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Italia in guerra nel Mar Rosso – Perché la favola della missione difensiva è già finita

Alta tensione con gli Houthi titolava a 6 colonne ieri Il Corriere in prima pagina; “La nave Duilio abbatte altri due droni nel Mar Rosso” e “i ribelli minacciano: l’Italia sta con i nemici”. Secondo Davide Frattini, “tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita” e “Così, nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa globale”; notare i termini: quello di Gaza non solo non è un massacro e, tantomeno, un genocidio, ma non è manco una guerra vera e propria. E’ un’offensiva: l’offensiva dei moderati ai quali si contrappongono gli estremisti che, ovviamente, non sono altro che un proxy di forze ancora più oscure perché chi mai, nel pieno possesso delle sue facoltà, deciderebbe di sua sponte di provare a ostacolare l’arrivo in Israele delle armi che usano per sterminare i bambini palestinesi? Queste forze oscure, ovviamente, in primo luogo sono l’Iran che, da dietro le quinte, “muove le sue armate per procura”, un tassello importante della propaganda suprematista che non sta né in cielo, né in terra e non è che lo diciamo noi: lo dice pure il Corriere stesso; basta girare pagina. “La milizia non ha vincoli” si legge “ed è autonoma dall’Iran”: a sottolinearlo non è esattamente un pasdaran del nuovo ordine multipolare, ma l’ultra atlantista Guido Olimpo che, sebbene ricordi – giustamente – che “è innegabile l’importanza del vincolo bellico con i pasdaran”, ha comunque un raro sprazzo di lucidità e sottolinea come “è opinione condivisa che il vertice Houthi abbia autonomia di scelta”.
Una lucidità che, evidentemente, manca al buon Davide Frattini che rilancia, perché – oltre all’Iran – c’è un’altra forza oscura dietro ai pupazzi yemeniti, la più oscura di tutte le forze oscure: il plurimorto dittatore sangunario Vladimir Putin; “Il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez” sottolinea infatti Frattini l’irriducibile “ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe” che, essendo la Russia un sanguinario regime autarchico, ovviamente, sono “monopolio di proprietà dello Stato”. Ed ecco così che il cerchio si chiude e quegli estremisti degli Houthi, alla fine, commettono un crimine in prima persona e ne sostengono un altro indirettamente perché “Ogni vagone che passa sopra quei binari va a finanziare l’invasione dell’Ucraina”: come si fa a non prendere orgogliosamente parte a questo ennesimo capitolo della lunga guerra del Bene occidentale contro il Male del resto del mondo?
La notizia dell’aumento del traffico merci sui binari russi dall’inizio della crisi del Mar Rosso, riportata da Frattini, arriverà dal Financial Times: i vari operatori, scrive la testata britannica, avrebbero in effetti parlato di aumenti dal 30 al 40. Ma c’è un piccolo dettaglio che a Frattini, evidentemente, è sfuggito: “I volumi mensili sulla rotta” riporta infatti il Financial Times “sono diminuiti dopo l’invasione e rappresentano ancora meno della quantità trasportata da una singola grande nave portacontainer moderna”; un altro capitolo della lunga saga dell’odio viscerale dei giornalisti di colonia Italia verso i numeri e la logica matematica. Secondo Frattini, la Russia spingerebbe verso un’escalation potenzialmente devastante per spostare il traffico di mezza nave container: quando si dice il giornalismo basato sui dati; la guerra del bene contro il male comunque, continua Frattini, potrebbe essere solo all’inizio perché “L’asse della resistenza, come si autodefinisce, adesso spera che il mese più sacro per i musulmani” e, cioè, il periodo di Ramadan iniziato domenica scorsa “spinga ad aprire altri fronti contro Israele”. Pensate, addirittura, che vorrebbero incitare “proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania”: cosa c’avranno mai da protestare lo sanno solo loro e i loro cattivi maestri di Teheran e Mosca… Per fortuna che ci sono gli USA: guidati da spirito di sacrificio, infatti, “Gli americani continuano a negoziare un’intesa per la liberazione”, da un lato, di “un centinaio di ostaggi” sequestrati senza motivo dai crudeli “terroristi” e, dall’altro, di “detenuti palestinesi” ai quali, invece, vengono garantiti tutti i diritti e che, quasi quasi, stanno meglio in carcere che nei loro villaggetti di selvaggi, tant’è che ora nelle carceri israeliane ci vogliamo mandare anche i palestinesi residenti in Italia.

Anan Yaeesh

E’ l’incredibile caso di Anan Yaeesh, Il terrorista palestinese vezzeggiato da sinistra e 5s come titolano i paladini del garantismo del Giornanale – un garantismo che vale solo per la razza ariana e per i redditi da 100 mila euro in su; sulla testa di Yaeesh, infatti, incombe una richiesta di estradizione da parte del regime fondato sull’apartheid di Tel Aviv, che il procuratore ha deciso di fare sua: Yaeesh sarebbe accusato di aver collaborato con le Brigate Tulkarem in attività che avrebbero “finalità terroristiche” che, per gli israeliani, significa qualsiasi cosa che uno fa per resistere alla pulizia etnica. L’articolo 3 della CEDU, ovviamente, impedirebbe di consegnare una persona a un paese che pratica la tortura, ma siccome Israele è una l’unica democrazia del Medio Oriente, lì la tortura la chiamano metodi avanzati di interrogatorio e alla propaganda suprematista a sostegno del genocidio tanto basta. Tornando all’articolo di Frattini, bisogna concedergli che anche lui, a un certo punto, ammette che “La situazione per la popolazione di Gaza continua ad essere disastrosa”; peccato la colpa sia tutta di Hamas che non solo, con il suo pogrom ingiustificato del 7 ottobre, ha scatenato l’offensiva dei pacifici israeliani, ma ora ostacola anche l’arrivo degli aiuti a 2 stelle Michelin: grazie anche al supporto della sempre generosissima Unione Europea, infatti, è stato stabilito un corridoio marittimo che da Cipro sfocia direttamente in un nuovo molo in costruzione al nord di Gaza ed è qui che sbarcheranno gli aiuti della “World Central Kitchen, l’organizzazione creata dallo chef ispano – americano José Andrés”: volevano il pane; gli abbiamo dato la cucina molecolare (e si lamentano pure). In questo contesto, scrive il Giornanale, “essere sulla lavagna nera delle milizie finanziate dall’Iran costituisce un motivo di orgoglio”.
Alcuni, infatti, si limitano a parlare di autodifesa della nostra Caio Duilio, ma – ovviamente – in ballo qui c’è molto di più: lo rivendica con orgoglio l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, già capo di stato maggiore della marina militare: “Finiamola di parlare di autodifesa” avrebbe affermato al Giornanale; “qui difendiamo gli interessi europei e nazionali” e per difenderli adeguatamente, le regole d’ingaggio, che prevedono una missione meramente difensiva, cominciano già a stare strette. “Le informazioni della Caio Duilio” sottolinea, infatti, Rinaldo Frignani sempre sul Corriere della Serva “comprendono la posizione di chi lancia e manovra i droni” e – indovina indovinello – “vengono comunicate agli alleati, come gli USA, che potrebbero usarle”; così, en passant, come se nulla fosse, Frignani ammette candidamente che la nostra Aspides non è ancora iniziata e già la favoletta della missione difensiva non regge più: la nostra presenza nel Mar Rosso è, a tutti gli effetti, parte della missione offensiva dei padroni a stelle e strisce, che continua ad allargarsi.
All’alba di martedì, infatti, Ansar Allah avrebbe preso di mira il cargo americano Pinocchio con una serie di missili: nel gioco delle tre carte che le portacontainer legate a Israele stanno cercando di fare dall’inizio delle operazioni di Ansar Allah per dissimulare i loro legami con il genocidio, la nave risultava battere bandiera liberiana e legata alla compagnia USA Oaktree Capital Management, ma c’era qualcosa che aveva insospettito l’intelligence yemenita; la nave infatti, riporta Al Akhbar, “portava sopra il logo della compagnia israeliana Zim, e tra i vecchi nomi dell’imbarcazione risultavano nomi come Zim San Francisco. Ad aumentare i sospetti – poi – il fatto che la nave, che era partita domenica dal porto di Gedda in direzione del canale di Suez, non avesse menzionato nelle sue dichiarazioni la destinazione finale”. “Le navi americane e britanniche dirette verso i porti della Palestina occupata” continua Al Akhbar “falsificano deliberatamente sistematicamente i loro dati nel tentativo di attraversare il Mar Rosso”. La reazione USA è stata feroce: oltre 20 raid aerei in cinque aree diverse e non tutte con chiari obiettivi militari, come l’attacco nel Governatorato di Saada che, sempre secondo Al Akhbar, sarebbe giustificato soltanto dal fatto che “è la roccaforte del leader di Ansar Allah, Abdul Malik Al Houthi”. L’efficacia di questi attacchi rimane comunque piuttosto dubbia, ed ecco così che gli USA stanno cercando un’alternativa: secondo Al Akhbar, infatti, “Gli Stati Uniti hanno fornito imbarcazioni militari al Consiglio di Transizione Meridionale affiliato agli Emirati, nel tentativo di coinvolgerlo in una guerra per procura”; si tratta dell’organizzazione politica secessionista yemenita guidata dall’ex governatore di Aden, Aidarus al-Zoubaidi che, nata nel 2017 per rivendicare la separazione dello Yemen del Sud dal resto della nazione, è sostenuta da Abu Dhabi. “Aidarus al-Zoubaidi che, in precedenza, aveva espresso la volontà di normalizzare le relazioni con l’entità israeliana” scrive Al Akhbar “è apparso a bordo di una delle barche americane in una parata navale, e insieme a lui c’erano numerosi comandanti militari fedeli agli Emirati Arabi Uniti”: secondo Al Akhbar avrebbero ricevuto l’incarico dagli USA di accompagnare le navi legate a Israele mentre si avvicinano al porto di Aden e allo stretto di Bab el-Mandeb. A emettere un appello ad affiancare le forze USA e britanniche contro Ansar Allah sarebbe stato anche Abu Zara’a Al-Muharrami, comandante delle Forze dei giganti – le milizie fedeli ad Abu Dhabi – e vicepresidente del Consiglio di Transizione, una macchinazione che, però, avrebbe fatto infuriare la popolazione locale: contro l’appello, infatti, “Gli studiosi e i predicatori di Aden” riporta Al Akhbar “hanno emesso una fatwa, che riconosce che esiste una disputa con chi è al governo a Sanaa” e cioè, appunto, Ansar Allah, “ma che non è assolutamente consentito schierarsi dalla parte di Israele e dell’America”; “Questa fatwa” continua Al Akhbar “indica che esiste un diffuso rifiuto tra le milizie di transizione di qualsiasi escalation contro Sana’a, e che le opzioni di Washington per mobilitare queste fazioni sono diventate così più limitate”.

