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Tag: svendipatria

CIA e Fondi Speculativi: l’assalto degli USA alle telecomunicazioni globali (a partire dall’Italia)

L’accelerazione della svendita degli asset strategici italiani ai padroni dell’impero è diventata la priorità assoluta del governo dei fintosovranisti che procedono a suon di blitz, e quello di lunedì scorso è stato letteralmente inquietante: senza passare dall’assemblea dei soci, con la piena collaborazione del governo, il Cda di TIM ha deciso di accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR per la vendita della sua rete fissa.

Sarah Bartlett

Probabilmente l’asset più strategico di tutti gli asset strategici e, probabilmente, il peggior acquirente possibile immaginabile: “The money machine”, la macchina da soldi, come aveva ribattezzato KKR Sarah Bartlett nel suo leggendario libro nell’ormai lontano 1991, aprendo gli occhi al mondo di fronte alle pratiche predatorie dei fondi che compravano a debito le aziende per spolparle e intascare plusvalenze stratosferiche. Ma non solo: KKR, infatti, è diventato un vero e proprio braccio armato delle mire egemoniche dell’impero e si sta ritagliando, acquisizione dopo acquisizione, un posto al sole nel mondo delle infrastrutture delle telecomunicazioni dall’India all’Olanda, passando per il Cile, Singapore, la Colombia. Roba che grande fratello scansate, soprattutto per la biografia di chi è al posto di regia: nientepopodimeno che un ex direttore generale della CIA. E’ il famigerato generale USA David Petraeus, già noto per il ruolo disastroso ricoperto nella carneficina irachena prima e in quella afghana poi; nel 2012, in seguito a uno scandalo a sfondo sessuale, lascia di punto in bianco la guida dell’intelligence USA ed eccolo approdare magicamente nella stanza dei bottoni di KKR che gli crea una nuova divisione ad hoc – il KKR Global Institute – specializzata nell’analisi macroeconomica e geopolitica. “Petraeus” sottolineava Il Sole 24 Ore nel 2013 “potrà aiutare KKR anzitutto ricorrendo alla sua rete di contatti con governi e autorità internazionali”. Direi che ha soddisfatto tutte le aspettative: consegnare infrastrutture strategiche – come le reti di telecomunicazioni – a un fondo speculativo che sa di CIA da mille miglia di distanza ovviamente è un’operazione che non ha niente a che vedere con il mercato, la concorrenza e l’interesse economico in genere. E’ una scelta politica di totale e palese sottomissione, è la ciliegina sulla torta della totale abdicazione a ogni minimo tentativo di ritagliarsi uno spazio, se pur minimo, di indipendenza e di sovranità e completare il processo che in 30 anni ha trasformato l’Italia nel 51esimo stato guidato da Washington.
La domanda è: ma perché? Perché una classe dirigente che è salita al governo grazie alla retorica della patria e del sovranismo sta facendo di tutto per passare alla storia come l’artefice più spregiudicata della morte definitiva dell’Italia come paese sovrano?
Quella che vi racconteremo oggi, con il prezioso contributo del mitico prof. Alessandro Volpi, è la grande storia di come le oligarchie finanziarie USA hanno trasformato, con la complicità delle oligarchie locali, tutti i paesi che definivano alleati in appendici dell’impero a stelle e strisce. E lo faremo a partire dall’ultimo sconcertante capitolo di questa lunga saga, l’incredibile blitz che lunedì ha portato il consiglio di amministrazione di TIM, col benestare del governo e senza manco passare da un’assemblea degli azionisti, ad accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR – che annovera nel suo top management nientepopodimeno che l’ex direttore della CIA David Petraeus -per l’acquisto di quello che è probabilmente in assoluto l’asset più strategico della compagnia e, in generale, del nostro paese: la rete fissa delle telecomunicazioni.

Prof. Alessandro Volpi: ““Perché l’operazione consiste, appunto, nella cessione di operazione della rete. Quindi, secondo me, c’è un primo elemento singolare in questa vicenda, che è la decisione del consiglio d’amministrazione che non passa all’assemblea dei soci, ritiene che il socio pubblico sia sostanzialmente irrilevante e affida a KKR la proprietà della rete. Ora, è vero che TIM aveva già una quota significativa di azionisti internazionali, il 44%, però è altrettanto vero che qui si passa dal 44%, più o meno frammentato di azionisti internazionali ad un unico soggetto che è KKR che diventa il riferimento. Perché, appunto, il fatto che il consiglio d’amministrazione abbia deliberato soltanto a vantaggio di KKR, accettando l’offerta di KKR, considerandola un’offerta che non ha parti correlate, vuol dire che c’è un unico compratore che si chiama KKR.”[…]E poi aggiungerei a questo il fatto che comprerà Sparkle, quindi le reti sottomarine. Quindi in Italia avremo un unico proprietario dei sistemi delle infrastrutture strategiche.”

