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Tag: state street

La Meloni distrugge l’Italia e accoglie a braccia aperte i coloni statunitensi che invadono l’Europa

Mercoledì, CNN: Il NASDAQ registra il suo giorno peggiore dal 2022 (dipende un po’ per chi). Ed ecco i titoli del giorno dopo: Bloomberg – La crescita dell’Eurozona si ferma a causa della crisi tedesca, mentre sul Wall Street JournalLa crescita economica degli USA accelera, raggiungendo il tasso del 2,8% nel secondo trimestre. Cosa diavolo sta succedendo? Il punto è che il declino dell’Occidente non va in vacanza e l’imperialismo a guida USA continua imperterrito la sua guerra contro il resto del mondo; peccato, però, che dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per la guerra commerciale contro la Cina, la stia perdendo malamente e, mano a mano che cominciano a realizzarlo, si incendia lo scontro sul fronte interno e, con le presidenziali che si avvicinano, negli Stati Uniti è scoppiata una sorta di vera e propria guerra civile che però – guarda un po’ a volte il caso – non ha assolutamente niente a che fare con le analisi strampalate diffuse in egual misura da propaganda analfoliberale e analfosovranista. In campo, infatti, non c’è nessuna battaglia epocale in difesa della democrazia (che analfoliberali e analfosovranisti di tutto l’Occidente sono ugualmente impegnati a finire di demolire completamente) e non c’è nemmeno nessun conflitto tra pacifisti e guerrafondai, dal momento che l’uso sistematico della violenza, per l’imperialismo, è fondamentale e inevitabile, a prescindere da chi è al timone in un determinato momento. Entrambi gli schieramenti, in realtà, sono parimenti determinati a fare tutto quanto in loro potere per portare avanti senza indugi la doppia rapina che caratterizza il mondo libero da qualche decennio a questa parte e che consiste, appunto, da una parte nella rapina che gli USA, in quanto centro imperiale, compiono nei confronti della periferia dell’impero e, cioè, noi (noi italiani, noi francesi, noi tedeschi, ma anche, se non di più, noi giapponesi o noi coreani; insomma, i vassalli) e, dall’altra, la rapina che le oligarchie compiono col sostegno di tutti i governi occidentali nei confronti di tutte le altre fasce di popolazione e che, giusto per fare un esempio – come ha certificato Oxfam proprio negli ultimi giorni – dal 2013 al 2022 ha permesso all’1% più ricco del pianeta di aumentare il suo patrimonio di oltre 42 mila miliardi e cioè “un incremento pari a 34 volte quello registrato, nello stesso periodo, dalla metà più povera della popolazione mondiale”; da allora, il problema che le oligarchie rapinatrici hanno cominciato a trovarsi di fronte è che questa benedetta metà più povera della popolazione mondiale che, in larghissima parte, ovviamente abita le ex vecchie e nuove colonie, ha cominciato ad esprimere la sua ostilità nei confronti di questa rapina infinita e, soprattutto, ha cominciato a dimostrare di avere ormai gli strumenti per provare a mettergli (almeno in parte) fine – com’è il caso, ad esempio, di una ex colonia molto recente e, cioè, la Federazione Russa che, col crollo dell’Unione Sovietica, era diventata una vera e propria colonia pronta a farsi saccheggiare dalle oligarchie finanziarie dell’impero, in combutta con un manipolo di prenditori autoctoni elevati, in Occidente, a paladini della democrazia e della libertà.
Da un paio d’anni a questa parte, però, la musica sembra essere drasticamente cambiata: Il sorprendente boom della spesa al consumo in Russia titolava venerdì il Financial Times il suo lungo e dettagliato approfondimento giornaliero; “Mentre la guerra si trascinava” si legge nell’articolo “l’aumento dei salari in un’industria della difesa in forte espansione in tempo di guerra ha costretto le imprese civili a seguire l’esempio per attrarre lavoratori in un momento di grave carenza di manodopera. Il risultato è che la Russia si è trovata inaspettatamente nel mezzo di un boom della spesa al consumo”. “I salari reali sono alle stelle” avrebbe dichiarato al Times Janis Kluge, esperta di economia russa presso l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza: “Ci sono persone che difficilmente guadagnavano soldi prima che, improvvisamente, hanno enormi quantità di denaro”. Ecco: per capire perché lo scontro tra diverse fazioni dell’oligarchia del centro dell’impero sta degenerando verso una specie di guerra civile, invece che dalle narrazioni strampalate della propaganda, sarebbe il caso di partire da qua; la nave dell’imperialismo unitario sta inesorabilmente affondando ed è arrivata l’ora di farsi letteralmente la guerra in casa per decidere chi si spartirà il bottino prima di darsi alla fuga. Ma prima di snocciolare nel dettaglio tutti i numeri e i fatti accaduti la scorsa settimana che, a nostro avviso, dimostrano questa tesi, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi e (se ancora non lo avete fatto) anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche; a voi costa solo pochi secondi di tempo, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di portare un’alternativa concreta alla propaganda guerrafondaia e classista dei media mainstream in casa e sui telefoni di sempre più persone.

