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Tag: sterminio

L’Occidente scarica Netanyahu, ma importa l’apartheid

La guerra di Israele contro i bambini palestinesi è probabilmente arrivata a una svolta: gli avvenimenti sono in rapida e continua evoluzione e quindi, per gli ultimi aggiornamenti, vi rimandiamo alle live che stiamo preparando sul tema; ma mentre registriamo questo video, un paio di considerazioni intanto possiamo farle. Durante tutta la scorsa settimana, Israele, col sostegno di Washington, ha provato a fregare Hamas: avevano proposto un accordo inaccettabile che, sostanzialmente, sarebbe equivalso a una resa incondizionata, mentre il regime genocida di Tel Aviv, dopo aver riscattato i suoi prigionieri, avrebbe avuto carta bianca per finire di radere al suolo Gaza e mettere così definitivamente fine all’ipotesi di uno Stato palestinese autonomo e sovrano; per convincere Hamas a suicidarsi e portarsi nella bara con se l’intero popolo palestinese, Tel Aviv usava il ricatto dell’invasione di Rafah, ma – a ben vedere – lo giocava malino. Sin da subito infatti, per tenere buone le fazioni più fondamentaliste del governo, Netanyahu è stato costretto ad ammettere che in un modo o nell’altro, o prima o dopo, l’invasione di Rafah sarebbe avvenuta comunque; Hamas, quindi, non aveva nessun motivo di firmare l’accordo trappola.
Nel frattempo però, con la mediazione di Egitto e Qatar, si stava lavorando a una riformulazione dell’accordo stesso: questa volta le garanzie erano decisamente più sostanziose; le varie tappe che scandivano lo scambio dei prigionieri avrebbero permesso ad Hamas di verificare, passo dopo passo, che Israele rispettasse i patti e, tra i patti, c’era sin da subito anche il ripristino delle infrastrutture essenziali e – alla fine del percorso – non solo un cessate il fuoco stabile, ma addirittura un’ambiziosa fine totale dell’assedio della Striscia. Insomma: la rivolta degli schiavi del carcere a cielo aperto di Gaza, per quanto tragica, quantomeno avrebbe determinato una riforma del regime carcerario; a queste condizioni, alla fine quindi Hamas ha ceduto. Israele, sostanzialmente, a quanto pare manco è stato coinvolto; come abbiamo detto più volte, a tratti ormai sembra essere universalmente considerato il bimbo scemo e viziato che va trattato con un po’ di tatto perché, nel frattempo, gli abbiamo regalato un’arma automatica bella carica, ma che nel frattempo va tenuto un po’ alla larga dalla stanza dove stanno gli adulti perché non può che fare danni. E infatti i danni, immancabilmente, sono arrivati: poche ore dopo che Hamas aveva pubblicamente dichiarato di accettare l’accordo, Tel Aviv decide di violarlo e di dare un segnale chiaro che è pronta a invadere Rafah; prima con l’intensificarsi degli attacchi aerei e, poi, anche con una piccola incursione via terra che, mentre registriamo questo video, potrebbe essere sia solo l’inizio dell’invasione vera e propria, sia – invece – l’ennesima bizza omicida del bimbo scemo e viziato.

Benjamin Netanhyau

Nel frattempo, la resistenza però non è rimasta a guardare: War Monitor, giusto un’ora fa, ha riportato la notizia (tutta da verificare) di 30 razzi che da Gaza sono partiti alla volta del Consiglio regionale di Eshkol; in precedenza, altri razzi erano usciti da Gaza in direzione Karem Abu Salem. La cosiddetta comunità internazionale pure non ha reagito benissimo alla bravata dei fasciosionisti: Guterres ha intimato a Israele di bloccare immediatamente ogni escalation; anche Borrell ha parlato di una catastrofe umanitaria da evitare a ogni costo e le voci, tutte da confermare, che sostengono che l’amministrazione Biden avrebbe imposto uno stop temporaneo all’esportazione di armi per mandare un segnale politico chiaro si sono continuate a rincorrere. Fatto sta che, al momento di questa registrazione, la situazione sul campo sembra essere in una fase di attesa; nel frattempo, i vertici israeliani sono volati al Cairo per riaprire il dialogo e Kirby, portavoce della Casa Bianca, ha affermato di essere ottimista che l’invasione può essere evitata e un accordo definitivo raggiunto. Insomma: se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno e rimanere cautamente ottimisti, la trappola che Israele aveva teso ad Hamas sembra essere definitivamente fallita e, al suo posto, Tel Aviv si ritroverebbe a dover sottoscrivere un accordo che finalmente, per la prima volta, non le dà carta bianca sul destino del conflitto.
