Skip to main content

Tag: ursula von der leyen

VIA DALLA SETA: L’Export italiano rinuncia al più grande mercato del Mondo per far contenti gli USA

Addio a Pechino”, titola La Stampa; Il Foglio: “Meloni smaschera il bluff della seta”; “Il patto stracciato con la Cina rafforza Meloni”. L’entusiasmo per la fine ufficiale dell’anomalia italiana, unico paese del G7 ad aver aderito al megaprogetto cinese dalla Belt and Road Initiative, è totalmente bipartisan con un’unica eccezione: “Conte grida all’autogol” titola Il Giornalema nemmeno i suoi alleati lo ascoltano”.
La fine della luna di miele tra l’amministrazione coloniale italiana e la più grande economia del pianeta è una morte annunciata dopo 4 anni di coma; nata dal colpo di mano dell’unico presidente del consiglio della seconda repubblica a non essere espressione diretta di Washington e delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce, la gigantesca opportunità di rappresentare il terminale mediterraneo delle rotte commerciali cinesi è stato affossata dai suprematisti ultra – atlantisti sin dall’inizio; una innata vocazione al suicidio. L’Italia, infatti, tra i grandi paesi europei è – in assoluto – quello che, fino ad allora, era riuscito meno di tutti a cogliere le occasioni che l’ascesa cinese presentava, subendone esclusivamente gli aspetti negativi: colpa della natura del suo tessuto produttivo fatto di piccolissime imprese a bassissimo valore aggiunto che, invece di integrarsi con la potenza industriale cinese, si sono limitate a delocalizzare il delocalizzabile senza mai riuscire ad attrarre investimenti significativi e, addirittura, senza mai riuscire a conquistare fette di mercato. Quando sono andato per la prima volta in Cina nel 2015 – proprio per provare a toccare con mano come ci stavamo muovendo – quello che mi sono trovato di fronte era da mani nei capelli: nei supermercati di prodotti importati di alta fascia, Spagna, Francia e Cile occupavano interi settori; i prodotti italiani erano relegati agli angoli, e spesso era solo italian sounding. Il padiglione italiano che, dopo l’Expo di Shanghai del 2010, era rimasto attivo come vetrina del made in Italy veniva smantellato proprio in quei giorni e, mano a mano che si procedeva verso l’alto della catena del valore, le cose andavano solo peggio. L’Italia era assente in tutto: automotive, meccanica, chimica, energia; l’adesione alla Via della Seta era un tentativo disperato per cominciare a colmare quel gap, una necessità talmente evidente che in realtà – anche se a siglare l’accordo, alla fine, è stato il governo Conte – le trattative erano in corso già da un paio di anni, e ad avviarle era stato uno dei politici italiani più sensibili ai dictat di Washington, l’ex maoista pentito Paolo Gentiloni – e addirittura con la benedizione di Mattarella. Purtroppo però, sottolinea Antonio 7 cervelli Tajani, l’accordo “non ha prodotto gli effetti sperati”, e graziarcazzo: le trattative su un ruolo dei cinesi nei nostri porti sono state sistematicamente boicottate dai Chicago boys infiltrati nelle nostre amministrazioni.

