questi fantomatici amici “devono imparare a lavorare meglio insieme”: “Washington e i suoi alleati” continua Mahnken “devono essere ciò che i pianificatori militari chiamano interoperabili, capaci di inviare rapidamente risorse attraverso un sistema consolidato a qualunque alleato ne abbia più bisogno. L’Occidente, in particolare, deve creare e condividere più munizioni, armi e basi militari. Gli Stati Uniti devono inoltre formulare migliori strategie militari per combattere a fianco dei propri partner”. Insomma: come ripetiamo fino all’esaurimento da mesi, per combattere la guerra totale contro il resto del mondo c’è bisogno di una NATO globale, un esercito unitario al servizio dell’agenda imperialista; e se questa, ormai, è un’idea condivisa da tutte le varie fazioni, la declinazione che ne dà Mahnken in questo articolo appare particolarmente interessante per la sua spregiudicatezza.
Il primo punto, inevitabilmente, riguarda la produzione bellica: Mahnken sottolinea come i conflitti in cui siamo immersi e – ancora di più – quelli che ci aspettano, sono munitions-intensive, richiedono molte munizioni; per permettere alle aziende di aumentare la produzione allora, propone Mahnken, “Il governo degli Stati Uniti dovrebbe fornire alle aziende della difesa il tipo di domanda costante necessaria” per garantire che gli investimenti avranno ritorni garantiti. In sostanza, quindi, il governo deve riuscire a convincere le oligarchie del comparto militare industriale che la guerra sarà sufficientemente lunga e devastante da garantire che per i loro prodotti ci sarà sempre domanda a sufficienza, ma non solo. Washington infatti, sostiene Mahnken, deve anche garantire che le munizioni potranno andare agilmente sempre laddove ce n’è più bisogno: oggi, infatti, i canali di approvvigionamento delle forze armate USA e degli alleati sono segregati, con le forniture interne controllate dal dipartimento di Stato e quelle altrui controllate dal dipartimento della Difesa (e con il primo che ha la precedenza sul secondo); i cosiddetti alleati quindi, denuncia Mahnken, “vengono generalmente messi in fondo alla coda, dove possono aspettare anni per ottenere armi che hanno già pagato e che potrebbero essere essenziali per scoraggiare attacchi imminenti”. Secondo Mahnken questa gerarchia va assolutamente superata: “Soddisfare le vendite di munizioni straniere prima di soddisfare le esigenze delle forze armate statunitensi” scrive “può sembrare dannoso per gli interessi americani […] ma consentire alle aziende della difesa di spedire a Taiwan o in Polonia prima di Fort Bragg quando necessario può migliorare la sicurezza degli Stati Uniti, soprattutto quando gli Stati Uniti non stanno combattendo guerre importanti”. E le munizioni sono solo la punta dell’iceberg: “Gli Stati Uniti” infatti, sottolinea Mahnken “hanno moltissime armi da vendere ai propri amici. Ma la riluttanza ad esportare tecnologie avanzate impedisce di fornire ai partner più stretti le migliori attrezzature disponibili. La politica statunitense” propone quindi Mahnken “dovrebbe garantire che i leader politici americani abbiano la possibilità di fornire tali sistemi avanzati agli alleati più stretti”.
Negli ultimi anni, in questo senso, gli USA effettivamente hanno già iniziato a rompere qualche tabù: ultimamente stanno completando un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di sistemi d’arma che, fino ad oggi, erano totalmente off limits, ma il caso più eclatante è quello degli accordi nell’ambito dell’AUKUS, che prevedono la condivisione nientepopodimeno che di tecnologia per i sottomarini nucleari con l’Australia. Ma non solo: grazie a questi accordi, Washington infatti ha dovuto prendere coscienza dei limiti della sua industria cantieristica, ha realizzato “che i produttori americani non sono abbastanza grandi o capaci per modernizzare la flotta sottomarina statunitense e al contempo costruire sottomarini per l’Australia” e questo ha spinto l’Australia “a investire 3 miliardi di dollari nell’espansione della base industriale sottomarina degli Stati Uniti”; questo tipo di condivisione totale, sostiene Mahnken, è l’unica strada che gli USA hanno per poter pensare di combattere contemporaneamente su tutti e tre i fronti della grande guerra globale contro il resto del mondo e ora si tratta di estendere a tutti gli alleati questa forma che più che di collaborazione, appunto, è di vera e propria integrazione totale a partire, come abbiamo sottolineato ennemila volte, dalla cantieristica giapponese e sud coreana, che sono l’unica chance che l’esercito unico dell’imperialismo ha di poter anche solo pensare di combattere ad armi pari con la Cina. “Israele” continua Mahnken “produce eccellenti sistemi di difesa aerea e missilistica, come l’Iron Dome, e la Norvegia mette in campo eccellenti missili antinave. Washington dovrebbe fare di più per incoraggiare questi alleati a condividere le proprie tecnologie di alto livello”; integrare queste capacità nazionali, ammette Mahnken, non sarà semplice: “L’industria della difesa” ricorda “è oggetto di politica interna, sia a Washington che nelle capitali alleate. Ecco perché, anche nelle aree in cui il Congresso ha cercato di promuovere la collaborazione, i funzionari della difesa si sono scontrati con ostacoli burocratici. Ci sono forti incentivi politici per mantenere intatte le barriere esistenti, a partire dalle preoccupazioni sui posti di lavoro nazionali, ma i funzionari statunitensi farebbero bene a resistere a tali pressioni ed eliminarle”.
Un discorso molto simile vale per le basi: gli Stati Uniti, ricorda Mahnken, “possiedono una rete globale senza precedenti di basi militari che gli ha permesso di proiettare il potere per oltre un secolo”; “Ma tutte queste basi”, sottolinea, “sono diventate sempre più vulnerabili, dal momento che gli avversari hanno acquisito la capacità di colpire con precisione su grandi distanze”. Per aumentare il livello di sicurezza dei propri asset militari, allora, USA e alleati devono aumentare a dismisura i posti a disposizione adeguatamente attrezzati dove dislocare liberamente truppe e mezzi: il Giappone ad esempio, sottolinea Mahnken, ha una quantità sterminata di location idonee per questo processo di dispersione, una quantità spropositata di “porti, aeroporti e strutture di supporto collegati alla rete stradale e ferroviaria giapponese”, ma secondo le regole attualmente in vigore, le forze armate giapponesi hanno accesso soltanto a una piccola frazione di queste location e gli USA, poverini, “ancora meno”. Questi vincoli, suggerisce Mahnken, devono essere rapidamente rimossi e altrettanto deve essere fatto urgentemente in Australia che, nella seconda guerra mondiale, si era dotata di una quantità sterminata di postazioni a disposizione della guerra USA contro il Giappone e che ora devono essere “rinnovate ed espanse” e, ovviamente, messe completamente a disposizione della NATO globale.