Alessandro Volpi

Lo shopping, in realtà, era già iniziato oltre due anni fa, nell’aprile del 2021, quando KKR entra a gamba tesa nell’azionariato di Fibercop – la nuova società fondata da TIM – e alla quale ha consegnato le chiavi della rete in fibra ottica sviluppata dalla controllata Flash fiber. Un assaggino, diciamo; Fibercop, infatti, non è certo il monopolista dei nuovi cavi in fibra ottica che attraversano il paese. Anzi, il pezzo grosso di questo fondamentale asset strategico del paese in realtà è un’altra società: Openfiber, dove KKR non c’è. C’è Macquarie, il fondo speculativo protagonista assoluto del banchetto che gli svendipatria britannici hanno apparecchiato a favore delle oligarchie finanziarie cedendogli il controllo dell’acqua pubblica con gestori che, dopo le privatizzazioni, sono diventati enormemente più indebitati senza aver mai investito il becco di un quattrino, ma avendo distribuito dividendi in quantità. L’ultimo scampolo di concorrenza tutta giocata tra fondi speculativi della stessa identica natura e che a breve avrà finalmente fine: una volta conclusa l’acquisizione della rete TIM da parte di KKR, infatti, l’obiettivo è quello di fondere Openfiber con Fibercop creando, anche nel mondo della connessione in fibra, l’ennesimo monopolio privato. Ma non solo: al banchetto, infatti, al momento manca ancora una portata. Si chiama Sparkle ed è la controllata di TIM che gestisce i cavi sottomarini che collegano la rete italiana al resto del mondo: un altro asset strategico fondamentale, e non solo per l’Italia. Attraverso il nodo di Palermo, infatti, Sparkle è la porta d’ingresso in Europa via Mediterraneo sia per il sud-est asiatico che per il Medio Oriente; anche lei è in svendita e KKR aveva fatto la sua offerta. Fortunatamente, al momento è stata respinta: anche il governo dei fintisovranisti ha qualche limite? Macché. E’ solo un problema di quattrini: Sparkle è a disposizione. Basterà aggiungere qualche spicciolo in più ai miseri 600 milioni offerti in prima istanza.

Prof. Alessandro Volpi: “Perché il dato vero è che non è episodica questa cosa, non è che arriva KKR, vede un’opportunità in Italia e dice “mi butto su quella” secondo la logica dei fondi hedge. Qui non è così: qui c’è, probabilmente, un disegno per cui i grandi fondi si impossessano delle infrastrutture e delle telecomunicazioni e quindi anche in quell’ambito, che è un ambito fondamentale, fanno il monopolio. Cioè, la sostanza è la ricerca del monopolio e, in nome della favoletta del mercato, si giustifica la costruzione dei monopoli. Questo è ciò che veramente è inammissibile: se uno legge una dichiarazione dei ministri di fronte a questa vicenda, tratta anche con un certo silenzio, devo dire, di buona parte della sinistra perché – insomma – non mi sembra ci sia stata una sollevazione di scudi nei confronti di questo tipo di operazione. Alla fine, in nome della necessità – appunto – di garantire il mercato, poi alla fine si costruiscono dei monopoli che sono sempre più pesanti, sono sempre più pesanti e significativi.”[…] “Senza nessuna capacità – torno a dire – del potere politico, della politica, di interagire. Io ho letto le dichiarazioni del governo italiano rispetto all’acquisizione di KKR e sono sostanzialmente entusiaste. All’obiezione che gli ha fatto Vivendi, cioè la Francia, dicendogli “ma scusate, vi comprano la rete e fate decidere il Consiglio di amministrazione senza nessuna interlocuzione” loro hanno detto “vabbè, ma questa è un’operazione” usando questo termine, questa favoletta di mercato, e quindi bisogna lasciarla andare. In realtà, qui di mercato mi sembra che ci sia veramente poco: c’è ormai un monopolio di fatto che è evidentissimo nel meccanismo delle telecomunicazioni.”

Dopo aver abbandonato i monopoli pubblici in nome della concorrenza ecco così che, con la complicità della politica, l’industria delle telecomunicazioni torna più monopolistica di prima solo che, a questo giro, è tutto in mano ai privati e neanche ai gruppi industriali, ma ai fondi speculativi che puntano direttamente al dominio globale. Anche se l’Italia ha voluto conquistare il primo gradino del podio dei paesi in svendita, infatti, la campagna acquisti di KKR nel mondo delle telecomunicazioni non si limita certo a noi: nel giugno del 2020 KKR, insieme a un altro fondo USA e a uno britannico, annuncia l’acquisizione di Masmovil, il quarto operatore delle telecomunicazioni spagnolo; nel febbraio del 2021 KKR annuncia un accordo con Telefonica per l’acquisto al costo di 1 miliardo di dollari delle quote di maggioranza della controllata che si occupa di fibra ottica in Cile; 3 mesi dopo è stato il turno degli olandesi con un accordo tra KKR e T-Mobile per fondare insieme una nuova società dal nome Open Dutch Fiber, sempre appunto per la gestione della rete in fibra ottica; ancora, 3 mesi dopo, un altro accordo con Telefonica, questa volta per l’acquisizione della maggioranza della società che gestisce la fibra ottica in Colombia. E così via, acquisizione dopo acquisizione, per arrivare nel 2022 alla partnership con Vodafone per l’acquisizione di Vantage Towers, il colosso tedesco delle telecomunicazioni wireless, e finire giusto questo autunno con un’altra ondata di acquisizioni che va da Singapore alle Filippine, passando per i cavi sottomarini della Malesia. E KKR è solo la punta dell’iceberg.

