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Tag: transizione ecologica

LA RIVOLTA DEI TRATTORI – Se destra e sinistra fanno a gara a chi umilia di più l’agricoltura

Ragionano da anni di carrarmati; saranno asfaltati dai trattori. Dalla Germania alla Francia, dalla Romania alla Polonia per arrivare, negli ultimi giorni, pure in Italia, gli agricoltori di tutta Europa sono sul piede di guerra, e a Bruxelles sudano freddo non solo perché – nonostante l’agricoltura e quello che ci gira attorno contribuisca per poco più dell’1% del PIL europeo – coinvolge direttamente poco meno di 15 milioni di addetti ma anche perché, nel vecchio continente in declino, ogni miccia può innescare un’esplosione in grado di far saltare tutto, a partire dai posti di comando.
La rivolta degli agricoltori europei è tornata a occupare le prime pagine dei giornali a partire dallo scorso 9 gennaio, quando il centro di Berlino è stato invaso da una colonna di 566 trattori che si sono piazzati in fila davanti alla Porta di Brandeburgo, a pochi metri dagli ufficio di Olaf Scholz. Ed era solo la punta dell’iceberg: secondo la ricostruzione de La Verità, nel Baden Wuttemberg si sarebbero mobilitati addirittura in 25 mila; in Baviera in 19 mila; in Sassonia avrebbero bloccato interamente la circolazione in ingresso a Dresda e imposto uno stop allo stabilimento della Volkswagen di Emden. “La più grande protesta, o perlomeno la più estesa, che il paese abbia visto nel dopoguerra” scrive il Corriere. Sulla carta, le proteste tedesche sarebbero esplose per motivi meramente interni, ma il fatto che in men che non si dica abbiano contagiato mezzo continente dimostra che in realtà c’è molto altro che bolle in pentola; ma cosa?
Come ormai accade sempre più spesso, limitandosi a leggere le principali testate mainstream e quelle della destra reazionaria – che giocano a fare gli antimainstream ma sono ancora più mainstream del mainstream – non è che si capisca proprio benissimo: la rivolta degli agricoltori è stata immediatamente trasformata in una guerra ideologica tra fazioni contrapposte, entrambe totalmente disinteressate a entrare nel merito delle questioni e impegnate esclusivamente a cercare di strumentalizzare la faccenda per rinsaldare le fila rispettivamente dei fintosovranisti e degli analfoliberali; in un modello ormai ampiamente sperimentato durante la pandemia e perfezionato con la guerra, i mezzi di produzione del consenso delle due fazioni del capitalismo europeo in declino si sono sostenute l’un l’altra, nel tentativo di politicizzare le puttanate e spoliticizzare tutto quello che, invece, avrebbe un impatto concreto sulla vita delle persone – riuscendoci benissimo. Ed ecco così che per i fintosovranisti (ma reazionari veri) la protesta è diventata l’ultima barricata per salvare l’Eden incontaminato del mondo rurale dall’assalto dei rettiliani turboglobalisti incarnati in quella creatura demoniaca nota col nome di Greta Thumberg e, per l’establishment liberal, i calli nelle mani degli allevatori di maiali della Bassa Sassonia sono diventati l’emblema del ritorno della minaccia nazifascista. E se li mandassimo entrambi in una bella miniera di coltan nel Congo e provassimo una volta tanto a capire cosa bolle davvero in pentola?
“Centinaia di accessi alle autostrade bloccati, serpentoni di decine di chilometri ai confini, picchetti e palchi improvvisati nei centri di Monaco, Brema, Amburgo” (Mara Gergolet, Corriere della sera). Lunedì 8 gennaio la Germania si è improvvisamente trovata di fronte a uno scenario completamente inedito: “In Germania, dove lavoratori e padroni gestiscono congiuntamente molte aziende” sottolinea infatti l’Economist “uno sciopero di grandi dimensioni è insolito. Un’ondata di grandi scioperi è quasi inaudita”; lo abbiamo visto chiaramente negli ultimi 30 anni, durante i quali una feroce politica di deflazione salariale ha imposto alle buste paga dei lavoratori di crescere sempre enormemente meno della loro produttività senza che, sostanzialmente, mai nessuno si incazzasse sul serio. Nell’arco di appena 8 giorni, invece, a questo giro ha dovuto affrontare – continua l’Economist – “una settimana d’azione da parte di contadini arrabbiati che hanno bloccato le strade coi loro trattori, uno sciopero di tre giorni dei ferrovieri e pure un imminente sciopero dei lavoratori medici, che avevano già chiuso gli ambulatori tra Natale e capodanno”. “L’era merkeliana della pace sociale e dell’accomodamento in una qualche forma di accordo e sovvenzione di tutte le tensioni” scrive il Corriere della serva “visto dalla Porta di Brandeburgo sembra veramente solo un ricordo”; ma cos’è esattamente che ha fatto incazzare così tanto gli agricoltori tedeschi?
I nodi fondamentali della mobilitazione sono sostanzialmente due: la riduzione dello sconto fiscale sull’accisa applicata al diesel per il consumo agricolo e la fine dell’esenzione dalla tassa sull’acquisto per i mezzi agricoli, che risaliva addirittura al 1922; due misure introdotte in fretta e furia dal governo tedesco, dopo che la sentenza della Corte Costituzionale gli ha vietato di ricorrere ai soldi rimasti dal fondo covid per far tornare i conti di faccende che con la crisi pandemica non avevano niente a che vedere, causando così un buco nel bilancio da ripianare con ogni mezzo necessario. Ma qui c’è il primo mistero: ancora prima che gli agricoltori invadessero Berlino, annusata l’aria, il governo più debole dell’intero continente infatti aveva fatto un deciso passo indietro diluendo il ritorno della tassa sul gasolio negli anni e reintroducendo l’esenzione per quella sugli acquisti, ma non è servito a niente. Ma allora, cosa c’è sotto? Per capirlo ho letto attentamente tutti gli articoli usciti sull’argomento su La Verità, il giornale di riferimento dell’alt right italiana e quello che, in assoluto, ha dedicato più spazio a queste proteste, e indovinate un po’? Non c’è scritto un cazzo: fiumi di parole, frasi a effetto come se non ci fosse un domani, ma mai un numero che sia uno, una statistica, qualcosa di misurabile, di verificabile.