Insomma: l’idea è quella di avere una quantità di potenziali obiettivi superiore a quanti gli avversari possano realisticamente minacciare di attaccare con successo che, però, è una corsa piuttosto insensata, dal momento che se hai una base industriale sufficientemente sviluppata, è chiaramente più agile aggiungere un missile ipersonico al tuo arsenale che non costruire una nuova base; quindi in sostanza, com’è evidente, in un conflitto tra pari chi deve pensare a organizzarsi per disperdere la sua capacità offensiva rimarrà sempre un passo indietro rispetto a chi si limita a difendersi. Ed ecco allora che, oltre a moltiplicare le basi all’infinito, il punto è migliorare la capacità di difenderle; per farlo in modo efficace, le forze armate dell’imperialismo unitario “devono andare oltre l’approccio tradizionale alla difesa aerea e missilistica, che dipende dall’uso di un piccolo numero di intercettori costosi, verso uno che includa armi ad energia diretta (come laser o armi a impulsi elettromagnetici), un gran numero di intercettori a basso costo e sensori in grado di fornire le informazioni necessarie per sconfiggere attacchi grandi e complessi, come quello lanciato dall’Iran contro Israele in aprile” che, ricordiamo, è costato a chi s’è dovuto difendere circa 50 volte di più di quanto non sia costato a chi ha attaccato. “Australia, Giappone e Stati Uniti” ricorda Mahnken “hanno fatto progressi chiedendo lo sviluppo di un’architettura di difesa aerea e missilistica in rete per difendersi a vicenda”; ora, sottolinea Mahnken, si tratta di proseguire su questa strada anche perché, continua, a sua volta questo contribuirà all’interoperabilità complessiva, perché “addestrandosi e operando a stretto contatto tra loro in tempo di pace, le forze statunitensi e alleate svilupperanno abitudini di cooperazione che saranno loro utili in tempo di guerra”. Anche perché, insiste Mahnken, “interoperabilità significa molto di più che semplicemente condividere le risorse fisiche. Significa sviluppare concetti e strategie condivise. Washington deve avere conversazioni franche con i suoi alleati per contribuire a chiarire le ipotesi su obiettivi, strategia, ruoli e missioni e ottenere una migliore comprensione di come lavorare al meglio collettivamente. Gli Stati Uniti” conclude Mahnken “ovviamente non possono condividere tutto con i partner. Alcuni sistemi d’arma non dovrebbero mai essere condivisi. Ma la storia dimostra che gli americani ottengono risultati migliori quando combattono fianco a fianco con gli alleati. Mentre Washington si trova ad affrontare pericoli crescenti in tre regioni, deve imparare a cooperare e condividere meglio con i suoi numerosi amici”.
Insomma: Mahnken rappresenta al meglio la cultura dei figli dei fiori applicata al grande sterminio di massa che gli USA stanno preparando contro il resto del mondo per tenere in piedi il loro dominio planetario: vuole costruire una comune, solo che, invece che essere devota alla pace, deve essere devota alla distruzione totale; il messaggio sembra rivolto in particolare a chi, all’interno degli USA, continua a guardare con sospetto agli alleati temendo che i meccanismi di subordinazione finanziaria e tecnologica del superimperialismo, senza la minaccia della forza, da soli non bastino e che quindi condividere tecnologie, logistica e strategia potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio e potrebbe permettere un domani agli alleati di ritagliarsi spazi di autonomia strategica finora preclusi. E’ uno dei grandi dilemmi che, evidentemente, attraversa l’establishment dell’impero: per vincere la grande guerra, l’imperialismo ha bisogno di un grande esercito e di un complesso militare industriale unitario, ma per costruire un grande esercito unitario gli USA devono accettare di passare da alleanze che dominavano con la forza, a un’integrazione totale nell’ambito della quale, sostanzialmente, tutto viene condiviso con tutti; affinché questo non gli si ritorca contro, deve essere sicura che l’equilibrio di potere che attualmente è in vigore nei paesi vassalli – dove il potere politico è completamente ostaggio di borghesie compradore al servizio del centro imperiale contro i rispettivi interessi nazionali – sia eterno. E la storia recente sembra dargli ragione: in particolare, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2007 e, ancora di più, dallo scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina, le classi dirigenti europee si sono dimostrate i peggiori nemici possibili dei rispettivi Paesi. Rimane però da capire quanto questo sia stato determinato, a sua volta, proprio dal fatto che i paesi europei sono disarmati e succubi della potenza militare USA o quanto, invece, siamo di fronte a una condivisione profonda degli obiettivi strategici del centro imperiale e, anche in tal caso, quanto questa condivisione possa essere messa in discussione dall’evoluzione del quadro politico.
Insomma: la grande guerra impone agli USA di correre dei rischi che, fino ad oggi, aveva evitato accuratamente impedendo ai vassalli di riarmarsi e tenendosi stretta il controllo tecnologico. Prima che restringano definitivamente i pochi spazi democratici che permettono – almeno in linea di principio – di modificare il quadro politico, sarebbe il caso di battere un colpo, almeno per far venire il sospetto che potrebbero aver sbagliato i calcoli; per farlo, in assenza di un’organizzazione politica all’altezza, il terreno di battaglia per eccellenza è proprio quello della battaglia contro-egemonica e per combatterla abbiamo bisogno di un media. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Calenda

