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Tag: unione europea

L’Italia è fallita? La resa dei conti finale dopo 30 anni di devastazione dell’economia italiana

Bentornato 2011

Vi ricordate? L’anno della crisi del debito sovrano. Trending topic su ogni genere di piattaforma e nei titoli di ogni media possibile immaginabile un solo termine: SPREAD.

l’Italia era sull’orlo del baratro al punto che la trojka ha architettato un vero e proprio colpo di stato, e noi gli abbiamo pure detto bravi.

A 12 anni di distanza, spiace dirlo, abbiamo la prova provata: non solo non è servito, ma non ha fatto che aggravare la situazione; ora siamo di nuovo di fronte allo stesso identico baratro, solo che a questo giro è ancora più profondo e le vie di fuga sono enormemente più ristrette, troppo per permettere a questo governo di cialtroni e svendipatria di riuscire a percorrerle, tant’è, che manco ci provano. Preferiscono rifugiarsi nella più cringe delle propagande: “governo-gufi 4 a 0” titolava martedì entusiasta il Giornale, elencando 4 goal totalmente immaginari.

Il primo il governo l’avrebbe segnato riuscendo a vendere ai risparmiatori italiani il Btp Valore, per la bellezza di – sottolineano enfaticamente – 4,6 miliardi. Evidentemente, hanno qualche problemino con i numeri e con le virgole: quei 4,6 miliardi al debito italiano, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie. Niente. Zero. Nemmeno un friccicorino. A breve di miliardi, infatti, ce ne serviranno pochi meno di 150, e per piazzarli ci dovremo letteralmente disssanguare.

Il secondo goal il governo l’avrebbe segnato grazie allo spread, che invece della cifra astronomica di 500 punti abbondanti raggiunta nel 2011, ora sarebbe sotto quota 200.

Che culo eh? Peccato che non significhi assolutamente niente.

Prof. Alessandro Volpi: “Ma io […] la smetterei di parlare di spread, perché lo spread è un indicatore che ha un senso nella misura in cui i titoli tedeschi, che sono i titoli di riferimento, paga rendimenti bassi. In questo momento la Germania sta pagando rendimenti che sono significativamente alti, vicini al 3%. Quindi è chiaro che se la Germania invece che pagare lo zero o poco più come accadeva nel 2011, paga il 3%, lo spread rimane a 200. […] Quello che conta non è il differenziale con la Germania, è quanto paghiamo ad oggi. […] Cioè noi stiamo pagando il decennale sopra il 5%. […] Alla fine tutta questa roba qui vuol dire che il conto interessi dello Stato italiano è passato dai 57 miliardi del 2020 a una stima che dice che nel 2025 saranno 132 miliardi ed è molto probabile che sia una stima per difetto.”

Non so se è chiaro: la propaganda filogovernativa stappa lo champagne, mentre nei prossimi 2 anni dobbiamo trovare 80 miliardi l’anno in più solo per pagare gli interessi sul debito.

80 miliardi sono 5,6 manovre finanziarie e 4 volte i 20 miliardi che il governo si appresta già quest’anno a recuperare privatizzando i gioielli di famiglia. Ogni anno,forever and ever. Non volevamo fare la fine della Grecia e ci hanno accontentati: sarà molto, ma molto peggio.