Bonifacio Castellane

Il premio assoluto fuffologia al potere va, senza dubbio, a Bonifacio Castellane, una vera rivelazione: è questo tizio qua, che scrive sotto pseudonimo e agli eventi pubblici si presenta sempre con questa maschera perché le cose che ci rivela sono troppo dirompenti, troppo scottanti, e cioè ha stata Greta Thumberg; il nemico contro cui stanno combattendo gli agricoltori – ci racconta con tono un po’ dannunziano il nostro V di Vendetta dei poveri – sarebbe nientepopodimeno che “l’ideologia woke-green che ispira il governo dell’UE nel suo tentativo crepuscolare di infliggere gli ultimi colpi ai nemici prima di tramontare”. Oltre alla dittatura gretina, il grande nemico degli agricoltori – spiega Castellane – sarebbero anche, in uno slancio di retorica fascioliberista da manuale, in generale tutti i lavoratori dipendenti: “Gli agricoltori” continua Castellane, infatti “non sono scesi in piazza perché minacciati nei loro diritti acquisiti o indicendo il venerdì uno sciopero a fine servizio per manifestare contro il patriarcato: sono scesi in piazza perché la loro esistenza è in pericolo”. In che senso? Difficile capirlo: i numeri sono roba da pervertiti globalisti e Castellone non ne cita manco mezzo. Al posto suo, però, li cita la DBV, il più grande sindacato degli agricoltori tedesco e organizzatore della mobilitazione: “Dopo molti anni di debolezza” scrivono, “nell’ultimo biennio la situazione economica delle nostre aziende è nettamente migliorata. In particolare gli agricoltori hanno beneficiato degli elevati aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari”; in soldoni, fa un bel +45% del fatturato medio rispetto a 3 anni fa, un dato piuttosto rilevante ma che in tutti gli articoli de La Verità non viene citato mai, nemmeno per sbaglio. Fosse semplice dimenticanza, si potrebbe risolvere facilmente invitandoli a trovarsi un lavoro che gli si addice di più; in realtà, però, è peggio di così. Il loro lavoro lo fanno benissimo, solo che il loro lavoro non è informare, ma fare propaganda per fomentare la guerra tra poveri. E come faccio a elevare gli agricoltori a paladini della società giusta ed equa che voglio costruire contro la dittatura di Bruxelles – contrapposti ai lavoratori salariati che approfittano di diritti acquisiti e scioperano il venerdì per allungare il weekend – se poi si scopre che mentre i lavoratori salariati perdevano potere d’acquisto, gli agricoltori aumentavano del 45% il fatturato? E’ una notizia non grata e quindi da omettere: non farete mica i professoroni!?
E però c’è pure chi fa di peggio perché c’è chi, invece, quel dato non solo lo riporta, ma lo brandisce come un’arma per un’altra tesi altrettanto brillante e rivelatoria: gli agricoltori sarebbero tutti avidi, brutti, sporchi, cattivi e, ovviamente, anche parecchio fascisti. La prova provata? Vorrebbero abbattere il governo giallorossoverde, e chi altro mai vorrebbe mandare a casa Olaf Scholz se non un branco di fascisti? Ha lavorato così bene… Beh, certo, per Washington di sicuro. Negli stessi giorni della protesta, Destatis ha pubblicato i dati definitivi per il mese di novembre: la produzione industriale è crollata di un altro 0,7% in un solo mese; i vari analisti interpellati da Bloomberg avevano previsto una crescita dello 0,3. D’altronde, avevano previsto anche un segno + per il PIL del 2023, e ancora più sostenuto per il 2024; nel 2023 è diminuito di 0,3 punti e ormai in molti credono lo stesso accadrà anche quest’anno: in totale, in 12 mesi la produzione industriale infatti è crollata del 4,8%. Ma la crisi, verso la fine dell’anno, invece che affievolirsi si è approfondita e se nel 2024 si confermasse il trend degli ultimi 3 mesi, si arriverebbe a un ulteriore crollo di poco meno del 10%: per incazzarsi, effettivamente, bisogna essere proprio degli invasati neonazisti.
La leggenda degli agricoltori neonazisti nasce, come sempre, dall’infiltrazione di qualche gruppuscolo, ma soprattutto – temo – dalla consapevolezza che le forze di governo non hanno nessuna soluzione possibile da offrire e, al di là del fatturato straordinario degli ultimi 2 anni, i problemi decisamente non mancano. E sì, in buona parte hanno proprio a che vedere con le politiche ambientali dell’Unione Europea, che vuole fare la transizione ecologica continuando a garantire rendite di posizione astronomiche alle oligarchie finanziarie sulla pelle di chi lavora, di tutti quelli che lavorano, dagli agricoltori a quelli che – secondo La Verità – vivono nella bambagia per i diritti acquisiti e chiamano il weekend lungo sciopero. D’altronde, scrive Tonia Mastrobuoni su La Repubblichina, di cosa si lamentano? “La tutela dell’ambiente costa” scrive, e “ha inevitabilmente ricadute su tutte le categorie sociali” dove, giustamente, nelle categorie sociali non mette i suoi editori e, in generale, gli oligarchi.
Come sosteneva brillantemente il mitico documentario The Corporation, gli oligarchi sono sociopatici per definizione: tra le varie cose imposte dalla UE sulle spalle degli agricoltori (senza nessuna forma di paracadute) ci sono, ad esempio, le misure sul ripristino della natura, che puntano a contrastare il degrado degli ecosistemi sottraendo terreno alla coltivazione per restituirlo alla natura, oppure le norme sull’abbattimento delle emissioni degli allevamenti, o le direttive che impongono restrizioni sulle emissioni di zolfo e di nitrato – che avevano già spinto sulle barricate gli agricoltori olandesi poco tempo fa; tutte misure più che ragionevoli, volendo, se solo a pagarle non fosse chi sta piegato sui campi a giornate per due lire ma chi, con la svolta green, incasserà miliardi su miliardi senza rischi perché garantito dagli Stati e dai governi. Lo ha dovuto ammettere candidamente anche un ultramoderato come Paolo de Castro, eurodeputato PD, ex ministro dell’agricoltura e universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti dell’economia del settore: “Per la prima volta questa legislatura europea” ha dichiarato “ha creato la percezione di un’Unione nemica degli agricoltori e delle categorie produttive. Non abbiamo saputo costruire un progetto che coinvolga l’agricoltura facendola sentire protagonista della transizione verde, e non imputata”. Risultato? Chi s’è messo contro gli agricoltori ha fatto una brutta fine: in Olanda è toccato a Rutte e Timmermans che, per la faccenda dell’azoto, si erano messi in testa di chiudere di botto 3 mila stalle; Rutte oggi è stato costretto ad andarsene in pensione e Timmerman è stato letteralmente umiliato alle elezioni da Geert Wilders, che è improponibile ma le rivendicazioni degli agricoltori le aveva sostenute.
Ora tocca alla Francia, dove il contagio tedesco è arrivato per primo e dove Macron, ancora prima delle sue nefandezze dirette, dovrà scontare il fatto di aver assoldato tra le sue fila al parlamento europeo Pascal Canfin, che del finto ambientalismo delle élite che odiano i poveri è proprio il prototipo; ex capo esecutivo del WWF francese, era a capo della Commissione Ambiente quando il green deal europeo è stato concepito, e ora contro di lui e il suo datore di lavoro i contadini francesi sono tornati sulle barricate e il grosso della popolazione li sostiene, senza se e senza ma: il 68% in Germania, addirittura l’89 in Francia, in entrambi i casi circa il doppio dei consensi che possono vantare i rispettivi governi. Per capire il livello di strumentalizzazione che la fuffa liberaloide fa della faccenda, basta vedere la differenza di trattamento riservato ad agricoltori tedeschi e francesi, che contestano governi di centrosinistra, rispetto a quelli italiani. Anche gli agricoltori italiani, infatti, sono tornati a manifestare: negli ultimi giorni, decine di cortei hanno invaso mezzo paese, da Verona alla Calabria; “La marcia dei trattori attraversa l’Italia contro tutto e tutti” scrive La Stampa. “L’Unione Europea, le farine d’insetti, la carne coltivata, la burocrazia, il caro gasolio, i terreni svenduti, e soprattutto i sindacati degli agricoltori”, ma qui non c’è traccia di disprezzo: “Una rivolta dal basso” scrive anzi La Stampa “animata da gente che non ha mai saltato un giorno di lavoro”, eppure qualcosa a cui attaccarsi ce l’avrebbero avuta.