Hicham Safieddine

Fortunatamente però, dopo tante delusioni, per gli occidentali a sostegno del genocidio è arrivata anche una buona notizia; l’ha annunciata su Telegram Nasr El-Din Amer, il vice presidente dell’agenzia dei media di Ansar Allah: “La prima vittoria ottenuta da America e Gran Bretagna” ha annunciato “è la rimozione delle spunte blu dagli account Twitter dei leader statali di Sana’a. Per quanto riguarda invece le forze armate yemenite, dai razzi, ai droni a tutte le capacità militari, non sono state scalfite. Si scopre che l’America è una forza da non sottovalutare, fratelli”. Quella di bullizzare i colonialisti e gli aspiranti tali, in Yemen, effettivamente, è una vecchia tradizione: come ricorda su Middle East Eye lo storico canadese di origini libanesi Hicham Safieddine, nonostante i britannici abbiano mantenuto il controllo della città costiera di Aden per oltre 125 anni, non sono mai riusciti ad “espandere il loro dominio nell’entroterra” fino a quando “Nel 1963, il Fronte di Liberazione Nazionale (FNL) lanciò una lotta armata con il sostegno rurale della regione montuosa di Radfan. Gli inglesi designarono l’FNL come un’organizzazione terroristica e risposero bruciando villaggi e altri atti di violenza collettiva. Le campagne punitive britanniche, tuttavia, fecero ben poco per smorzare la resistenza yemenita”; “Le forze radicali della resistenza dello Yemen del Sud” continua Safieddine “adottarono un’ideologia marxista – leninista che prevedeva un futuro socialista per uno Yemen liberato. La loro posizione intransigente nei confronti dell’occupazione britannica portò a una vittoria spettacolare nel 1967. E i tentativi britannici di negoziare un ruolo economico o militare nello Yemen post indipendenza, simile a quello francese in Algeria, furono di breve durata e in gran parte infruttuosi, con gli inglesi che alla fine furono costretti a pagare oltre 15 milioni di dollari come indennità. Questo” sottolinea Safieddine “ha lasciato un ricordo doloroso tra i funzionari britannici che perdura ancora oggi”. A differenza di altre lotte di liberazione nazionale che hanno conquistato fama e riconoscimento internazionale – da quella algerina a quella cubana – la vicenda yemenita è stata sistematicamente snobbata dal pubblico occidentale, ma per alcuni storici, sottolinea Safieddine, “Lo Yemen è stato il Vietnam della Gran Bretagna”, una storia gloriosa che continua a ispirare Ansar Allah: in un recente discorso televisivo, riporta Safeiddine, “Abdel-Malik al-Houthi ha messo in guardia il Regno Unito da qualsiasi illusione nutrisse di ricolonizzare lo Yemen. Tali illusioni, ha detto, “sono i segni di una malattia mentale la cui cura è nelle nostre mani: missili balistici che bruciano le navi in mare”. Anche a questo giro, la tendenza è stata subito quella di minimizzare e descrivere un gruppo di terroristi scappati di casa che attentano, con la loro barbarie, il giardino ordinato salvo poi, nella provincia dell’impero, dedicare titoloni a 6 colonne all’eroismo e alla professionalità dei nostri uomini per aver tirato giù un drone da ricognizione con un cannoncino.
La verità, però, potrebbe essere un po’ meno confortevole: “Quanti marinai USA ci sono adesso nel Mar Rosso?” ha chiesto la giornalista Norah O’Donnell al vice ammiraglio Brad Cooper durante una puntata del celebre programma televisivo statunitense 60 minutes; “Ne abbiamo circa 7.000 in questo momento. Si tratta di un impegno imponente”. “Quando è stata l’ultima volta che la Marina americana ha operato a questo ritmo per un paio di mesi?” ha chiesto ancora la giornalista; “Credo dovremmo tornare alla Seconda Guerra Mondiale” ha risposto il vice ammiraglio, “quando ci sono state navi impegnate direttamente nei combattimento. E quando dico impegnate in combattimento, intendo che ci sparano e noi rispondiamo al fuoco”. Il vice ammiraglio Cooper ricorda anche come “Gli Houthi sono la prima entità nella storia a utilizzare missili balistici antinave per colpire delle navi. Nessuno li ha mai usati prima contro navi commerciali, e tantomeno contro navi della marina americana”; come sottolinea il vice ammiraglio, parliamo di missili che viaggiano a circa 3 mila miglia orarie e, dal momento dell’avvistamento, il capitano di una nave ha dai 9 ai 15 secondi per decidere il da farsi e visto che è sempre meglio aver paura che prenderle, la tendenza a reagire sempre con il massimo della forza è inaggirabile. Risultato – sottolinea il servizio di 60 minutes -: “La marina ha lanciato circa 100 dei suoi missili terra – aria Standard, che possono costare fino a 4 milioni di dollari ciascuno”; l’unica via di uscita sostenibile, quindi, è questi benedetti missili balistici riuscire a colpirli con attacchi aerei in territorio yemenita prima che partano. Ed ecco allora che l’intelligence che forniamo, anche con la missione difensiva degli alleati europei, diventa fondamentale e la trasforma automaticamente in qualcosa che non è difensivo per niente e che potrebbe, a breve, dover affrontare uno scenario ben più complesso di quello attuale.

Maritime Security Belt

Lunedì scorso, nel Golfo di Oman, è iniziata un’esercitazione marittima congiunta di Iran, Russia e Cina; si chiama Maritime Security Belt ed è arrivata alla sua quinta edizione, un traguardo che hanno deciso di festeggiare alla grande: nella prima edizione, infatti, la Cina aveva partecipato con una sola nave; la seconda l’aveva saltata tout court e alle successive due si era presentata, di nuovo, sempre con una sola imbarcazione. Quest’anno, invece, non si raddoppia: si triplica e, ad affiancare il solito cacciatorpediniere, ci saranno anche una fregata e una nave di rifornimento che, insieme, costituiscono la 45esima task force di scorta. La 45esima task force era stazionata nel Golfo di Aden sin dall’ottobre scorso e, da allora, ha portato a termine ben 43 missioni durante le quali ha garantito il transito di 72 navi; ora quel compito è stato affidato alla 46esima task force che ha effettuato la sua prima missione appena 3 giorni fa: ed ecco così che la presenza cinese nell’area raddoppia. A ottobre la Cina aveva già condotto un’esercitazione congiunta con la marina pakistana, “la più grande di sempre tra i due paesi” aveva sottolineato il South China Morning Post e dove erano state coinvolte altre 6 imbarcazioni del dragone, comprese una fregata, due cacciatorpedinieri e una nave di rifornimento: anche a questo giro i pakistani sono nuovamente coinvolti, ma solo come osservatori al fianco di kazaki, indiani e sudafricani, lo stesso ruolo ricoperto anche dall’Oman e dall’Azerbaijan.
La prospettiva della grande guerra globale per il controllo del mare nell’era del declino della pax americana si fa sempre più minacciosa: magari se l’Italia, ogni tanto, avesse un piccolo moto se non proprio di orgoglio, perlomeno di opportunismo, e approfittasse del caos che ci circonda per farsi un attimino licazzisua invece che fare sempre da cavalier servente della potenza in declino del momento, non sarebbe proprio malissimo, diciamo; perché gli italiani tornino a fare un po’ anche i loro interessi, serve che prima imparino a riconoscerli e, per riconoscerli, serve un media che, invece che da ripetitore dei dictat atlantisti, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fabio Fazio

Come la Russia di Putin ha vinto la guerra economica contro l’Occidente collettivo. Un’altra volta.

“L’economia russa ancora una volta sfida i profeti di sventura”: ad affermarlo non è qualche nostro compagno di qualche lista di proscrizione, ma nientepopodimeno che l’Economist, la testata controllata dalla più filoatlantista delle grandi famiglie del capitalismo italiano: gli Agnelli/Elkann; dopo aver clamorosamente smentito le previsioni sul crollo del suo PIL innumerevoli volte, gli ultimi cavalli di battaglia della propaganda analfoliberale e russofoba sono stati a lungo la fantomatica inarrestabile ascesa dell’inflazione e, di pari passo, l’ancor più inarrestabile declino del rublo. Lo spettro dell’iperinflazione incombe su Putin mentre l’economia russa crolla titolava, già nell’agosto scorso, il sempre attendibilissimo Telegraph; “Il rublo russo è destinato a scendere costantemente oltre quota 100 rispetto al dollaro nel 2024” rilanciava ancora, nel novembre scorso, Reuters e per mesi, sulle nostre bacheche, siamo stati bombardati da analfoliberali – che, rispetto ai giornalisti di Telegraph e Reuters, c’hanno pure l’aggravante di farlo a gratis per pura passione – che si postavano i grafici dell’andamento del rublo e dell’inflazione annunciando l’ennesimo imminente catastrofico crollo del sanguinario regime putiniano; ora l’Economist certifica che è andata un po’ diversamente: siamo ormai al terzo mese del 2024, ma invece che oltre 100 rubli per comprare un dollaro, ne bastano 90 (prima del conflitto ne servivano 75).

Dopo tutto questo sciabolare di spade, la situazione si è conclusa semplicemente con una piccola svalutazione competitiva in perfetto stile italiano, almeno fino a quando la finalità era far crescere l’economia e non, esclusivamente, arricchire le banche e le oligarchie finanziarie; discorso simile anche per l’inflazione che, dal minimo del 3% nell’aprile del 2023, era cresciuta costantemente fino ad arrivare il picco del 7,5 nel novembre scorso e sembrava destinata a non fermarsi più, ma “Ancora una volta” sottolinea l’Economist “l’economia russa sembra aver smentito clamorosamente i pessimisti”: “I dati che saranno pubblicati il 13 marzo” e cioè oggi, scrive l’Economist, “ci si aspetta che dimostrino che i prezzi a febbraio sono saliti dello 0,6%, contro l’1,1% degli ultimi mesi dell’anno scorso”. “Molti previsori” ora, continua l’Economist, “prevedono che il tasso annuale scenderà presto al 4%, e anche le preoccupazioni delle famiglie sull’inflazione futura sono rientrate”. E graziarcazzo, aggiungerei: contro inflazione e svalutazione del rublo, infatti, la Banca Centrale era entrata a gamba tesa che più tesa non si può, innalzando i tassi di interesse fino al 16%.
Ma come, Marru, per amore di zio Vlad, dopo aver infamato per una vita i banchieri dell’austerity, ora ti metti a esaltarli? Non esattamente: il punto, molto banalmente, è che c’è inflazione e inflazione e quella russa, con quella che abbiamo vissuto noi, non c’azzecca proprio niente. Intendiamoci: anche da noi i banchieri centrali dicevano che bisognava alzare i tassi perché i salari stavano crescendo troppo; il problema è che, molto semplicemente, era una bugia e i nostri salari sono costantemente aumentati incredibilmente meno dell’inflazione arrivando, nell’arco di un anno, a fregarci sostanzialmente un intero stipendio. In Russia, invece, nell’autunno scorso l’aumento nominale dei salari – ricorda l’Economist – aveva raggiunto il 18% e, cioè, 10 punti in più dell’inflazione. Insomma: una volta tanto l’inflazione era trainata davvero dalla spinta dei salari e quindi, in quel caso, la risposta standard dell’aumento dei tassi di interesse non dico sia giusta, ma sicuramente è ragionevole; l’inflazione, infatti, in buona parte era dovuta al fatto che il maggiore potere d’acquisto dei lavoratori si era trasformato in maggiori consumi e, come spiega l’Economist, “La domanda di beni e servizi era cresciuta oltre la capacità dell’economia di fornirli, portando i venditori ad aumentare i prezzi”. “Tassi più alti” invece, continua l’Economist, “hanno incoraggiato i russi a mettere i soldi nei conti di risparmio invece di spenderli”.
Per capire invece se, oltre che ragionevole, la scelta di alzare i tassi sia stata anche giusta, va fatto un passettino oltre perché il punto, ovviamente, è se – oltre a contenere l’inflazione – l’aumento dei tassi innesca anche una recessione e, se innesca una recessione, chi la paga; e in Russia, molto semplicemente, la recessione non è arrivata, anzi! “La Russia” infatti, scrive l’Economist, “sembra avviata verso un atterraggio morbido, in cui l’inflazione rallenta senza deprimere l’economia. L’andamento dell’economia è ora in linea con il trend pre – invasione, e lo scorso anno il PIL è cresciuto in termini reali di oltre il 3%. La disoccupazione nel frattempo resta ai minimi storici. E non ci sono segni di difficoltà da parte delle aziende. Anzi: il tasso di chiusura delle imprese ha recentemente raggiunto il livello più basso degli ultimi otto anni” e siamo solo all’inizio: il Fondo Monetario Internazionale s’è dovuto adeguare all’evidenza e ha raddoppiato le previsioni di crescita per il 2024 al 2,6%; l’area euro e il Giappone, per intenderci, è previsto che cresceranno soltanto dello 0,9, l’Italia dello 0,7, la Gran Bretagna dello 0,6 e la Germania dello 0,5.
Ma come ha fatto il paese più sanzionato della storia dell’umanità a reggere botta? E cosa comporta la tenuta della Russia per le magnifiche sorti e progressive di quella che, come lamenta La Verità, nonostante tutte le evidenze i dittatori del politically correct ci continuano a vietare di dire che è una civiltà superiore? A suonare l’ennesimo campanello d’allarme, a fine febbraio, c’aveva pensato sempre l’Economist: Le sanzioni, titolava, non sono il modo per combattere Vladimir Putin. La prima enorme ondata di sanzioni aveva mostrato tutta la sua debolezza da tempo: subito dopo l’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina “La serie di sanzioni rivolte a una delle più grandi economie del mondo” ricorda l’Economist “era stata salutata come senza precedenti; e all’Economist stesso avevamo ipotizzato che lo shock che ne sarebbe derivato avrebbe potuto portare a una crisi di liquidità insostenibile e addirittura a un cambio di regime”. “La realtà” ammette onestamente l’Economist “si è rivelata drasticamente diversa”; “L’economia russa si è rivelata enormemente più resiliente del previsto, e il tentativo di imporre sanzioni molto meno efficace di quanto si sperasse”; “Subito dopo l’inizio della guerra, il FMI prevedeva che il PIL russo si sarebbe ridotto di oltre un decimo tra il 2021 e il 2023. Nell’ottobre dello scorso anno ha calcolato che in realtà in quel periodo al contrario la produzione è addirittura aumentata”, ma ancora più significativamente, continua l’Economist “La guerra ha dimostrato quanto velocemente il commercio globale e i flussi finanziari trovino un percorso per aggirare le barriere poste sul loro cammino”.
E’ un caso da manuale di come si diventa facilmente vittime della propria stessa propaganda: da anni ci prendiamo pesci in faccia perché sosteniamo che il mondo è già multipolare e che continuare a ragionare come se fossimo ancora nel mondo unipolare a trazione USA, per quanto sia ancora ampiamente la principale potenza esistente, sia ormai sostanzialmente irrealistico e velleitario; la propaganda suprematista del partito unico della guerra e degli affari continua a spacciare fake news e ad arrampicarsi sugli specchi per contestare questo semplice assunto e alla fine, a forza di ripeterselo tra di loro, va a finire che ci credono e ci fanno credere anche un pezzo consistente di classe dirigente, che fa scelte che non stanno né in cielo, né in terra. “L’Occidente” sottolinea l’Economist “aggiunge instancabilmente aziende e individui russi alle sue blacklist. Ma gran parte della popolazione mondiale vive in paesi che molto semplicemente le sanzioni occidentali non ha nessuna intenzione di applicarle, e c’è poco che possa impedire a nuove aziende di nascere e fare affari lì”; ed ecco così che se “anche le esportazioni dall’UE verso la Russia sono crollate, luoghi come Armenia, Kazakistan e Kirghizistan hanno iniziato a importare di più dall’Europa e sono misteriosamente diventati importanti fornitori di beni critici per la Russia” e questo, diciamo, è il primo episodio della saga e il finale, ormai, l’hanno dovuto accettare anche i propagandisti più spregiudicati, da Maurizio sambuca Molinari a Federico bretella Rampini.
Il secondo episodio della saga, allora, si apre con i guardiani della galassia analfoliberale che tentano di rilanciare: sono le cosiddette sanzioni secondarie, l’arma di distruzione di massa dell’imperialismo finanziario USA attraverso le quali l’impero in declino cerca, da sempre, di imporre ai paesi più recalcitranti di allinearsi alla sua agenda geopolitica; con le sanzioni secondarie, infatti, gli USA non si limitano a perseguire direttamente il paese sanzionato, ma anche tutte le terze parti che continuano a intrattenerci rapporti violando la volontà del wannabe padrone del globo, uno strumento molto potente ed efficace che sta comportando un cambio di atteggiamento in diversi paesi, dall’Uzbekistan alla Turchia, passando anche per la Cina. “Ma anche queste pongono un altro problema” scrive l’Economist, perché “sebbene siano potenti, hanno effetti collaterali proibitivi”; l’efficacia delle sanzioni secondarie, infatti, si basa fondamentalmente su un elemento: il ruolo del dollaro come valuta di riserva globale e come valuta preferita per il commercio internazionale. Ogni istituto che opera con i dollari, infatti, deve avere un conto in una banca americana e con le sanzioni secondarie, se svolgono un qualsiasi ruolo in uno scambio commerciale sottoposto a sanzioni USA, questo conto – e quello che c’è sopra – possono essere bloccati: ed ecco così che, lo scorso febbraio, alcune delle principali banche turche e tre banche cinesi hanno annunciato ufficialmente ai propri clienti l’interruzione di ogni rapporto con Mosca; secondo alcuni scettici si tratta, più che altro, di operazioni di public relation. Come scrive il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, ad esempio, “Già a settembre il presidente del Kazakistan aveva rassicurato il cancelliere tedesco che il suo paese avrebbe attuato le sanzioni contro la Russia. Il giorno successivo, ha dichiarato che avrebbe sviluppato le relazioni commerciali con la Russia”.
Il punto è che ricostruire l’intera filiera delle transazioni commerciali, infatti, è più facile da dire che da fare; d’altronde, sono 30 anni che gli USA, per primi, incentivano il sistema finanziario globale a diventare sempre più opaco in modo da favorire la fuga dei capitali verso i paradisi fiscali e, infine, verso le bolle speculative a stelle e strisce, e quella stessa opacità, ora, gli si ritorce contro: “Funzionari europei” riporta l’Economist “affermano che spesso sono necessari 30 passaggi lungo la catena finanziaria per risalire al proprietario di un conto bancario estero, dieci volte di più rispetto anche soltanto a dieci anni fa”. “Molti governi di paesi terzi” continua l’Economist “hanno un atteggiamento da laissez-faire nei confronti della violazione delle sanzioni, o addirittura la approvano tacitamente. L’Indonesia e gli Emirati Arabi Uniti sono nella lista grigia della Financial Action Task Force, un regolatore internazionale, in parte perché sono accusati di essere a conoscenza del cattivo comportamento delle banche locali. Alla domanda se gli Emirati Arabi Uniti ritengono che alcune delle sue 500 nuove aziende potrebbero eludere le sanzioni, un funzionario europeo alza le spalle: Lo sanno, eccome se lo sanno. Semplicemente, non gli importa”; in un mondo che, ormai, va ben oltre il giardino ordinato delle ex potenze coloniali e dove i 120 membri del movimenti dei paesi non allineati ormai pesano per il 38% del PIL globale, rispetto al 15% di 30 anni fa, le sanzioni occidentali, decreta l’Economist, “hanno costi sempre maggiori e benefici sempre inferiori”.
Ma ammesso e non concesso che, al di là degli slogan, le sanzioni secondarie siano davvero ancora implementabili, c’è un altro effetto collaterale che spinge a una certa cautela, perché se il nocciolo di tutto è il fatto che si usano i dollari per gli scambi commerciali, una soluzione possibile – appunto – è, molto semplicemente, smetterla di usare il dollaro. C’è già chi si è portato un bel pezzo avanti: lo scorso marzo, la Cina annunciava che – passando dai 434 miliardi di dollari di febbraio ai 549 miliardi di marzo – per la prima volta in tutta la storia gli scambi commerciali internazionali della Cina in yuan avevano superato quelli in dollari; una parte sempre più consistente riguarda, appunto, gli scambi commerciali con la Russia che, dopo la fuga delle aziende occidentali – per fare un esempio – è diventata il più grande importatore di auto cinesi al mondo: oltre 325 mila unità solo nel 2023, per un valore di oltre 4,5 miliardi di dollari – +543% in un anno.