Prof. Alessandro Volpi: Lo sta facendo in alcuni paesi dell’est europeo, cioè sta specializzandosi nell’acquisizione dei sistemi di telecomunicazione. Metterei questo fenomeno dentro un fenomeno più grande perché il fenomeno più grande è il fatto che gli azionisti, come sappiamo, di KKR sono i grandi fondi: Vanguard, Black rock, State street e una serie di altri quattro o cinque soggetti, che sono i proprietari della rete infrastrutturale e delle infrastrutture delle telecomunicazioni, a partire dagli Stati Uniti in giro per il mondo. Perché se noi prendiamo le principali società di telecomunicazioni – nel caso degli Stati Uniti la più importante di tutti che è T-Mobile, ma prendiamo poi Verizon, poi prendiamo Comcast e prendiamo AT&T, che sono i cinque colossi mondiali se ci togli casi cinesi (se ci togli China Mobile), questi sono i cinque più grandi possessori di telecomunicazioni, non negli Stati Uniti ma in giro per il mondo. Cioè, in queste società, Black rock, Vanguard, State street e 3 o 4 fondi minori che, in genere, vanno a strascico dei primi tre, hanno il 25%. Quindi noi stiamo assistendo a un processo di cui il caso Telecom, il caso TIM, è soltanto un pezzetto, cioè il processo di ri-articolazione del controllo delle telecomunicazioni in giro per il mondo nelle mani dei fondi finanziari. Ora questa non è la vicenda della vecchia privatizzazione; l’Italia ha scelto questa sciagurata strada della privatizzazione nel ‘97, con il governo Prodi.”

La prima conseguenza, palese e tangibile, di questo processo di appropriazione dell’industria delle telecomunicazioni nelle mani di un manipolo di fondi speculativi è la riduzione dei posti di lavoro e il trasferimento di una quota consistente di ricchezza dai salari ai profitti.

Prof. Alessandro Volpi: Infatti, l’altro dato interessante – e io mi sono andato a vedere questi numeri- è che, nel corso degli ultimi dieci anni, tutte le grandi compagnie di telecomunicazioni hanno ridotto il numero dei loro occupati dal 20 al 35%. Cioè da dove arrivano, ovviamente, i fondi, l’operazione diventa quella di garantire un rendimento azionario. Naturalmente tutte queste realtà che vengono comprate dai fondi sono quotate in Borsa, perché hanno interesse a seguire il dividendo azionario e, contestualmente a questo – come sta accadendo del resto nel settore tecnologico e hi tech – a fronte di dividendi significativi, di fatturati molto alti e di ricavi molto alti, si assiste a un licenziamento più o meno sistematico. Perché, appunto, anche nel caso delle telecomunicazioni come nel caso dell’hi tech, c’è stata una perdita del 20, 25, in alcuni casi del 30% della forza lavoro. Quindi la finanziarizzazione porta a una concentrazione che riduce gli spazi della sovranità – mi sembra abbastanza evidente – di natura strategica e, al tempo stesso, determina una distruzione del lavoro. Cioè, c’è evidentemente un meccanismo “finanza versus occupazione” che è marcatissimo.”

Nel caso delle telecomunicazioni, però, rispetto alla solita storia infinita di quotidiana ingordigia c’è un aggravante piuttosto consistente, grossa come una casa.