Danilo Calvani

La mobilitazione, infatti, è stata organizzata da questo gruppo informale denominato CRA, Comitati Riuniti Agricoltori traditi, e il leader indiscusso del CRA è lui, Danilo Calvani, un piccolo imprenditore agricolo della provincia di Latina che nel 2009 è stato tra i fondatori della Lega nel Lazio; agli agricoltori tedeschi hanno dato dei reazionari fascisti per molto meno: perché qui, allora, invece no? Semplice: in Italia al governo mica ci sono i democraticissimi Scholz e Macron; in Italia al governo c’è la Meloni, e Calvani con il governo Meloni ce l’ha a morte perché “come tutti quelli che l’hanno preceduto” afferma Calvani “si è prostrato a Europa e multinazionali”. Tutto sommato i pennivendoli al servizio di GEDI sono magnanimi, si accontentano di poco e, così, quelli che altrove sono una pericolosa deriva autoritaria qui incredibilmente “partono da un tema reale: lo scollamento quasi incolmabile tra chi detta le regole e chi affonda le mani nella terra, come Franco Clerico” continua empatico il giornalista, “che mi ha detto: per chi lavora la terra mollare tutto per andare a protestare è un atto di disperazione. Ho investito tutto in quest’azienda. Mio papà è morto a novembre, a 91 anni. Ha aiutato me e mio fratello a mettere in piedi l’azienda. Noi invece ai nostri figli lasceremo debiti. Da anni per tirare avanti non ci versiamo i contributi. Quando va bene in un anno ci mettiamo in tasca 16 mila euro. E’ vita questa?”. Ecco, bravi: la stessa identica cosa vale per gli agricoltori che protestano in Francia e in Germania anche se, in quel caso, al governo ci sono quelli che vi stanno simpatici a voi.
Nell’Europa in declino, le élite di ogni colore scaricano la crisi sui poveri cristi e le diverse propagande non fanno altro che inventarsi storielle per parare il culo a quei parassiti dei loro padroni. Noi stiamo sempre dalla stessa parte, dalla parte del 99% senza chiedere pedigree e per difenderne la causa avremmo bisogno come il pane di un vero e proprio media. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

Auto elettrica: come l’Europa vuole fregare i quattrini dei consumatori per regalarli agli oligarchi

I mercati globali sono stati inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi da enormi sussidi statali”. Quando il 13 settembre ho sentito la nostra Ursulona (von der Leyen, ndr) pronunciare queste parole, mi sono subito fiondato alla ricerca di una di queste fantomatiche macchine elettriche cinesi supereconomiche che  avrebbero drammaticamente “invaso i mercati globali”

Contrario allo sfruttamento del lavoro geriatrico, anche per la mia audi a4 del 2002 è decisamente arrivata l’ora del meritato pensionamento. Quale migliore occasione di una nuova auto che non solo è cinese, ma pure elettrica, e pure supereconomica? Ma quando mi sono trovato davanti al listino prezzi, tutto l’entusiasmo iniziale è stato, diciamo così, leggermente ridimensionato. Ovviamente, visto che l’avrei dovuta pagare con i quattrini di chi generosamente sostiene questo strambo canale, sono partito dal modello base: BYD Dolphin, si chiama.

L’auto elettrica più economica sul mercato, avevo sentito dire. Con in più la garanzia di un marchio che vede come primo azionista niente popo’ di meno che la Berkshire Hathaway del signor Warren Buffet. uno che di investimenti, così a occhio, al netto di tutto, ci capisce.

Peccato però che in realtà costi quanto un SUV: a partire da 30.790 euro, riporta “quattroruote”. Ci sono rimasto male…Quando è stata lanciata in Cina, ricordo, il singolo punto su cui si era concentrata tutta la campagna pubblicitaria, era che sarebbe stata la prima auto elettrica della BYD a stare sotto la soglia dei centomila yuan. più o meno, tredici mila euro. Nel frattempo è un po’ aumentata, effettivamente e il prezzo di partenza nei listini cinesi oggi è di 116 mila yuan. 15 mila euro.

E non è un caso isolato. la versione elettrica della MG ZS, secondo “quattroruote”, in Italia parte dalla modifica cifra di 34.500 euro. in Cina, secondo bloomberg, da 15.600 euro

Non è questione soltanto di marchi cinesi.

Come riporta sempre bloomberg infatti, l’auto elettrica più economica attualmente sul mercato in realtà sembrerebbe essere la versione elettrica della Dacia Spring, che in Italia partirebbe da 21.450 euro. Anche lei però, nonostante sia del gruppo Renault, viene prodotta nella provincia dell’Hubei, in Cina, dove è stata ribattezzata Nano Box, e il prezzo di partenza è inferiore, udite udite, agli ottomilacinquecento euro. Ma com’è mai possibile che lo stesso identico oggetto in Cina costi meno della metà che in Europa? E sopratutto, listini alla mano, Ursula sette cervelli von der Leyen, esattamente, questa fantomatica invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche, da dove se l’è tirata fuori? Anche lei come il suo bestie sleepy Joe ha degli amichetti immaginari che gli suggeriscono cose?