Conor Gallagher

L’altro grande partner commerciale della Russia è l’India: come ricorda sempre Gallagher su Naked Capitalism “Nei primi otto mesi dell’anno fiscale 2023/24 terminato a marzo, le esportazioni totali dell’India verso la Russia sono aumentate del 46,2%. Le importazioni del 54,8%”. Alla base di tutto ci sono le esportazioni di petrolio russo in India che vengono pagate, in buona parte, in rupie; siccome la rupia non è una valuta convertibile, i russi si sono ritrovati con montagne di rupie che non sapevano come usare: la soluzione? Importare più merci dall’India e pagarle con le rupie accumulate; già a fine 2022, così, la Russia ha condiviso con l’India un elenco di centinaia di articoli che desiderava importare, tra cui – elenca Gallagher – “pistoni, paraurti, cuscinetti e materiali di saldatura”. Gli indiani hanno colto la palla al balzo ed ecco così che, riporta Gallagher “Le esportazioni indiane di articoli tecnici verso la Russia sono cresciute dell’88% a dicembre, mentre nel periodo aprile – dicembre sono aumentate del 130%”; ora Russia e India stanno trattando per cominciare a usare, in parte delle transazioni, direttamente lo yuan. Insomma, le sanzioni secondarie stanno incredibilmente accelerando quello che è, in assoluto, il più grande degli incubi USA: la nascita di un sistema di scambi commerciali parallelo che non si fondi sul dollaro.
Ma la spinta definitiva verso la fine del dominio del dollaro e per la costruzione di un nuovo ordine monetario multilaterale non è l’unico risultato controproducente per l’agenda ideologica, ancor più che economica e militare, del neoliberismo made in USA; la guerra delle sanzioni, infatti, ha evidenziato anche un altro aspetto fondamentale: il socialismo e la pianificazione economica guidata dallo Stato funzionano, parecchio. E’ la conclusione alla quale arriva Martin Sandbu del Financial Times in un lungo e, a tratti, delirante articolo: Ci sono lezioni dalla crescita del PIL russo si intitola, ma non quelle che pensa Putin; “E’ un errore” scrive Sandbu, compiendo un’acrobazia logica veramente encomiabile, “derivare dalla crescita del PIL russo l’idea che le sanzioni abbiano fallito. Il ragionamento contro – fattuale corretto da fare sarebbe immaginare quanto male si sarebbe comportata l’economia russa in queste circostanze se fosse rimasta nella sua configurazione passata. In tal caso le conseguenze delle sanzioni sul PIL sarebbero state senz’altro maggiori”; e invece – te guarda alle volte il caso – la Russia, invece che lasciarsi asfaltare per tenere fede ai feticci ideologici del neoliberismo, una volta sotto attacco ha reagito trasformandosi radicalmente: “Mosca” scrive Sandbu “sta sfruttando una possibilità che le democrazie di mercato liberali ignorano: se si ignorano le ortodossie della politica economica, è possibile mobilitare risorse per obiettivi politici e, nel processo, spremere più attività reale da un’economia”. Quindi, in soldoni, le sanzioni avrebbero funzionato se la religione neoliberista avesse un qualche fondamento razionale, ma essendo una gigantesca puttanata creata ad arte solo per giustificare la gigantesca rapina effettuata dalle oligarchie nei confronti di chi lavora, purtroppo erano destinate al fallimento, soprattutto se – dall’altra parte – c’è una sorta di moderno principe machiavellico che, al contrario di quello che sborbotta confusa la sinistra delle ZTL (ormai completamente incapace di ragionare in termini di struttura economica) sarà cinico e feroce quanto vi pare, ma da quando è salito al potere ha avuto come suo obiettivo principale proprio quello di ridimensionare le oligarchie e accentrare il potere per modernizzare il paese e ridare alla Russia il ruolo che le spetta nella storia, un obiettivo che, come abbiamo sottolineato a suo tempo in questo video dal titolo “Il new deal di Putin”, non era riuscito a perseguire fino ad oggi e che è tornato ad essere alla sua portata proprio grazie all’entrata in vigore delle sanzioni. E’ abbastanza paradossale che tocchi a lui il compito di ricordarci una cosa che un tempo, quando da noi c’era la democrazia moderna – prima della controrivoluzione liberista e l’era della dittatura delle oligarchie finanziarie – davamo per scontata, e cioè che, come sottolinea lo stesso Sandbu, “mobilitare e destinare ingenti risorse a investimenti proficui è perfettamente fattibile”; ovviamente, sottolinea Sandbu, Putin è cattivo, mentre noi occidentali che – per Sandbu come per La Verità – siamo una civiltà superiore, invece siamo buoni e quindi, mentre lui pensa alla guerra, noi potremmo pensare a fini più nobili: dalla transizione ecologica alla lotta alle disuguaglianze. Ma, a parte questi distinguo, dovremmo comunque prendere coscienza della “sua capacità di raggiungere obiettivi economici indirizzati politicamente” perché “Come disse Keynes” conclude Sandbu “tutto ciò che possiamo effettivamente fare, possiamo permettercelo”; d’altronde era un limite di Keynes: non possiamo certo pretendere che non sia un limite di uno dei più importanti commentatori economici del Financial Times. Quello che a Sandbu – come a Keynes – sembra mancare, infatti, è un’idea realistica di chi detiene il potere per farci cosa, come se fossimo tutti riuniti democraticamente in un bel simposio dove vince chi ha l’idea migliore e non esistono i rapporti di forza; l’idea tutto sommato semplice e decisamente condivisibile che esprime Sandbu non fa più parte del dibattito pubblico perché le oligarchie, a partire da quelle che finanziano il suo giornale, ci hanno fatto la guerra e l’hanno vinta, e ci hanno imposto la loro religione alla quale, come tutti i sacerdoti che si rispettano, sono i primi a non credere, ma alla quale hanno costretto a credere tutti quelli che ne subiscono le conseguenze sulla loro pelle.
Per sperare di tornare ad imporla, bisogna mettere in conto un’altra guerra contro le oligarchie, e come vincerla: fa un po’ ridere che chi non ha idea non solo di come combattere questa guerra, ma della necessità stessa di combatterla, descriva con tono paternalistico chi – per sua stessa ammissione – la sta vincendo; noi un’ideina di cosa serve per combattere le oligarchie, in questi due anni, ce la siamo fatta e siamo convinti che, prima di tutto, serva un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Victoria Nuland

I paesi della NATO si stanno preparando a dichiarare guerra alla Russia?