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Scott Ritter fermato e senza passaporto: l’inizio della fine della democrazia negli USA

Dopo un tentato putsch da parte dell’ala rivoluzionaria di Ottolina Tv, torna il Marru e ristabilisce l’ordine democristiano. Nel frattempo, però, negli USA gli estremisti hanno la meglio: peccato siano di estrema destra e che abbiano illegalmente impedito a Scott Ritter di raggiungere il forum economico di San Pietroburgo e gli abbiano sequestrato il passaporto. La menzogna delle democrazie liberali sta volgendo al termine: riusciremo a organizzare la riscossa? Buona visione

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I Marines USA sbarcano nelle Filippine per la grande guerra contro la Cina – ft. Josef Gregory Mahoney

Isola di Itbayat, il territorio più a nord delle Filippine, 156 chilometri a sud dall’estremità inferiore di Taiwan: un plotone armato di fucili automatici e mitragliatrici salta giù dai Black Hawk; subito dietro seguono elicotteri Boeing ch-47 dai quali saltano fuori altre dozzine di uomini con taniche di carburante, sacchi di pasti pronti, casse di forniture mediche, piccoli droni e apparecchiature per le comunicazioni satellitari. Sono membri delle forze armate filippine e, soprattutto, statunitensi: appartengono al terzo Marine Littoral Regiment, completamente ridisegnato appena due anni fa come parte di una riorganizzazione complessiva per permettere al corpo dei Marines di prepararsi al meglio per la nuova fase di scontro tra grandi potenze, dopo decenni passati a combattere nemici infinitamente più deboli in Iraq e Afghanistan. “Questa” sottolinea il Wall Street Journal “era un’esercitazione militare: le armi non avevano munizioni e i lanciamissili Javelin non avevano missili. Ma i Marines si stanno preparando per un conflitto nel mondo reale, mettendo a punto una strategia che considerano fondamentale per combattere la Cina dalla catene di isole più vicine”; in caso di conflitto reale, continua il Journal, “questi Marines avanzerebbero il più lontano e il più velocemente possibile con missili e radar. Si distribuirebbero in piccoli gruppi attraverso le isole e le coste e poi continuerebbero a muoversi in modo che i missili, i sensori e i droni cinesi non li trovino”. L’avversario, ha commentato al Journal il colonnello John Lehane, dovrebbe “spendere un sacco di risorse per capire dove siamo e cosa stiamo facendo”; l’obiettivo, sottolinea, è “complicare il suo processo decisionale”. “In pratica” sottolinea però il Journal “potrebbe non essere così facile”: operare in luoghi austeri e lontani, infatti, presenta diversi problemini; è vero che alcune isole sono attrezzate con piste di notevoli dimensioni, ma il grosso può contare al massimo su un piccolo eliporto. Le aree costiere remote poi, continua il Journal, spesso non sono collegate da strade adeguate per trasportare sistemi radar e batterie missilistiche e “I Marines avrebbero bisogno di piccole navi da manovrare, ma non le hanno”; in caso di conflitto aperto, inoltre, ogni luogo sarebbe vulnerabile: la Cina, infatti – sottolinea il Journal – “dispone di un formidabile arsenale di missili e droni di ogni forma e dimensione” oltre ad avere un vantaggio colossale. Qui si tratterebbe, infatti, di combattere nel suo cortile di casa, in prossimità della sua flotta navale, delle sue basi militari e di una rete di sorveglianza pervasiva e ultra-sofisticata”. L’obiettivo dei Marines però, spiega il Journal, sarebbe fondamentalmente “quello di impantanare la Cina nelle prime fasi di un conflitto, guadagnando tempo affinché altre forze statunitensi entrino in azione. Dalla linea del fronte, sarebbero in grado di fornire un’immagine ravvicinata dello spazio di battaglia utilizzando sensori e piccoli droni e avrebbero l’opportunità di lanciare missili per distruggere le navi cinesi o rispedire dati precisi sul posizionamento del nemico agli aerei da guerra o alle navi statunitensi e alleate”; “Il caso ideale”, avrebbe dichiarato al Journal Bernjamin Jensen del Center for Strategic and International Studies di Washington, “è che ci siano queste forze fluide che scorrono su e giù per la prima catena di isole e che costringono costantemente la Cina a dargli la caccia”, perché “Ogni sensore utilizzato dalla Cina per cercare un reggimento costiero del Corpo dei Marines è un sensore che non viene utilizzato su un altro obiettivo”. Negli ultimi due anni questo reggimento si è addestrato in giro per le isole Hawaii, in particolare concentrandosi sulle tattiche che permettono di comunicare rimanendo nascosti ai sensori cinesi come, ad esempio, attraverso la creazione di rumore nello spettro elettromagnetico.