Da quando Henry Ford s’è inventato quel meraviglioso bussolone a pedali che era la model-t, l’industria automobilistica si è affermata come il singolo settore più importante dell’intera industria globale. Oggi l’industria automobilistica europea è sottoposta a un attacco concentrico devastante e la nostra impresentabile classe dirigente, non sa che pesci prendere. “Le nostre industrie più sviluppate adorano la competizione”, ha affermato la Von der Leyen durante la seduta del parlamento europeo del 13 settembre scorso, all’inizio di un intervento che rischia di passare alla storia come uno degli esempi più eclatanti di quanto ormai le elite europee vivano in un mondo immaginario tutto loro. “Loro sanno che la competizione fa bene agli affari”, ha continuato ursulona, “e che crea e protegge i posti di lavoro qui in europa”.

Non fa una piega.

Secondo ursulona, le nostre aziende la concorrenza non si limitano a subirla, attrezzandosi come possono per tentare di sopravvivergli, ma proprio la amano. Se te vai dagli azionisti di un’azienda qualsiasi e gli dici di prenotarsi alla caritas perchè a breve li distruggerai mettendo sul mercato un prodotto simile o migliore del loro, ma a metà del prezzo, loro proprio danno fondo a tutte le bottiglie di crystal rimaste in cantina, invitano le migliori escort della loro agenda e ti improvvisano una festa di buon auspicio come non ne hai mai viste.

È proprio per amore della concorrenza, infatti, che le nostre aziende investono più in lobbying che in ricerca e sviluppo. Ed è sempre per amore della concorrenza che nel tempo, con la complicità delle istituzioni, hanno creato un mercato così aperto e concorrenziale, che quando un paio di anni fa è cominciata ad arrivare la spinta inflazionistica, sostanzialmente in tutti i settori si sono formati cartelli più o meno organizzati che non solo hanno potuto serenamente scaricare all’unisono tutto quell’aumento dei costi sui consumatori, senza rimetterci un centesimo, ma ci hanno pure ricaricato sopra e pure parecchio, con il paradosso che mentre tutta l’economia andava a scatafascio e il potere d’acquisto di chi lavora precipitava, i loro profitti decuplicavano.

Più amore per la concorrenza di così…

Ogni tanto però, sottolinea la Von Der Leyen, arriva qualche bricconcello che che sul nostro amore incondizionato per la libera concorrenza ci specula un po’. Troppo spesso”, ha affermato la nostra ursulona, “le nostre aziende sono escluse dai mercati esteri o sono vittime di pratiche predatorie e spesso devono vedersela con concorrenti che beneficiano di ingenti sussidi statali”.

Finalmente! dopo due anni che gli USA non solo ci hanno costretti a infilarci in una guerra per procura in Ucraina contro la Russia che per noi è economicamente  suicida, ma hanno pure rincarato la dose rispolverando un protezionismo economico ultra-aggressivo che ci sta scippando da sotto il culo ogni investimento possibile immaginabile a suon di incentivi multimiliardari alle aziende, finalmente ci siamo decisi a rialzare la testa.

Brava Ursula, era l’ora!

Perchè ovviamente parlavi degli USA, no? Voglio dire, a sto giro l’hanno fatta davvero grossa. Per trent’anni in nome della libera concorrenza e dell’apertura dei mercati non hanno fatto altro che architettare colpi di stato, cambi di regime, devastanti crisi del debito e veri e propri stermini di massa e ora che si sono accorti che la libera concorrenza e l’apertura dei mercati alla lunga li condanna a un’inesorabile declino dal giorno alla notte si sono rimangiati tutto e sono tornati al caro vecchio protezionismo e agli aiuti di stato. Il tutto a nostro discapito. Prima o poi era inevitabile che qualcuno gliene cantasse quattro…macché.

Per mettere fine alla mia breve illusione, è bastato aspettare la frase successiva: non abbiamo dimenticato”, ha tuonato infatti ursulona, “come le pratiche commerciali sleali della Cina hanno influenzato il nostro settore fotovoltaico. Molte giovani imprese sono state espulse da concorrenti cinesi fortemente sovvenzionati”. Ma te guarda, ed io che credevo che si chiamasse, molto banalmente, politica industriale. La Cina infatti si è limitata a fare esattamente la stessa cosa che hanno sempre fatto tutte le potenze industriali quando hanno deciso che la crescita di un determinato settore fosse strategica per l’insieme dell’economia. Attraverso investimenti pubblici hanno creato le condizioni affinché il capitale privato si indirizzasse verso un determinato settore e attraverso altre regole ad hoc, hanno impedito che si sperdesse in settori ritenuti secondari se non addirittura controproducenti. In questo modo, il settore privilegiato ha raggiunto un livello tecnologico e una scala tale da abbattere in maniera drastica i costi e trovarsi così nelle condizioni di sbaragliare la concorrenza, almeno laddove la libertà della concorrenza veniva garantita. Non esiste nell’intera storia del capitalismo settore industriale di una certa consistenza che non si sia sviluppato così. Basti pensare appunto, all’industria automobilistica europea, le cui esigenze hanno dettato per decenni la politica industriale di tutti i principali Paesi del continente, che si sono prodigati in aiuti e sgravi di ogni genere, hanno fatto guerre coloniali e neocoloniali per assicurare l’accesso alle materie prime e con i soldi pubblici hanno costruito le infrastrutture necessarie affinché le auto che venivano prodotte servissero concretamente a qualcosa. L’idea che le aziende private si inventano un prodotto e si affermano sul mercato vincendo contro la concorrenza, senza il sostegno degli Stati, non è semplicemente distorta, è proprio pura fantasia.

Un mondo immaginario.

Tramite “giganteschi sussidi dello stato” ad esempio è nata e cresciuta la Silicon Valley, con i suoi colossi che poi hanno colonizzato digitalmente tutti quei Paesi che non avevano messo sul piatto una politica industriale altrettanto ambiziosa per il settore delle piattaforme tecnologiche. Ovviamente lo stesso è successo con la tecnologia per la produzione di energia da fonti rinnovabili, dove a imporsi invece sono stati appunto i cinesi. Con la differenza che l’abbattimento vertiginoso dei costi per produrre energia da fonti rinnovabili, cara Ursula, a quanto mi risulta, sei la prima a sostenere che sia cosa buona e giusta. Mentre su quanto sia davvero positivo il ruolo che svolge per la collettività l’oligopolio di google, facebook e microsoft, se non ricordo male, anche l’Unione Europea stessa ha sollevato qualche lieve perplessità. Ma se c’è un aspetto che caratterizza sempre le classi dirigenti di una civiltà in declino, è la coazione a ripetere sempre gli stessi errori. Ed ecco così che oggi il focus si sposta su un altro settore, chiacchieratissimo: i veicoli elettrici.