Lunedì 26 febbraio. Dopo l’ennesima disfatta ad Adviivka e la situazione drammatica su tutto il fronte ucraino, una ventina di leader europei in preda al panico si riuniscono a Parigi; ad aprire le danze è, ovviamente, il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron: gli ultimi avvenimenti, ricorda, sono “un campanello d’allarme” e richiedono “decisioni forti”. Dobbiamo discutere insieme “come possiamo fare di più, sia in termini di supporto finanziario, sia in termini di supporto militare”: da che pulpito, avranno pensato dal pubblico; “Nonostante i propositi, infatti” sottolinea con un velo di ironia Politico “la Francia è stata la prima a non aver fatto la sua parte in termini di armamento di Kiev. Mentre i dati del Kiel Institute mostrano che la Germania ha dato 17,7 miliardi di euro all’Ucraina, e la Gran Bretagna 9,1 miliardi di euro, la Francia infatti ha fornito solo 635 milioni di euro”. Ma il bello doveva ancora arrivare; come ormai saprete abbondantemente tutti, a fine conferenza – infatti – il pimpante Macaron ha optato per il colpo di scena e ha messo sul tavolo il suo carico da 11: l’invio di truppe occidentali in Ucraina, ha dichiarato alla stampa, “non può essere escluso”. Non c’è stato “nessun accordo questa sera per inviare ufficialmente nostre truppe sul campo, ma non possiamo escludere niente” perché “faremo tutto quello che possiamo per impedire alla Russia di vincere questa guerra”; s’è svegliato prestino, diciamo: “Le dichiarazioni di lunedì” ha sottolineato la stessa Agence France-Presse “sembrano rappresentare una svolta per Macron, che per molti anni ha cercato di posizionarsi come principale mediatore tra Russia e Ucraina”. Come si spiega? Il nostro Francesco Dall’Aglio un’ideina se l’è fatta: “Macron” sottolinea il Bulgaro “rappresenta solo sé stesso, i suoi amici e l’industria bellica francese, tutti abbastanza inviperiti con la Russia non perché ha invaso l’Ucraina, ma perché ha cacciato la Francia dall’Africa Centrale”.
La linea morbida adottata da Macron sin dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina nei confronti di Putin era infatti giustificata dal tentativo di contenere il ruolo della Wagner nel Sahel sconvolto dai colpi di stato patriottici in Mali, nel Burkina Faso e, più avanti, in particolare nel Niger, fondamentale fornitore di uranio a basso costo per l’industria nucleare francese, un errore di prospettiva direttamente riconducibile alla cultura profondamente suprematista e coloniale del pimpante Macaron e del suo entourage: i golpe patriottici, infatti, non sono farina del sacco di Putin o di Prigozhin, ma gli esiti inevitabili della potente ondata anticoloniale che sta attraversando tutta l’area, dal Congo al Senegal. Il ruolo della Russia e, in particolare, della Wagner prima e ora l’Africa Corps, è consistito e consiste fondamentalmente nel garantire ai paesi liberati una sponda affidabile nel caso di reazioni militari da parte dell’ex occupante coloniale che, nel frattempo, è stato costretto a desistere e ha registrato l’ennesima clamorosa sconfitta su tutta la linea: dopo aver minacciato un intervento militare vero e proprio per rovesciare gli esiti del golpe patriottico in Niger attraverso l’ECOWAS, a 7 mesi di distanza la Francia non solo ha dovuto rinunciare a ogni sogno di rivalsa con le armi, ma ha dovuto anche ingoiare la fine di ogni ostilità; sabato scorso, infatti, il presidente della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale ha annunciato la sospensione delle sanzioni economiche introdotte nei confronti del Niger subito dopo il rovesciamento popolare del governo del presidente filo occidentale Mohamed Bazoum. “Lo smantellamento di tutte le principali sanzioni” ricorda Deutsche Welle “comprende la riapertura delle frontiere terrestri e aeree tra il Niger e gli Stati membri dell’ECOWAS, nonché la revoca della no-fly zone per i voli commerciali da e per il Niger”; insomma: nuovo ordine multipolare 1, vecchio ordine neocoloniale 0, palla al centro e, per Parigi, l’espulsione totale e definitiva dal torneo. Non gli rimangono che i bluff: “In questo braccio di ferro con la Russia” avrebbe affermato lo storico militare francese Michel Goya ad Agence France-Presse “non puoi fermarti davanti a nulla, questa è una partita di poker”; peccato che le fiches di Macron siano i nostri quattrini, e anche la nostra sicurezza.
D’altronde, non è certo l’unico a puntare alla cazzo di cane col culo degli altri; è quanto aveva denunciato prima del summit di Parigi il neo presidente slovacco Robert Fico, che è salito al potere pochi mesi fa proprio grazie alla sua opposizione a qualsiasi forma di escalation del conflitto: “Diversi membri della NATO e dell’Unione Europea” ha dichiarato alla stampa “stanno valutando la possibilità di inviare soldati in Ucraina su base bilaterale”. Secondo quanto riportato da Reuters, Fico avrebbe anche affermato di intravedere il rischio di un’escalation, ma di non poter rivelare altre informazioni al pubblico: “L’annuncio di Macron” sottolinea Agence France-Presse, contribuirà “solo a rafforzare la narrativa del Cremlino secondo cui la Russia sta lottando per la sopravvivenza contro le truppe di Kiev appoggiate dalla NATO in Ucraina” “e” sottolinea Fyodor Lukyanov, capo di uno dei think tank più autorevoli di Mosca, “darà alla Russia lo slancio per inasprire ulteriormente la sua posizione, intensificare la sua retorica nucleare e aumentare la dipendenza dalla deterrenza nucleare come mezzo di risposta”. Insomma: anche a questo giro cosa mai potrebbe andare storto?

Il pimpante Macaron

Le parole del pimpante Macaron a fine summit non sono state accolte proprio calorosamente, diciamo: “Ciò che è stato concordato tra noi fin dall’inizio vale anche per il futuro” ha dichiarato alla stampa un Olaf Scholz visibilmente irritato; “vale a dire che non ci saranno truppe di terra, né soldati inviati sul territorio ucraino dai paesi europei o dai paesi della NATO, e che i soldati schierati dai nostri paesi non prendono parte attivamente alla guerra”. Gli fa eco da Praga il vecchio nuovo presidente polacco, Donald Tusk, che – in una evidente frecciatina alla postura tutta chiacchiere e distintivo dell’Eliseo – sottolinea come “Se tutti i paesi dell’UE fossero impegnati in Ucraina allo stesso livello della Polonia e della Repubblica Ceca, probabilmente non avremmo bisogno di parlare di altre forme di aiuto”. Macron resta solo titolava a 4 colonne La Stampa ieri; “Non vogliamo uno scontro con l’esercito russo” ha dichiarato Tajani: “l’Ucraina si difende con armi e aiuti”. Il punto però, ovviamente, è che questa strategia ad oggi non sta funzionando proprio benissimo: dopo la rovinosa debacle di Adviivka infatti, sottolinea ad esempio Simplicius sulla suo profilo Substack, “l’avanzata precipitosa delle forze russe continua, con la caduta di altri territori che funge potenzialmente da catalizzatore per alcune escalation da panico”. Le forze armate ucraine hanno confermato martedì la caduta prima del piccolo villaggio Lastochkino e, poi, l’avanzata verso Tonenke, ad ovest di Adviivka; Simplicius riporta poi l’avanzata anche verso un terzo villaggio, quello di Orlovka. L’ultrà NAFO Julian Roepcke, inviato di Bild, sottolinea come “L’esercito ucraino continua a non riuscire a stabilizzare il fronte ovest di Adviivka. Sieverne è il terzo villaggio strategico a cadere nell’arco di una settimana. E’ ancora ignoto dove (e se) l’Ucraina abbia stabilito una seconda linea difensiva a ovest di Adviivka”; “Non ci sono parole” ha rilanciato Yuri Butusov, noto falco russofobo: “qui a Kiev il comandante in capo supremo dice una cosa, ma al fronte sta accadendo qualcosa di completamente diverso. Oltre Avdiivka fino ad oggi non sono state costruite linee di fortificazioni. Ho visto i nostri soldati nelle buche in mezzo a un campo attaccati dai droni russi”.
Per fermare l’avanzata, sottolinea Simplicius, sono riapparsi anche gli Abrams, ma non è stato esattamente un successone: qui si vede l’Abrams muoversi e qui, invece, non si muove più , “La prima distruzione di un Abrams pienamente confermata nel conflitto”. Ed ecco, così, che ai microfoni di Deutsche Welle Oleksandra Rada, presidente della commissione speciale temporanea parlamentare sul monitoraggio delle forniture di armi all’Ucraina, ha dichiarato apertamente che “Adviivka è solo un anticipo di cosa diventerà l’Ucraina. Dopo Adviivka sarà il turno di Kupyansk, e sfortunatamente dopo arriverà quello di Kharkiv, che è la seconda città dell’Ucraina. E siamo perfettamente consapevoli che se perderemo Kupyansk, che è uno snodo ferroviario fondamentale, sfortunatamente ci sono molte probabilità di perdere anche Kharkiv”; ora, ovviamente, queste dichiarazioni sono tutt’altro che disinteressate: l’obiettivo, esplicitamente e legittimamente, è semplicemente quello di spingere per l’arrivo di nuovi aiuti per continuare a combattere ancora un po’ e, al limite, quando continuare a combattere diventerà palesemente inutile, continuare comunque a fregarsi un po’ di quattrini per consolarsi dopo la capitolazione. Il punto, comunque, rimane: la disfatta è più ampia e più rapida di ogni più pessimistica previsione e l’Occidente collettivo è in preda al panico; e quindi hai voglia te di fare il pompiere per screditare le affermazioni di Macron… D’altronde, screditare Macron, di per se, è sempre cosa giusta (e anche facile); ciononostante, rimane comunque il fatto che – come sottolinea giustamente Quirico – “Le parole del leader francese ci dicono che un coinvolgimento diretto non è più un tabù” o, perlomeno, non è più un tabù parlarne apertamente.
In realtà, ovviamente, uomini dei paesi NATO in Ucraina ci sono sin dall’inizio della guerra, che non risale a due anni fa – come affermano gli Iacoboni di tutto il mondo uniti nel disagio – ma a 10 e, con buona pace di tutti i propagandisti, ormai ad affermarlo chiaramente si sono arresi pure i media mainstream: “Per più di un decennio” scrive il New York Times in un lungo e importante articolo del 25 febbraio scorso, “gli Stati Uniti hanno coltivato una partnership segreta a livello di intelligence con l’Ucraina che ora è fondamentale per entrambi i paesi nel contrastare la Russia”. Il New York Times parla chiaramente di almeno 12 basi segrete dell’intelligence USA al confine con la Russia che hanno promosso una serie infinita di attività, come nel 2016, quando “La CIA ha addestrato un élite di uomini ucraini che avevano il compito di catturare droni russi per consegnarli a tecnici USA in modo da permettergli di decodificarli e violare i sistemi di crittografia di Mosca”; “una relazione così solida” continua il Times “che gli ufficiali della CIA sono rimasti in una località remota nell’Ucraina occidentale anche quando l’amministrazione Biden ha evacuato il personale statunitense nelle settimane precedenti l’invasione russa nel febbraio 2022”. “Durante l’invasione” continua ancora l’articolo “gli ufficiali hanno trasmesso informazioni critiche, incluso dove la Russia stava pianificando attacchi e quali sistemi d’arma avrebbero utilizzato”; “Senza di loro”, avrebbe dichiarato Ivan Bakanov, allora capo della SBU, “non avremmo avuto modo di resistere ai russi o di batterli” (torneremo su questo articolo in un altro video ad hoc a breve).
Intanto, invece, vi volevo sbloccare un altro ricordino: il 20 marzo scorso, infatti, in questo video vi avevamo parlato in un importante articolo pubblicato da Asia Times: l’articolo parlava di un importante incontro che aveva coinvolto decine di alti funzionari dell’amministrazione USA che, sotto la protezione delle regole della Chatham House – che permettono di riportare cosa è stato detto, ma non chi lo ha detto – parlavano già chiaramente del sicuro fallimento della controffensiva futura, di come “L’intero esercito che la NATO ha addestrato tra il 2014 e il 2022 è morto e le reclute vengono gettate nelle linee di battaglia dopo tre settimane di addestramento” e, quindi, di come fosse necessaria “la formazione di una legione straniera di combattenti provenienti da altri paesi per integrare la sempre più ridotta riserva di manodopera addestrata dell’Ucraina”. Nei mesi successivi qualcosa si è mosso e, come ricorda sempre Simplicius, “sappiamo tutti dalle fughe di notizie del Pentagono che il Regno Unito, gli Stati Uniti e altri hanno già forze speciali nel paese. E recentemente, il colonnello generale russo Rudskoy ha confermato nuovamente che le truppe della NATO sono già nel paese sotto le mentite spoglie di mercenari”; “Tutti sanno che ci sono forze speciali occidentali in Ucraina” avrebbe dichiarato un alto funzionario della difesa europeo; “semplicemente non sono riconosciute ufficialmente”: da questo punto di vista, le parole di Macron avrebbero avuto lo scopo di alimentare quella che viene definita l’ambiguità strategica e rivelerebbe, ancora una volta, il fatto che – commenta Simplicius – “C’è probabilmente una fazione all’interno dello Stato profondo globale che milita per un ingresso forzato della NATO nel conflitto, in un modo o nell’altro” e prima ancora di conoscere gli sviluppi di ieri, Simplicius anticipava “Il casus belli potrebbe arrivare proprio dalle tensione in Moldavia per la questione Transnistria”.