Ciononostante, vista più da lontano, per quanto Israele sia in mezzo a un empasse, però, e per quanto non sia mai stato così isolato rispetto alle opinioni pubbliche di tutto il pianeta, il regime genocidario sionista – da un certo punto di vista – ha anche palesemente ottenuto un successo straordinario: tra le forze antipopolari, infatti, il suo sistema fondato sull’apartheid ha cominciato a esercitare una potente egemonia culturale; se fino a qualche anno fa il problema erano gli USA che esportavano il loro modello oligarchico e finto-liberale a suon di bombe, ora siamo al quadro successivo, con Israele che esporta nel mondo il suo modello fondato sull’apartheid a suon di mazzate, di agguati squadristi, di repressione e anche di minacce in stile mafioso. Le istituzioni dell’Occidente collettivo infatti, senza eccezione, è come se avessero adottato all’unisono una sorta di circolare virtuale universale che garantisce la totale impunità dei suprematisti sostenitori del genocidio, qualsiasi atto di aggressione compiano, e che vieta categoricamente ai media di parlarne. Una piccola preview l’avevamo vista un paio di settimane fa; sicuramente vi ricorderete. Era il 25 aprile e un’inviata della RAI era a Roma, dove si stavano confrontando due manifestazioni contrapposte: una di persone normali che, come inevitabile, avevano pensato di omaggiare gli eroi della resistenza italiana manifestando la loro vicinanza alla resistenza palestinese unite dal contrasto a ogni forma di genocidio; e l’altra di persone confuse che, invece, volevano approfittare delle celebrazioni per rivendicare la legittimità dello sterminio dei bambini palestinesi. Piena zeppa di infiltrati fascisti che, tra governo Meloni e sostegno incondizionato dei governi dell’Occidente collettivo a ogni forma di neonazismo in circolazione – dai lettori di Kant del battaglione Azov ai coloni criminali sionisti – stanno vivendo una vera e propria golden age, la seconda manifestazione ha letteralmente aggredito l’altro gruppo; e la povera inviata che, evidentemente, nonostante lavori per un servizio pubblico totalmente appiattito sulla narrazione della propaganda sionista, anche lei aveva le idee un po’ confuse e non aveva interpretato benissimo l’agenda pro – sterminio dei suoi datori di lavoro, aveva riportato l’accaduto parlando, appunto, di aggressione e dallo studio la sua capa, invece di censurare l’aggressione fascista del fan del genocidio, l’ha redarguita sottolineando che non c’era stata nessuna aggressione, come ovviamente lei, dallo studio in mezzo alle luci sparate a palla e le truccatrici, poteva testimoniare direttamente.
Ma era solo l’antipasto: il lasciapassare alle aggressioni dei sostenitori del genocidio, infatti, ha assunto dimensioni veramente inedite pochi giorni dopo, sull’altra sponda dell’Atlantico, quando delle squadracce di picchiatori suprematisti hanno aggredito un pacifico accampamento di manifestanti anti – sterminio con tanto di spranghe in mano e maschere sul volto: mentre le squadracce aggredivano i manifestanti con spray al peperoncino, bastoni e anche oggetti esplosivi pirotecnici di ogni tipo, le forze dell’ordine rimanevano in un angolo impassibili. Probabilmente erano un po’ stanchine; d’altronde, da tempo ormai erano impegnati giorno e notte a menare ed arrestare indiscriminatamente centinaia di giovani studenti pacifici per aver osato dubitare della missione purificatrice dei fondamentalisti sionisti: erano così anchilosati che non sono intervenuti neanche quando gli squadristi, davanti ai loro occhi, si sono scagliati in massa su uno studente, l’hanno buttato per terra e l’hanno preso allegramente a calci nella testa tutti assieme (immagino per favorire l’apprendimento delle sacre scritture). Come ha dichiarato su al Jazeera il giornalista investigativo Joey Scott (che ha assistito all’attacco squadrista), temporeggiando, le forze dell’ordine hanno voluto mandare un segnale chiaro alle squadracce che si aggirano per il paese che non rischiano ritorsioni ed anzi sono ben viste perché, così, aiutano l’amministrazione nella sua battaglia di civiltà: combattere l’antisemitismo, che viene tirato in ballo anche quando a protestare sono gli stessi ebrei che, nelle mobilitazioni anti – sterminio degli USA, hanno avuto sin da subito un ruolo di primissimo piano.