Un settore cruciale per l’economia pulita”, come lo definisce la stessa ursulona, “con un enorme potenziale in Europa”. Che però, teme la nostra ursulona, rischia di rimanere inespresso. Sarà mica per colpa delle case automobilistiche che non ci hanno investito il becco di un quattrino, dal momento che erano troppo occupate a intascarsi i dividendi e andarli a investire nelle bolle speculative negli USA?

No, macchè…sarà allora mica colpa degli Stati che a causa delle loro politiche neocoloniali stanno sul cazzo a tutto il resto del mondo e non sono riusciti a costruirsi una filiera stabile ed efficiente per reperire le materie prime in modo sicuro e sostenibile?

No, ma figurati…sarà allora forse mica perché i governi in preda al misticismo dell’austerità non hanno fatto i compiti a casa in termini di ricerca di base e di costruzione delle infrastrutture necessarie per rendere quel prodotto realmente utilizzabile, a partire banalmente dalle colonnine per la ricarica?

Ma no, ma cosa ti viene in mente mai…e allora vedrai il problema che ha in mente Ursula non può che essere quello che dicevamo all’inizio: il ritorno del protezionismo negli USA, e la politica aggressiva di incentivi che decreta la morte del libero mercato e spinge le nostre aziende a salutare con l’altra manina il vecchio continenti e andare a cercare fortuna in America.

Macchè, manco questo…e di chi sarà mai allora la colpa?

Ma dei cinesi ovviamente!

Secondo la Ursula infatti, il potenziale delle nostre aziende è messo a rischio dal fatto che “i mercati adesso sono inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi grazie a enormi sussidi statali”. È lo stesso identico ragionamento distorto fatto per il fotovoltaico, ma con un aggravante in più parecchio grossina, sinceramente. e imbarazzante. Nel caso dei pannelli fotovoltaici infatti, per lo meno, il dato di base è verissimo: quelli cinesi, a parità di caratteristiche, costavano parecchio ma parecchio meno e si sono divorati il resto del mercato.

Per le auto elettriche, invece, molto banalmente, come dice il nostro amico David Puente: No! le auto elettriche cinesi in Europa non costano meno dei concorrenti. Non è solo questione di contesto mancante, che è la formula che usa David Puente per segnalare a caso come inattendibili tutte le notizie che molto semplicemente non gli piacciono: è proprio una bufala; palese; evidente.

Come vi abbiamo raccontato all’inizio di questo pippone infatti, è assolutamente vero che le auto elettriche cinesi costano enormemente meno di quelle della concorrenza. Questo, come per i pannelli, è il frutto di una politica industriale di lungo periodo, che nel corso degli ultimi dieci anni ha permesso di creare in Cina un ecosistema produttivo che non ha neanche lontanamente pari nel resto del pianeta e anche di generosi incentivi Statali che continuano ad essere concessi sia a chi le macchine le produce, sia a chi le compra, a partire dall’esenzione almeno fino al 2025 dall’IVA. Ma questo appunto, riguarda la Cina e solo la Cina. In Europa, come d’altronde in tutto il resto del mondo, le auto elettriche cinesi costano in media circa il doppio che in patria, e quindi molto banalmente non c’è nessunissima “invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche”, che ammazzano il mercato a causa di intollerabili incentivi Statali. Ma d’altronde, siamo nell’era della post verità e queste semplici considerazioni basate sui numeri, evidentemente, lasciano il tempo che trovano.

Quello che conta è la narrazione.

Ed ecco così che ursulona continua imperterrita per la sua strada, e da assunti completamente inventati, trae inevitabilmente conclusioni decisamente pericolose: questo sta distorcendo il nostro mercato”, tuona, “e quindi oggi sono qua per annunciare che la commissione aprirà una indagine anti-sussidi sui veicoli elettrici cinesi”.

Grande ursula, questo si che è parlare chiaro! La sala del Parlamento Europeo è tutta uno scrosciare di applausi. Ormai funziona così: più grossa è la puttanata, più grossa è la hola.

L’indagine anti sussidi, dovrebbe fornire la legittimazione per introdurre dazi più sostanziosi rispetto alla tassa del 10% sulle auto importate che è già oggi in vigore. L’Unione Europea infatti ci tiene molto a continuare a recitare la parte di quella che rispetta le regole e si rifiuta di alzare i dazi senza giustificazione come ad esempio hanno fatto gli USA, dove ora sono addirittura al 27.5%. Quindi, prima di procedere, vuole far finta di avere una pezza d’appoggio. Peccato però che come sottolinea addirittura Politico, che certo non può essere accusato di avere simpatie filocinesi, “per avviare un’indagine antidumping deve prima verificare che l’oggetto della sua indagine sia effettivamente venduto in Europa a un prezzo inferiore a quello applicato nel paese di origine. E guardando i prezzi sarà piuttosto difficile sostenere questa tesi”. Ma allora, perché mettere in piedi tutta questa ennesima clamorosa buffonata? Sempre secondo Politico, sarebbe tutta farina del sacco dei francesi, che temono per la tenuta dei loro campioni nazionali. In tutta sincerità, ne hanno ben donde. Non so chi di voi ha mai avuto un auto francese: io ho avuto una scenic per qualche anno, ormai una ventina di anni fa. Da allora ho deciso che piuttosto che un auto francese, vado più volentieri a piedi. I tedeschi invece, sottolinea sempre Politico, ma anche Bloomberg, in realtà vedrebbero questa buffonata di cattivo occhio. Loro le auto le sanno fare davvero e non sono troppo preoccupati dalla concorrenza cinese. Mentre sono preoccupatissimi dall’idea che queste buffonate possano far incazzare i cinesi, e spingerli a reagire restringendo la libertà di manovra che i marchi tedeschi hanno sul loro mercato, che è quello che li tiene in piedi. A questo giro, sostiene bloomberg, i cinesi per reagire, molto onestamente, avrebbero motivi in abbondanza. Infatti, ancora non abbiamo risposto alla semplice domanda da cui era partito tutto questo pippone infinito: come minchia è possibile che le auto elettriche cinesi in Europa costino più del doppio che in patria?

Un bel po’ di ottoliner si sono scervellati per tutto il week end alla ricerca di una risposta più o meno plausibile, ma senza grossi risultati. Solo lo stupore di constatare come nessuno, e intendo proprio NESSUNO sui nostri media si sia posto questa domanda fino ad oggi. Sulla stampa internazionale, invece, qualche considerazione si trova.

Mettiamole in fila.