Maia Sandu

Qualche giorno fa, infatti, l’analista politico Hans Hartmann aveva dichiarato pubblicamente che la premier moldava ultra – atlantista Maia Sandu “”avrebbe dato il via libera” per risolvere la questione della Transnistria con la forza “settimane fa”: la questione Transnistria è tornata a surriscaldarsi da quando, nel 2022, l’Ucraina ha deciso di chiudere il confine; da allora tutte le merci, per raggiungere la Transnistria, devono necessariamente passare dal territorio controllato da Chisinau e, come ricorda l’agenzia di stampa russa TASS, “Tiraspol ha accusato Chisinau di sfruttare la posizione vulnerabile della Transnistria per bloccare la fornitura di beni e per esercitare pressioni su di essa”. Per ieri, quindi, le autorità della Transnistria avevano convocato una specie di assemblea straordinaria plenaria per decidere il da farsi e, nel primo pomeriggio, è arrivata la risoluzione: “Facciamo appello al Consiglio della Federazione e alla Duma di Stato della Federazione Russa, chiedendo misure per proteggere la Transnistria di fronte alla crescente pressione della Moldavia”; “Queste denunce” scrive giustamente il New York Times, ricordano da vicino “quelle avanzate a suo tempo dalle regioni ucraine orientali di Donetsk e Luhansk”, ma il New York Times evita accuratamente di trarre qualche lezione dalla tragica vicenda del Donbass e incornicia il tutto in un modo che non fa prospettare niente di buono. Secondo il Times, infatti, le due repubbliche del Donbass “sostenute dalle truppe russe e da ufficiali dell’intelligence, si sono dichiarate Stati separati nel 2014 e hanno contribuito a fornire un pretesto per l’invasione russa del 2022”; nella ricostruzione del Times, quindi, 8 anni di guerra ucraina contro le province ribelli del Donbass, con le migliaia di morti e le sofferenze che hanno causato, devono essere liquidate con una battutina e l’importante, ora, è replicare esattamente lo stesso identico film nella speranza di poter allargare la guerra fino all’ultimo moldavo – dopo aver esaurito gli ucraini.
Oggi, comunque, sulla questione sono attese le dichiarazioni ufficiali di Putin alla Duma; nonostante le tensioni e la propaganda dei suprematisti, la situazione – al momento – comunque sembra ancora abbastanza sotto controllo: gli ultra – atlantisti più sfegatati nei giorni scorsi, infatti, avevano diffuso notizie infondate sulla volontà della Transnistria di richiedere direttamente una sorta di annessione a Mosca. La risoluzione dell’assemblea plenaria scongiura questa escalation diplomatica e getta acqua sul fuoco chiedendo l’intervento anche del parlamento europeo e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa per prevenire ogni ulteriore escalation tra le due capitali “e contribuire a rilanciare un dialogo a pieno titolo tra le sponde del Dniester”, e cioè il fiume che – appunto – separa la Transnistria dalla Moldavia; una ricerca di dialogo che, come per il Donbass, la propaganda suprematista del Times cerca di screditare in ogni modo: “I notiziari russi” scrive infatti il sempre pessimo Andrew Higgins “hanno citato Vadim Krasnoselsky, il presidente dell’enclave, che avrebbe chiesto aiuto a Mosca perché contro la Transnistria viene applicata una politica di genocidio”. Simili affermazioni incendiarie e prive di prove continua Higgins, “sono state avanzate per anni da rappresentanti russi nell’Ucraina orientale e utilizzate da Mosca per giustificare la sua invasione del 2022”. Aridaglie, limortaccisua: evidentemente, nonostante le disastrose notizie dal fronte, i pennivendoli di regime non sono usciti rinsaviti nemmeno da due anni di bagno di realtà; la speranza è che almeno i vertici militari dell’Occidente collettivo vivano in un mondo un po’ meno incantato.
Il punto, infatti, alla fine molto banalmente è – come si chiede Kenton White su Asia Times – “La NATO sarebbe davvero pronta per la guerra?” Steadfast defender, l’imponente esercitazione che da gennaio coinvolge tutti i 31 stati dell’alleanza e che “mira a migliorare le capacità e la prontezza della difesa collettiva dell’alleanza, con la più grande esercitazione dai tempi di Reforger nel 1988” rappresenta senz’altro un’imponente prova di forza, ma il problema più significativo che la NATO si trova ad affrontare, sottolinea White, “non è lo schieramento delle truppe di cui dispone, ma il loro rifornimento”: come infatti “è stato dimostrato dagli sforzi volti a fornire attrezzature e munizioni all’Ucraina”, continua White, “la NATO non ha né le scorte né la capacità produttiva per alimentare una lunga guerra moderna”; in sostanza, sostiene White, la “NATO ha pianificato da tempo quella che è conosciuta come una guerra come as you are”, che si può tradurre un po’ con metti indosso quel che capita, “il che significa che ha la capacità di combattere solo fino a quando durano le attrezzature e le forniture. Per questo motivo la strategia della NATO è sempre stata, in caso di conflitto, quella di portarlo a conclusione il più rapidamente possibile”. Indossare quel che capita, però, quando l’appuntamento è con una superpotenza militare, potrebbe non essere esattamente la scelta vincente: come ha affermato al Forum sulla sicurezza di Varsavia dello scorso ottobre l’ammiraglio olandese Rob Bauer, “L’economia just-in-time e just-enough che abbiamo costruito diligentemente negli ultimi 30 anni nelle nostre economie liberali va bene per molte cose, ma non per le forze armate quando c’è una guerra in corso”; per la guerra servono i grandi volumi e la pianificazione: in una parola, serve il socialismo. Invece che i discorsi a vanvera e i tira e molla a favore di telecamere, i leader europei dovrebbero piuttosto interrogarsi su questo: quanto socialismo sono disposti a introdurre nell’economia per provare a non essere selvaggiamente umiliati sul campo di battaglia? Il resto sono chiacchiere e la risposta, per adesso, non è certo delle più incoraggianti: mentre in Borsa i titoli delle aziende belliche europee, infatti, prendevano il volo – con Rheinmetall, giusto per fare un esempio, che in 2 anni ha quadruplicato il valore delle sue azioni – la capacità produttiva reale dell’Europa non si muoveva di un millimetro. Risultato? Vorrebbero discutere del coinvolgimento diretto della NATO, ma per raggiungere il misero obiettivo del milione di munizioni da fornire all’Ucraina, dopo un anno sono costretti a fare una cordata per provare ad andarsele a comprare in giro per il mondo, dall’India al Sudamerica, riempiendo così le tasche pure di potenziali avversari e pagandole una fortuna. Se se ne stessero a casina a compiacersi per le cazzate che scrive il New York Times sarebbero più felici e farebbero meno danni.
Contro la fuffa dei guerrafondai che poi la guerra manco sono capaci di farla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte della pace e che ci aiuti davvero a capire come farla. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il pimpante Manuelino Macaron

Come la propaganda sta cercando di uccidere Aaron Bushnell per la seconda volta

Sarà che mi sto facendo un po’ anzianotto, ma questa volta mi gira il cazzo sul serio e, secondo me, ti dovrebbe girare anche a te – e anche parecchio; ieri, infatti, i nostri giornali hanno letteralmente ammazzato Aaron Bushnell una seconda volta: Aaron Bushnell è l’aviatore statunitense che martedì è morto dopo essersi dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington mentre gridava a squarciagola free Palestine. Prima del gesto drammatico aveva pubblicato un breve messaggio sulla sua pagina Facebook, che non usava praticamente mai: “Molti di noi amano chiedersi Cosa farei se fossi vissuto durante la schiavitù? O quando sono state introdotte le leggi Jim Crow negli Stati del Sud (e cioè le leggi che ufficializzavano la segregazione razziale)? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio? La risposta è proprio quello che stai facendo. Proprio adesso.” E questo è l’inizio del video straziante che riprende l’episodio, pubblicato in diretta da Aaron stesso: ” non sarò più complice di questo genocidio. Sono un membro delle forze aeree statunitensi in servizio attivo e sto mettendo in scena un atto di protesta estremo, ma che rispetto a cosa stanno subendo in Palestina per mano dei colonizzatori, non dovrebbe essere visto per niente come estremo. E’ solo quello che le nostre classi dirigenti hanno deciso dovesse diventare la normalità”.
Ovviamente il gesto eclatante di Aaron è diventato immediatamente virale: dopo poche ore, negli Stati Uniti, ad esempio, su X era di gran lunga in testa ai trending topics con la bellezza di 814 mila post; in un mondo normale, la mattina dopo avrebbe riempito le prime pagine di tutti i giornali – e quando dico un mondo normale non intendo il mio mondo ideale, ma proprio quello che ci spacciano per il mondo reale dove, a guidare tutto, sarebbe questa fantomatica mano invisibile del mercato e l’informazione sarebbe una merce come le altre (che poi, intendiamoci, quando in ballo ci sono i Ferragnez o la Champions league, è davvero così). Ma – si vede – non vale sempre: quando ieri mattina, infatti, mi sono messo a spulciare i giornali, c’era qualcosa che non mi tornava. Come sempre sono partito dai giornali filogovernativi, che sono il vero mainstream italiano di oggi; prima Il Giornale, ma niente: in tutto il pdf il nome di Aaron Bushnell non viene citato manco una volta. Libero idem. Vabbe’, almeno su La Verità qualcosa ci sarà scritto: non è il giornale contro i poteri forti? Macché: anche qui nada. Stai a vedere che ha ragione la sinistra ZTL quando dice che questi sono pericolosi e che bisogna affidarsi a Carletto libro cuore Calenda e al PD per arrestare l’ondata nera; i giornali dell’opposizione, allora, approfitteranno della ghiotta occasione! Macché: Corriere niente, Stampa idem, Repubblica uguale e pure Il Domani; credo sia la prima volta nella storia del giornalismo ai tempi dei social media che la notizia di gran lunga più virale della giornata, il giorno dopo non è nemmeno citata in nessuno dei principali giornali italiani.
D’altronde, per tentare di far dimenticare il sostegno incondizionato dell’Occidente collettivo al primo genocidio trasmesso in diretta streaming, il livello di censura e disinformazione unitaria del partito unico della guerra e degli affari deve necessariamente toccare vette inesplorate e, così facendo, i nostri media hanno ammazzato Aaron Bushnell per la seconda volta: non solo di fronte alla cappa della propaganda ti senti così disperato da ricorrere al più drammatico dei gesti possibili immaginabili, ma – anche in quel caso – la cappa è talmente fitta e impenetrabile che faremo di tutto perché il gesto sia completamente vano. Sarebbe il caso di provare a impedirglielo e, magari, fare in modo che gli si ritorca pure contro: facciamo in modo che questa immagine diventi il peggiore dei loro incubi; postiamola, ripostiamola, condividiamola, mandiamola ovunque ora dopo ora, giorno dopo giorno, fino a che non rompiamo questa cappa per non permettere che il suo sacrificio estremo sia vano. Con questo video, come Ottolina Tv cerchiamo di dare i nostri cinquanta centesimi.