Negli USA, ormai, sono considerati antisemiti anche ebrei ortodossi come questi che sono stati aggrediti mentre erano tranquilli nella loro auto da questa simpatica signora indemoniata e palesemente alterata che gli è saltata addosso cercando di strappargli la bandiera palestinese e che poi s’è messa pure a minacciare le forze dell’ordine che sono intervenute per separarli, ma che – in base alla circolare sul diritto incondizionato dei sionisti di fare un po’ come cazzo vogliono – l’hanno lasciata andare via serenamente. Questa strumentalizzazione delirante del pericolo antisemita è anche la formula magica che l’amministrazione USA ha cercato di usare per giustificare gli arresti di massa delle ultime settimane, che stanno trasformando la terra della libertà in un regime teocratico filo – sionista, una palese e inquietante involuzione antidemocratica che, pochi giorni fa, è diventata legge grazie all’Antisemitism Awareness Act, approvato dal congresso a larghissima maggioranza; una legge totalmente delirante che impone allo Stato di adeguarsi automaticamente alla definizione di antisemitismo che viene elaborata da un’associazione intergovernativa priva di qualsivoglia legittimità democratica: è la International Holocaust Remembrance Alliance che, ad esempio, considera antisemitismo anche accusare Israele di genocidio o anche genericamente di razzismo. Grazie a questa legge, sostanzialmente si riconosce a una minoranza eletta un diritto che non viene riconosciuto a nessun altro: quello di non essere criticata, a prescindere. E attenzione: non è un diritto che si riconosce agli ebrei, ma è un diritto che si riconosce ai sionisti, quindi non a una minoranza etnica, ma ai sostenitori di una determinata ideologia. In base a questa definizione di antisemitismo, secondo l’amministrazione USA anche la Corte internazionale di giustizia, giusto per fare un esempio, è antisemita e ora rischia di diventarlo anche la Corte penale internazionale che, a differenza della Corte di giustizia – che è comunque un organismo ufficiale dell’ONU e quindi ha sempre avuto un qualche occhio di riguardo anche per il Sud globale – è sempre stata, a ragione, accusata di essere un vero e proprio braccio armato dell’imperialismo e che infatti ha sempre e solo emesso mandati di cattura verso nemici dell’imperialismo – da Putin a Gheddafi – e mai, nemmeno una volta, contro i peggiori criminali che l’agenda imperialista, invece, l’hanno portata avanti a suon di palesi e plateali crimini di guerra.

Yoav Gallant

Ma, evidentemente, è un braccio che comincia a presentare qualche insofferenza nei confronti del cervello impazzito: un paio di settimane fa, infatti, senza che la Corte si sia mai espressa in merito, sui media israeliani è cominciata a circolare l’ipotesi che, a breve, sarebbero arrivati mandati d’arresto internazionali contro figure israeliane di primissimo piano, a partire addirittura proprio da Netanyahu stesso e dal comandante in capo dello sterminio, il ministro della difesa Yoav Gallant; Netanyahu ha reagito subito a questi rumors dichiarando pubblicamente che l’emissione di mandati di arresto equivaleva al tentativo di minare il diritto di Israele all’autodifesa e che questo è inaccettabile perché “costituirebbe un pericoloso precedente che minaccia i soldati e i funzionari di tutte le democrazie”. “Non crediamo che ne abbiano la giurisdizione” ha rincarato subito dopo la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre, annunciando come gli USA non avrebbero mai sostenuto un’indagine da parte dellaCorte; oggi sappiamo che questo alterco era solo la punta dell’iceberg. Lunedì sera, infatti, il buon vecchio Kim Dotcom ha pubblicato sul suo account X questa lettera: risale al 24 aprile, è indirizzata al procuratore della Corte penale internazionale dell’Aja ed è accompagnata dalla firma di 12 senatori statunitensi (probabilmente il grado più basso dell’evoluzione umana attualmente presente nella politica internazionale). La prima firma è quella di Tom Cotton, già celebre per questa figura di merda epica di fronte al CEO di TikTok; seguono le firme, tra gli altri, del gotha della destra reazionaria e suprematista del Tea Party, da Ted Cruz a Marco Rubio. Insomma: promette benissimo, ma – ciononostante – il contenuto della lettera è superiore anche alle più rosee aspettative. “Caro signor procuratore” scrivono, “le scriviamo riguardo alla notizia che la Corte penale internazionale starebbe valutando l’ipotesi di emettere un mandato di cattura internazionale nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu e altri ufficiali israeliani”; con un’azione del genere, sottolineano i nostri 12 cavalieri dell’apocalisse, la Corte internazionale “punirebbe Israele per essersi legittimamente difeso contro l’aggressore sostenuto dall’Iran” e questo allineerebbe la Corte “con il principale stato sponsor del terrorismo e il suo proxy”. “Emettere un mandato d’arresto per i leader di Israele” continua la lettera “non sarebbe solo ingiustificato, ma tradirebbe la vostra ipocrisia e i vostri doppi standard” dal momento che “non avete mai emesso un mandato di cattura nei confronti di quel genocida del Segretario Generale della Repubblica Popolare di Cina, Xi Jinping, o di nessun altro funzionario cinese”. Ma il bello deve ancora venire: “Se emetterete un mandato di arresto per la leadership israeliana, lo interpreteremo non solo come una minaccia alla sovranità israeliana, ma anche a quella statunitense”, che è come dire, appunto – come abbiamo sempre sostenuto – che Israele non è altro che un’exclave dell’impero USA incaricata di mantenere l’ordine coloniale in Medio Oriente; e qui, poi, c’è una chicca che, sinceramente, avevo rimosso: “Il nostro paese, con l’American Service-Members’ Protection Act” scrivono “ha dimostrato fin dove siamo disposti ad arrivare per proteggere quella sovranità”.