Ai prezzi cinesi, tanto per iniziare, ci vanno sicuramente aggiunti i costi di logistica, che possono arrivare a pesare anche per il 15%; poi c’è la tassa sulle importazioni, che persa per un altro 10%; poi c’è il fatto che nei listini cinesi, visto che fino al 2025 sulle auto elettriche è stata abbattuta, non c’è l’IVA, che pesa per un altro bel 22%; poi c’è il fatto che i marchi cinesi da noi non hanno una rete di distribuzione strutturata, e anche questo produce sovra costi notevoli.

Metti tutto assieme e un bel 50/60% del sovra costo eccolo spiegato. A questo però dobbiamo togliere qualcosa, perché di solito, ovviamente, quando vuoi affacciarti su un nuovo mercato, sopratutto se è un mercato ostile per motivi ideologici e culturali come lo è quello europeo nei confronti del made in china, dovresti essere disposto a sopportare un periodo di margini piuttosto risicati, e questo dovrebbe portare a diminuire un po’ la percentuale di sovra costo spiegabile. Invece qui il rincaro è del 100% o oltre. Da dove arrivi quel 50% abbondante in più, nessuno lo sa spiegare e tendenzialmente, manco c’hanno provato.

A parte Bloomberg, di sfuggita, quasi per sbaglio. Bloomberg infatti, con nonchalance, ribadisce quanto sia strambo che la von der Layen affermi che “il mondo è inondato di auto cinesi a basso costo quando, almeno finora, le case automobilistiche cinesi hanno generalmente evitato di vendere veicoli elettrici a prezzi molto bassi in Europa, forse”, conclude, proprio per timore “di questo tipo di ritorsioni”

T’è capi’?

Lo dice una delle più importanti testate delle oligarchie finanziarie occidentali eh, mica il global times. Quella gigantesca parte di costo aggiuntivo delle auto elettriche cinesi che non siamo riusciti in nessun modo a giustificare, non sarebbe altro che una politica deliberata delle case automobilistiche stesse, con ogni probabilità su indicazioni del Governo, per evitare di mettere troppa pressione sulla decotta industria automobilistica europea e giustificare così l’intervento a gamba tesa delle istituzioni che sono per il libero mercato solo quando fa guadagnare quattrini agli oligarchi che li tengono artificialmente al governo. Se qualcuno di voi ha intenzione di comprarsi una Dolphin, quando staccherà l’assegno, se lo ricordi: dei trentamila euri che sta sganciando, almeno sette sono dovuti alla compagna von der Layen e a chi le permette di avere il ruolo che ha.

Già questo grida vendetta, ma è solo l’inizio.

Il prezzo delle auto elettriche in Cina, infatti, ci dimostra in modo incontrovertibile che si possono produrre auto elettriche a prezzi addirittura inferiori all’endotermico. Come ricorda l’analista del mercato automobilistico indiano Vijay Govindaraju infatti, mentre “negli USA le auto elettriche costano in media il 27% in più di quelle a benzina, e in europa addirittura il 43, in Cina costano la bellezza del 33% in meno”. Chiudersi ai prodotti cinesi quindi ha una sola motivazione: permettere ai nostri colossi automobilistici di continuare a non investire una lira per raggiungere la scala e l’efficienza dell’industria cinese, mentre nel frattempo si costringono i consumatori a comprare le loro inefficienti e costosissime auto. L’ennesima rapina condotta dalle istituzioni per arricchire l’1% ai danni del 99% e che offre così anche una graditissima sponda al complottismo dei negazionisti climatici. Pur partendo da un assunto completamente sbagliato e cioè la negazione della matrice antropica di almeno una parte consistente del surriscaldamento globale, arrivano a conclusioni paradossalmente più lucide delle nostre tanto istruite élite politiche: per le oligarchie occidentali, la transazione ecologica non è altro che l’ennesima scusa per fregarci un’altra gigantesca montagna di quattrini. Con la complicità delle istituzioni e senza manco avvicinarci lontanamente agli obiettivi climatici. Come sempre, i fintoprogressisti immaginari, sono i migliori amici della peggio destra reazionaria: una vera e propria partnership di ferro, nei secoli dei secoli.

Per combatterla, abbiamo bisogno di un media che non si inventi storielle, ma che guardi il mondo dal punto di vista del 99%, aiutaci a costruirlo:

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e chi non aderisce è Ursula von der Leyen








Wall street consensus: come la Finanza trasforma la crisi climatica in guerra contro i poveri

È possibile essere a favore della transizione ecologica senza odiare i poveri?

Di fronte alla polarizzazione del dibattito sulla crisi climatica, tra chi la nega perché una volta sul manuale delle medie ha letto che Annibale ha attraversato le Alpi di gennaio in scooter con l’infradito e chi invece si indigna quando quei cafoni delle pevifevie s’incazzano se la benzina gli costa il doppio, effettivamente, il dubbio viene.

D’altronde, è uno dei dispositivi di dominio in assoluto più potenti dell’egemonia neoliberista: riuscire a spostare il dibattito in una puntata di Ciao Darwin tra due fazioni diverse, ma uguali di destra reazionaria, mentre dietro le quinte oligarchie finanziarie dedite al greenwashing e cari vecchi petrolieri si gonfiano le tasche.

Non è che per caso c’è un modo per mandare a cacare entrambi?

Shkusi, signor miliardario, che me la farebbe mica un poco di transizione ecologica?

L’appecoramento agli interessi dell’oligarchia finanziaria che sta determinando le modalità con le quali l’élite politica del Nord Globale sta affrontando la transizione ecologica, è senza pari: con la mano sinistra si fa finta di aderire senza se e senza ma alle indicazioni che arrivano dalla comunità scientifica; con la destra però poi si pone una condizione che è destinata inesorabilmente a far fallire miseramente ogni tentativo di cercare una soluzione ovvero va bene la transizione, ma solo se non mette in discussione il dominio delle oligarchie finanziarie. Anzi, è pure peggio di così: va bene la transizione, ma solo se riusciamo a trasformarla in un ulteriore gigantesco trasferimento di ricchezza nelle tasche della finanza. Nell’epoca dell’egemonia neoliberista, la guerra culturale tra scienza e superstizione viene trasformata senza ritegno in un altro capitolo della guerra dell’1% contro il 99%: se vuoi piegare le esigenze della transizione ecologica agli interessi della finanza, sei un illuminato progressista; se pretendi che la transizione non venga fatta sulla pelle del 99%, eccoti infilato automaticamente nel calderone del negazionismo più becero.

E il bello è che in questa dicotomia ci casca anche il grosso del 99%!