Prof. Alessandro Volpi: Mah, io penso che il sistema delle telecomunicazioni sia, evidentemente, un sistema di natura politica e anche di natura militare. Allora, io non sono un esperto di questi risvolti e quindi non mi voglio cimentare con analisi che non sono cose che conosco profondamente, però è chiaro che il controllo delle reti sottomarine, il controllo – appunto – delle strutture fisse attraverso cui passano i segnali telefonici, i segnali delle telecomunicazioni, la rete, sia quanto di più strategico – anche in termini di difesa o aggressione militare – sia possibile. Tra l’altro, si diceva prima, se uno prende le prime dieci compagnie di telecomunicazioni al mondo, le uniche che sono ancora di proprietà dello Stato sono quelle cinesi; cioè – appunto – China Mobile ha come azionista di riferimento lo Stato cinese ed è proprietario delle infrastrutture cinesi. Evidentemente in India l’assalto alle telecomunicazioni da parte delle grandi compagnie – e da parte dei fondi che sono dietro le grandi compagnie – è già partito, perché è evidente che in un modo nel quale il sistema delle telecomunicazioni è controllato – per quanto riguarda le strutture fisse e per quanto riguarda i cavi, per intenderci – da soggetti che sono soggetti di natura privata e finanziaria, vogliamo immaginare che questo non sia un elemento di pressione, di condizionamento delle politiche monetarie, delle scelte – anche strategiche – rispetto all’innalzamento dei prezzi dei prodotti? Cioè io voglio dire – sarà perché a frequentare Giuliano Marucci divento un po’ complottista – che però mi sembra abbastanza evidente che se io possiedo le telecomunicazioni, possiedo le agenzie di rating e possiedo i sistemi informativi, beh, alla fine poi posso anche veicolare le impennate di prezzo che scateno attraverso la vendita degli strumenti derivati. Cioè, è evidente che qui c’è un legame, e questo poi produce una conseguenza – come tu dicevi – geopolitica, perché se ci sono determinate aree di tensione in giro per il mondo, probabilmente questo sistema funziona decisamente meglio e avere il controllo strategico delle reti vuol dire anche, in qualche modo, condizionare gli equilibri di forza tra i vari paesi e quindi far immaginare determinati scenari. Io penso che anche qui – è quello che dicevo in apertura – cioè, si sottovaluti la delicatezza della concentrazione della proprietà, cioè qui non è che stiamo parlando di un mercato dove ci sono dei soggetti che si fanno concorrenza: in Italia, torno a dire, la rete – forse non è chiaro – non è nelle mani dei 44% di investitori che prima componevano, insieme al 20% di Vivendi, il grosso dell’azionariato di TIM; ora ce n’è uno solo che si chiama KKR il quale – torno a dire – è un pezzo di un sistema globale di controllo delle telecomunicazioni attraverso i fondi finanziari. Cioè questa roba mi sembra che abbia molto a che fare con la democrazia, con la sicurezza degli Stati, con le dinamiche conflittuali; cioè, in altri tempi, io faccio fatica a immaginare uno Stato che cedesse le proprie infrastrutture strategiche come la rete fissa o i cablaggi o i controlli di sottomarini a un soggetto finanziario che, peraltro, risponde a logiche di altri paesi e in particolar modo, ovviamente, ha a che fare con il governo degli Stati Uniti. Cioè mi sembra che siamo di fronte a un processo di finanziarizzazione esasperato che partorisce una concentrazione che toglie spazio evidentissimo alla politica, che toglie spazio alla sovranità, ma direi anche la stessa democrazia.”

E quindi qua si ritorna alla domanda di partenza: ma perché mai la nostra classe dirigente, sia politica che economica, si mette a disposizione di questo processo distopico di concentrazione del potere economico e politico nelle mani di una ristrettissima oligarchia che li considera, nella migliore delle ipotesi, camerieri servizievoli? Ovviamente una risposta sta nello strapotere militare e a livello di intelligence di Washington, in grado ancora di tenere sotto scacco mezzo pianeta, ma una risposta fondata solo sui bruti rapporti di forza rischia di essere solo parziale. Una macchina così ben funzionante non si può fondare esclusivamente sul puro dominio e sul monopolio della forza fisica; perché funzioni a dovere, qualche contropartita ci deve essere. Insomma: come al solito, tocca seguire i soldi.
Come fanno oggi le élite economiche a fare profitto? Concretamente, intendo. Passo numero 1: come sempre devi avere un’azienda che produce qualcosa e che, quando la rivende, ci ripaga i costi e ci fa un piccolo margine. A questo punto già c’è la prima biforcazione perché, nel capitalismo tradizionale, una buona fetta di quel profitto lo reinvesti per allargare la tua produzione e fare ancora più profitto; quindi, quando in un anno le aziende hanno registrato tanti profitti, dovresti vedere anche tanti investimenti. E però c’è qualcosa che non torna perché l’anno scorso, ad esempio, le aziende italiane i profitti li hanno fatti eccome, eppure tutta questa ondata di investimenti sinceramente io non l’ho vista (e non solo io).

Prof. Alessandro Volpi: […] perché, ovviamente, i grandi fondi non avrebbero subito grandi difetti, grandi danni da quella riduzione di liquidità, perché ce l’hanno. Quindi, per effetto di questo percorso per cui mettere i soldi nella finanza era vincente, ebbene questo meccanismo ha partorito una progressiva riduzione degli investimenti perché – e i numeri lo dicono con chiarezza anche pensando al nostro Paese – il volume complessivo degli investimenti, a cominciare dagli investimenti lordi fissi – parlando degli investimenti privati – si è significativamente ridotto, quindi perché, quando ci sono i margini favorevoli e ci sono gli utili, si decide di destinarli subito alla remunerazione del capitale, e magari si fanno dei ri-acquisti di titoli azionari, quindi senza nessun effetto sull’andamento reale dell’economia, per far salire il valore di quei titoli. Quindi, praticamente, è come se si comprasse carta su carta, per citare un’espressione sommaria dei grandi economisti.”[…] “Quindi vuol dire, evidentemente, che anche la partecipazione, là dove c’era un capitale pubblico disponibile, dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale – non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale – pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto diversificare, come si dice, il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce certamente.”