Ma cosa è l’American Service-Members’ Protection Act? Se non lo sapete, non vi preoccupate; anch’io, che quando c’è da dire male di Washington sono sempre in prima linea, l’avevo completamente rimosso, probabilmente perché è un atto così vergognoso e platealmente criminale che la propaganda ha fatto letteralmente di tutto per tenerlo al di fuori del dibattito pubblico: la legge, approvata dal Congresso nel 2002 ai tempi dell’amministrazione Bush jr che si accingeva, nell’ambito della war on terror, a commettere una serie infinita di crimini di guerra, dà al presidente il potere di usare “tutti i mezzi necessari e appropriati per ottenere il rilascio di qualsiasi membro del personale statunitense o alleato detenuto o imprigionato da, per conto o su richiesta della Corte penale internazionale”. Non a caso l’atto è stato soprannominato The Hague Invasion Act – la legge sull’invasione dell’Aja – perché, appunto, incredibilmente dà automaticamente il potere al presidente anche di invadere l’Olanda, se solo questo venisse ritenuto il modo migliore per liberare dalla grinfie della Corte soldati e funzionari USA – come di qualsiasi altro paese ritenuto alleato. Forse ora è chiaro perché la Corte ha sempre e solo perseguito nemici di Washington; un atto talmente folle che quando ancora l’Europa aveva qualche velleità di autonomia, nei primi anni 2000, lo condannò apertamente. Ora i 12 senatori dell’apocalisse lo ritirano in ballo per minacciare esplicitamente la Corte e non si fermano qui; anche nel linguaggio, l’ultimo paragrafo della lettera sembra scritto direttamente da Totò Riina: “Prendete di mira Israele” minacciano “e noi prenderemo di mira voi”. “Se andate avanti con la vostra azione, sanzioneremo tutti i vostri impiegati e tutti i vostri associati, e bandiremo voi e le vostre famiglie dagli Stati Uniti. Siete stati avvisati”.
Secondo quanto riportato in questa infografica prodotta da Track Aipac, un’iniziativa indipendente che cerca di ricostruire tutti i finanziamenti della lobby israeliana ai membri del Congresso, i 12 senatori dell’apocalisse, per autoconvincersi dell’opportunità di questa loro iniziativa leggermente sopra le righe, hanno ricevuto nel tempo dall’Aipac circa 6 milioni di buone motivazioni; questo episodio, se l’autenticità del contenuto della lettera venisse confermato ufficialmente (cosa che, in cuor mio, tutto sommato voglio ancora nutrire una minima speranza non accada) ci racconta un paio di cose importanti: la prima è che, se ancora avevamo dei dubbi, l’ordine internazionale fondato sulle regole di cui parlano gli imperialisti occidentali e i loro pennivendoli può essere considerato – dalla struttura al retroterra culturale che traspare anche nel linguaggio – un ordine, a tutti gli effetti, di carattere mafioso dove l’unica regola che, quando serve, vale davvero è sempre e solo quella del sopruso e del ricorso alla violenza fisica e al puro arbitrio. La seconda è che aspettarsi che gli USA, di loro sponte, impediscano davvero a Israele di portare a termine il suo genocidio è totalmente velleitario: sarebbe un po’ come pretendere che un serial killer, di sua sponte, si seghi un braccio per impedire alla sua mano di continuare a premere il grilletto; con questo, però, non voglio dire che lo sterminio totale e definitivo del popolo palestinese sia inevitabile e che, quindi, tanto vale smetterla di logorarsi e tornare agli spritz. Anzi! Voglio, invece, dire proprio che se oggi traspare qualche titubanza è solo ed esclusivamente merito delle forze che, nella società, si stanno opponendo al massacro: dall’asse della resistenza agli altri Stati che sono in conflitto con l’imperialismo, ma, soprattutto, alle masse popolari che si stanno mobilitando sempre di più contro la complicità dei rispettivi governi.