Mario Draghi

Poi è arrivato il covid, e poi è arrivata una pandemia ben peggiore: san Mario Pio da Goldman Sachs, noto come il migliore – nel senso di il migliore emissario ufficiale delle oligarchie finanziarie a stelle strisce. Tajani oggi si lamenta di quanto l’adesione alla Belt and Road non abbia fatto aumentare gli investimenti cinesi in Italia: maddai! San Mario Pio – liberista a giorni alterni -sin dal suo insediamento, per compiacere il padrone a Washington, ha bloccato sistematicamente ogni investimento cinese in Italia ricorrendo al Golden power; da quando è entrata in vigore la norma sul Golden power nel 2012, infatti, l’Italia l’ha utilizzata appena sette volte, sei delle quali contro la Cina, cinque delle quali con il governo Draghi. Insomma: com’è ovvio, il mancato rinnovo dell’accordo non ha niente a che vedere con i nostri interessi di stato sovrano – molto banalmente perché sovrani non siamo; è un messaggio politico e simbolico che Washington manda a Pechino, sulla nostra pelle: il Nord globale è cosa nostra e, se tocchi me, tocchi tutti.
Ma cosa si saranno inventati, a questo giro, i nostri media di regime per coprire questa ennesima sconigliata masochistica dell’Italia?
“Meglio tardi che mai” scrive Gian Micalessinofobia su Il Giornale, “ma soprattutto” sottolinea “meglio adesso”; infatti, spiega Micalessinofobia – che capisce qualchecosellina di come non beccarsi una pallottola mentre fai un reportage di guerra, ma in economia non è esattamente ferratissimo – ora “la nave dell’economia cinese sta rivelando tutte le sue falle”. Il riferimento, però, non è tanto alle boiate di Rampini sul PIL o a quelle della Pompili sul calo immaginario della produttività; Micalessinofobia, infatti, spiazza tutti e si inoltra in sentieri inesplorati: il riferimento è a “un comunicato pubblicato venerdì scorso che intima a banche, fondi pensione, assicurazioni e istituzioni finanziarie” – pensate un po’ – addirittura “di allinearsi ai principi del marxismo”. Hai capito il turbocapitalismo cinese? Micalessinofobia – porello – non lo può sapere, ma il “comunicato” a cui fa riferimento, in realtà, è probabilmente il documento che più di ogni altro testimonia quanto la Cina, in questa fase storica, sia perfettamente allineata con gli interessi del 99%: “Seguire fermamente il percorso dello sviluppo finanziario con caratteristiche cinesi” si intitola, ed è il documento che detta la linea delle riforme finanziarie che la Cina dovrà mettere in campo nei prossimi 5 anni; un vero e proprio vademecum per la lotta alla finanziarizzazione e alle oligarchie finanziarie, in difesa del lavoro e dell’economia reale. “Nel processo di sviluppo dei paesi occidentali” si legge nel documento “la rivoluzione finanziaria incentrata su banche commerciali, moderni mercati dei capitali, banche di investimento e capitale di rischio, ha promosso le tre rivoluzioni industriali dell’umanità, e fornito il sostegno finanziario che ha permesso la modernizzazione dei paesi occidentali, ma allo stesso tempo” continua “sotto l’ideologia capitalista, il capitale finanziario ha messo in luce la sua tendenza ai monopoli, la sua predatorietà e anche la sua fragilità, che non solo hanno causato un enorme divario tra ricchi e poveri, ma hanno anche innescato innumerevoli crisi economiche e finanziarie”. Tutta colpa della finanziarizzazione, e cioè dell’inversione del rapporto gerarchico tra economia reale ed economia finanziaria: non più l’economia finanziaria al servizio dell’economia reale come strumento per una più efficace allocazione delle risorse e per la riduzione dei rischi e la stabilizzazione dei cicli economici, ma – al contrario – come meccanismo per l’estrazione di risorse dall’economia reale per alimentare le bolle speculative. “La finanza separata dall’economia reale” prosegue il documento “è un albero senza le radici. Senza il sostegno di un’economia reale forte, la prosperità finanziaria sarà soltanto una bolla”.