l’Italia è nel bel mezzo di una nuova gigantesca crisi del debito; non forse, chissà, magari, nel futuro. No, no, proprio adesso. Qui. Ora.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] C’è una regoletta del debito che è molto semplice, che consiste in questo, cioè: quando i rendimenti dei titoli a breve termine è vicino al rendimento dei titoli a lungo termine, vuol dire che quello che, un po’ pomposamente si chiama mercato e che io chiamerei il luogo delle speculazioni, è sostanzialmente convinto che per quel Paese ci sia delle serissime difficoltà nel corso dei prossimi mesi. Cosa sta succedendo in Italia in questo momento? […] i buoni del Tesoro emessi a sei mesi pagano il 4%, i Btp pagano il cinque, quindi vuol dire che chi presta i soldi allo Stato italiano e sa che lo Stato ieri restituirà fra sei mesi, chiede il quattro e passa per cento. Chi glielo presta per dieci anni, il cinque. Ora questo è un differenziale assolutamente anomalo, perché se io presto i soldi a dieci anni è chiaro che chiedo maggiori garanzie perché vincolo quel titolo per dieci anni. Quindi normalmente il differenziale fra il breve e il lungo termine è molto ampio. Ora questo fenomeno si sta riducendo. Nel 2011, nel famigerato novembre 2011, i tassi a breve superarono i tassi a lungo termine. Questo vuol dire che in quel momento c’era chi scommetteva su una crisi dello Stato italiano e chi era che scommetteva che lo Stato italiano? Tutti quelli che possedevano le scommesse sul debito, i famosi credit default swap che sono ripartiti nonostante la normativa europea, dice che non è possibile che si rimettano scommesse titoli derivati su titoli di Stato senza possederli… Ecco, nonostante tutto questo, […] è ripartita anche la scommessa contro il debito italiano. […] È nell’aria una grande e sempre più marcata aggressione nei confronti del debito italiano. In primis, io direi dai grandi fondi che intervengono in questo tipo di mercato.

Chi si sveglia oggi, o è completamente suonato, o è in malafede.

Il punto, come abbiamo ripetuto ormai milioni di volte, è che le cause che hanno portato alla crisi finanziaria globale del 2008, e poi a quella dei debiti sovrani del 2011, non solo non sono state minimamente risolte, ma sono state enormemente aggravate.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Noi abbiamo affrontato anche la crisi del 2011, come se fosse una deroga alla normalità. […] La stessa Whatever it takes (pronunciata da Mario Draghi, ndr) aveva la implicita affermazione secondo cui era una situazione di emergenza. Si affrontava una situazione di emergenza con una deroga, si produceva l’acquisto del debito perché quella era una situazione particolarmente critica, eccetera eccetera eccetera. […] Poi c’è stato il covid che ha prorogato la deroga e ora siamo arrivati alla fine della deroga. […] Ora le cose più o meno sono tornate come erano, ritorniamo alle vecchie regole: è lì errore cioè fino a che noi non capiamo che non è una questione di deroga.”

Durante questa deroga, molto banalmente, la Banca Centrale Europea è tornata a fare quello che le banche centrali hanno sempre fatto fino a quando l’obiettivo del capitalismo era la crescita economica, e non la sua distruzione sistematica: il prestatore di ultima istanza, che in soldoni significa che a comprare il debito, e a stabilire quanto si deve pagare di interessi, non sono i mercati, che non esistono, ma lei.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Nella storia il prestatore di ultima istanza esiste dalla nascita della Banca d’Inghilterra alla fine del Seicento, e fattelo dire da uno che queste cose ci ha perso tempo a studiare. È sempre esistito un prestatore di ultima istanza. […] Lo faceva la Banca di Francia al tempo di Napoleone; lo ha fatto la Banca di Francia al tempo del Secondo Impero di Napoleone terzo e Zola lo ha scritto con grande chiarezza; l’ha fatto storicamente la Banca d’Inghilterra; l’ha fatto storicamente la Federal Reserve, che è nata dopo le altre banche. […] Lo ha fatto la Banca d’Italia quando era una società per azioni privata nel 1893; L’ha fatto durante il fascismo con la legge 36, lo ha fatto nel dopoguerra. Ma perché ci dobbiamo inventare una roba che non è mai esistita? Perché noi consideriamo la normalità quello che nella storia non è mai esistito e andiamo in deroga perché riteniamo che la normalità sia quella roba lì per cui la banca centrale non ha senso di essere.”

Oggi infatti la deroga è finita e il debito bisogna tornare a piazzarlo sul mercato, che in concreto, in realtà, significa semplicemente che dobbiamo convincere a comprarlo i fondi speculativi, e per convincerli gli dobbiamo riconoscere interessi che, molto banalmente, non sono sostenibili; oggi più che mai perchè il problema del whatever it takes di Draghi non è soltanto che era solo una deroga, e poi il conto si sarebbe comunque ripresentato, ma – forse ancora più grave – è che durante quella deroga si è fatto di tutto per aggravare il problema. Invece che andare in investimenti nell’economia reale, e quindi permettere all’economia nel suo insieme di tornare a creare ricchezza, quella montagna di quattrini sono andati a gonfiare le bolle speculative, e il debito prima non si è ridotto per qualche anno manco di un centesimo, e poi, col covid, è letteralmente esploso.