La mobilitazione e la lotta contro l’esportazione dell’apartheid, quindi, non sono che all’inizio e per portarle a termine abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece di tappare la bocca ai giornalisti che chiamano aggressione un’aggressione, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuseppe Cruciani

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STERMINIO DEI GIORNALISTI: come Israele impone la sua visione eliminando fisicamente i giornalisti

Diecimila mila uomini armati di tutto punto che avanzano senza problemi; la bandiera israeliana esposta in bella mostra in un selfie celebrativo di gruppo dentro il parlamento di Gaza city; il quartier generale di Hamas circondato e assediato e i vicini arabi costretti a fare spallucce – asse della resistenza compreso – che, al di là delle minacce, sarebbe sostanzialmente del tutto impotente: il trionfo militare di Israele, da tutti i punti di vista, non potrebbe essere più schiacciante e plateale, o almeno così ci viene raccontata. E graziarcazzo: se la cantano e se la suonano.
Sia chiaro: per quanto ne sappiamo, potrebbero anche avere ragione eh? Il problema, però, appunto è: quanto ne sappiamo? Ogni fonte di informazioni indipendente – semplicemente – è stata abbattuta, proprio fisicamente intendo: secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, infatti, dall’inizio del conflitto si contano 9 giornalisti feriti, 13 arrestati, 3 scomparsi e la bellezza di 42 brutalmente assassinati, alcuni insieme anche a tutta la loro famiglia, che non si sa mai. Sostanzialmente tutti erano palestinesi e non erano proprio convintissimi dell’affidabilità delle fonti israeliane; per capire l’entità, in quasi due anni di conflitto in Ucraina i giornalisti morti risulterebbero in tutto 12. E così tutto quello che sappiamo oggi, sostanzialmente, è propaganda israeliana, spesso un po’ cringe: dalla copia magica del Mein kampf incredibilmente intonsa, nonostante sia stata ritrovata in mezzo alle macerie, alla famosa lista dei terroristi carcerieri trovata dentro all’ospedale di al Shifa e ostentata in pompa magna da tutti i media internazionali, a partire da quei geniacci della CNN. Peccato che quelli che indicavano come nomi dei carcerieri, in realtà, fossero i giorni della settimana; il documento scottante era un calendario. S’arrampicano sugli specchi: devono, in tutti i modi, giustificare il fatto di assistere entusiasti a un plateale crimine di guerra e – visto che di prove concrete che l’ospedale nascondesse nei suoi sotterranei nientepopodimeno che il quartier generale di Hamas al momento, stranamente, non ne hanno – s’attaccano a tutto. D’altronde non è la prima volta; è la modalità standard con la quale il giornalismo del mondo libero ha raccontato tutti gli stermini dell’asse del male negli ultimi 20 anni, da quando l’unico giornalismo tollerato è diventato solo ed esclusivamente quello embedded, totalmente controllato dalle forze di occupazione. Tutti i giornalisti occidentali che ora sono a Gaza, infatti, sono al seguito delle forza armate israeliane e hanno come unico mandato quello di fare da megafono alle loro vaccate, e sono l’unica fonte di informazioni che abbiamo. Una bella overdose di post – verità.
In questo video cercheremo di portarvi il punto di vista della parte opposta; ovviamente non è che sia necessariamente più affidabile di una Repubblichina o di una Radio genocidio radicale qualsiasi. In guerra, nessuna delle parti in causa, ovviamente, è molto affidabile: per questo esistono gli osservatori indipendenti. O meglio esistevano, prima che le bombe democratiche e liberali di Israele li sterminassero; l’obiettivo, appunto, era impedire all’altra campana di esistere tout court, e che la propaganda del genocidio diventasse magicamente LA REALTA’. Riusciremo a impedirlo?