L’innovazione finanziaria con caratteristiche cinesi, al contrario, deve servire interessi diametralmente opposti: deve favorire la circolazione dei capitali, ma solo per garantire un’allocazione più rapida ed efficace delle risorse laddove lo richiede lo sviluppo dell’economia reale e dei suoi protagonisti – il popolo cinese – e, invece di creare bolle sempre pronte ad esplodere in nome della massimizzazione dei profitti a breve termine, deve garantire la stabilità. L’innovazione finanziaria con caratteristiche cinesi, sottolinea il documento, “deve mantenere la stabilità come massima priorità”; “le politiche finanziarie” sottolineano “devono essere prudenti, e la gestione del rischio deve essere prudente”. Ma attenzione, perché “stabilità” sottolineano “non significa inerzia”: al contrario, “il progresso”, piuttosto, deve essere continuamente stimolato; anzi, addirittura deve essere aggressivo, “con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo, adeguare le infrastrutture, e colmare tutte le carenze”. Insomma: Micalessinofobia, a sostegno delle sue tesi, mi sa che ha portato le prove sbagliate; quel documento elegge di diritto la Cina e Xi Jinping a Nuovo Principe nella guerra contro le oligarchie finanziarie e la finanziarizzazione dell’economia. Al limite si può criticare quanto questa dichiarazione di principio trovi effettivo riscontro nella realtà; la nostra opinione la sapete ma, insomma, su quello è lecito e anche sano discutere – anche animatamente – ma il fatto che un documento magistrale su come dovrebbe essere riformata l’intera industria finanziaria, e quindi l’intera economia, venga citato per sostenere che abbiamo fatto bene a uscire dalla via della seta dovrebbe farci capire immediatamente cosa c’è realmente in gioco. Intendiamoci: non che Micalessinofobia o qualsiasi altro giornalista mainstream abbia la più pallida idea di quale sia il motivo del contendere, ma quelli che gli pagano gli stipendi sì, loro lo sanno benissimo.
La lotta della Cina contro la dittatura delle oligarchie finanziarie, comunque, non è l’unica prova astrusa che Micalessinofobia porta a sostegno della sua strampalata tesi; il reporter di guerra improvvisato economista de noantri, infatti, cita anche la persecuzione di benefattori come “il fondatore di Alì Baba”, come d’altronde di “tutti gli imprenditori illusi di potersi sottrarre al controllo del partito”. Insomma: chi tra di voi è un multimiliardario può tirare un sospiro di sollievo; tra le povere vittime del sistema illiberale cinese, continua Micalessinofobia, ci sarebbero anche degli enti benefici come Bank of America e, addirittura, Vanguard che – secondo Micalessin – sarebbe “una banca statunitense”. Certo. Vanguard è una banca e Stellantis una concessionaria: bene, ma non benissimo, diciamo.
Che di fronte alla persecuzione di tutti questi enti benefici l’uscita dell’Italia dalla Via della Seta non possa che essere salutata con giubilo – secondo Micalessin – è talmente evidente che non appena Conte, che definisce “l’ultimo samurai”, ha provato a obiettare qualcosa, anche i suoi alleati gli si sono scagliati contro; in particolare, Micalessin cita due statisti di indiscusso livello: la Emma Bonino dei poveri Lia Squartapalle e, addirittura, Ivan Scalfarotto che, però, è rimasto deluso dal fatto che l’uscita non sia stata annunciata con sufficiente trionfalismo. Nel frattempo, comunque, l’Occidente globale – va detto – è corso in aiuto dell’Italia: ieri Ursula von der Leyen e Charles Michel, infatti, erano attesi a Pechino; si svolgeva il XXIV vertice bilaterale tra Unione Europea e Cina che, però, sui media cinesi non è mai stato snobbato come quest’anno. E graziarcazzo: a Pechino, ormai – dopo due anni di guerra per procura contro la Russia che ci ha letteralmente devastati economicamente – che hanno a che fare con due amministratori coloniali l’hanno capito fin troppo bene e, se ancora avevano qualche dubbio, per fugarlo definitivamente gli è bastato dare un’occhiata ai temi in agenda; dopo aver sostenuto incondizionatamente per due mesi la guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, mentre la Cina provava in tutti i modi a raggiungere il cessate il fuoco, l’Unione Europea – infatti – voleva andare a Pechino a fare polemica sul mancato rispetto dei diritti umani della popolazione islamica dello Xinjiang. Capito come? Per la von der Leyen e per Michel questa