Joseph Gregory Mahoney

Insomma: le condizioni sono complicate e richiedono una preparazione incredibilmente sofisticata, ma tutto sta procedendo per non lasciare niente al caso: i mezzi pesanti USA, a partire dalle portaerei, hanno accesso a 9 basi sparse per il paese che gli statunitensi stanno investendo massicciamente per ammodernare; queste nove basi, più tutte quelle nelle isole meridionali del Giappone, sono potenzialmente raggiungibili dai missili cinesi, ma è la quantità a fare la qualità. I sistemi d’arma che possono in modo efficace raggiungere queste postazioni direttamente dalla terraferma non sono infiniti e non sono gratis: se protette adeguatamente, colpirle non è banale; colpirle in poco tempo tutte, irrealistico. I piccoli battaglioni che occupano gli avamposti più vicini a Taiwan, allora, avrebbero il compito non semplice (ma non impossibile) di impedire alle forze navali cinesi di superare la prima catena di isole e, quindi, rendere il più complicato possibile colpire i mezzi USA parcheggiati a distanza di semi-sicurezza: “I Marines” sottolinea inoltre il Journal “mirerebbero anche a contrastare la strategia anti-accesso della Cina volta a bloccare l’area e a rendere troppo pericoloso per le forze statunitensi avvicinarsi a Taiwan”; “Teniamo il piede nella porta in modo che la porta non possa essere chiusa di colpo per il resto delle forze congiunte e questo ci mette potenzialmente in pericolo” avrebbe dichiarato al Journal il tenente colonnello James Arnold, che dirige il battaglione antiaereo del reggimento. “Ecco perché lavoriamo ogni giorno su tattiche che ci consentano di farlo in modo efficace e duraturo”.
Vista dal Pacifico, si capisce anche a che gioco stanno giocando in Ucraina: l’obiettivo, infatti, a noi pare sia sempre quello di continuare a tenere impegnata la Russia sul fronte occidentale e, visto che ad oggi la partita non è andata esattamente benissimo e le forze ucraine sono più che stremate, questo necessariamente implica prendersi anche qualche rischio di un escalation più violenta di quanto si vorrebbe. Ma non c’è niente di irrazionale o di scriteriato: è una necessità strategica del tutto razionale; è il prezzo di aver dichiarato la guerra totale al resto del mondo. E le evoluzioni potrebbero essere, al solito, più rapide del previsto perché se oggi il blocco imperialista ha bisogno ancora di tempo per preparare la guerra del Pacifico, ha anche bisogno di fare in fretta perché la sproporzione enorme – in termini di base industriale – a favore della Cina trasforma ogni minuto che passa in un un ulteriore vantaggio per la Cina. Finalmente, quale sia la partita in corso cominciano a capirlo anche alcuni politici di peso del vecchio continente; ieri Melenchon, probabilmente primo in assoluto tra i politici europei, ha fatto delle dichiarazioni che colgono il cuore della battaglia in corso: “Il centro del mondo” ha dichiarato “in quest’ora in cui si prepara la più terribile delle guerre, non è sul suolo europeo. E’ laggiù, tra le coste delle Americhe e le coste dell’Asia”. Gli USA, continua Melenchon, “vogliono la guerra perché lì si produce il 50% della ricchezza mondiale” e per lo scambio di questi beni “i dollari non saranno più utilizzati come prima”; in questo modo “l’impero viene colpito nel profondo, perché il suo nucleo è la valuta, che può stampare quanto vuole perché non è vincolato da nessuna delle regole che si applicano a tutte le altre nazioni” e “il giorno in cui le nazioni si metteranno d’accordo tra di loro per pagare nelle loro valute, è finita. L’impero crolla”.
Della partita che, a livello prettamente strategico e geopolitico, si sta consumando nel Pacifico, avevamo parlato un po’ di tempo fa con Josef Gregory Mahoney, professore di relazioni internazionali alla East China Normal University: quello che vi presentiamo oggi è un piccolo estratto doppiato in italiano di quella straordinaria intervista che potete vedere in integrale qui, sul nostro canale in lingua inglese.