Oltre ai pochi giornalisti che non sono a libro paga dell’apparato egemonico israeliano e dei suoi collaboratori, a minacciare di riuscire a portare al grande pubblico informazioni diverse da quelle sciorinate dalla propaganda genocida sionista ci sono le fonti aperte e cioè quell’infinita selva di dati che, nella guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, hanno permesso – giorno dopo giorno – di smontare sistematicamente la ridicola propaganda suprematista occidentale, e che in Israele sono stati scientificamente eliminati; lo riporta in un lungo articolo il sito libanese Al-Akhbar: “Sabotaggio GPS sulla Palestina occupata” titola; “i satelliti rivelano la sconfitta di Israele”. L’articolo ricorda come “dopo l’operazione diluvio di al-aqsa del 7 ottobre, Israele ha cercato di impedire agli account di open source intelligence di ottenere informazioni sabotando la tecnologia che fornisce i dati”. Come riportava lo stesso Bloomberg pochi giorni prima l’inizio dell’operazione di terra da parte di Israele, infatti, su richiesta del regime genocida di Tel Aviv Google aveva “interrotto il traffico di dati di Google Maps” su tutta l’area interessata; poco dopo è stato il turno anche dell’applicazione di mappe di Apple. Il Big Tech USA è al servizio del genocidio, senza se e senza ma. Nel caso non bastasse, come riportava Politico il 23 ottobre scorso, l’esercito di occupazione – comunque – aveva provveduto anche a sabotare i satelliti del sistema GPS sopra il confine che separa Israele dal Libano “nel tentativo di impedire ai missili di precisione o ai droni della resistenza libanese di raggiungere i loro obiettivi” (Al-Akhbar).

Ma era solo l’inizio; nei giorni successivi, infatti, Associated Press prima e New York Times dopo erano entrate in possesso di alcune immagini satellitari ad alta definizione che svelavano i movimenti delle forze armate israeliane. A fornirle, due aziende americane: Planet Labs e Maxar Tecnologies, che sono state prese immediatamente per le orecchie; come rivelato dal sito Semafor, il 6 novembre infatti – dopo la pubblicazione di quelle immagini – le due aziende “hanno iniziato a limitare le immagini di Gaza, e Planet Labs ha persino rimosso alcune immagini della Striscia di Gaza dalla galleria scaricabile su abbonamento dal sito web”. Da allora, le poche immagini che le due aziende forniscono esclusivamente ai media di fiducia arrivano comunque con giorni di ritardo: “non è chiaro” scrive Al-Akhbar “il motivo per cui queste aziende hanno interrotto e ritardato i loro servizi e chi ha esercitato pressioni a questo riguardo. Quello che è chiaro, però, è che è nell’interesse dell’entità occupante e del suo esercito”. E allora, giusto per controbilanciare un po’ la propaganda filo – genocidio, vi riportiamo un po’ di informazioni non verificate (e, al momento attuale, non verificabili) della propaganda avversa, e cioè quella dell’asse della resistenza che a tutta questa gloriosa avanzata senza ostacoli delle forze armate israeliane non sembra credere molto: “Da questa mattina” ha dichiarato ad esempio ieri sera in un comunicato ufficiale Abu Ubaida, portavoce delle Brigate al-Qassan, “i nostri mujaheddin sono stati in grado di uccidere 9 soldati sionisti e distruggere completamente o parzialmente 22 veicoli”. Con “questo tributo, che potrebbe essere il più grande sul campo dall’inizio della battaglia” commenta Al-Akhbar “il numero di carri armati e veicoli presi di mira sale a circa 200. Quello che è emerso negli ultimi due giorni” continua Al-Akhbar “è che le brigate Al-Qassam si sono prese il tempo necessario per preparare piani e tattiche, il cui impatto aumenterà nei prossimi giorni”.
“Stiamo combattendo contro i fantasmi” si lamentano gli analisti israeliani: il riferimento, appunto, è alla modalità di combattimento che – come prevedibile – hanno adottato i guerriglieri, in particolare delle brigate Al-Qassam, ma non solo. “Pertanto” sottolinea Al-Akhbar “anche l’obiettivo dell’umiliazione e della sottomissione attraverso il combattimento è impossibile” e, a parte i selfie nel parlamento e l’assedio degli ospedali, la lista degli obiettivi militari che al momento mancano all’appello, secondo la resistenza, sarebbe piuttosto lunghina: nessun pezzo grosso di Hamas, infatti, è stato tratto in arresto; nessuna sala di comando è stata individuata e neutralizzata; non ci sono scese di resa di guerriglieri a favore di telecamere; non c’è un caso di uno qualsiasi dei famosi tunnel liberato e portato sotto il controllo delle forze armate israeliane. “Per questo motivo” commenta Al-Akhbar “Israele non si accontenta dell’azione militare, ma ricorre all’uso di crimini palesi come la distruzione totale di ogni struttura civile e il tentativo di far morire di fame e di malattie il maggior numero di persone”; per trasmettere un’”immagine vittoriosa” un po’ pochino. Per fare qualche passo avanti, continua Al-Akhbar, “l’esercito di occupazione dovrebbe scendere dai mezzi blindati, sgomberare edifici, vicoli e quartieri e confrontarsi direttamente con i combattenti, di strada in strada, cosa che le forze avanzate nel settore occidentale della città non hanno ancora fatto, mentre procedono molto lentamente, dando la massima priorità alla protezione dei soldati dagli attacchi”. “In conclusione” scrive sempre Al-Akhbar “ciò che sinora si può comprendere è che l’operazione di terra non raggiungerà in alcun modo direttamente i suoi obiettivi operativi, e che la ricerca dell’“ago” della vittoria nel “pagliaio” di Gaza si scontrerà, col tempo, con il muro della frustrazione e della futilità, mentre la resistenza avrà riconquistato quasi interamente la posizione e l’iniziativa”.