si chiama autodifesa dell’unica democrazia del Medio Oriente e questa, invece,

violazione dei diritti umani. Valli a capi’…
E ora una breve interruzione pubblicitaria: per Natale non fare l’analfoliberale! Visita il nostro sito OttolinaTV – La non TV che dà voce al 99% e regalati un Natale da vero ottoliner. E quando hai finito di fare shopping ricordati che, se al posto delle minchiate sinofobiche della propaganda vuoi sentire la voce del 99%, l’unico modo è dare vita a un vero e proprio media indipendente ma di parte. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Gian Micalessinofobia

Auto elettrica: come l’Europa vuole fregare i quattrini dei consumatori per regalarli agli oligarchi

I mercati globali sono stati inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi da enormi sussidi statali”. Quando il 13 settembre ho sentito la nostra Ursulona (von der Leyen, ndr) pronunciare queste parole, mi sono subito fiondato alla ricerca di una di queste fantomatiche macchine elettriche cinesi supereconomiche che  avrebbero drammaticamente “invaso i mercati globali”

Contrario allo sfruttamento del lavoro geriatrico, anche per la mia audi a4 del 2002 è decisamente arrivata l’ora del meritato pensionamento. Quale migliore occasione di una nuova auto che non solo è cinese, ma pure elettrica, e pure supereconomica? Ma quando mi sono trovato davanti al listino prezzi, tutto l’entusiasmo iniziale è stato, diciamo così, leggermente ridimensionato. Ovviamente, visto che l’avrei dovuta pagare con i quattrini di chi generosamente sostiene questo strambo canale, sono partito dal modello base: BYD Dolphin, si chiama.

L’auto elettrica più economica sul mercato, avevo sentito dire. Con in più la garanzia di un marchio che vede come primo azionista niente popo’ di meno che la Berkshire Hathaway del signor Warren Buffet. uno che di investimenti, così a occhio, al netto di tutto, ci capisce.

Peccato però che in realtà costi quanto un SUV: a partire da 30.790 euro, riporta “quattroruote”. Ci sono rimasto male…Quando è stata lanciata in Cina, ricordo, il singolo punto su cui si era concentrata tutta la campagna pubblicitaria, era che sarebbe stata la prima auto elettrica della BYD a stare sotto la soglia dei centomila yuan. più o meno, tredici mila euro. Nel frattempo è un po’ aumentata, effettivamente e il prezzo di partenza nei listini cinesi oggi è di 116 mila yuan. 15 mila euro.

E non è un caso isolato. la versione elettrica della MG ZS, secondo “quattroruote”, in Italia parte dalla modifica cifra di 34.500 euro. in Cina, secondo bloomberg, da 15.600 euro

Non è questione soltanto di marchi cinesi.

Come riporta sempre bloomberg infatti, l’auto elettrica più economica attualmente sul mercato in realtà sembrerebbe essere la versione elettrica della Dacia Spring, che in Italia partirebbe da 21.450 euro. Anche lei però, nonostante sia del gruppo Renault, viene prodotta nella provincia dell’Hubei, in Cina, dove è stata ribattezzata Nano Box, e il prezzo di partenza è inferiore, udite udite, agli ottomilacinquecento euro. Ma com’è mai possibile che lo stesso identico oggetto in Cina costi meno della metà che in Europa? E sopratutto, listini alla mano, Ursula sette cervelli von der Leyen, esattamente, questa fantomatica invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche, da dove se l’è tirata fuori? Anche lei come il suo bestie sleepy Joe ha degli amichetti immaginari che gli suggeriscono cose?

Da quando Henry Ford s’è inventato quel meraviglioso bussolone a pedali che era la model-t, l’industria automobilistica si è affermata come il singolo settore più importante dell’intera industria globale. Oggi l’industria automobilistica europea è sottoposta a un attacco concentrico devastante e la nostra impresentabile classe dirigente, non sa che pesci prendere. “Le nostre industrie più sviluppate adorano la competizione”, ha affermato la Von der Leyen durante la seduta del parlamento europeo del 13 settembre scorso, all’inizio di un intervento che rischia di passare alla storia come uno degli esempi più eclatanti di quanto ormai le elite europee vivano in un mondo immaginario tutto loro. “Loro sanno che la competizione fa bene agli affari”, ha continuato ursulona, “e che crea e protegge i posti di lavoro qui in europa”.

Non fa una piega.

Secondo ursulona, le nostre aziende la concorrenza non si limitano a subirla, attrezzandosi come possono per tentare di sopravvivergli, ma proprio la amano. Se te vai dagli azionisti di un’azienda qualsiasi e gli dici di prenotarsi alla caritas perchè a breve li distruggerai mettendo sul mercato un prodotto simile o migliore del loro, ma a metà del prezzo, loro proprio danno fondo a tutte le bottiglie di crystal rimaste in cantina, invitano le migliori escort della loro agenda e ti improvvisano una festa di buon auspicio come non ne hai mai viste.