Nel 1999 ci sono stati tre eventi in particolare che qualcuno a Pechino ha interpretato come un tentativo deliberato da parte degli Stati Uniti di provocare le fazioni più nazionaliste e dividere il partito: il primo è stato una fornitura massiccia di armi a Taiwan; il secondo fu il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado e il terzo fu quando Clinton respinse la richiesta cinese di aderire al WTO e nel farlo rivelò la posizione negoziale della Cina, dove sembrava che la Cina, pur di vedere approvata la sua adesione, fosse sostanzialmente disposta a tutto, e fu qualcosa che fece letteralmente imbestialire i più nazionalisti. Per quanto riguarda l’attacco all’ambasciata, dobbiamo ricordare che in quel momento a Belgrado c’erano sostanzialmente solo due edifici che erano totalmente off limits: l’ambasciata russa e l’ambasciata cinese e gli Stati Uniti ne colpirono uno con numerose bombe. L’ex premier Li Peng sosteneva che l’attacco fosse chiaramente deliberato e che bisognava reagire; il premier in carica Zhu Rongji invece sosteneva che non potevamo essere certi si trattasse di un attacco deliberato: quello che però era certo è che gli USA non ci rispettano abbastanza da prendere tutte le misure necessarie per evitare di colpirci. A quanto pare, il presidente Jiang Zemin allora si rivolse ai militari e chiese: c’è qualcosa che possiamo fare per rispondere? E la risposta fu: in realtà, no. Ed è proprio da lì che cominciamo ad assistere alle grandi riforme delle forze armate. Da qua iniziano investimenti imponenti: ora sappiamo che gli USA sono in conflitto con noi; dobbiamo accettare questa realtà e prepararci per gli eventi futuri.
Non venne rivista la linea di base che, appunto, vedeva nella pace e nello sviluppo la tendenza storica, ma divennero sempre più cauti e diffidenti; e questo è un punto importante, perché in Occidente c’è questa percezione che la Cina, nel tempo, è diventata più aggressiva e che la Cina ha spinto gli USA – per reazione – in una posizione aggressiva. Ma no, no e ancora no: non è quello che è successo; da lì in poi la Cina ha cominciato a sviluppare queste capacità belliche asimmetriche. Le due prime grosse novità furono, in particolare, i missili anti-portaerei e quelli che vengono definiti i radar fantasma; i missili anti-portaerei sappiamo tutti cosa sono: sono, appunto, missili che possono abbattere le gigantesche portaerei statunitensi. La marina USA continua a sostenere di poterli intercettare, ma non è vero; ne possono intercettare 1 o 2, ma non ne arriverebbero 1 o 2: ne arriverebbero a mucchi. Quindi questo è stato uno sviluppo significativo che ha fortemente ridotto la capacità degli USA di dispiegare flotte di portaerei in acque vicine.
La seconda, appunto, sono quelli che a volte vengono definiti i radar fantasma: quando gli USA ti attaccano, la prima cosa che cercano di fare, ovviamente, è accecarti; per farlo, hanno aerei che volando a quote molto alte sono capaci di eludere il controllo dei radar. Questi aerei trasportano missili anti-radar e hanno il compito di neutralizzare queste installazioni; quello che fanno questi radar fantasma è creare migliaia di quelle che chiamiamo firme radar e, praticamente, rendono molto difficile individuare le installazioni. Inoltre molto spesso questi radar sono mobili e questi aspetti insieme, in sostanza, impediscono agli USA di fare la prima mossa. Ora, una cosa importante è che gli USA sono sempre stati convinti che la Cina avesse una dottrina che escludeva il first strike nucleare; quindi, fintanto che sfidi la Cina sul terreno convenzionale, la Cina non passerà al nucleare. Quindi l’idea degli USA era che se possiamo dominare con la deterrenza convenzionale, domineremo la Cina: questo spiega perché negli anni ‘80 i cinesi erano ossessionati con la Siria. Perché? Perché in Siria c’era una grande base sovietica e gli USA si stavano impelagando in Libano; l’idea allora era: se cade l’Unione Sovietica – e ricordate sempre che Mao è sempre stato convinto che sarebbe crollata, sin dagli anni ‘50 – quando crollerà, insomma, cosa succederà? Cosa succederà in Afghanistan? La preoccupazione era che gli USA si sarebbero fatti strada in Asia Centrale attraverso la Siria ed è per questo che hanno sviluppato la seconda, la terza e anche la quarta linea difensiva in regioni come il Gansu o lo Xinjiang; il timore era quello di venire completamente circondati: da una parte gli USA avevano tutte le loro installazioni in Corea, in Giappone e in Thailandia e, dall’altra, sarebbero potuti avanzare in Asia Centrale. L’obiettivo di Washington, del quale ho sentito parlare direttamente, era sostanzialmente fare in modo che ogni singolo angolo della Cina fosse raggiungibile con armi convenzionali nell’arco al massimo di 15 minuti, chiaro? Ed ecco quindi perché la Cina ha iniziato ad essere assertiva e ha cominciato a investire nella costruzione di organizzazioni come la Shanghai Cooperation Organization, dove lavorano fianco a fianco con la Russia, perché la Russia gioca un ruolo di primo piano in tutta l’Asia Centrale. Tenete sempre presente che, a lungo, in Occidente c’è sempre stato questo paradigma strategico che era molto popolare nel Regno Unito, ma anche in Russia e anche negli USA e, cioè, che chiunque controlli l’Afghanistan controlla l’Asia Centrale e, quindi, controlla l’Asia; quindi la Cina da sola non può controllare l’Asia Centrale e nemmeno la Russia, ma se lavorano assieme attraverso un’organizzazione come la SCO, dove si crea una partnership tra tutti i paesi coinvolti, beh, allora è possibile creare un framework per la sicurezza e lo sviluppo in grado di prevenire queste penetrazioni esterne e metterci al sicuro. Questa è la logica: devi indebolire la capacità di attacco convenzionale. E la Cina c’è riuscita: non hai più le basi ostili in Asia Centrale e gli Stati Uniti sono andati via dall’Afghanistan e, con i missili, tieni lontane le portaerei nel Pacifico. Quindi tutte le minacce convenzionali sono state sensibilmente ridimensionate, ma c’è una minaccia che non è stata rimossa ed è quella nucleare.
Ma dove sono i missili per un eventuale first strike
nucleare USA? In Giappone? In realtà no: sono nell’Artico, sotto il ghiaccio; sono i sottomarini, i sottomarini che viaggiano sotto il ghiaccio dell’Artico. Questi sottomarini, ovviamente, possono presidiare anche i mari del Sud, ma lì corrono il rischio di essere avvistati dai satelliti, tracciando il calore che viene rilasciato; sotto il ghiaccio, invece, riescono a nascondersi. Ora, come fai a contrastare questa minaccia? Devi mandare dei cacciatori di sottomarini sotto il ghiaccio e provare a mappare dove sono parcheggiati i sottomarini avversari, quindi devi mandare i tuoi sottomarini in avanscoperta, ma c’è un piccolo problema: è che gli Stati Uniti hanno portato i loro sottomarini e controllano tutti i movimenti con i loro sonar. La Cina ha sostanzialmente due basi principali per i suoi sottomarini: una nel nord e una nel sud; i sottomarini cinesi sono discreti, ma sono un po’ più rumorosi di quanto spererebbero i cinesi, quindi, nel momento stesso che lasciano la base, i sonar USA li identificano e ne tracciano i movimenti. Ora, chi è invece che può tracciare i sottomarini statunitensi? La Russia. Quindi la Cina è costretta a collaborare a una partnership strategica con la Russia per mitigare quest’ultima minaccia rimasta in piedi; il motivo di tutte le tensioni intorno alle isole Diaoyu e nel Mar Cinese Meridionale hanno sostanzialmente a che fare con questo. Il problema è che devi avere la possibilità di portare i tuoi sottomarini nel mare aperto prima che vengano identificati dagli USA: le Diaoyu sono essenziali per avere questa via di fuga a nord e il mar cinese meridionale a sud, altrimenti perché i cinesi starebbero rovinando le loro buone relazioni con i Paesi del Sudest asiatico su questioni inerenti il Mar Cinese Meridionale? Per avere accesso a più fonti fossili? O al pesce? Ovviamente non ha senso: possono comprare il pesce dall’Indonesia; la Cina, però, non vuole ammettere chiaramente di avere dei problemi di sicurezza strategica, non vuole rendere pubbliche le sue vulnerabilità. Preferisce, piuttosto, che il modo si convinca che è diventata forte e assertiva, che è quello che l’Occidente sostiene. I cinesi insistono col dire che stanno affermando il loro diritto storico a questi territori, secondo la linea dei nove tratti, ma, in realtà, la storia non c’entra: quello che scatena queste tensioni è l’esigenza strategica di garantirsi sicurezza e sovranità, che ha a che fare con quello che gli USA hanno cominciato a fare dopo che la Cina stessa ha sviluppato la capacità di respingere l’accerchiamento convenzionale degli USA sia dalla terra che dal mare.