Invece di rivendicare con forza il fatto che la transizione è necessaria e che per effettuarla veramente, e non solo a chiacchiere, a guidarla non possono essere gli interessi economici immediati dell’1%, si nega la scienza. Per l’1%, è un doppio regalo: da un lato continuano tranquillamente a fare una montagna di quattrini con il fossile e il modello di sviluppo vecchio, e dall’altro si apprestano a imporre la transizione, che è inevitabile, alle loro condizioni.

Non deve per forza andare così.

Come scrive da anni l’economista Daniela Gabor infatti, ci sono sostanzialmente due modi per organizzare la transizione a un’economia a basso tasso di carbonio. Il primo, più efficace, lo chiama Green New Deal e “delinea un programma radicale di trasformazione ecologica ed economica guidato dallo Stato”. Secondo la Gabor: “questo comporta massicci investimenti in attività a basse emissioni di carbonio – politiche industriali verdi sostenute da politiche fiscali e monetarie verdi, garantendo al contempo che la decarbonizzazione avvenga in modo giusto. Fondamentalmente questo richiede la demolizione dell’ordine politico del capitalismo finanziario: annullare la sua avversione ideologica all’attivismo fiscale e all’intervento statale, il suo impegno per l’indipendenza” delle banche centrali e il potere politico dei finanziatori del carbonio”. Proprio come il New Deal di Roosevelt, insomma, presuppone uno spostamento del potere dal capitale al lavoro e allo Stato e, proprio come per il New Deal – contro il quale l’oligarchia finanziaria si è costruita a sua immagine e somiglianza lo Stato neoliberale in cui siamo immersi – anche a questo giro la risposta è già pronta. E visto che lo Stato neoliberale c’è già e il potere politico le oligarchie finanziarie ce lo hanno già, non ci sarà manco da aspettare che si organizzino per reagire: ogni alternativa è uccisa nella culla.
Sostenuta involontariamente da chi invece che giocarsi questa partita, preferisce negare la scienza, questa alternativa neoliberista al Green New Deal la Gabor l’ha chiamata Wall Street Consensus, e “promette che”, specifica la Gabor, “con la giusta spinta, il capitalismo finanziario può realizzare una transizione a basse emissioni di carbonio senza cambiamenti politici o istituzionali radicali”. Il mantra del Wall Street Consensus è creare le condizioni affinché sia possibile “sfruttare il capitale privato per lo sviluppo“.

Un po’ quello che dicono i cinesi insomma.

Peccato che nel nostro caso i rapporti di forza siano invertiti e ad essere sfruttato sia il miraggio dello sviluppo per favorire il capitale privato. “I finanziatori del carbonio”, infatti, scrive la Gabor, “vedono sempre più la crisi climatica non come una minaccia, ma come un’opportunità per realizzare profitti elevati, attraverso il greenwashing sovvenzionato”.

Greenwashing sovvenzionato: quanto amo la Gabor!

Significa in sostanza che creiamo le condizioni affinché la transizione sia una gigantesca opportunità di guadagno per le oligarchie finanziarie, ma senza manco pretendere che poi questa transizione la facciano davvero: basta che lo dicano! Ad esempio, attraverso il rating ESG, che sta per “Environment, Social and Governance”, e cioè la pagella delle aziende non in base agli indicatori economici e finanziari, ma appunto alla loro sostenibilità ambientale, sociale e di governance: una gigantesca presa per il culo!

Non tanto per il principio in sé, ovviamente – che sarebbe cosa buona e giusta – ma proprio perché in mano al mondo della finanza privata, e senza nessuna capacità da parte del potere politico di mettere dei paletti, e di controllare che vengano rispettati, s’è inevitabilmente trasformato in una barzelletta.

Il mercato delle agenzie di rating e dei fondi ESG è il cuore del greenwashing globale.

Se per anni ci siamo scandalizzati per lo strapotere di tre sole agenzie di rating finanziario, Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, ecco, calcolate che quando si parla di rating di sostenibilità, una società da sola, MSCI, pesa per oltre il 60% del mercato globale e le sue valutazioni hanno dell’incredibile.

Nel 2021 fece scalpore la vicenda McDonald che, cuore di un modello economico incredibilmente insostenibile e predatorio, era stata promossa proprio da MSCI, nonostante generasse più gas serra di Stati come il Portogallo o l’Ungheria e le sue emissioni nell’arco di quattro anni fossero salite ulteriormente del 7%. McDonald ora ha un rating tripla B, che equivale ad una bella sufficienza. Ma niente al confronto con quello di JP Morgan, la più grande banca privata del mondo: nonostante con quattrocentotrentaquattro miliardi in sette anni sia in assoluto il più grande finanziatore al mondo di progetti legati al fossile, per MSCI s’è guadagnata una bella A, un bel sette in pagella. Non dovrebbe sorprendere. MSCI infatti, non valuta l’impatto che la singola azienda ha sul clima, ma l’impatto che il clima ha sui conti dell’azienda: cioè, puoi anche contribuire a devastare il pianeta, ma se il tuo modello di business ti permette di continuare a fare profitto anche in un pianeta ambientalmente devastato, sei promosso. Così se nel 2021 MSCI ha migliorato il rating di 155 grandi corporation, soltanto 1, RIPETO 1, aveva effettivamente registrato una diminuzione delle emissioni.

Ma non è ancora finita perché se MSCI pesa per il 60% del mercato, anche il restante 40% ha ovviamente il suo peso e la sua utilità che principalmente consiste nel fatto che se cerchi per una qualsiasi azienda un’agenzia disposta a dare un buon rating, la trovi

Qualche tempo fa fece scalpore il caso Enbridge. Era riuscita a farsi concedere un finanziamento di 1 miliardo di dollari, legato proprio alla sostenibilità: serviva per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose.

Cosa significa?

Lo raccontava magistralmente il buon vecchio Andrea Barolini in un articolo su Valori.it , “Istruzioni per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose. Per raggiungere gli strati di sabbia ricchi di bitume, radete al suolo le foreste sovrastanti; trasportate tonnellate di sabbia all’impianto; utilizzate enormi quantitativi di acqua e solventi per estrarre il bitume; raffinatelo consumando altra energia; e alla fine ottenete del petrolio un po’ scadente da bruciare allegramente, con un ciclo che produce tra le 3 e le 4 volte le emissioni che si ottengono quando si estrae petrolio con tecniche tradizionali”.

E così, dopo Enbridge, nel tuo fondo “sostenibile” ci puoi mettere letteralmente cosa ti pare.

Blackrock di fondi sostenibili, ad esempio, ne ha quanti ne vuoi e Larry Fink nel 2020 era salito alla ribalta per la sua famosa rituale lettera annuale agli investitori, che a questo giro annunciava una decisa svolta green. Tutt’ora Blackrock investe 85 miliardi in società che producono energia col carbone.