Capito eh, i furbacchioni… Ci raccontano che i profitti sono importanti, sennò poi come si fa a investire in innovazione, in ricerca, in marketing e chi più ne ha più ne metta, ma poi – in realtà – quando quei profitti arrivano, invece di reinvestirli li usano per speculare. Però, però, tendenzialmente qui c’è un problemino, perché investire in azioni o in prodotti finanziari – a regola – potrebbe essere abbastanza rischioso: e come faccio, allora, a convincere i miei cari imprenditori ad avventurarsi nel casino delle scommesse finanziarie invece che continuare a investire nel caro vecchio business di famiglia, che tanta fortuna gli ha portato fino ad oggi? Semplice: devo eliminare i rischi. Oddio, semplice… tanto semplice non è, però ecco, l’obiettivo è quello: eliminare i rischi, che – in termini finanziari – si dice anche ridurre la volatilità. E come si fa a ridurre questa benedetta volatilità? Bisogna trovare un modo affinché le bolle speculative non si sgonfino mai; si devono continuare a gonfiare gradualmente, sempre di più. Per farlo, c’è bisogno di una quantità di quattrini sostanzialmente illimitata, una quantità tale che permetta continuamente di iniettare nuovi soldi nelle vecchie bolle. E dove si trovano tutti questi soldi? Semplice: concentrando tutti i soldi che ci sono sempre di più nelle mani di pochi soggetti, che è esattamente quello che è successo.

Logo di BlackRock

Quei soggetti si chiamano asset manager e, in particolare, i tre giganti dell’industria della gestione patrimoniale: Blackrock, Vanguard e State street: la massima concentrazione di ricchezza mai vista nella storia dell’umanità. Con un patrimonio gestito che supera di diverse volte i prodotti interni lordi di interi paesi avanzati, i giganti dell’asset management garantiscono che le bolle continuino a gonfiarsi all’infinito a prescindere da cosa succede all’economia reale, ed ecco allora fatto il giochino: grazie ai monopolisti dei mercati finanziari, i camerieri servizievoli, quando ricevono i profitti delle loro aziende che ancora producono e vendono qualcosa, invece di rischiare reinvestendoli nell’economia reale non devono fare altro che buttarli nelle bolle speculative, sostenute dai monopolisti stessi, e fare soldi dai soldi. Da questo punto di vista non è difficile capire perché a questi camerieri ben remunerati, della sovranità che sarebbe necessaria per far ripartire l’economia non gliene può fregare di meno e sono ben felici di svenderla ai monopolisti della finanza, che soli gli possono garantire delle belle mance cospicue.

Prof. Alessandro Volpi: […] la produttività non cresce, non cresce certamente. Il problema è che l’attrattività e, paradossalmente, la riduzione del rischio che il monopolio finanziario sta generando, produce come effetto inevitabile la contrazione dei processi produttivi; cioè una volta, fino a 10-15 anni fa – ma del resto è, come dire, la crisi del 2008 avrebbe dovuto insegnare qualcosa – in realtà la percezione che si è maturata dopo il 2008 è che la concentrazione vera della ricchezza finanziaria nelle mani di pochissimi – che diventano anche i proprietari di un vastissimo spettro di attività – è lo strumento per ridurre la volatilità dei mercati, perché la volatilità la si affida totalmente alle decisioni di questi gruppi che, alla fine, la regolano come una sorta di rubinetto per comunque provare a garantire rendimenti finanziari a tutte quelle società che sono da loro partecipate. E quindi è ovvio che le imprese cercano di entrare dentro quel sistema di partecipazioni e di investimento, e il sistema produttivo e il modello industriale e manifatturiero di servizi – come noi ce lo immaginavamo in passato – viene meno, perché la differenza di rischio fra affidarsi al sistema finanziario e fare impresa è enorme. E quindi noi avremo sempre meno attività manifatturiera e sempre meno attività di impresa nei paesi dove prevale la struttura di natura finanziarizzata e questo mi sembra che i numeri ormai ce lo dicano con grande evidenza, ma perché è tornata la riduzione del rischio. E non è solo la riduzione del rischio perché, per una certa fase, le banche centrali hanno fornito talmente tanta liquidità che – alla fine – la finanza viaggiava agevolmente perché era facilmente liquida, ma anche e soprattutto perché c’è una regia di un monopolio che è in grado di determinare la volatilità e di farla più o meno oscillare […]”.