Prof. Alessandro Volpi: “Qui il problema del debito è diventato essenziale. D’altra parte noi siamo stati in piedi, come Paese nel corso degli ultimi anni, almeno dal 2020, e abbiamo fatto una spesa pubblica complessivamente intorno ai 100-112 miliardi di euro. Più della metà, quasi il 70%, l’abbiamo finanziata emettendo debito, che però era debito, pagando lo 0,5%, addirittura con la Bce che comprava o prestava i soldi alla Banca d’Italia, che comprava i titoli di Stato italiano e su quei titoli riceveva un interesse che girava al Tesoro italiano. Ecco, questa partita è finita. Questa partita è completamente esaurita. […] Cioè qui non non esiste modo per finanziare perché ormai la spesa pubblica è strutturalmente finanziata a debito. […] Quando gli interessi non costavano cinquanta miliardi, tu potevi fare la spesa pubblica. Se la spesa da cinquanta arriva a centocinquanta, cosa che non è impossibile perché non c’è più una banca centrale che compra i titoli e fa anche un’azione di calmiere. […] Perché è chiaro che se io so che una parte di titoli se li compra la Bce alla fine è solo che il tasso lo fa la Bce. Il whatever it takes di Draghi, in quel momento era servito anche a frenare i meccanismi speculativi, perché le scommesse sul debito ci sono. E se si sa che a un certo punto la Bce inonda il mercato di liquidità alla fine, qualche speculatore rischia di rimanere scottato. Tutta questa roba qui non c’è più. Gli speculatori giocano a senso unico, la Bce, questa fenomenale Madame Lagarde ha detto e continua a dire “noi finché non arriva il 2% terremo i tassi alti”. Non compriamo più niente. Ma come la sostituiamo questa roba qui? Che io voglio capire come la sostituiamo. […] Perché la Bce ha detto chiaramente noi non compriamo più niente fino a che l’inflazione arriva al 2%, che è una roba veramente lunare, lunare.”

Ad aggravare la situazione, 10 anni dopo la crisi del debito sovrano del 2011, è che ormai nella corsia del pronto soccorso delle economie in stato comatoso non ci sono più soltanto i paesi più deboli della periferia europea, ma letteralmente tutto il nord globale, alla disperata ricerca di capitali per tenere in piedi un debito pubblico che nel frattempo è letteralmente esploso, scatenando una guerra al rialzo dei tassi della quale non si vede la fine.

Come abbiamo già detto, i titoli tedeschi, che nel 2011 fruttavano lo 0,2% di interessi, ora si avvicinano alla soglia del 3; ma la situazione è ancora più estrema oltreoceano, a Washington, dove il rendimento dei titoli di stato si sta avvicinando al 5%.

Non so se è chiaro: i titoli in assoluto più liquidi e sicuri sul mercato globale, pagano oggi il 5% di interessi.

Prof. Alessandro Volpi: “E questo vuol dire che in giro per il mondo c’è un competitor fortissimo che sono gli Stati Uniti. I quali appunto emettono debito a tassi di interesse così alti che sono il target con cui fare riferimento. In questo ricorda molto la politica di Paul Volcker e del primo Reagan, cioè quando Reagan arriva porta i tassi della Federal Reserve, attraverso Paul Volcker, da cinque, sei per cento al 14%. E il nostro debito si è scassato lì […]. Non è che il debito pubblico italiano è cresciuto perché abbiamo fatto la riforma delle pensioni, perché abbiamo fatto una riforma sanitaria… è cresciuto perché a un certo punto abbiamo dovuto pagare interessi altissimi per fare concorrenza al debito degli Stati Uniti e non ce l’abbiamo più fatta. […] Ma ancora nel ’90 il debito italiano era il 70% del Pil. È esploso per effetto non delle politiche Craxiane e tutta sta roba, ma perché per ogni titolo di Stato emesso si pagava il 14%. Cioè 1994 c’erano i buoni del Tesoro [così come] nel ’93 e nel ’92, pagavano undici, dodici perché c’era la concorrenza internazionale, non c’era la banca centrale.”