Aaron Bushnell

Prima di sparire completamente in tempo record dai radar dei grandi media, la tragica vicenda di Aaron Bushnell una breve apparizione nei titoli delle principali testate globali era riuscita a strapparla, in un modo che grida vendetta: Uomo muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana di Washington, secondo la polizia titolava il New York Times; idem con patate il Washington Post: Aviatore muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana a Washington. La BBC invece: Aviatore USA muore dopo essersi dato fuoco di fronte all’ambasciata di Israele, cioè identico: avete notato niente? Esatto: nessun riferimento alle cause, manco per sbaglio; in nessun titolo, nemmeno per caso, viene mai citata Gaza, o la Palestina, o il massacro in corso. Black out totale. Evidentemente aveva freddo e la situazione gli è sfuggita di mano e poi, sicuramente, si sarà trattato di uno svitato: quando uno è guidato da qualcosa che non rientra nella linea editoriale del New York Times e del Washington Post è sempre uno svitato, quasi per definizione; eppure auto – immolarsi non è sempre stato considerato un gesto da svitati.
Facciamo un passo indietro. 2 ottobre 2020: la giornalista russa Irina Slavina, attivista sociale e politica e direttrice del giornale online Koza Press muore dopo essersi auto – immolata di fronte alla direzione principale del ministero degli affari interni russo di Novgorod, e questo è il titolo del New York Times: Giornalista russa si dà fuoco e muore, INCOLPANDO IL GOVERNO. Questo, quello della BBC: La protesta finale della giornalista russa che si è data fuoco; in questo caso non era un gesto folle e non c’era manco bisogno di riscaldarsi: era una protesta politica drammatica carica di dignità e di pathos. D’altronde, non vorrai mica mettere l’urgenza di opporsi al regime di Putin rispetto all’urgenza di opporsi al più grande massacro di civili del XXI secolo e, quindi, qui la motivazione nei titoli non poteva mancare. D’altronde, come ricorda Ben Norton, tempo fa uno studio dell’American Press Institute aveva sottolineato come solo 4 lettori su dieci, oltre al titolo, leggono pure almeno una parte dell’articolo; due anni dopo, ricorda sempre Norton, due ricercatori della Columbia University avevano dimostrato che nel 59% dei casi, quando qualcuno condivide un link su qualche social, non ha nemmeno aperto l’articolo e si è fermato al titolo: la stragrande maggioranza di chi va oltre il titolo si ferma, comunque, ai primi paragrafi. Ed ecco allora il capolavoro: nell’articolo del Washington Post, ad esempio, nei primi 4 paragrafi si continua a non fare nessunissimo accenno alle cause che hanno portato Aaron Bushnell a compiere il suo gesto disperato e quando finalmente, al quinto paragrafo (dopo un bel banner pubblicitario gigantesco) si riportano le motivazioni, si fa esclusivamente citando le parole di Bushnell, della serie pensate a ‘sto povero matto: s’è inventato un genocidio e poi, per protestare contro un genocidio immaginario, s’è dato pure fuoco.
La carta dell’infermità mentale ovviamente, in questi casi, è sempre la preferita: assistere allo sterminio di 15 mila bambini parlando del diritto alla difesa di Israele è da sani di mente; sacrificarsi per impedirlo è da psicopatici. Non fa una piega. Non faccio fatica a credere che ogni giornalista a libro paga del mainstream lo creda davvero: antropologicamente, sono esattamente questa roba qui, c’è poco da girarci attorno. Qui, per supportare la carta dell’infermità mentale, si è fatto riferimento al rapporto della polizia redatto all’arrivo di Aaron in ospedale; a lanciare il carico c’ha pensato Newsweek: “Un rapporto della polizia” scrivono “afferma che Aaron Bushnell stava mostrando segni di disagio mentale”. Mado’ che infami, proprio. Il rapporto infatti è questo: i segni di disagio mentale mostrati da Aaron, molto semplicemente, consisterebbero nel fatto che, prima di darsi fuoco, ha urlato free Palestine. Come testimonia il video che ha registrato, infatti, prima di quel momento Aaron è incredibilmente tranquillo e parla in modo molto composto nella camera mentre cammina; poi si ferma davanti all’ambasciata, si rovescia il liquido infiammabile addosso e urla a squarciagola free Palestine un paio di volte prima di darsi fuoco: il disagio mentale è questo e nei media è diventato l’indizio della sua follia. La stronzata, però, era talmente grossa che almeno i media principali l’hanno lasciata da parte, e siccome non si poteva più dire che era uno squilibrato, semplicemente se lo sono scordati. Il punto infatti è che, per quello che sappiamo ad oggi, Aaron non era squilibrato manco per niente; anzi, nelle ore successive – soprattutto grazie al lavoro di una giornalista indipendente di quelle cocciute come un mulo, Talia Jane, forte solo del suo piccolo account Twitter – sono cominciate ad emergere un po’ di cose interessanti: la prima è che da quando Aaron si era trasferito a San Antonio per proseguire la sua carriera militare, aveva subito cominciato a fare volontariato in un’associazione che dà sostegno ai senzatetto e che chi c’ha lavorato accanto nell’associazione ne parla come di “uno dei compagni con più principi che abbia mai conosciuto“; uno che “cerca sempre di pensare a come possiamo effettivamente raggiungere la liberazione per tutti, con un sorriso sempre sul volto” ribadisce un altro amico. E pare proprio che ‘sta cosa qua di aiutare gli ultimissimi ce l’avesse proprio di vizio: poco dopo, infatti, a esprimere cordoglio ci si mette questa strana associazione che si chiama Serve the People, servire il popolo. Più matti di così… Sono di Akron, la cittadina dell’Ohio dove Aaron si era trasferito da poco, e ricordano come non appena era arrivato in una città che “era ancora nuova per lui”, si era “subito attivato per aiutare i senza alloggio e in qualsiasi altro progetto dell’associazione”: “Gli saremo per sempre grati per lo sforzo che ha fatto per rendere Akron un posto migliore”. E ti credo che i pennivendoli in carriera del Post e del Time lo prendono per matto: cosa ci può mai avere nella testa uno che, quando arriva in una città, invece di impegnarsi per capire a chi può fare le scarpe per qualche scatto di carriera, si mette ad aiutare i più sfigati? Ma la prova provata che siamo di fronte a un autentico squilibrato la tira fuori, ancora una volta, Newsweek; spulciando il suo profilo Facebook – che conta, in tutto, 5 post e 100 amici – Newsweek, infatti, ha trovato la pistola fumante. Tra le pagine a cui Aaron ha messo mi piace ci sono, infatti, addirittura due pagine legate a dei gruppi anarchici: il Burning River Anarchist Collective che, addirittura, pubblica e distribuisce libri sull’anarchia e l’anticapitalismo, e la Mutual Aid Street Solidarity che addirittura, pensate un po’, si occupa di riduzione del danno nei quartieri più malfamati fornendo siringhe pulite e altra assistenza per evitare la morte certa ai tossici. Ma la cosa più inquietante è che mentre Aaron coltivava questi interessi veramente inconfessabili, riusciva pure a costruirsi una carriera di un qualche successo: da 3 anni infatti, come riporta il suo profilo Linkedin, lavorava per l’aeronautica militare come ingegnere nel settore cosiddetto DevOpsm, cioè in quel settore che tiene insieme sviluppatori di software e tecnici delle telecomunicazioni; un impiego che, riporta iNews, gli avrebbe garantito un salario superiore ai 100 mila dollari l’anno. Ed era solo l’inizio: Aaron, infatti, aveva intenzione di abbandonare l’aeronautica, ma prima di farlo si stava prendendo una nuova laurea triennale in ingegneria software presso la Western Governor University; la sua malattia, insomma, era riuscire a fare quello che un giornalista medio del Times non è in grado di fare nemmeno se rinasce, ma senza per questo essere diventato un’insopportabile faccia di merda. Ovvove! Visto che Aaron lo squilibrato sembrava gestirsela piuttosto benino, allora ecco che sono andati a cercare il trauma infantile che covava sotto l’apparente tranquillità; a trovarlo è stato il Post, che come idea di equilibrio e sanità mentale ha come riferimento il suo editore Jeff Bezos e che ha scovato dei particolari inquietanti nell’infanzia di Aaron. Aaron, infatti, proveniva da un piccolo paesino del Massachussets e la sua famiglia era addirittura religiosa, di una specie di setta sostiene il Post: si chiama La Comunità di Gesù, talmente setta che un ex membro avrebbe confessato al Post che “molti di quelli tra noi che sono usciti, sono molto interessati alla giustizia sociale” e infatti, riporta scandalizzato il Post, alcuni amici di Aaron avrebbero ammesso che stava cercando di trovare un nuovo lavoro non troppo impegnativo che gli avrebbe permesso di guadagnare il minimo indispensabile per sopravvivere, lasciandogli – addirittura! – il tempo di dedicarsi all’attivismo e alla politica che, per i sociopatici in carriera, è sostanzialmente la definizione stessa di squilibrio mentale, diciamo. Questo passato bacchettone in questa setta segreta, sostanzialmente, avrebbe covato sotto le ceneri fino ad esplodere in questo gesto eclatante privo di senso. O forse no; prima di procedere verso il sacrificio finale, infatti, Aaron non sembra aver agito con chissà quale impulsività: “Ha fatto tutti i passi necessari per assicurarsi che tutto ciò che aveva venisse curato adeguatamente” ha affermato un’amica a iNews, “come il suo gatto, che ha lasciato a un vicino. Quindi sì, è stato razionale e sapeva esattamente cosa stava facendo”. Ma com’è possibile che uno razionalmente si immoli per una causa quando noi, per due lire, siamo disposti a scrivere ogni sorta di vaccata sbattendocene completamente il cazzo delle conseguenze? Non c’è verso: Aaron Bushnell per la merda suprematista rimarrà per sempre un mistero.
Eppure Bushnell non è il primo che ricorre all’auto – immolazione: il precedente più celebre sono i famosi monaci buddhisti durante la carneficina in Vietnam che, tra l’altro, anche allora vennero emulati da alcuni cittadini americani; in particolare, un paio di ferventi quaccheri che in quel caso, però, nessuno accusò di essere degli psicopatici. Altri tempi. A cercare di spiegare l’etica che sta dietro un gesto del genere a quegli individualisti incorreggibili degli occidentali allora ci pensò Thich Nhat Hanh, il celebre monaco che Martin Luther King voleva candidare al premio Nobel per la pace: “La stampa” scriveva Thich Nhat Hanh “parla di suicidio. Ma non lo è. Non è nemmeno propriamente una protesta. Quello che i monaci affermano nelle lettere che lasciano prima di auto – immolarsi è che il gesto mira a creare un allarme, a muovere i cuori degli oppressori e a richiamare l’attenzione del mondo sulle sofferenze patite dai vietnamiti. Bruciarsi vivo serve a dimostrare che quello che una persona sta dicendo è della massima importanza. Non c’è niente di più doloroso che bruciarsi vivo. Affermare qualcosa mentre stai provando una tale sofferenza prova che la stai dicendo con il massimo del coraggio, della franchezza, della determinazione e della sincerità”. “Il monaco che si auto – immola” continua Thich Nhat Hanh “non ha perso né il coraggio né la speranza; e non ha nessun desiderio di non esistenza. Al contrario, è molto coraggioso e speranzoso e aspira a qualcosa di positivo per il futuro. Non ambisce ad autodistruggersi, ma semplicemente crede che i suoi simili potranno beneficiare del suo sacrificio”.

Pat Ryder

Insomma: un modello un po’ diverso da quello dei pennivendoli spregiudicati che, se devono pensare a un modello di equilibrio, piuttosto pensano a Pat Ryder, il portavoce del Pentagono; durante la conferenza stampa rilasciata in seguito all’episodio, gli è stato chiesto se non è preoccupato che un gesto come questo sveli un disagio più profondo nelle forze armate per come stiamo garantendo il nostro sostegno alle azioni di Israele. “Dal punto di vista del dipartimento della difesa” ha risposto impassibile Ryder “dall’attacco brutale di Hamas del 7 ottobre ci siamo concentrati in particolare su 4 questioni chiave: proteggere le forze armate e i cittadini USA nella regione, supportare il diritto di Israele alla difesa, lavorare fianco a fianco con Israele per il rilascio degli ostaggi e assicurarsi che la situazione non degeneri in un conflitto regionale allargato. Questi sono gli obiettivi che continueranno a indirizzare la nostra azione in Medio Oriente, e il nostro supporto a Israele continua ad essere corazzato”.
30 mila civili uccisi, 15 mila bambini, la più grande crisi umanitaria di sempre manco je so venuti in mente: ecco, lui è quello normale; davvero abbiamo intenzione di stare a guardare mentre passa l’idea che la normalità è sostenere attivamente un genocidio? Noi non ci stiamo e non permetteremo che il sacrificio di Aaron sia vano: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che si batta quotidianamente contro il capovolgimento della realtà. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

L’Europa si sta preparando alla GUERRA TOTALE contro la Russia?

“Allarme a Washington”; “Una nuova arma russa minaccia gli Stati Uniti”: dopo la provocazione di Trump sul via libera alla Russia ad attaccare liberamente qualunque paese europeo si ostini a non raggiungere la quota del 2% del PIL di spesa militare e con lo stallo che va avanti, ormai, da oltre due mesi sull’approvazione del pacchetto di aiuti USA per l’Ucraina, alla vigilia del Summit di Monaco – noto anche come la Davos della Difesa – la propaganda del partito unico degli affari e della guerra, per cercare di scatenare un po’ di panico, le ha provate letteralmente tutte. La storia della novella alabarda spaziale termonucleare con la quale il dittatore pazzo ci sta minacciando tutti quanti di estinzione è una delle tante ed è piuttosto indicativa; il caso scoppia mercoledì scorso, quando il presidente della Commissione Intelligence della Camera, il repubblicano Mike Turner, volto pacioccoso del bellicismo neocon old school e grande supporter della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, in attesa del via libera per le bombe vere ne lancia una virtuale sul suo account X: “Oggi” scrive “il comitato permanente del Congresso per l’Intelligence ha informato i membri del congresso relativamente a una grave minaccia alla sicurezza nazionale” così, di botto, senza senso. Esattamente quello che la propaganda guerrafondaia stava aspettando per scatenare il finimondo: “Mosca supera un’altra linea rossa e punta a militarizzare lo spazio” rilancia gasatissima La Stampa; le prove sono schiaccianti e le elenca il nostro generale Tricarico, informatissimo. “Non è inverosimile” afferma “che la Russia possa attrezzarsi e sviluppare un’arma nucleare da lanciare nello spazio e farla esplodere con la potenza di megatoni”; non è inverosimile: quando si dice una pistola fumante. Il livello di fuffa ha raggiunto livelli tali che anche lo stesso Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, avrebbe dichiarato di essere “rimasto basito”, mentre un altro rappresentante della Commissione Intelligence prendeva anche per il culo e invitava alla calma -quando si dice lanciare il sasso e nascondere la mano. A 5 giorni di distanza, tutto quello che sappiamo è che, appunto, ci sarebbe una non meglio precisata minaccia russa che riguarda lo spazio e ha qualcosa a che fare con l’energia nucleare e con la disattivazione dei satelliti e che comunque, in nessun modo – parole della stessa Casa Bianca – rappresenta un pericolo immediato, ma qualcosa che “nel medio lungo termine” “può” condizionare la difesa degli States.