Quindi non è altro che greenwashing?”, chiedevano sempre gli amici di Valori un po’ di tempo fa a Tariq Fancy, un ex pezzo grosso proprio di Blackrock poi pentito.

Complessivamente sì, è assolutamente greenwashing”, è stata la risposta.

Per evitare queste distorsioni qualche anno fa il mondo della finanza ha messo in piedi uno strumento innovativo: si chiama TNFD, che sta per Taskforce on Nature-related Financial Disclosure. Si fonderà su dei report dettagliati, che però funzionano esattamente come il rating di MSCI: “i rapporti che le aziende saranno chiamate a stilare non riguardano direttamente l’impatto che la loro attività ha sulla natura”, scriveva nell’agosto scorso il nostro Lorenzo Tecleme. “Viceversa”, continuava, “alle corporation è richiesto di spiegare se il loro modello di business è messo in qualche modo a rischio da fattori legati alla natura. O, all’opposto, se dal rapporto con gli ecosistemi possano nascere nuove opportunità economiche”.

Non era il primo esperimento in questo senso.

L’anno precedente infatti era entrata in funzione un’altra taskforce, la taskforce on climate-related financial disclosure. A capo c’era un ambientalista senza macchia: Michael Bloomberg, il settimo uomo più ricco del pianeta. Siccome evidentemente questi sistemi di valutazione privati non servono a una sega-niente, le istituzioni hanno cominciato a elaborare i loro, in particolare l’Europa. Per farlo, indovinate chi hanno assunto come consulente? Blackrock.
Nel caro e vecchio tradizionale capitalismo di rapina, i ricchi dovevano investire quattrini per fare lobbying presso le istituzioni; ora le istituzioni li pagano. Alla luce di queste evidenze, la guerra civile tra ambientalisti delle ZTL e negazionisti dei bassifondi può essere riqualificata come una guerra tra due negazionismi: i secondi negano la realtà scientifica sul clima, i primi quella sul capitalismo, e – visto che per quanto complesso, per capire il capitalismo tutto sommato non servono complessissime equazioni differenziali non lineari – tra i due, se proprio vogliamo trarre le somme, le più capre sono abbastanza chiaramente i primi.

Lo scozzo un po’ si riequilibra però quando al discorso sul potere della finanza, ci aggiungiamo anche quello geopolitico. Gli ambientalisti delle ZTL infatti sono di fronte a un dilemma esistenziale straziante: sono carichissimi per la guerra che il Nord globale ha finalmente deciso di ingaggiare contro l’asse delle autocrazie; peccato però che quella guerra, significa fare “ciao ciao” con la manina alla tanto agognata transizione.

Mentre l’Occidente infatti si crogiolava nella sua manifesta superiorità, i cinesi la transizione cominciavano a farla concretamente e soprattutto, costruivano i presupposti per portarla a termine.

Ancora nel 2007 infatti l’Europa era il principale hub manifatturiero per l’industria solare al mondo con circa un terzo della capacità produttiva globale di pannelli. Da allora, i cinesi -che evidentemente non leggevano La Verità – come per l’auto elettrica, hanno investito una quantità clamorosa di soldi per diventare i primi della classe. E li hanno investiti bene: non regalandoli a pioggia ai petrolieri privati e ai finanzieri che si improvvisavano avanguardie delle rinnovabili, ma facendo trainare tutta la conversione dallo Stato.

Tre anni dopo, erano già diventati i primi della classe. Noi, da bravi amanti del libero mercato, abbiamo reagito con dazi che si avvicinavano al 50%. Conseguenza: la svolta green di Europa e USA si sono fermate, senza fare grosso danno alla Cina. Abituati a essere i maggiordomi della finanza, i politici europei non hanno calcolato che in un Paese dove a guidare la carretta è lo Stato, non sarà qualche scaramuccia commerciale a far sviare da quello che viene considerato un obiettivo strategico, e così, nonostante i dazi, dal 2011 a oggi la Cina nell’industria solare ha investito 50 miliardi: 10 volte l’Europa. Grazie a questi investimenti, oggi la Cina produce pannelli in modo incommensurabilmente più efficienti ed economici che chiunque altro al mondo, mentre l’Europa e gli USA, si limitano a provare a limitare i danni: regalando quattrini ai privati.

L’obiettivo ora in Europa sarebbe arrivare a prodursi da sola il 40% dei pannelli che le servono per fare la transizione. Auguri!

Non possiamo scalare abbastanza rapidamente per soddisfare la domanda europea“, avrebbe affermato al Financial Times Steven Xuereb, direttore del Photovoltaik-Institut Berlin. “Tutti sono entusiasti del nuovo impianto [Enel] in Sicilia, che produrrà 3GW. I colossi cinesi stanno annunciando nuove fabbriche da 20GW”.

Riprendersi un pezzo del mercato, oltre a costare una quantità di quattrini spropositata, e quindi rallentare la transizione, potrebbe in realtà essere proprio infattibile perché nel tempo la Cina non ha conquistato soltanto il quasi monopolio dei prodotti finiti, ma anche di tutti i prodotti intermedi che servono per farli.

Il grafico pubblicato qualche settimana fa dal Financial times è piuttosto impietoso: divide la filiera dei pannelli in quattro stadi: produzione di polisilicio, produzione di wafer di silicio, produzione di celle e infine di pannelli veri e propri. Se per gli ultimi due stadi, celle e pannelli, la Cina oggi controlla circa l’80% del mercato, ma già nel 2010 era sopra il 50%, per il polisilicio è passata in 12 anni dal 25 a oltre il 90% del mercato, e per i wafer di silicio è diventata sostanzialmente l’unico produttore al mondo.

Recuperare è impossibile e forse anche solo provarci. La produzione di polisilicio e quella dei wafer infatti è enormemente energivora e l’energia in Cina costa la metà che da noi, senza contare gli incentivi.

Difficile credere”, conclude il Financial Times, “che qualcuno investirà miliardi senza la sicurezza di prezzi competitivi e prevedibili dell’energia”.

Ed ecco così che dopo il negazionismo climatico e quello economico, abbiamo il terzo negazionismo che impedirà di farla davvero sta transizione: quello che nega il fatto che il Mondo Nuovo ci sta facendo un culo così!

Contro il negazionismo, la finanza che ci banchetta sopra e la politica e l’informazione che assistono senza avere niente da ridire, quello di cui abbiamo bisogno è sempre di più un media che dia voce al 99%.

Aiutaci a costruirlo. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal ( https://shorturl.at/knrCU )

E chi non aderisce è Michael Bloomberg.