Perchè il punto, ovviamente, è che questi rendimenti faranno sì che tutti i soldi che ci sono in circolazione eviteranno come la peste di impelagarsi in mezzo a tutti i rischi che comportano gli investimenti nell’economia reale. Chi te lo fa fare di produrre qualcosa se semplicemente comprando titoli del tesoro hai un rendimento di oltre il 5%?

Questo significa una cosa sola, semplicissima: recessione. E con l’economia che entra in una lunga e dolorosa recessione, da dove li tiri fuori i 120/130 miliardi l’anno che ti servono per pagare gli interessi sul debito?

La risposta purtroppo la conoscete fin troppo bene: privatizzazioni, che a noi che siamo un po’ complottisti, più che l’unica soluzione possibile, sembra molto sinceramente la vera ragione ultima che ha determinato queste scellerate scelte di politica economica.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] In questo momento la politica della Bce è una politica irresponsabile . […] Una politica che ha come fine evidente la privatizzazione. […] È partita una concorrenza internazionale sui titoli del debito che provocherà un aumento dei tassi di interesse che vorrà dire per gli Stati più deboli: privatizzare obbligatoriamente. Perché quando la seconda voce di spesa del bilancio sono centocinquanta miliardi di interessi su mille miliardi di spesa pubblica di cui ce ne sono una parte significativa vincolata fra pensioni e cose di questo tipo… ma di cosa stiamo parlando? È evidente che andremo verso la privatizzazione. I fondi costruiranno le pensioni integrative, la sanità integrativa e andiamo avanti così.”

In realtà un’alternativa ci sarebbe anche: far pagare chi in questi anni di devastazione sistematica dell’economia, casualmente, si è arricchito come non mai prima ma il vento politico, sempre casualmente – ci mancherebbe – sembra spirare in una direzione leggermente diversa.

Prof. Alessandro Volpi: “Non so se hai notato, è un inciso, ma l’eredità del vecchio uno dei temi per cui, come dire, gli eredi del Vecchio cercano di pagare l’imposta di successione in Italia e non in Francia è perché in Francia pagherebbero il 70%. […] A differenza di quella percentuale poco distante del dieci che pagherebbero in Italia. Quindi è evidente che noi dobbiamo riformulare il sistema fiscale: riformulare il sistema fiscale in forma equa, progressiva, colpendo le rendite, eliminando questa bega delle cedolari secche che sono gli affitti per coloro che hanno fasce di reddito di un certo tipo, recuperando certamente l’imposizione fiscale sul tema dei dividendi, cioè noi non possiamo continuare ad avere un’imposizione fiscale per cui i profitti sono penalizzati molto di più dei dividendi e quindi tutto si sposta in questo modo sui dividendi. [..] Cioè se noi non teniamo insieme debito e riforma fiscale, una delle due non è sufficiente. […] Se anche mettessimo la patrimoniale più esasperata, pesantissima modello governo Parri del maggio dei 45, non riusciremo ad avere in queste condizioni il gettito sufficiente. Creeremo certamente dei meccanismi di riduzione delle disuguaglianze, creeremo finalmente dei meccanismi di incentivazione a una economia che non è un’economia di finanza e di rapina, però abbiamo bisogno di una banca centrale che ci finanzi il debito, che è una parte essenziale della finanza pubblica. Se non facciamo questo. […] non ce la faremo, quindi ci vuole una riforma fiscale, ma contestualmente ci vuole una politica monetaria, come diresti tu (riferito a Giuliano Marrucci, ndr) di natura sovrana, ma nel senso che sia in grado di rispondere alle esigenze di un’economia che è un’economia produttiva, di una collettività.”

Ed ecco così che si ritorna a bomba. Ormai vi uscirà dalle orecchie, ma noi continueremo a ripeterlo a oltranza fino a quando quello che diciamo non si trasformerà in un progetto politico serio, in grado di mandare definitivamente a casa tutti i portaborse delle oligarchie finanziarie che si sono avvicendati negli ultimi 30 e passa anni: è in corso una guerra totale dell’1% contro il resto del mondo, combattuta a colpi di finanziarizzazione e distruzione degli assi portanti dello stato e della democrazia moderna, una guerra che l’1% combatte ferocemente con tutte le armi a disposizione, a partire dal monopolio totale della cultura e dei mezzi di produzione del consenso.