L’aspetto geniale di tutto questo meccanismo – più distopico della peggiore distopia hollywoodiana e che permette di guadagnarsi la collaborazione delle élite economiche dei paesi che vengono depredati – è che a fornire ai giganti della gestione patrimoniale una potenza di fuoco sufficiente per portare avanti il loro progetto di dominio globale sono, in buona parte, anche le vittime stesse di questo meccanismo che, alla fine, a volte ringraziano pure; buona parte dei quattrini gestiti da questi asset manager, infatti, sono proprio nostri, della gente comune come noi che campa sempre peggio del suo lavoro.
E’ il frutto delle scelte politiche del partito unico della guerra e degli affari che governa i paesi dell’Occidente collettivo da almeno 30 anni a questa parte, 30 anni durante i quali è stato smantellato sistematicamente lo stato sociale universalista che costituiva la spina dorsale delle democrazie moderne e che ci ha costretto a buttare sempre più quattrini in fondi previdenziali integrativi e assicurazioni mediche di ogni genere. Tutti quattrini che diventano armi di distruzione di massa che le oligarchie usano per devastare scientificamente l’economia reale che ci permette di sopravvivere, dandoci in cambio un contentino perché, se le bolle speculative continuano ad auto-alimentarsi e i quattrini della nostra pensione sono stati investiti in quelle bolle, qualche spicciolo in cambio ci torna pure a noi. Che culo. E’ un po’ lo stesso contentino che ci hanno garantito con le delocalizzazioni e le liberalizzazioni: hanno devastato la nostra qualità della vita a suon di precarietà e stagnazione dei salari, però ci hanno permesso di comprare a due lire un sacco di orrende t-shirt di plastica che prendono fuoco solo a vederle e, addirittura, di far finta di andarci a divertire nel weekend in qualche capitale europea grazie a un viaggio a due lire in un carro bestiame low cost e al soggiorno in qualche aribnb quasi esentasse grazie alla cedolare secca. Grazie, davvero. Non ce n’era bisogno. Stavo bene anche a casina mia col maglione fatto a mano da mia nonna, ma con qualche ora di tempo libero da dedicare alle cose che mi interessano e senza il patema di non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena dall’oggi al domani.

Carlo Bonomi

Ma come in tutte le storie distopiche, al danno – alla fine – si deve aggiungere sempre anche qualche beffa: l’ultima ce l’ha regalata il buon vecchio Carlo Bonomi, patron di Confindustria. Lo spunto gli è arrivato dai dati sull’inflazione della scorsa settimana: 1,8%, sotto il target della BCE. Un dato che ha fatto immediatamente gridare tutta la stampa di regime al miracolo. Una gigantesca presa per il culo: il dato, infatti, si riferisce all’inflazione di ottobre anno su anno, e cioè a quanto sono aumentati nell’ottobre 2023 i prezzi rispetto all’ottobre precedente; peccato, però, che nell’ottobre 2022 – causa la speculazione criminale sui prezzi dell’energia – i prezzi fossero letteralmente esplosi. E’ quello che, in gergo tecnico, viene definito un outlier – un valore anomalo – ma tanto è bastato a Bonomi per lanciare la sua ultima crociata; secondo Bonomi, infatti, di fronte a questi dati sull’inflazione bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno: i salari dei lavoratori italiani sono cresciuti troppo, soprattutto perché – nel frattempo – non è cresciuta la produttività. Ricchi e sfaticati: ecco come Bonomi vede i lavoratori italiani.

Prof. Alessandro Volpi: […] “quindi quel modello ha funzionato, si sono ridotti gli investimenti. Io trovo particolarmente singolare che il presidente di Confindustria dica “va beh, ma allora, visto che siamo in queste condizioni e, quindi, la produttività italiana è bassa, bisogna ridurre i salari” perché – appunto – il buon Bonomi sembra dimenticarsi che la produttività dipende in primo luogo dagli investimenti e dalla qualità degli investimenti; cioè senza che ci sia un investimento reale nel processo produttivo, senza che ci sia uno sforzo di migliorare la qualità del processo produttivo, è difficile che la produttività cresca. Se io destino gli utili che ho accumulato tramite operazioni finanziarie ad altre operazioni finanziarie e riduco il volume degli investimenti, poi non è che mi devo stupire che la produttività non cresca perché, evidentemente, la produttività avrebbe avuto bisogno – in determinati settori in particolare – di una maggiore mole di investimenti privati e una minore attenzione al rendimento finanziario: magari destinare gli utiliqualche anno al 70 – 80% al reinvestimento produttivo. In realtà questo non è avvenuto; è stato finanziarizzato, e la narrazione di Bonomi che veramente, da questo punto di vista, è un personaggio anche abbastanza singolare, è quella di dire “siccome non c’è produttività, i salari sono cresciuti troppo e ora li dobbiamo contrarre ulteriormente, e magari riduciamo ulteriormente il numero degli occupati” a meno che, dice Bonomi, “lo Stato non ci dia dei soldi” lamentandosi del fatto che c’èsolo 8% della legge di bilancio che è destinata agli incentivi alle imprese, senza appunto poi andare a verificare che nel nostro Paese – pur in presenzadelle tranches dei Pnr e quindi di un incentivo pubblico – gli investimenti privati si sono ridotti. Quindi vuol dire, evidentemente, che anche là dove c’era un capitale pubblico disponibile la partecipazione dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale (non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale) pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari, o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto, diversificare – come si dice – il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce”.