È proprio per amore della concorrenza, infatti, che le nostre aziende investono più in lobbying che in ricerca e sviluppo. Ed è sempre per amore della concorrenza che nel tempo, con la complicità delle istituzioni, hanno creato un mercato così aperto e concorrenziale, che quando un paio di anni fa è cominciata ad arrivare la spinta inflazionistica, sostanzialmente in tutti i settori si sono formati cartelli più o meno organizzati che non solo hanno potuto serenamente scaricare all’unisono tutto quell’aumento dei costi sui consumatori, senza rimetterci un centesimo, ma ci hanno pure ricaricato sopra e pure parecchio, con il paradosso che mentre tutta l’economia andava a scatafascio e il potere d’acquisto di chi lavora precipitava, i loro profitti decuplicavano.

Più amore per la concorrenza di così…

Ogni tanto però, sottolinea la Von Der Leyen, arriva qualche bricconcello che che sul nostro amore incondizionato per la libera concorrenza ci specula un po’. Troppo spesso”, ha affermato la nostra ursulona, “le nostre aziende sono escluse dai mercati esteri o sono vittime di pratiche predatorie e spesso devono vedersela con concorrenti che beneficiano di ingenti sussidi statali”.

Finalmente! dopo due anni che gli USA non solo ci hanno costretti a infilarci in una guerra per procura in Ucraina contro la Russia che per noi è economicamente  suicida, ma hanno pure rincarato la dose rispolverando un protezionismo economico ultra-aggressivo che ci sta scippando da sotto il culo ogni investimento possibile immaginabile a suon di incentivi multimiliardari alle aziende, finalmente ci siamo decisi a rialzare la testa.

Brava Ursula, era l’ora!

Perchè ovviamente parlavi degli USA, no? Voglio dire, a sto giro l’hanno fatta davvero grossa. Per trent’anni in nome della libera concorrenza e dell’apertura dei mercati non hanno fatto altro che architettare colpi di stato, cambi di regime, devastanti crisi del debito e veri e propri stermini di massa e ora che si sono accorti che la libera concorrenza e l’apertura dei mercati alla lunga li condanna a un’inesorabile declino dal giorno alla notte si sono rimangiati tutto e sono tornati al caro vecchio protezionismo e agli aiuti di stato. Il tutto a nostro discapito. Prima o poi era inevitabile che qualcuno gliene cantasse quattro…macché.

Per mettere fine alla mia breve illusione, è bastato aspettare la frase successiva: non abbiamo dimenticato”, ha tuonato infatti ursulona, “come le pratiche commerciali sleali della Cina hanno influenzato il nostro settore fotovoltaico. Molte giovani imprese sono state espulse da concorrenti cinesi fortemente sovvenzionati”. Ma te guarda, ed io che credevo che si chiamasse, molto banalmente, politica industriale. La Cina infatti si è limitata a fare esattamente la stessa cosa che hanno sempre fatto tutte le potenze industriali quando hanno deciso che la crescita di un determinato settore fosse strategica per l’insieme dell’economia. Attraverso investimenti pubblici hanno creato le condizioni affinché il capitale privato si indirizzasse verso un determinato settore e attraverso altre regole ad hoc, hanno impedito che si sperdesse in settori ritenuti secondari se non addirittura controproducenti. In questo modo, il settore privilegiato ha raggiunto un livello tecnologico e una scala tale da abbattere in maniera drastica i costi e trovarsi così nelle condizioni di sbaragliare la concorrenza, almeno laddove la libertà della concorrenza veniva garantita. Non esiste nell’intera storia del capitalismo settore industriale di una certa consistenza che non si sia sviluppato così. Basti pensare appunto, all’industria automobilistica europea, le cui esigenze hanno dettato per decenni la politica industriale di tutti i principali Paesi del continente, che si sono prodigati in aiuti e sgravi di ogni genere, hanno fatto guerre coloniali e neocoloniali per assicurare l’accesso alle materie prime e con i soldi pubblici hanno costruito le infrastrutture necessarie affinché le auto che venivano prodotte servissero concretamente a qualcosa. L’idea che le aziende private si inventano un prodotto e si affermano sul mercato vincendo contro la concorrenza, senza il sostegno degli Stati, non è semplicemente distorta, è proprio pura fantasia.