Ripartiamo da lì e costruiamo il primo vero media che dia voce al paese reale e ai subalterni.

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L’intelligenza artificiale è un’arma di distruzione di massa: e gli USA si rifiutano di regolarla

Ma quante storie con questa intelligenza artificiale, è solo una tecnologia.

Giusto, è solo una tecnologia: come la bomba atomica, il sarin, o anche l’ingegneria genetica, o l’energia prodotta da fonti fossili.

Sono solo tecnologie, che sarà mai…

Lo sviluppo industriale e scientifico degli ultimi due secoli ha comportato benefici straordinari, ma non sono gratis. Grazie proprio a questo incredibile sviluppo oggi infatti l’essere umano e le forme specifiche di organizzazione politica, sociale ed economica di cui si è dotato, ha il potere di distruggere definitivamente, se non proprio l’intero pianeta che ci ospita, di sicuro una fetta consistente della vita che lo anima, a partire in particolare dalla nostra stessa specie. Come dice l’uomo ragno, “da un grande potere, derivano grandi responsabilità”.

Saremo abbastanza adulti e consapevoli da potercele accollare?

A giudicare dal fanatismo ideologico nel quale ci hanno catapultato cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista, sembrerebbe proprio di no. Ai piani bassi, la profonda trasformazione antropologica imposta dalla controrivoluzione ha fatto si che la nostra capacità di lettura dei fenomeni e dei processi che condizionano la nostra vita venisse sistematicamente compromessa dal pervadere di una inscalfibile superstizione di massa: le cose si aggiusteranno da sole, grazie alla mano invisibile del mercato.

O comunque, anche se non si aggiusteranno, ha ragione TINA, la nostra amica immaginaria collettiva, che ci insegna che There Is No Alternative. Tocca farsi il segno del dollaro, al posto di quello della croce e avere fede nell’intervento salvifico di un entità immaginaria. Ai piani alti invece, dove in realtà che un’alternativa c’è sempre: lo sanno benissimo e invece che sulla leggenda della mano invisibile,preferiscono concentrarsi sulla realtà concretissima di chi detiene il potere e per farci cosa, semplicemente del destino dell’umanità e della vita tutta, non hanno tempo di occuparsene. Sono troppo presi ad accumulare quanta più ricchezza e quanto più potere nel minor tempo possibile e le conseguenze, per quanto devastanti, vengono catalogate semplicemente sotto la voce “effetti collaterali”.

L’intelligenza artificiale non fa eccezione.

Senza entrare nei dettagli di un dibattito tecnico che di scientifico mi sembra abbia pochino, da qualunque punto di vista la si guardi, sul tema esistono sostanzialmente due opzioni:

1 – L’intelligenza artificiale è un bel giochino, va bene, ma è solo una tecnologia tra le tante, con un impatto limitato. Quindi anche i rischi che comporta sono limitati. e quindi anche basta con tutto questo hype ingiustificato.

2 – L’intelligenza artificiale comporta una vera e propria rivoluzione tecnologica, in grado di modificare in profondità sostanzialmente tutto quello che facciamo e come lo facciamo. In tal caso, come la giri la giri, comporta anche rischi enormi. sostanzialmente, incalcolabili.

Noi, molto onestamente, non siamo minimamente in grado di dirvi quale delle due opzioni sia quella giusta. Possiamo però fare una semplicissima deduzione logica: se quella giusta è l’opzione numero 2, siamo letteralmente nella merda.

Voi, in tutta sincerità, ve la sentite di accollarvi il rischio?

18 luglio 2023, New York, sede delle Nazioni Unite.