Ci pisciano addosso e i media mainstream all’unisono ci dicono che piove.
Mi sa che abbiamo bisogno di un media tutto nostro che, invece che alle barzellette di questi svendipatria, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Bonomi

Suicidio Italia: perchè la manifestazione a Roma contro la guerra di Israele a Gaza è FONDAMENTALE

Ti chiedi che aspetto abbia il suicidio dell’Italia?
Eccolo, questo qua: è il risultato della votazione che si è tenuta ieri all’assemblea generale delle Nazioni Unite. La risoluzione era all’acqua di rose che più all’acqua di rose non si può. Dopo due settimane di veti nei confronti di risoluzioni che chiedevano lo stop al genocidio e alla pulizia etnica e il ritorno alle armi del dialogo e della diplomazia, di fronte all’emergenza della catastrofe umanitaria di Gaza, i proponenti si sono sostanzialmente limitati a chiedere una tregua umanitaria, che permettesse “la fornitura immediata di beni e servizi essenziali ai civili in tutta la Striscia di Gaza”, a partire da “acqua, cibo, forniture mediche, carburante ed elettricità, sottolineando l’imperativo, ai sensi del diritto internazionale umanitario, di garantire che i civili non vengono privati ​​dei beni indispensabili alla loro sopravvivenza” (https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/LTD/N23/319/20/PDF/N2331920.pdf?OpenElement). Ovviamente, la stragrande maggioranza dei paesi di tutto il mondo hanno votato senza battere ciglio. A parte quello che ormai a tutti gli effetti possiamo definire senza mezzi termini l’asse del male: il Nord Globale, che ha ufficialmente decretato che nella guerra totale contro il resto del mondo anche il genocidio programmato è uno strumento legittimo. Una contrapposizione tra Sud e Nord che richiama quella alla quale abbiamo già assistito nel caso delle innumerevoli risoluzioni di condanna nei confronti dell’operazione militare russa in Ucraina; solo, on steroids.
Fatta eccezione per l’India di Modi, che sta approfittando della situazione per aprire un altro capitolo della sua eterna guerra contro la minoranza musulmana al suo interno e contro gli avversari regionali, tutte le defezioni da parte dei paesi che si considerano più o meno non allineati infatti sono scomparse d’incanto, a partire da Africa, America Latina e mondo arabo, che hanno sostenuto la risoluzione sostanzialmente all’unanimità.
Ma cosa c’entra allora l’Italia? C’entra eccome, perché uno degli aspetti più importanti di quanto avvenuto ieri infatti consiste nel fatto che a questo giro, per la prima volta da quando è iniziata questa terza guerra mondiale a pezzi, a sgretolarsi è stata anche l’unità dei paesi europei. E non è soltanto questione di principi: a sostenere la risoluzione infatti sono stati infatti in primo luogo i principali paesi dell’Unione che si affacciano sul Mediterraneo: Francia, Spagna e Portogallo. Non è un caso: il sempre più probabile allargamento del conflitto ben oltre gli angusti confini di quella prigione a cielo aperto nota come Striscia di Gaza, rappresenterebbe infatti per gli interessi materiali diretti di questi paesi una vera e propria tragedia, da tutti i punti di vista: energia, economia, sicurezza e anche immigrazione. Non c’è bisogno di provare compassione di fronte alle immagini strazianti delle migliaia di bambini trucidati sotto le bombe indiscriminate di quella che definiamo con sprezzo del pericolo l’unica democrazia del medio oriente, basta avere un minimo a cuore gli interessi nazionali immediati, che evidentemente, però, per qualcuno, possono essere sacrificati. E questa volta non in nome di una ipocrita difesa di regole fondamentali del diritto internazionale, che valgono sempre solo per gli altri, ma proprio a sostegno esplicito di una loro palese e plateale violazione: l’Italia dei fintosovranisti svendipatria, infatti, si è astenuta. Tra fervore ideologico e sudditanza, ci siamo talmente appassionati all’ipotesi della risoluzione genocida del grande conflitto in corso, da sacrificargli anche gli interessi nazionali immediati. La nostra sete di sangue è tale, che manco un po’ di sano egoismo è in grado di trattenerci. L’eventualità sempre meno astratta di un allargamento del conflitto infatti per l’Italia sarebbe una vera e propria catastrofe. Le prime avvisaglie ci sono già state: nell’arco di appena tre settimane infatti, il fantomatico Piano Mattei della Giorgiona Madrecristiana è andato definitivamente a farsi benedire; la Libia ha ufficialmente decretato l’espulsione di tutti i diplomatici di paesi che sostengono il genocidio di Gaza, i rapporti con l’Algeria hanno subito una botta