Come sosteniamo dal febbraio del 2022, quella a cui stiamo assistendo è la guerra totale dell’imperialismo contro il resto del mondo e nessun fronte si spegnerà finché la guerra totale non sarà conclusa; gli unici che possono spegnerla siamo noi, quelli che i costi della guerra li pagano sulla loro pelle. Per farlo, ci dobbiamo organizzare e, per organizzarci, abbiamo bisogno – prima di tutto – di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è tutto Stoltemberg

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Una nuova strategia per l’Italia – Passo dopo passo, come riprenderci la nostra sovranità

Bellissima intervista con l’analista Mimmo Porcaro, ex eurodeputato europeo e grande conoscitore delle dinamiche strategiche nazionali. Porcaro rifiuta l’idea paventata anche su Limes che l’Italia debba rinserrare ancora di più i rapporti con gli USA in funzione anti francese e anti tedesca per ritrovare una propria profondità strategica nel Mediterraneo. La proposta di Porcaro è opposta: una rivoluzione europea che porti ad un’alleanza forte tra gli Stati occidentali. Solo così il nostro paese potrà giocarsi le sue carte strategiche nel nuovo mondo multipolare e riottenere, passo dopo passo, la propria indipendenza e sovranità.

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Global Southurday – Tangentopoli a stelle e strisce – ft. Alberto Fazolo

Cosa succede nel mondo? Per dircelo torna il consueto appuntamento dei nostri Gabriele e Alberto per il sabato di Ottolina Tv in giro per il mondo. Sul fronte ucraino si segnala tanto l’invio di armi con autorizzazione di uso su suolo russo da parte USA, sia lo stallo dell’invio di fondi da parte dell’UE, fino ai tentativi di dialogo portati avanti da Cina e Brasile. Dalla Palestina, assistiamo alla rottura di qualsiasi dialogo sulla vicenda ostaggi, fino alle dichiarazioni del Likud di non permettere nessun accordo che preveda la fine dei combattimenti. In Estremo Oriente intanto, tra Taiwan e il confine delle due Coree, si scaldano i punti di attrito tra Occidente e paesi emergenti. Chiudiamo infine con la condanna di Donald Trump, vicenda quanto mai losca e dalle tinte politiche, in una distopica campagna presidenziale USA. Buona visione!

#Trump #USA #Ucraina #Russia #Palestina #Israele #Taiwan #Corea

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La condanna di Trump: trionfo dello stato di diritto o fine della democrazia liberale? – ft. Roberto Vivaldelli

La condanna di Trump cambia il futuro elettorale degli USA? Oggi è arrivata la condanna dell’ex Presidente e attuale candidato alla presidenza per i repubblicani nelle prossime elezioni. Anche negli USA la magistratura rivendica un ruolo politico e intanto ci dirigiamo verso una serie di dubbi: cosa succederà a Trump? Dovrà fare la campagna elettorale da casa? Mentre è praticamente sicuro che potrà continuare la sua campagna elettorale, si presume che qualsiasi pena verrà rinviata al dopo voto e eventuale mandato in caso di vittoria. Intanto si cerca di capire quanto e come una sentenza legata alla vita sessuale di Trump possa condizionare il voto religioso, in passato determinante. Su tutto questo aleggia anche la politica estera, il duro dibattito interno alla società USA e soprattutto la scelta del futuro vicepresidente di una nuova eventuale presidenza Trump. Ne parliamo con Roberto Vivaldelli. Buona visione!

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L’Occidente attacca la deterrenza nucleare russa: siamo al punto di non ritorno?

Quasi nessuno ha riportato la notizia, ma potrebbe essere un un punto di non ritorno che segna la definitiva entrata in guerra dei paesi NATO nel conflitto e la possibilità più concreta di una guerra nucleare: nei giorni scorsi, diverse fonti russe (confermate anche da analisti occidentali) hanno lanciato l’allarme di almeno due attacchi contro stazioni radar a lungo raggio della famiglia Voronezh, stazioni che fanno parte del sistema di preallarme russo anche per attacchi missilistici nucleari; si tratta di sistemi di early warning in grado di rilevare missili nucleari balistici in arrivo e rappresentano una delle componenti fondamentali del Sistema di sicurezza e deterrenza nucleare della Federazione Russa. Insomma: sembra volontà di escalation che oltrepassa una linea rossa che mai era stata oltrepassata nella storia, nemmeno nei momenti più drammatici e conflittuali della guerra fredda. Gli attacchi sono avvenuti mentre la Russia testava, assieme alla Bielorussia, la prontezza delle sue armi nucleari non strategiche; pertanto, come suggerisce anche Clara Statello in un articolo per L’Antidiplomatico – unico articolo che ha fatto una seria analisi su questi fatti – c’è da pensare che chi ha condotto o commissionato questi attacchi stia dicendo a Mosca di essere pronta ad una guerra atomica. Secondo la sua dottrina di deterrenza nucleare, la federazione sarebbe ora legittimata ad utilizzare bombe nucleari strategiche contro gli autori dell’attacco. Già. E chi sono gli autori dell’attacco?