Dopo lunghe ed estenuanti trattative, per la prima volta in assoluto il Consiglio di Sicurezza si riunisce per affrontare un tema avvertito da più parti come sempre più urgente: i rischi legati all’intelligenza artificiale applicata ai sistemi d’arma. A promuovere l’incontro, la Cina: da 18 mesi. La prima volta che i funzionari cinesi avevano provato a portare il tema alle nazioni unite infatti era il dicembre 2021. Il Ministero degli Esteri aveva da poco pubblicato un documento ufficiale per la “regolazione della applicazioni militari dell’intelligenza artificiale”: dal momento che la pace e lo sviluppo nel mondo si trovano ad affrontare sfide dalle molteplici sfaccettature”, si legge nel documento, “i diversi paesi dovrebbero elaborare una visione sulla sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile, e cercare il consenso sulla regolamentazione delle applicazioni militari dell’IA attraverso il dialogo e la cooperazione e stabilire un regime di governance efficace, al fine di prevenire danni gravi o addirittura disastri causati dalle applicazioni militari dell’Iintelligenza artificiale”. Soltanto una governance comune globale e cooperativa, sostengono i cinesi, può aiutarci a “prevenire e gestire i potenziali rischi, promuovere la fiducia reciproca tra i paesi e prevenire così una nuova pericolosissima corsa agli armamenti”. Il rischio, in particolare, riguarda eventuali sistemi di risposta automatica.

Non è un problema del tutto inedito

Sistemi di allarme preventivo automatizzati infatti sono sempre esistiti. Come il celebre Oko, il sofisticato sistema di allerta precoce sviluppato a partire dai primi anni ‘70 e che ha rischiato di catapultarci in un conflitto nucleare, per sbaglio. Era il settembre del 1983: l’Oko segnala il lancio di una batteria di ben cinque missili intercontinentali. Il protocollo prevedeva di riportare l’allerta immediatamente ai piani alti della catena di comando, ma secondo la dottrina della “distruzione reciproca assicurata”, la risposta sarebbe dovuta essere un contrattacco nucleare immediato obbligatorio contro gli USA. Fortunatamente però quel giorno il compito di trasmettere le allerte del sistema era toccato al colonnello Stanislav Petrov. Sin da subito, Petrov pensò a un errore: era convinto che in caso di primo attacco nucleare gli USA avrebbero lanciato contemporaneamente centinaia di missili nel tentativo di annientare la capacità controffensiva sovietica, quindi decise di non riportare l’allarme ai superiori, ed ebbe ragione.

Nessun missile intercontinentale toccò mai il suolo sovietico. Petrov aveva evitato la guerra nucleare. Ma nessuno gli disse grazie, anzi…

Premiarlo, infatti, avrebbe comportato riconoscere ufficialmente le carenze del sistema. Poco dopo, fu costretto a ritirarsi in pensione prima del tempo per un esaurimento nervoso. Il timore espresso dai cinesi, appunto, è che si vada verso una situazione dove non ci sarà più un Petrov a salvarci dall’estinzione, e che quindi è urgente mettere dei paletti condivisi.

Ad aumentare a dismisura i rischi di incidente, infatti, è l’inizio dell’era dei missili ipersonici, che con la loro velocità fino a dodici volte superiore a quella del suono, accorciano in maniera drastica il tempo utile per consentire un eventuale intervento umano. Una minaccia esistenziale, la cui risoluzione non può più essere rinviata. È essenziale garantire il controllo umano per tutti i sistemi d’arma abilitati all’intelligenza artificiale”, ha affermato di fronte al consiglio di sicurezza l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, sottolineando che “questo controllo deve essere sufficiente, efficace e responsabile”

Ma la partita militare è solo una parte del problema

Se davvero l’intelligenza artificiale è questa rivoluzione epocale di cui tutti parlano, il suo potenziale distruttivo necessariamente va ben oltre il campo di battaglia e il problema di una governance “globale, cooperativa e sostenibile” riguarda necessariamente anche ben altri ambiti. Ed è proprio per rispondere a questa esigenza che nel luglio scorso a Nishan, nella provincia orientale dello Shandong, i cinesi hanno invitato tutti gli stati del pianeta, a prescindere dal loro orientamente politico, a partecipare alla World Internet Conference. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri”, avrebbe dichiarato il vice direttore del dipartimento per il controllo delle armi del Ministero degli Esteri, “hanno pari diritti di partecipare alla governance globale dell’IA”.