clamorosa e potrebbe essere solo l’inizio. I paesi musulmani che stanno adottando una linea più morbida e dialogante con Israele infatti sono attraversati da proteste di massa oceaniche, che rischiano di stravolgere gli equilibri politici interni, ed annullare così ogni vaga possibilità di ricostruire un’influenza italiana nella regione, ma i quattrini in realtà non sono neanche il principale motivo di preoccupazione. Con l’allargamento del conflitto infatti l’Italia si ritroverà finalmente a ricoprire fino in fondo il ruolo che da decenni gli occupanti USA ci hanno assegnato: quello di portaerei naturale nel cuore del Mediterraneo: tutta la logistica necessaria per permettere l’escalation genocida passerebbe infatti dai nostri porti e dalle basi USA e NATO sul nostro territorio, rendendo l’Italia il bersaglio numero uno di tutto il mondo islamico. Ecco perché la manifestazione di oggi a Roma è probabilmente la più importante da decenni. Nata come semplice atto di solidarietà nei confronti della popolazione vittima per eccellenza della ferocia neocoloniale del Nord Globale, di fronte al voto di ieri all’ONU e alla notte di bombardamenti più cruenta scatenata in contemporanea da Israele, nel tentativo di chiudere i giochi prima che la comunità internazionale sia in grado di trasformare le sue perplessità in qualcosa di più concreto, la manifestazione di oggi assume necessariamente un ruolo di primo piano nella lotta del 99% contro l’eutanasia nazionale imposta da questo governo di straccioni svendipatria.
Chiunque abbia a cuore gli interessi di questo martoriato paese, a prescindere da quali siano le sue posizioni su quanto sta avvenendo a Gaza, oggi dovrebbe essere in prima linea, senza se e senza ma. Non facciamoci fregare dalla propaganda, quella di oggi non è la sfilata delle anime belle, utile soltanto a dare un volto ai buoni sentimenti a una parte minoritaria del paese sconfitta in partenza. La manifestazione di oggi è una battaglia strategica per chiunque si sia rotto i coglioni di veder svendere il suo futuro al miglior offerente da una manica di corrotti incompetenti burattini di Washington. E quel che più conta: è una battaglia che possiamo vincere. Concretamente. Alzare la testa e porre un ostacolo concreto all’adesione acritica dell’Italia ai piani di sterminio di Washington e Tel Aviv infatti, per quei piani rappresenta un rischio potenzialmente mortale. Questi due anni di guerra in Ucraina ci hanno dimostrato ampiamente quanto la supposta superiorità militare e tecnologica del Nord Globale sia molto meno solida e scontata del previsto; l’apertura di un secondo fronte in medio oriente, per il Nord Globale, rappresenta rischi enormi. Per affrontarli, hanno bisogno di serrare le fila e garantirsi il pieno e totale sostegno da parte di tutti. Un’Italia che sotto la pressione di una spinta popolare massiccia deve procedere col freno a mano tirato per paura di veder stravolgere completamente i suoi equilibri politici interni, rappresenterebbe un lusso che molto probabilmente Washington e Tel Aviv molto semplicemente non si possono permettere. In soldoni, abbiamo concretamente in mano il potere non solo di impedire il genocidio, ma quel che forse è ancora più importante, di impedire che sfoci in una guerra totale dalle conseguenze incalcolabili. Il momento delle chiacchiere è finito, è arrivato il momento dell’organizzazione e della mobilitazione. e la manifestazione di oggi è una tappa fondamentale.
E proprio per questo motivo, possiamo dare per scontato che sulla manifestazione di oggi si scatenerà la furia della propaganda. Faranno di tutto per provocare, e per dipingerla come l’ennesima sfilata minoritaria delle anime belle che nella loro ingenuità prestano il fianco al terrorismo e alle pulsioni antisemite; non facciamoci fregare. Non cediamo alle provocazioni. Dimostriamogli che abbiamo la forza e l’intelligenza per cambiare davvero i rapporti di forza, e non solo per testimoniare la nostra indignazione. Per questo, tra l’altro, come OttolinaTV invitiamo tutte le persone che oggi scenderanno in piazza ad aiutarci a combattere la nostra guerra contro la propaganda. La manifestazione di oggi non lasciamocela raccontare dai media di regime, raccontiamola direttamente noi.
Scendete in piazza armati di telecamere, microfoni, telefonini, quel che volete. Scattate foto, girate video, fate interviste, e mandate tutto a [email protected]. E’ in corso una battaglia esistenziale, e per combatterla abbiamo bisogno come il pane di un media che dia voce al 99%. Noi siamo nati per questo, e ora è arrivato il momento di dimostrarlo.