Nel frattempo, dopo giorni di silenzio da parte dei soliti famigerati razzi provenienti dalla Striscia, negli ultimi due giorni si sono tornate a registrare raffiche significative: “Alcuni video” riporta sempre Al-Akhbar “hanno mostrato migliaia di persone determinate nel nord della Striscia che accompagnavano l’intenso lancio di razzi con applausi e invocazioni ad Allah”. Poche ore prima, Netanyahu aveva cercato di flexare importanti successi militari invitando gli insediamenti produttivi intorno a Gaza a ricominciare il business as usual, dal momento che l’avanzamento dell’iniziativa di terra sarebbe riuscita a smantellare le postazioni da cui venivano lanciati i razzi.
Il ritorno agli attacchi dei razzi da Gaza, oltre alle difficoltà dell’operazione via terra, dipenderebbero anche da un altro fattore: gradualmente, ma inesorabilmente, si starebbero intensificando gli attacchi da nord da parte di Hezbollah, tanto da costringere il ministro della difesa Gollant a spostare una bella fetta delle capacità antiaeree verso nord, e potrebbe essere solo l’inizio. Nel lungo discorso di sabato scorso, Nasrallah infatti ha detto una cosa importante: “Le parole restano sul campo” ha affermato. “La nostra politica attuale è che è il campo a parlare, e poi arriviamo noi a spiegare l’azione”; in soldoni, significa che a valutare quello che dal punto di vista militare è fattibile, da lì in poi saranno direttamente quelli che combattono in prima linea. La direzione politica è quella di sostenere la resistenza palestinese e di obbligare Israele ad essere occupato su più fronti: con che tempi e quali modalità saranno i militari a deciderlo. Poche ore dopo, le azioni sul confine settentrionale di Israele subivano un’accelerazione significativa e “ciò spiega la decisione della leadership sionista di mobilitare un terzo del suo esercito, circa la metà dei suoi sistemi di intercettazione e gran parte della sua aviazione sul confine con il Libano” (Al-Akhbar).
Ma il confine con il Libano non è certo l’unica zona che si sta incendiando: negli ultimi giorni ad essere presa particolarmente di mira, ad esempio, è stata la località turistica di Eilat, la Miami d’Israele; in questo caso, a tenere alta la tensione sarebbero le forze yemenite, che hanno sferrato numerosi attacchi ricorrendo all’utilizzo, come ricorda al Mayadeen, di “droni a lungo raggio, missili da crociera e missili balistici”. A prendere di mira Eilat, poi, ci si sono messe pure le milizie sciite di stanza in Iraq che non si sono limitate ad Eilat; ad essere prese di mira negli ultimi giorni, infatti, sarebbero state alcune basi USA. Solo giovedì scorso, la base di Ain Al Assad in Iraq sarebbe stata raggiunta da 3 diversi attacchi che hanno visto l’impiego sia di missili che di droni.
Per carità, niente di ché. Ma sono gli stessi che quando a compierli sono gli ucraini in Russia, per tre giorni poi i giornali parlano delle falle nella sicurezza del Cremlino e di allargamento della controffensiva in territorio russo. Noi vorremmo evitare di essere così cringe, ecco, però anche far finta di niente con la complicità della propaganda forse non è la strategia migliore, sopratutto se all’Iraq aggiungiamo anche la Siria. In tutto – confermano anche dal Pentagono – si arriva a poco meno di una cinquantina di attacchi. E’ vero: non causano migliaia di vittime civili e non radono al suolo scuole, asili e ospedali, ma se dal gusto per la vendetta e per la carneficina passiamo ai veri obiettivi militari, così a occhio anche Israele non è che abbia ottenuto poi tantissimo di più e se c’è una cosa che negli scorsi 20 anni di stermini indiscriminati in nome della war on terror abbiamo imparato, è che tendenzialmente questi focolai è abbastanza difficile che, a un certo punto, si spengano come per magia. Gli eserciti regolari – che costano una vagonata di soldi e sono composti, in buona parte, da gente che non aspetta altro che tornare a fare qualche rave sulle spiagge della Florida o di Tel Aviv – tendono a perdere piuttosto rapidamente il loro slancio iniziale; i popoli sottoposti alla furia colonialista e all’occupazione, un po’ meno. Anche a 20 anni di distanza, anche quando – con la complicità dei media che chiudevano un occhio – hai fatto finta di scordarteli, ecco che rispuntano sempre fuori, più incazzosi che mai. Che è esattamente quello che, secondo numerosi analisti, era il succo del messaggio di Nasrallah: non ci facciamo illusioni; per la resistenza il tributo di sangue da versare è ancora gigantesco, ma Israele s’è infilato in un vicolo cieco.