Il Nord Globale, però, ha risposto picche. Non si sono manco presentati: erano occupati a organizzare un altro simposio, tutto loro. Si dovrebbe tenere il prossimo novembre nel Regno Unito. Ma i cinesi, come d’altronde una lunga serie di altri Paesi ritenuti dall’Occidente globale dei pariah, non sono stati invitati.

Una follia, che ha spinto addirittura i ricercatori dell’occidentalissimo e liberalissimo Oxford Internet Institute a scrivere una lettera aperta di protesta al Financial Times: perchè escludere la Cina dal summit sull’intelligenza artificiale sarebbe un errore”, si intitola. Ribadisce quello che dovrebbe essere ovvio, ma che in questo clima avvelenato da guerra ibrida globale, evidentemente, non lo è più: primo”, scrivono, “i rischi posti dai sistemi di intelligenza artificiale trascendono i confini nazionali. senza il coinvolgimento della Cina, qualsiasi accordo internazionale teso a contrastarli sarebbe del tutto futile. Prendiamo ad esempio l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per lo sviluppo di armi chimiche. Se un accordo sulle migliori pratiche per prevenire ciò escludesse la Cina, gli altri paesi potrebbero semplicemente utilizzare i sistemi di intelligenza artificiale cinesi per questo tipo di scopi dannosi”. “Secondo”, continuano, “qualsiasi accordo internazionale, se verrà percepito come un vantaggio per la Cina, nopn potrà che essere respinto, in particolare negli Stati Uniti. Fino ad oggi, infatti, gli sforzi esistenti per introdurre una regolamentazione sono stati vanificati dai timori di perdere una “corsa agli armamenti dell’intelligenza artificiale” a favore della Cina. Avere la Cina al tavolo riduce questo rischio, poiché sarà vincolata dallo stesso accordo”. Per finire, “In terzo luogo, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno in gran parte ritardato la regolamentazione dell’intelligenza artificiale, la Cina è stata proattiva. Di fatto è l’unico paese a promulgare regolamenti specificamente mirati all’intelligenza artificiale generativa. Questa esperienza normativa sarebbe preziosa per indirizzare una politica ben progettata al vertice sull’intelligenza artificiale del Regno Unito”.


L’esclusione della Cina non è l’unico aspetto del summit a sdubbiare la comunità accademica. Secondo Wendy Hall dell’Università di Southampton, riporta sempre il Financial Times, il problema principale è costituito dal fatto che “i consigli proverranno principalmente dalle grandi aziende tecnologiche stesse”.

““È giusto”, si chiede la Hall, “che le persone che traggono profitto da questa rivoluzione siano le stesse che progettano la sua regolamentazione?”. Ed ecco così svelata la vera natura del conflitto insanabile tra come intende la governance dell’intelligenza artificiale la Cina, e come la intendono i paesi del Nord Globale. Come ricorda sempre un ricercatore di quella temibile cellula dell’internazionale bolscevica che è l’Oxford Internet Institute, in un articolo pubblicato ieri su Asia Times: “il 15 agosto 2023, in Cina è entrata in vigore una nuova legge per la regolazione dell’intelligenza artificiale generativa. è solo l’ultimo di una lunga serie di sforzi mirati a governare diversi aspetti dell’intelligenza artificiale, ed è la prima legge al mondo specificatamente rivolta all’intelligenza artificiale generativa”. La legge introduce alcune restrizioni importanti per le società che offrono questo genere di servizi, in particolare in relazione alla natura dei dati utilizzati per addestrare gli algoritmi. Sin dalla fine del 2020, la Cina ha intrapreso una lunga battaglia contro il consolidamento di un oligopolio da parte dei grandi gruppi tecnologici, rafforzando l’azione della sua agenzia antitrust, e sopratutto ponendo limiti chiari allo sfruttamento dei dati personali a fini commerciali. Un approccio molto simile a quello adottato dall’Unione Europea a partire dall’introduzione del GDPR. Con la differenza che queste restrizioni all’Europa non sono costate niente, visto che non ha sue proprie aziende competitive nel settore. La Cina invece, nonostante la guerra tecnologica ingaggiata nei suoi confronti dagli USA, ha deciso di porre alcuni paletti precisi allo strapotere delle principali aziende tecnologiche, in nome della tutela dei diritti degli utenti. Come ricorda anche l’Economist: “Un modo in cui le aziende cinesi di intelligenza artificiale potrebbero essere frenate è limitando i dati personali resi disponibili per addestrare i loro modelli di intelligenza artificiale”.