Dmitry Rogozin

Andiamo con ordine: il 25 maggio, l’ex capo di Roscosmos ed ex ministro della Difesa Dmitry Rogozin ha accusato l’Ucraina di voler scatenare la terza guerra mondiale con l’attacco a due torri del sistema radar Voronez DM ad Armavir, nel territorio di Krasnodar, suggerendo il coinvolgimento degli Stati Uniti. Secondo fonti russe, riprese dal portale The War Zone, l’attacco sarebbe avvenuto il 23 maggio ed è confermato dalle immagini satellitari, perfettamente in linea con quelle da terra diffuse sui social e dalle agenzie locali: “Ci sono anche prove evidenti di colpi multipli sugli edifici radar. Vale la pena notare che i sistemi radar sono generalmente sistemi molto sensibili e fragili, e anche un danno relativamente limitato può provocare una mission kill, rendendoli inutilizzabili per un lungo periodo di tempo” si legge su The War Zone – e anche da un funzionario americano che si è detto preoccupato per le possibili conseguenze di questi attacchi. Il danneggiamento della stazione di Armavir acceca la capacità di Mosca di individuare le minacce ostili e viene così a mancare la sorveglianza strategica su un ventaglio di territorio a Sud-Ovest che include la Crimea e il Mar Nero; come quasi tutti gli analisti militari hanno segnalato, lo scenario più spaventoso è che un attacco di questo genere preannunci la prima fase di un attacco nucleare. L’attacco a Orenburg non è l’unica possibilità, naturalmente, ma quella dell’incidente o dell’errore di lancio è invece fuori discussione. Qualche giorno dopo infatti, il 26 maggio, a Orenburg un altro anello del sistema di preallarme rapido è stato attaccato da dei droni, la stazione radar Voronezh-M di Orsk, costruita nel 2017 nella regione di Orenburg, ad almeno 1.500 km dal confine con l’Ucraina: per colpirla, i droni avrebbero sorvolato o violato lo spazio aereo di parte del Kazakistan settentrionale. E, infine, il canale Telegram Military Informant ha pubblicato le immagini di un drone britannico-portoghese Tekever AR3 abbattuto vicino Armavir: anche questo suggerirebbe un nuovo attacco per disattivare il Voronezh-DM sferrato con mezzi di Paesi NATO.
Ma che cosa dice la dottrina di deterrenza russa in casi come questi? La dottrina contempla la possibilità di utilizzo di armi atomiche come risposta ad un attacco contro una componente di deterrenza strategica: una volta accecato il sistema radar in un’area, questa diviene vulnerabile ad attacchi nucleari incapacitanti, cioè attacchi che paralizzano la capacità di risposta nucleare del paese colpito. Anche nel documento emanato nel giugno del 2020 la Russia definisce in modo molto chiaro le condizioni sotto cui una risposta nucleare strategica può essere possibile; all’articolo 19 troviamo scritto: “Le condizioni che specificano la possibilità dell’uso di armi nucleari da parte della Federazione Russa sono le seguenti: a) arrivo di dati attendibili sul lancio di missili balistici contro il territorio della Federazione Russa e/o dei suoi alleati; b) utilizzo di armi nucleari o altri tipi di armi di distruzione di massa da parte di un avversario contro la Federazione Russa e/o i suoi alleati; c) attacco da parte dell’avversario contro siti governativi o militari critici della federazione russa, la cui interruzione comprometterebbe le azioni di risposta delle forze nucleari; d) aggressione contro la Federazione Russa con l’uso di armi convenzionali quando è in pericolo l’esistenza stessa dello Stato.” Il comma c) corrisponde precisamente a quanto appena avvenuto, cioè all’attacco al radar di Armavir: non sappiamo quali sarà la reazione decisa da Putin né, tantomeno, sappiamo – e forse sapremo mai – chi e precisamente con quali mezzi ha sferrato l’attacco. Le opzioni più probabili sono ovviamente queste 3: 1- è stato l’esercito ucraino senza che la NATO abbia collaborato e/o ne fosse a conoscenza; 2 – è stata un’operazione congiunta tra Ucraina e uno o più paesi NATO; 3 – è stata un’operazione fatta da uno o più paesi NATO senza collaborazione Ucraina. Di fronte a questi 3 scenari è prima di tutto importante sottolineare che l’unico impatto che il danneggiamento di quei radar potrebbe avere per la linea del fronte in Ucraina è nel caso di un attacco alla Crimea con missili a lunga gittata di paesi NATO, in quanto il danneggiamento dei radar limiterebbe la capacità di rilevamento del sistema difensivo russo nell’area meridionale della federazione. Gli analisti di The War Zone sono però scettici di fronte a questa possibilità: “Il Voronezh DM” si legge nell’articolo “appartiene ad una famiglia di radar ad altissima frequenza (UHF) over-the-horizon (OTH), che quindi potrebbe non vedere bene così obliquamente se gli obiettivi si trovano al di sotto dell’orizzonte”; si tratta, insomma, di radar progettati principalmente per rilevare il lancio di missili balistici da molto più lontano. Ciò suggerisce il coinvolgimento di attori terzi che potrebbero attaccare al di fuori dell’Ucraina e, potenzialmente, anche con l’atomica. Ieri un funzionario statunitense, in condizioni di anonimato, ha rilasciato dichiarazioni per escludere un coinvolgimento USA: “Gli Stati Uniti” ha detto “sono preoccupati per i recenti attacchi dell’Ucraina contro i siti russi di allarme precoce dei missili balistici”.
Gli Stati Uniti, insomma, incolpano gli ucraini e se ne tirano fuori; su quanto queste dichiarazioni siano credibili vi lasciamo fare le vostre considerazioni. Il nostro Francesco dall’Aglio ha impostato così la questione : “Dobbiamo chiederci: a chi interessa davvero accecare le capacità di early warning russo sul Mar Nero, all’Ucraina o alla NATO? A chi interessa davvero privare la Russia delle sua capacità antiaeree nella regione, all’Ucraina o alla NATO? Chi è che voleva infliggere una sconfitta strategica alla Russia e chi ha detto più volte, e molto esplicitamente, che mandare armi è un buon investimento perché riduce le capacità militari della Russia, l’Ucraina o la NATO? La risposta a questa domanda avrà conseguenze di una certa importanza per ciò che ci aspetta”. I sospetti possono, insomma, ricadere sia solo sul governo di Kiev o su qualche suo capo militare intenzionato a trascinare la NATO in guerra, oppure su uno o più membri NATO con la volontà di assecondare la logica dell’escalation, l’unica che potrebbe evitare l’altrimenti inevitabile sconfitta occidentale nel conflitto; quest’ultima sembra l’opzione più probabile. L’ex capo dell’Agenzia spaziale russa Roscosmos ha dichiarato che un attacco del genere può essere stato effettuato soltanto con i più avanzati sistemi di puntamento e missilistici della NATO; la vera domanda ora è: dalla prospettiva dei paesi NATO qual è il significato e il risultato concreto di un simile attacco?