Un mondo immaginario.

Tramite “giganteschi sussidi dello stato” ad esempio è nata e cresciuta la Silicon Valley, con i suoi colossi che poi hanno colonizzato digitalmente tutti quei Paesi che non avevano messo sul piatto una politica industriale altrettanto ambiziosa per il settore delle piattaforme tecnologiche. Ovviamente lo stesso è successo con la tecnologia per la produzione di energia da fonti rinnovabili, dove a imporsi invece sono stati appunto i cinesi. Con la differenza che l’abbattimento vertiginoso dei costi per produrre energia da fonti rinnovabili, cara Ursula, a quanto mi risulta, sei la prima a sostenere che sia cosa buona e giusta. Mentre su quanto sia davvero positivo il ruolo che svolge per la collettività l’oligopolio di google, facebook e microsoft, se non ricordo male, anche l’Unione Europea stessa ha sollevato qualche lieve perplessità. Ma se c’è un aspetto che caratterizza sempre le classi dirigenti di una civiltà in declino, è la coazione a ripetere sempre gli stessi errori. Ed ecco così che oggi il focus si sposta su un altro settore, chiacchieratissimo: i veicoli elettrici.

Un settore cruciale per l’economia pulita”, come lo definisce la stessa ursulona, “con un enorme potenziale in Europa”. Che però, teme la nostra ursulona, rischia di rimanere inespresso. Sarà mica per colpa delle case automobilistiche che non ci hanno investito il becco di un quattrino, dal momento che erano troppo occupate a intascarsi i dividendi e andarli a investire nelle bolle speculative negli USA?

No, macchè…sarà allora mica colpa degli Stati che a causa delle loro politiche neocoloniali stanno sul cazzo a tutto il resto del mondo e non sono riusciti a costruirsi una filiera stabile ed efficiente per reperire le materie prime in modo sicuro e sostenibile?

No, ma figurati…sarà allora forse mica perché i governi in preda al misticismo dell’austerità non hanno fatto i compiti a casa in termini di ricerca di base e di costruzione delle infrastrutture necessarie per rendere quel prodotto realmente utilizzabile, a partire banalmente dalle colonnine per la ricarica?

Ma no, ma cosa ti viene in mente mai…e allora vedrai il problema che ha in mente Ursula non può che essere quello che dicevamo all’inizio: il ritorno del protezionismo negli USA, e la politica aggressiva di incentivi che decreta la morte del libero mercato e spinge le nostre aziende a salutare con l’altra manina il vecchio continenti e andare a cercare fortuna in America.

Macchè, manco questo…e di chi sarà mai allora la colpa?

Ma dei cinesi ovviamente!

Secondo la Ursula infatti, il potenziale delle nostre aziende è messo a rischio dal fatto che “i mercati adesso sono inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi grazie a enormi sussidi statali”. È lo stesso identico ragionamento distorto fatto per il fotovoltaico, ma con un aggravante in più parecchio grossina, sinceramente. e imbarazzante. Nel caso dei pannelli fotovoltaici infatti, per lo meno, il dato di base è verissimo: quelli cinesi, a parità di caratteristiche, costavano parecchio ma parecchio meno e si sono divorati il resto del mercato.

Per le auto elettriche, invece, molto banalmente, come dice il nostro amico David Puente: No! le auto elettriche cinesi in Europa non costano meno dei concorrenti. Non è solo questione di contesto mancante, che è la formula che usa David Puente per segnalare a caso come inattendibili tutte le notizie che molto semplicemente non gli piacciono: è proprio una bufala; palese; evidente.