Aleksej Naval’nyj

A parte ai pennivendoli della propaganda guerrafondaia, è apparso evidente subito a tutti si trattasse di un’enorme vaccata buttata nella mischia a caso per creare un po’ di panico ad hoc, e i trumpiani hanno avuto gioco facile a perculare il tutto; i commenti al tweet di Turner sono emblematici: “Ci è appena stato detto” scrive il blogger cospirazionista Jeff Carlson “che la Russia… [riempi lo spazio vuoto]. E’ una minaccia molto reale di cui non possiamo dirti nulla. È molto seria. Dico sul serio. Quindi devi finanziare l’Ucraina per i prossimi dieci anni” – firmato Mike Turner. Manco più a montare le psyop sono buoni; fortunatamente per loro, poche ore dopo è arrivata la tragica notizia della morte in carcere di Navalny e la campagna russofoba per la corsa al riarmo si è potuta fondare su qualcosa di un attimino più solido: Torniamo a bomba, come ha titolato emblematicamente Il Manifesto, con tanto di foto di gruppo da Monaco. “Il mondo si riarma a passi forzati: Stoltenberg preme sull’acceleratore, l’Europa è in piena corsa in difesa dell’Ucraina, e la Germania si avvia verso l’economia di guerra e riapre il dibattito sull’atomica”. Il giorno dopo, Sirsky annunciava il ritiro definitivo delle truppe ucraine da Adveevka; cosa mai potrebbe andare storto?
“Dirò a Putin di attaccare i paesi europei che non spendono per la loro difesa”: con un colpo di scena degno del Berlusconi dei migliori tempi, dal palco di un’anonima cittadina della Carolina del Sud The Donald torna a imporre l’agenda del dibattito elettorale e a offrire un assist perfetto alle cancellerie più guerrafondaie del vecchio continente e alle industrie di armi, che si sfregano le mani all’idea di altri anni di succulenti extraprofitti; la necessità di armare fino ai denti tutto il continente in vista di una possibile ritirata USA dall’Europa nel caso, sempre più probabile, di una vittoria di Trump, è stato il tema per eccellenza del Summit di Monaco dove, riporta il New York Times, aleggiava un umore piuttosto asprino “in netto contrasto con quello di appena un anno fa, quando molti dei partecipanti pensavano che la Russia potesse essere sull’orlo della sconfitta”. Allora, ricorda sempre il Times, “si parlava di quanti mesi sarebbero potuti essere necessari per ricacciare i russi verso i confini che esistevano prima del 24 febbraio 2022. Ora” conclude amaramente l’articolo “quell’ottimismo appare prematuro nella migliore delle ipotesi, leggermente delirante nella peggiore” .
Finita la botta del delirio precedente, eccone uno tutto nuovo per l’occasione: l’assunto di base, a questo giro, è che Putin ora sarebbe in procinto di attaccare direttamente un paese NATO così, a cazzodicane; effettivamente, come per l’Ucraina, potrebbe essere un caso paradigmatico di profezia che si autoavvera. Ovviamente, a Putin di attaccare un paese NATO non gliene può fregare di meno, ma a forza di dirlo – e di comportarsi come se fosse un destino ineluttabile, armandosi fino ai denti e sfidando continuamente le linee rosse di Mosca – la fantasia potrebbe diventare davvero realtà; di sicuro ci stanno provando con ogni mezzo necessario: in Ucraina, ad esempio, mentre sul fronte terrestre la debacle è ormai totale, tutti gli sforzi della NATO sono concentrati a colpire la flotta russa, che secondo alcune stime, avrebbe registrato perdite vicino addirittura a un terzo del totale “che equivale”, sintetizza Andrew Korybko sul suo blog, “a 25 navi e un sottomarino”. La propaganda russofoba l’ha spacciata come una vittoria degli Ucraini, ma – in realtà – qui l’Ucraina non c’entra sostanzialmente niente: l’Ucraina manco ce l’ha una flotta; fa solo da prestanome. Si tratta, a tutti gli effetti, di una guerra della NATO contro la marina russa nel tentativo, come dice sempre Korybko, “di imporre costi militari asimmetrici alla Russia, andando a colpire obiettivi di alto profilo relativamente facili da colpire” e senza che la Russia possa in qualche modo reagire in modo simmetrico, dal momento – appunto – che l’Ucraina una marina, molto banalmente, non ce l’ha; e il tutto mentre, nel frattempo, nei mari del Nord la NATO sta svolgendo la più grande esercitazione dai tempi della Guerra Fredda: si chiama SteadFast Defender 2024 e coinvolge, in tutto, qualcosa come oltre 50 navi, un’ottantina tra jet, elicotteri e droni, oltre 1000 veicoli da combattimento e la bellezza di oltre 90 mila soldati. E dai mari del Nord si estende a tutto il continente: in coordinamento con SteadFast Defender, infatti, i tedeschi impiegheranno 12 mila uomini della decima divisione Panzer nell’esercitazione denominata Quadriga 2024, dove sperimenteranno la logistica necessaria per raggiungere Svezia, Lituania e Romania nella “prima esercitazione in cui la difesa del fianco orientale della NATO si coniuga con il ruolo della Germania come perno della difesa dell’Europa” (Carsten Breuer, capo delle forze armate tedesche). Nel frattempo, le forze armate polacche testeranno la capacità di movimento di 3.500 veicoli, compresi 100 carri armati statunitensi, nell’operazione denominata Dragon-24; insomma: prove di guerra totale alla Russia. Dopo aver decantato le lodi di questo sforzo ciclopico, per rispondere alla boutade di Trump Stoltenberg ha ricordato che, in realtà, “i paesi NATO non hanno mai speso così tanto”: come ricorda Tommaso di Francesco sul Manifesto, infatti, “In 9 anni, dal 2014, gli Stati europei più il Canada hanno aumentato di ben 600 miliardi i loro bilanci militari”; allora, i paesi NATO che rispettavano l’obiettivo del 2% erano appena 3. Quest’anno saranno 18, con alcune encomiabili eccellenze: i paesi baltici superano il 2,5%, la Grecia il 3, la Polonia addirittura il 4; “un caso istruttivo” come sottolinea l’Economist, perché oltre metà dei soldi polacchi andranno in acquisto di attrezzature – dai carri armati agli elicotteri, dagli obici ai razzi Himars – il tutto, continua l’Economist, “con una pianificazione poco coerente e con totale negligenza su come equipaggiare e sostenere tali attrezzature. I lanciatori Himars” ad esempio “possono sparare fino a 300 km, ma gli strumenti che hanno per l’intelligence non sono in grado di localizzare gli obiettivi a quella distanza e dovranno fare interamente affidamento sugli USA”.

Jens Stoltenberg

Altri paesi europei sono intenzionati a seguire le stesse orme: “Gli europei” ha affermato il ministro della difesa Pistorius a Monaco “devono fare molto di più per la nostra sicurezza”; l’obiettivo del 2% è solo l’inizio, e nel prossimo futuro “potremmo raggiungere il 3, o forse anche il 3,5%”. Più che sulla volontà di aumentare la spesa, quindi, i distinguo all’interno dell’imperialismo guerrafondaio dell’Occidente collettivo potrebbero giocarsi su dove vanno a finire questi quattrini: se la Polonia, infatti, è ben felice di riempire le tasche degli alleati d’oltreoceano, la Germania, infatti, potrebbe puntare piuttosto a sfruttare l’occasione per ridare un po’ di ossigeno al suo manifatturiero, che – nel frattempo – è stato raso al suolo; ed è solo l’antipasto. Come ricorda il Financial Times, infatti, “Le aziende tedesche si riversano negli Stati Uniti con impegni record di investimenti di capitale”; “Gli Stati Uniti” si legge nell’articolo “stanno attirando una quantità record di investimenti di capitale da parte di aziende tedesche attratte dalla loro forte economia e dai lucrosi incentivi fiscali, mentre Berlino è preoccupata per la deindustrializzazione”: in un solo anno, infatti, gli investimenti diretti tedeschi negli USA sono passati da 8,2 miliardi a 15,7 miliardi, distribuiti in 185 progetti, 73 dei quali nel settore manifatturiero – e potrebbe essere solo un primo assaggino. “Secondo un sondaggio condotto su 224 filiali di aziende tedesche negli Stati Uniti, pubblicato l’8 febbraio dalle Camere di commercio tedesco – americane” continua, infatti, l’articolo “il 96% prevede di espandere i propri investimenti entro il 2026”.
Il rilancio dell’industria bellica nostrana potrebbe essere la medicina giusta; le differenze tra Biden e Trump andrebbero forse analizzate anche da questo punto di vista: congelando la guerra per procura in Ucraina, infatti, Trump si troverebbe col fiato sul collo della sua industria bellica a corto di commesse e sarebbe portato a fare pressioni sull’Europa per alzare la spesa sì, ma solo per sostenere l’industria USA. Per tenere il fronte acceso, invece, Biden avrebbe bisogno dello sforzo industriale sia statunitense che europeo; da questo punto di vista, quindi, la scelta starebbe un po’ a noi: vogliamo morire di fame e di miseria o di guerra? E poi dicono che non c’è democrazia… Questo dilemma potrebbe caratterizzare anche l’agenda elettorale della Von Der Leyen, alla disperata ricerca di un secondo mandato alla guida del protettorato europeo: “La proposta di Von der Leyen per il secondo mandato” titola, ad esempio, Politico “più potenza militare e meno discorsi sul clima”; “Il mondo di oggi è completamente diverso rispetto al 2019” ha affermato, “e anche Bruxelles lo è” sottolinea Politico, “o lo sarà presto”. “L’attuale gruppo di deputati del Parlamento europeo” continua Politico “è stato eletto al culmine delle marce giovanili ispirate a Greta Thunberg che hanno catapultato il cambiamento climatico nel mainstream politico” e hanno influenzato la retorica del primo mandato di Ursulona. Nonostante la leggenda metropolitana sulle ecofollie di Bruxelles spacciata dall’alt right, però, al di là della retorica i risultati sono stati pochini e, per la gioia dei negazionisti climatici che hanno scambiato la lobby del fossile per il nuovo fronte di liberazione popolare, ora anche la retorica sembra essere arrivata al capolinea, e così “nella conferenza stampa di lunedì” riporta sempre Politico “il clima è stato appena menzionato e l’accento si è spostato tutto sulla difesa”; ma nella peggiore delle ipotesi, rilancia l’Economist, se davvero “l’America abbandonasse l’Europa” la nuova situazione “richiederebbe di fare molto di più che semplicemente aumentare la spesa”. “Quasi tutti gli eserciti europei” sottolinea l’Economist “fanno fatica per raggiungere i loro obiettivi di reclutamento”: a dicembre, Pistorius ha affermato che, col senno di poi, aver interrotto la leva obbligatoria in Germania nel 2011 è stato un tragico errore, mentre il generale britannico Patrick Sanders, capo dell’esercito britannico, ha usato l’esempio dell’Ucraina per ribadire che “Gli eserciti regolari iniziano le guerre; gli eserciti di cittadini le vincono”. Ma anche nei rari casi in cui gli obiettivi del reclutamento vengono raggiunti, mancano comunque “capacità di comando e controllo, come ufficiali di stato maggiore addestrati a gestire grandi quartier generali”.
L’altro nervo scoperto – fondamentale – è la questione nucleare: “L’America” sottolinea l’Economist “è impegnata a usare le sue armi nucleari per difendere gli alleati europei” e sarebbero quelle armi ad averci fornito una garanzia contro l’invasione russa; ora, però, chi può pensare che “un presidente americano che non è più disposto a rischiare le sue truppe per difendere un alleato europeo, sarebbe invece disposto a mettere a repentaglio le città americane in un conflitto nucleare?”. Francia e Gran Bretagna l’atomica ce l’hanno, ma si parla di 500 testate in totale contro le 5 mila degli USA e le 6 mila russe e, in buona parte, non sappiamo come gestirle: le armi nucleari britanniche, infatti, sono assegnate alla NATO; la Gran Bretagna può decidere di usarle come vuole “ma è totalmente dipendente dagli USA per la progettazione delle testate, per le quali attinge ad un pool comune di missili, conservato in Georgia”. “Se l’America dovesse interrompere ogni cooperazione” sottolinea l’Economist “le forze nucleari britanniche probabilmente avrebbero un’aspettativa di vita misurata in mesi anziché in anni”; e il problema della catena di comando va ben oltre il nucleare: la NATO, infatti, gestisce una complessa rete di quartieri generali – un quartier generale in Belgio, tre comandi in America, Paesi Bassi e Italia, e una serie di comandi più piccoli sotto. “Questi” sottolinea l’Economist “sono i cervelli che gestirebbero qualsiasi guerra con la Russia. E se Trump si ritirasse dalla NATO da un giorno all’altro, gli europei dovrebbero decidere come riempire questo vuoto” e in molti dubitano che gli Stati Membri dell’UE possano mettersi d’accordo nell’individuare l’equivalente di un comandante supremo tra di loro, in grado di sostituire il padrone di Washington.