La risposta potrebbe essere preoccupante: la dirigenza NATO sa, ovviamente, di aver superato una linea rossa esplicitamente definita come potenziale causa di una risposta nucleare; sa anche che, nonostante la pubblicistica sulla pazzia di Putin, il presidente russo è estremamente equilibrato e razionale e che non vuole affatto avviare un conflitto nucleare da cui tutti – Russia inclusa – uscirebbero gravemente danneggiati, se non estinti. Il calcolo NATO, come fa Andrea Zhok in un suo post recente, è perciò probabilmente esprimibile nei seguenti termini: “Noi superiamo una linea rossa e mostriamo di sapere che l’avversario non risponderà in forma nucleare; così facendo dimostriamo l’illusorietà delle sue minacce di deterrenza nucleare e ne miniamo la credibilità. Inoltre lo spingiamo a qualche fallo di reazione sull’Ucraina, che può screditarlo ulteriormente.” “Questo calcolo potrebbe essere corretto” scrive il professore di filosofia; “Tuttavia qui siamo di fronte ad un gioco sottile e pericolosissimo di aspettative reciproche.” L’altra ipotesi è quella che la NATO, ormai disperata, cerca di provocare un attacco nucleare – anche con bombe tattiche – da parte di Putin, per essere legittimata anche agli occhi dell’opinione pubblica ad entrare ufficialmente in guerra. Insomma: l’opzione del conflitto diretto tra paesi NATO e Russia appare sempre più vicina. La Francia ha detto in questi giorni che invierà i suoi addestratori in Ucraina e Stoltenberg, Macron – e ora anche Scholz – hanno dato il via libera in queste ore all’utilizzo delle armi occidentali contro il territorio russo; pure Biden, nei prossimi giorni, darà con ogni probabilità il via libera. La situazione è dunque seria, perché i paesi occidentali sembrano davvero disposti a tutto pur di non riconoscere la sconfitta; il premier ungherese Orban ha così commentato: “L’Europa è così coinvolta nella guerra che non ha nemmeno una stima dell’entità dei costi e dei mezzi necessari per raggiungere l’obiettivo militare che si è prefissata. Non ho mai visto niente di più irresponsabile in vita mia”.
Avanziamo su un piano inclinato che si fa sempre più ripido anche perché, contemporaneamente, anche con la Cina gli Stati Uniti sono determinati a fare di tutto fuorché a vedere messa in discussione la propria egemonia pacificamente. La notizia è di questi giorni ed è stata riportata da diversi giornali; gli Stati Uniti si trovano di fronte a una decisione cruciale, ossia decidere se schierare nel Pacifico missili da crociera con armamento nucleare sui sottomarini, una mossa che potrebbe ridisegnare la loro strategia di deterrenza in mezzo alle crescenti tensioni con Cina e Russia. Come riporta Asia Times “Gli Stati Uniti stanno prendendo in considerazione l’impiego di missili da crociera con armamento nucleare (SLCM-N) lanciatati da sottomarini nucleari modificati della classe Virginia (SSN).” Il problema, dalla prospettiva americana, è che Cina e Russia si sono concentrate sullo sviluppo di armi nucleari tattiche a bassa potenza, considerate al di sotto del livello delle armi nucleari strategiche e destinate a sostenere operazioni militari convenzionali “E quindi l’enfasi esclusiva americana sulla deterrenza a livello strategico potrebbe aver creato una disparità di deterrenza tra gli Stati Uniti e i suoi stretti rivali, poiché l’SLCM-N offre una capacità di attacco nucleare tattico per controbilanciare le armi nucleari tattiche di Cina e Russia.” Anche nel Pacifico, quindi, l’unica strategia scelta da Washington è quella dell’escalation e tutto questo, infine, ci costringe a fare una riflessione seria e poco rassicurante sugli sviluppi della che la terza guerra mondiale a pezzi avrà nei prossimi anni e il ruolo che le armi atomiche potrebbero avere in questo conflitto: fino ad ora, infatti, si è sempre detto e pensato che l’utilizzo del nucleare da parte di un esercito implicherebbe automaticamente una sorta di insensato suicidio con annessa estinzione della specie, ed era sicuramente un fatto positivo che, a livello culturale (e forse anche ai piani dirigenziali), l’atomica avesse intorno a sé questa aurea di tabù e di apocalisse e che, dopo la seconda guerra mondiale, solo la guerra con mezzi convenzionali fosse stata fino a questo momento contemplata. Le cose stanno rapidamente cambiando: le grandi potenze, infatti, hanno ormai variato il proprio arsenale atomico tra strategiche e tattiche con decine di varianti diverse ed usi diversi ed anche burocratizzato la possibilità dei loro usi spesso con definizioni e criteri ampiamente interpretabili; pur di non perdere la propria egemonia mondiale, USA e Gran Bretagna potrebbero ormai tranquillamente ricorrere a questi ordigni e soprattutto – forse ancora più probabile – provocare Cina e Russia affinché lo facciano per primi. Una guerra convenzionale è infatti molto più costosa e vorrebbe dire chiedere alle proprie popolazioni di andare in guerra per cause verso cui non non sono più giustamente disposti a sacrificarsi. Sta anche a noi fare la nostra parte perché tutto questo non accada.
E se anche tu vuoi dare il tuo contributo affinché questa lucida follia si fermi al più presto e affinché il mondo anglosassone accetti pacificamente e senza pazzie la nascita di un nuovo ordine multipolare in cui tutti i popoli e culture della terra abbiano pari rispetto e dignità, aiutaci a costruire un media libero e indipendente che dia voce a tutti coloro che possono contribuire a questo scopo. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Emanuel Macron

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La condanna di Trump che rade al suolo la democrazia USA e scatena la guerra civile

La notizia del giorno commentata eccezionalmente dal duo Marru – Gabriele Germani.

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