Come vi abbiamo raccontato all’inizio di questo pippone infatti, è assolutamente vero che le auto elettriche cinesi costano enormemente meno di quelle della concorrenza. Questo, come per i pannelli, è il frutto di una politica industriale di lungo periodo, che nel corso degli ultimi dieci anni ha permesso di creare in Cina un ecosistema produttivo che non ha neanche lontanamente pari nel resto del pianeta e anche di generosi incentivi Statali che continuano ad essere concessi sia a chi le macchine le produce, sia a chi le compra, a partire dall’esenzione almeno fino al 2025 dall’IVA. Ma questo appunto, riguarda la Cina e solo la Cina. In Europa, come d’altronde in tutto il resto del mondo, le auto elettriche cinesi costano in media circa il doppio che in patria, e quindi molto banalmente non c’è nessunissima “invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche”, che ammazzano il mercato a causa di intollerabili incentivi Statali. Ma d’altronde, siamo nell’era della post verità e queste semplici considerazioni basate sui numeri, evidentemente, lasciano il tempo che trovano.

Quello che conta è la narrazione.

Ed ecco così che ursulona continua imperterrita per la sua strada, e da assunti completamente inventati, trae inevitabilmente conclusioni decisamente pericolose: questo sta distorcendo il nostro mercato”, tuona, “e quindi oggi sono qua per annunciare che la commissione aprirà una indagine anti-sussidi sui veicoli elettrici cinesi”.

Grande ursula, questo si che è parlare chiaro! La sala del Parlamento Europeo è tutta uno scrosciare di applausi. Ormai funziona così: più grossa è la puttanata, più grossa è la hola.

L’indagine anti sussidi, dovrebbe fornire la legittimazione per introdurre dazi più sostanziosi rispetto alla tassa del 10% sulle auto importate che è già oggi in vigore. L’Unione Europea infatti ci tiene molto a continuare a recitare la parte di quella che rispetta le regole e si rifiuta di alzare i dazi senza giustificazione come ad esempio hanno fatto gli USA, dove ora sono addirittura al 27.5%. Quindi, prima di procedere, vuole far finta di avere una pezza d’appoggio. Peccato però che come sottolinea addirittura Politico, che certo non può essere accusato di avere simpatie filocinesi, “per avviare un’indagine antidumping deve prima verificare che l’oggetto della sua indagine sia effettivamente venduto in Europa a un prezzo inferiore a quello applicato nel paese di origine. E guardando i prezzi sarà piuttosto difficile sostenere questa tesi”. Ma allora, perché mettere in piedi tutta questa ennesima clamorosa buffonata? Sempre secondo Politico, sarebbe tutta farina del sacco dei francesi, che temono per la tenuta dei loro campioni nazionali. In tutta sincerità, ne hanno ben donde. Non so chi di voi ha mai avuto un auto francese: io ho avuto una scenic per qualche anno, ormai una ventina di anni fa. Da allora ho deciso che piuttosto che un auto francese, vado più volentieri a piedi. I tedeschi invece, sottolinea sempre Politico, ma anche Bloomberg, in realtà vedrebbero questa buffonata di cattivo occhio. Loro le auto le sanno fare davvero e non sono troppo preoccupati dalla concorrenza cinese. Mentre sono preoccupatissimi dall’idea che queste buffonate possano far incazzare i cinesi, e spingerli a reagire restringendo la libertà di manovra che i marchi tedeschi hanno sul loro mercato, che è quello che li tiene in piedi. A questo giro, sostiene bloomberg, i cinesi per reagire, molto onestamente, avrebbero motivi in abbondanza. Infatti, ancora non abbiamo risposto alla semplice domanda da cui era partito tutto questo pippone infinito: come minchia è possibile che le auto elettriche cinesi in Europa costino più del doppio che in patria?

Un bel po’ di ottoliner si sono scervellati per tutto il week end alla ricerca di una risposta più o meno plausibile, ma senza grossi risultati. Solo lo stupore di constatare come nessuno, e intendo proprio NESSUNO sui nostri media si sia posto questa domanda fino ad oggi. Sulla stampa internazionale, invece, qualche considerazione si trova.

Mettiamole in fila.

Ai prezzi cinesi, tanto per iniziare, ci vanno sicuramente aggiunti i costi di logistica, che possono arrivare a pesare anche per il 15%; poi c’è la tassa sulle importazioni, che persa per un altro 10%; poi c’è il fatto che nei listini cinesi, visto che fino al 2025 sulle auto elettriche è stata abbattuta, non c’è l’IVA, che pesa per un altro bel 22%; poi c’è il fatto che i marchi cinesi da noi non hanno una rete di distribuzione strutturata, e anche questo produce sovra costi notevoli.