L’economist ricorda come “Il partito gestisce lo stato di sorveglianza di massa più sofisticato del mondo, e fino a poco tempo fa, anche le aziende tecnologiche cinesi erano in grado di sfruttare i dati personali. Ma quest’era sembra ormai essere definitivamente tramontata. Ora le aziende che vogliono utilizzare determinati tipi di dati personali devono ottenere prima il consenso. E L’anno scorso la CAC ha multato Didi Global, una società di ride-sharing, per l’equivalente di 1,2 miliardi di dollari per aver raccolto e gestito illegalmente i dati degli utenti”. Ora, con questa ultima legge sull’intelligenza artificiale, conclude l’economist, “le aziende sarebbero responsabili della tutela delle informazioni personali degli utenti”. Esattamente il contrario, in soldoni, di quanto avvenuto negli USA, dove con la scusa del laissez-faire, semplicemente si è deciso di dare carta bianca ai giganti tecnologici a spese dei diritti degli utenti con la sola finalità di avvantaggiare la concentrazione del potere nelle mani appunto di un oligopolio adeguatamente foraggiato in grado di vincere la competizione contro i gruppi cinesi e anche procedere indisturbato alla colonizzazione digitale del vecchio continente. Ma come sottolinea sempre lo stesso articolo su Asia Times, “Un approccio normativo più rigido, potrebbe rivelarsi economicamente impegnativo nel breve termine, ma sarà essenziale per mitigare i danni agli individui, e anche per mantenere la stabilità sociale”.

Insomma, come abbiamo sottolineato svariate volte già in passato, paradossalmente, l’approccio cinese, teso a governare questo processo con regole trasparenti a tutela di consumatori ed utenti, sembra essere molto più vicino a quello europeo di quanto non lo sia invece il far west immaginario di Washington. Una differenza, quella dell’approccio europeo rispetto a quello a stelle e strisce, sottolineata sempre dall’Oxford Internet Institute in un lungo paper di ormai 2 anni fa, dove si sottolineava che mentre “dal punto di vista della governance dell’intelligenza artificiale, l’approccio europeo è eticamente più corretto”, dal momento che “Mette in primo piano la protezione dei diritti dei cittadini delineando il valore guida di un’intelligenza artificiale affidabile incentrata sull’uomo. Il laissez-faire intrapreso dagli Stati Uniti è eticamente decisamente più discutibile, dal momento che ha affidato gran parte della governance dell’AI nelle mani degli attori privati, lasciando ampio margine alle imprese per mettere i propri interessi davanti a quelli dei cittadini”. “Ciò nonostante”, scrive l’economist, “l’idea che la Cina possa fungere da guida per quanto riguarda l’etica dell’intelligenza artificiale dovrebbe terrorizzare i governi occidentali”.

Capito come ragionano?

La Cina procede cautamente per tutelare i cittadini proprio come vorrebbe fare l’Unione Europea, però il nostro alleato anche in questa partita devono per forza essere gli USA, anche se stanno combinando un disastro, perché alla fine i cinesi rimangono comunque sempre cinesi…

Decidere su aspetti fondamentali per la nostra sicurezza in base al razzismo, insomma: benvenuti nel 2023.

Cosa mai potrebbe andare storto?

L’umanità si trova di fronte a sfide epocali che potrebbero metterne a rischio la stessa sopravvivenza, ma la principale potenza del globo è ostaggio di un manipolo di oligarchi pronti a consegnarci mani e piedi al più distopico dei futuri possibili pur di non cedere nemmeno un pezzettino della spaventosa concentrazione di ricchezza e di potere che hanno accumulato sulla nostra pelle.

Sarebbe arrivata l’ora di mandarli anche un po’ a fare in culo

Per farlo, abbiamo bisogno di un media che dia voce al 99%: aiutaci a costruirlo

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e chi non aderisce è Bill Gates