Per ora, bisogna ammetterlo, a non averlo capito non è solo Tel Aviv: anche in gran parte dei paesi arabi si fa un po’ finta di niente. La prova è arrivata dalla riunione di sabato della Lega araba; sul tavolo c’era una proposta di risoluzione piuttosto ambiziosa, vista l’assise: si chiedeva di impedire l’utilizzo delle basi della regione agli USA, di congelare il dialogo con Israele e anche di cominciare a mettere un freno alle relazioni economiche. Gli alleati storici degli USA della regione non ne hanno voluto sapere e la resistenza palestinese, comprensibilmente, ha gridato al tradimento.
Per chi sperava in un’alzata di scudi del mondo arabo – almeno di fronte a un genocidio di queste dimensioni e sotto la pressione delle opinioni pubbliche locali – sicuramente si è trattato di una battuta d’arresto significativa. Tra le classi dirigenti reazionarie delle petromonarchie, evidentemente, nonostante i recenti sviluppi – a partire dal ritorno al dialogo tra sauditi e iraniani mediato dalla Cina – sull’indignazione per lo sterminio dei bambini arabi continua a prevalere la diffidenza nei confronti della minaccia che l’Iran e l’asse antimperialista della resistenza rappresenta per la tenuta dei loro regimi feudali e antipopolari. Sono tentennamenti che ovviamente gridano vendetta perché, nel frattempo, lo sterminio procede sostanzialmente indisturbato, ma chi nel nord globale canta vittoria – magari perché, a suon di leggere i reportage embedded della propaganda, s’è fatto un’idea un po’ idilliaca a trionfalistica dei risultati dell’avanzata di terra – potrebbe tutto sommato rimanere deluso (soddisfazione per lo sterminio gratuito di bambini a parte, si intende). Sebbene la Lega araba non abbia adottato la risoluzione di cui sopra, infatti, ne ha comunque adottata un’altra più blanda ma che comunque, in modo unitario, condanna senza se e senza ma il genocidio e chiede un immediato cessate il fuoco, e la partita per spostarla su posizioni più radicali è appena iniziata; per quanto si tratti spesso di regimi dispotici, un certo peso le opinioni pubbliche lo svolgono comunque, sia a livello interno che, più in generale, a livello regional, e nell’insieme della Umma Islamica, la comunità dei fedeli che va oltre ogni confine. E le opinioni pubbliche sono, in maniera schiacciante, solidali con la martoriata popolazione palestinese, e per non consegnarle interamente all’egemonia dell’Iran – che è il vero incubo delle petromonarchie del Golfo e che, come ha sottolineato maliziosamente Nasrallah stesso, è la potenza regionale che rende possibile l’azione dell’asse della resistenza – continueranno ad essere costretti perlomeno a far finta di contrapporsi al piano genocida di Israele.

Justin Trudeau e Emmanuel Macron

Una tensione che ha cominciato a far scricchiolare anche l’asse dei vassalli di Washington – da Macron a Trudeau – che sono stati costretti a dire parole abbastanza chiare sulla totale sproporzione della reazione israeliana, mentre la breaking news che leggo in un’agenzia mentre chiudo questo pippone è che il consiglio di sicurezza dell’ONU (dopo 4 tentativi naufragati) con 12 voti favorevoli e soli tre astenuti avrebbe adottato una risoluzione che imporrebbe una “pausa umanitaria urgente ed estesa e corridori umanitari che attraversino la striscia di Gaza”.
Lo sconvolgimento messo in moto dal diluvio di al-aqsa il 7 ottobre ha portata epocale, un evento storico dentro un mondo che cambia a una rapidità a cui non eravamo più abituati da 70 anni, e tutti i segnali ci continuano a dire che non vada esattamente nella direzione auspicata dall’egemone USA e dai suoi innumerevoli proxy regionali. E se il mondo nuovo avanza, farselo raccontare dai vecchi media suprematisti e dai giornalisti embedded al seguito dell’asse del male potrebbe non avere tantissimo senso.
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E chi non aderisce è Benyamin Netanyahu