Metti tutto assieme e un bel 50/60% del sovra costo eccolo spiegato. A questo però dobbiamo togliere qualcosa, perché di solito, ovviamente, quando vuoi affacciarti su un nuovo mercato, sopratutto se è un mercato ostile per motivi ideologici e culturali come lo è quello europeo nei confronti del made in china, dovresti essere disposto a sopportare un periodo di margini piuttosto risicati, e questo dovrebbe portare a diminuire un po’ la percentuale di sovra costo spiegabile. Invece qui il rincaro è del 100% o oltre. Da dove arrivi quel 50% abbondante in più, nessuno lo sa spiegare e tendenzialmente, manco c’hanno provato.

A parte Bloomberg, di sfuggita, quasi per sbaglio. Bloomberg infatti, con nonchalance, ribadisce quanto sia strambo che la von der Layen affermi che “il mondo è inondato di auto cinesi a basso costo quando, almeno finora, le case automobilistiche cinesi hanno generalmente evitato di vendere veicoli elettrici a prezzi molto bassi in Europa, forse”, conclude, proprio per timore “di questo tipo di ritorsioni”

T’è capi’?

Lo dice una delle più importanti testate delle oligarchie finanziarie occidentali eh, mica il global times. Quella gigantesca parte di costo aggiuntivo delle auto elettriche cinesi che non siamo riusciti in nessun modo a giustificare, non sarebbe altro che una politica deliberata delle case automobilistiche stesse, con ogni probabilità su indicazioni del Governo, per evitare di mettere troppa pressione sulla decotta industria automobilistica europea e giustificare così l’intervento a gamba tesa delle istituzioni che sono per il libero mercato solo quando fa guadagnare quattrini agli oligarchi che li tengono artificialmente al governo. Se qualcuno di voi ha intenzione di comprarsi una Dolphin, quando staccherà l’assegno, se lo ricordi: dei trentamila euri che sta sganciando, almeno sette sono dovuti alla compagna von der Layen e a chi le permette di avere il ruolo che ha.

Già questo grida vendetta, ma è solo l’inizio.

Il prezzo delle auto elettriche in Cina, infatti, ci dimostra in modo incontrovertibile che si possono produrre auto elettriche a prezzi addirittura inferiori all’endotermico. Come ricorda l’analista del mercato automobilistico indiano Vijay Govindaraju infatti, mentre “negli USA le auto elettriche costano in media il 27% in più di quelle a benzina, e in europa addirittura il 43, in Cina costano la bellezza del 33% in meno”. Chiudersi ai prodotti cinesi quindi ha una sola motivazione: permettere ai nostri colossi automobilistici di continuare a non investire una lira per raggiungere la scala e l’efficienza dell’industria cinese, mentre nel frattempo si costringono i consumatori a comprare le loro inefficienti e costosissime auto. L’ennesima rapina condotta dalle istituzioni per arricchire l’1% ai danni del 99% e che offre così anche una graditissima sponda al complottismo dei negazionisti climatici. Pur partendo da un assunto completamente sbagliato e cioè la negazione della matrice antropica di almeno una parte consistente del surriscaldamento globale, arrivano a conclusioni paradossalmente più lucide delle nostre tanto istruite élite politiche: per le oligarchie occidentali, la transazione ecologica non è altro che l’ennesima scusa per fregarci un’altra gigantesca montagna di quattrini. Con la complicità delle istituzioni e senza manco avvicinarci lontanamente agli obiettivi climatici. Come sempre, i fintoprogressisti immaginari, sono i migliori amici della peggio destra reazionaria: una vera e propria partnership di ferro, nei secoli dei secoli.

Per combatterla, abbiamo bisogno di un media che non si inventi storielle, ma che guardi il mondo dal punto di vista del 99%, aiutaci a costruirlo:

aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal ( https://shorturl.at/knrCU )

e chi non aderisce è Ursula von der Leyen