The Donald

Insomma: l’obiettivo dell’Economist è chiaro: fare un po’ di terrorismo psicologico contro la possibilità di una nuova amministrazione Trump; l’Europa è sotto attacco russo, ovviamente deve spendere un sacco di quattrini per riarmarsi, ma che non gli venga in mente di vedere nelle minacce di Trump un opportunità per ritagliarsi uno spazio di autonomia strategica, perché senza la Pax Americana l’Europa è destinata a soccombere e, magari, anche a tornare a farsi la guerra vera al suo interno. Nel frattempo, in Italia – per tagliare la testa al toro – abbiamo approfittato del clima bellicista per fare un altro bel favore all’industria delle armi: la famosa legge 185 – che, anche se è stata spesso aggirata, permetteva al Parlamento di avere un controllo su dove autorizzavamo ad esportare le nostre armi – è sotto attacco; “L’obiettivo” titola Il Manifesto “è escludere il Parlamento dai controlli”. “Il senso dell’operazione che la maggioranza si appresta a varare” conclude l’articolo “è di ridare al governo il potere di decidere il da farsi in autonomia, togliendo alle Camere ogni potere di discussione”.
Forse di fronte all’offensiva propagandistica delle due correnti del partito unico degli affari e della guerra, il potere di discussione – invece – sarebbe il caso di riprendercelo per sul serio; per farlo, ci serve un vero e proprio media che che non si faccia infinocchiare dalla propaganda bellicista e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

Il declino dell’impero: Perché gli USA non sono in grado di combattere contro Cina e Russia

Potrebbe essere il caso ad esempio delle loro gigantesche navi da guerra, che da sempre costituiscono il fiore all’occhiello della proiezione globale della superpotenza militare a stelle e strisce.

Con i venti di guerra che spirano, per costruirne di nuove il congresso ha approvato un nuovo budget da trentadue miliardi. Solo per quest’anno. Il più generoso di tutti i tempi.

Ma potrebbero non essere esattamente soldi spesi benissimo.

Secondo un articolo del South China Morning Post dello scorso Maggio, infatti, i cinesi avrebbero fatto una simulazione per capire come si sarebbero potuti comportare i colossi del mare statunitensi di fronte a un attacco cinese a base di missili ipersonici.

Gioco di guerra: i missili ipersonici cinesi affondano una portaerei americana. Ogni volta”, riassumeva Asia Times.

La simulazione infatti sarebbe stata ripetuta per venti volte e per venti volte avrebbe dato lo stesso identico risultato. E negli USA è partito l’allarme.

Di fronte alle minacce in continua evoluzione, la Marina americana fatica a cambiare”, titolava allarmato il New York Times qualche giorno fa.

Secondo Asia Times, addirittura, “La frenesia della costruzione navale della marina americana potrebbe causare più danni che benefici”.

I piani multimiliardari per costruire altre navi da guerra tradizionali”, continuava l’articolo, “fanno parte di una strategia USA obsoleta destinata al fallimento in un conflitto con la Cina

Ma è mai possibile che gli USA, nonostante da soli spendano per la loro gara a chi c’ha il missile più grosso quasi quanto tutto il resto del mondo messo assieme, siano così fessi da non trasformare tutti questi quattrini in concreta superiorità militare nei confronti degli avversari?

Contea di Jackson, Mississippi. Se non fosse stato per il famosissimo presunto rapimento alieno che nel 1973 vide coinvolti Charles Hickson e Calvin Parker, la piccola cittadina di Pascagoula sarebbe stata relegata per sempre nell’anonimato.

Invece, è uno dei cuori pulsanti dell’industria bellica a stelle e strisce: con i suoi settemila dipendenti, infatti, i cantieri navali di Huntington Ingalls rappresentano il più grande datore di lavoro nel settore manifatturiero di tutto lo stato.

Producono quelli che sono considerati i cavalli di battaglia della Marina USA: i celebri cacciatorpedinieri Arleigh Burke.

Come ricorda il Times: “Possono gestire una serie di missioni, tra cui la caccia e la distruzione di sottomarini nemici, l’attacco ad altre navi nelle acque vicine e”, soprattutto, “il lancio di missili di precisione per colpire bersagli lontani sulla terraferma”.

E il Congresso, ha deciso di investirci una montagna di quattrini senza precedenti.

La Marina”, ricorda il Times, “ne ha già settantatré. L’accordo è di costruirne altri sedici, alla modica cifra di due miliardi di dollari l’uno”.

Il problema però”, sottolinea il Times, “è che, nonostante la loro straordinaria potenza, questi cacciatorpedinieri, come d’altronde il grosso delle navi da guerra tradizionali, sono sempre più vulnerabili, specialmente nel caso di un conflitto diretto contro la Cina per difendere Taiwan”.

Stessa situazione, almeno stando ad Asia Times, per il programma Next-Generation Guided-Missile Destroyer, per la nuova classe di combattenti di superficie che a partire dal 2030 dovrebbero affiancare gli Arleigh Burke, alla modica cifra di tre miliardi e mezzo l’uno.

Tuttavia”, sottolinea sarcasticamente Asia Times, “il loro valore strategico e la loro sostenibilità sono già messi in discussione a causa della crescente preoccupazione sull’espansione navale della Cina”.

Asia Times cita un rapporto del Congressional Research Service del Marzo scorso che solleverebbe più di una perplessità circa l’opportunità di concentrare così tante capacità, e così costose, in un numero tutto sommato limitato di navi, tutte potenzialmente più che vulnerabili.

Piuttosto, sottolineerebbe sempre lo stesso rapporto, gli sforzi dovrebbero essere concentrati per munire la Marina americana di armi a lungo raggio.

Quello che dovrebbe avvenire ad esempio con l’installazione di tutto il necessario per lanciare missili ipersonici sui cacciatorpedinieri della classe Zumwalt, che è cominciata sempre nei cantieri di Hurlington nell’Agosto scorso e dovrebbe concludersi entro un paio di anni.

Tuttavia”, sottolinea sempre Asia Times, “lo scafo della classe Zumwalt è stato criticato per essere instabile in mare mosso e facilmente rilevabile dai radar a bassa frequenza”. Tanto che, riporta sempre Asia Times, secondo alcuni: “Sarebbe più ragionevole progettare un nuovo cacciatorpediniere pensato ad hoc per l’utilizzo di armi supersoniche, invece che rimettere le mani sugli Zumwalt”. Nel frattempo però, in questo ammodernamento degli Zumwalt sono già stati impegnati poco meno di quindici miliardi.

Secondo il Times, se l’obiettivo è essere in grado di combattere una guerra con un pari grado tecnologico o quasi, come la Cina o la Russia, sarebbe meglio spenderli diversamente.

In nessun momento dalla seconda guerra mondiale ad oggi”, scrive il Times, “abbiamo dovuto affrontare una richiesta più urgente di abbracciare nuove tecnologie e nuovi sistemi d’arma”.

Il riferimento, in particolare, è alla necessità di sviluppare una flotta di navi e droni armati e senza pilota.

Secondo David Ochamanek della Rand Corporation, questa sostanzialmente è l’unica via per riuscire ad avvicinarsi alle coste cinesi senza vedere andare in fumo in un colpo solo una quantità di uomini e di mezzi difficilmente sostenibile.

Ma”, avrebbe affermato Ochamanek, “devo confessare di non essere rimasto per niente impressionato dalla velocità con la quale si stanno muovendo in questa direzione”. E i tentativi fatti, non sono stati esattamente un successo.

La Marina”, ricorda il Times, “Aveva già stipulato contratti con fornitori tradizionali, come Boeing, per sviluppare navi senza pilota. Ma molti di questi progetti erano già in ritardo di anni rispetto al programma, e presentavano problemi enormi nonostante avessero già pesantemente sforato il budget, tanto da venire silenziosamente cancellati”.

Visto che non riuscivano a svilupparne di loro, a un certo punto avevano provato a capire cosa potevano riuscire ad accaparrarsi sul mercato.

La missione era stata affidata all’Ammiraglio Lorin Selby, a capo della ricerca scientifica della marina USA fino allo scorso Giugno.

L’Ammiraglio Selby”, scrive il Times, “Ha provato a lungo a convincere i colleghi del Pentagono a trovare un modo per acquistare rapidamente migliaia di dispositivi di questo genere in tutto il mondo. Ma purtroppo”, sottolinea il Times, “si è imbattuto in una serie infinita di ostacoli”. “Ci siamo scontrati con la macchina”, avrebbe dichiarato l’Ammiraglio Selby al Times, “e cioè le persone che vogliono semplicemente continuare a fare quello che hanno sempre fatto. I budget, l’approvazione del Congresso, gli sforzi delle lobby. Tutto è progettato per continuare a produrre ciò che già abbiamo, e al limite migliorarlo un po’. Ma questo purtroppo ormai non può più bastare”.

Non sarebbe l’unico a pensarla così: secondo quanto riportato dal Times, “Diversi ufficiali di alto rango della Marina e del Pentagono”, interrogati dal loro giornale, avrebbero tutti emesso la stessa sentenza: “L’avversione all’assunzione di rischi, e alla rottura con le tradizioni, mescolata con la spavalderia e la fiducia nel potere della flotta tradizionale avrebbe gravemente ostacolato il progresso della Marina”.

La Marina degli Stati Uniti è arrogante”, avrebbe rincarato il solito Ammiraglio Selby, “abbiamo queste gigantesche portaerei e questi fantastici sottomarini, e non vogliamo sapere di nient’altro”. E anche sui fantastici sottomarini comincia a emergere più di qualche dubbio

Come sottolinea sempre Asia Times infatti: “I miglioramenti nelle capacità di guerra antisommergibile compiuti dai cinesi negli ultimi anni potrebbero minacciare il ruolo deterrente dei potenti sommergibili nucleari USA”.

Secondo Asia Times la Cina avrebbe compiuto enormi progressi nello sviluppo di sensori a frequenza estremamente bassa in grado di rilevare “le bolle quasi impercettibili prodotte dai sottomarini”, e anche di rilevatori sottomarini “in grado di rilevare minuscole vibrazioni superficiali di appena 10 nanometri”.

Insomma, tutto quello che avevamo fino ad oggi considerato invisibile, tanto invisibile potrebbe ormai non esserlo più.

Come scrive Andrei Martyanov nel suo “Disintegration: Indicators of the Coming American Collapse”:

Negli ultimi 50 anni, abbiamo dato per scontata la superiorità tecnologica americana. In particolare, grazie al crollo dell’Unione Sovietica, che però era dovuto in realtà più che altro a dinamiche interne scollegate dal contesto della Guerra Fredda. Questo ha illuso gli USA, e gli ha impedito di affrontare la realtà del loro declino che era già evidente negli anni ‘90. Nei 20 anni successivi, senza competitori, gli USA hanno sperperato il loro capitale politico e i gravi limiti del suo potere militare e tecnologico sono cominciati a venire a galla”.

Un errore strategico enorme”, continua Martyanov, “perché una superpotenza deve sempre accompagnare il potenziale dichiarato con risultati proporzionati. E invece non hanno fatto altro che sovrastimare il loro potenziale, sottovalutare il nemico, e fraintendere il tipo di guerra a cui stavano andando incontro”.

“Come sostengo da anni, l’arrivo dei missili ipersonici hanno cambiato per sempre la guerra e hanno reso i mastodonti da 100.000 tonnellate della Marina USA obsoleti e costosissimi agnelli sacrificali in ogni guerra reale”. Come sostiene il ministro della difesa russo Sergej Shoigu: “Non abbiamo bisogno di portaerei, ci basta avere le armi in grado di affondarli”.

Come il PIL denominato in dollari e composto per oltre la metà di trucchi contabili non restituisce un quadro realistico del declino della supremazia USA, così anche le ottocento basi in giro per il mondo e il budget stratosferico delle forze armate USA potrebbe restituire un’immagine piuttosto distorta della loro capacità reale di ottenere una vittoria, una volta che si trovassero testa a testa non più a qualche paesino in via di sviluppo ma a un pari grado tecnologico o quasi.

Nel caso dell’economia, la percezione distorta suggerita da numeri poco rappresentativi e enfatizzata da pennivendoli, ci ha già condannato all’impoverimento e alla crisi.

Nel caso dei rapporti di forza militari, la stessa percezioni distorta applicata alla valutazione di chi ha il missile più grosso, potrebbe portarci direttamente all’estinzione.

Ecco, sarebbe opportuno fare un piccolo sforzo per essere leggermente meno superficiali. Alla crisi economica, volendo, una soluzione la si può anche trovare: all’estinzione è già più difficile.

Bibliografia

https://www.nytimes.com/2023/09/04/us/politics/us-navy-ships.html?smid=nytcore-ios-share&referringSource=articleShare

https://asiatimes.com/2023/09/us-navy-building-spree-could-do-more-harm-than-good/

https://www.scmp.com/news/china/science/article/3221495/chinese-scientists-war-game-hypersonic-strike-us-carrier-group-south-china-sea

https://asiatimes.com/2023/05/war-game-china-hypersonics-sink-us-carrier-every-time/

https://asiatimes.com/2023/06/us-navys-ddgx-destroyer-design-is-full-of-holes/

https://crsreports.congress.gov/product/pdf/IF/IF11679

https://asiatimes.com/2023/02/us-fumbling-to-close-hypersonic-gap-with-china-russia/

https://asiatimes.com/2022/06/us-building-its-most-advanced-nuclear-ballistic-sub/

https://asiatimes.com/2023/08/china-claims-breakthrough-in-us-nuke-sub-detection/

https://asiatimes.com/2023/09/chinas-terahertz-tech-heralds-the-future-of-underwater-war/

https://www.amazon.com/Disintegration-Indicators-Coming-American-Collapse/dp/1949762343