Alessandro Volpi

Da un paio d’anni a questa parte non abbiamo fatto altro che parlare delle Tre Sorelle del risparmio gestito, le ormai famigerate BlackRock, Vanguard e State Street; vi abbiamo raccontato di come, col sostegno di Washington e dei governi dei paesi vassalli, siano riuscite a costruire dei veri e propri monopoli finanziari di dimensioni mai viste nell’intera storia del capitalismo e di come abbiano utilizzato questa gigantesca liquidità, di gran lunga superiore addirittura all’intero PIL dell’Eurozona, per gonfiare a dismisura la bolla finanziaria dei mercati azionari statunitensi riuscendo a garantirne l’ascesa addirittura anche quando, tutto attorno, l’economia mondiale e l’intera architettura dell’ordine neo-liberale cadeva letteralmente a pezzi. Negli ultimi 2 anni, proprio mentre gli USA accumulavano una mazzata dietro l’altra sul campo in Ucraina, le borse statunitensi continuavano a galoppare felici sui prati come se niente fosse, raggiungendo capitalizzazioni mai viste e senza mai un minimo accenno di tentennamento fino almeno a mercoledì scorso, quando le borse USA hanno vissuto una vistosa battuta d’arresto e, in particolare, proprio il NASDAQ, il listino dei principali titoli tecnologici a stelle e strisce – e quindi proprio di quei titoli che maggiormente hanno beneficiato, negli ultimi anni, della gigantesca immissione di liquidità operata dalle Tre Sorelle: in un solo giorno, l’indice è crollato del 3,6%, il peggior risultato dall’ormai lontanissimo ottobre 2022.
I media specializzati sono immediatamente corsi a gettare acqua sul fuoco: il problema – è la tesi che va per la maggiore – starebbe nelle aspettative legate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale; sostanzialmente, la prospettiva di una nuova grande rivoluzione tecnologica ha creato aspettative gigantesche che hanno attirato una quantità sconfinata di capitali, che hanno alimentato una corsa al rialzo delle azioni del settore. Ora, però, ci si comincia a chiedere se – al di là delle magnifiche sorti e progressive della nuova frontiera tecnologica – l’intelligenza artificiale possa concretamente essere tradotta (e in che tempi) in una serie di prodotti tangibili in grado di creare un flusso di denaro sufficiente a giustificare tutti questi investimenti – e questa riflessione sicuramente avrà giocato un suo ruolo, per carità; io però, che sono complottista e che alla favoletta dei mercati trasparenti che reagiscono in modo razionale alle informazioni non c’ho mai creduto, ho sempre l’impressione che queste spiegazioni, più che cogliere le cause profonde di quanto accade (anche quando sono, come questa, abbastanza verosimili), siano in buona parte riflessioni ex post che le cause profonde, più che svelarle, corrono sempre il rischio di dissimularle. E quindi, consapevole del rischio di sovra-interpretare un po’ quello che è successo, non posso fare a meno di vederci qualcosa di decisamente più strutturale.
Ora, sgombriamo il campo da malintesi: nessuno (e men che meno noi) ha interpretato questa battuta d’arresto come qualcosa di apocalittico, l’esplosione della bolla. Assolutamente no: la potenza di fuoco dei fondi è ancora tutta lì, più salda che mai, e la loro liquidità è più che sufficiente per continuare a mantenere intatta la bolla speculativa. Piuttosto, molto più laicamente, credo il tutto possa anche essere letto come un primo timido episodio di una nuova tendenza che, in vario modo, preannunciamo da qualche tempo: il ritorno della volatilità dei mercati e cioè, appunto – contro la logica dei grandi fondi del risparmio gestito – il ritorno a forti oscillazioni dei prezzi dei titoli azionari, e che questo ritorno della volatilità sia il risultato della guerra civile tra fazioni delle oligarchie finanziarie che è scoppiata con l’avvicinarsi della scadenza elettorale negli Stati Uniti. Come si stanno delineando, con sempre maggiore chiarezza, i due blocchi sociali in guerra tra loro lo abbiamo provato a descrivere in numerosi altri video e durante le ormai consuete chiacchierate con Alessandro Volpi e quindi non mi dilungo; in estrema sintesi, da un lato – appunto – c’è l’asse di ferro tra i giganti del risparmio gestito e i democratici, che potremmo chiamare il partito del derisking: l’obiettivo del partito del derisking è allargare a dismisura la platea dei soggetti che delegano ai fondi la gestione dei loro risparmi e, con questa potenza di fuoco, consolidare il dominio monopolistico di alcuni grandi gruppi nei rispettivi settori e stabilizzare i mercati azionari. Dall’altro c’è il blocco sociale composito che tiene insieme i fondi speculativi e un pezzo di vecchio capitalismo produttivo e che ha trovato nel Trump di Make America Great Again e nel suo vice (cresciuto tra i capitali di ventura della Silicon Valley) JD Vance la migliore sintesi politica possibile, che potremmo definire il partito degli spiriti selvaggi; il partito degli spiriti selvaggi punta a rilanciare la concorrenza, più che alla costruzione di monopoli, e vede nella volatilità dei mercati – invece che un nemico – un’opportunità per ricreare un habitat dove only the strong survive: partito del derisking e partito degli spiriti selvaggi hanno interessi contrapposti, in particolare modo per quel che riguarda le politiche monetarie.
Il partito del derisking vede di buon occhio politiche monetarie restrittive e, quindi, alti tassi d’interesse da parte della Banca Centrale e un dollaro forte – e questo perché, in questo modo, la liquidità che manca al sistema ce la mettono direttamente le Tre Sorelle che diventano il centro non solo finanziario, ma anche politico dell’intero sistema; il partito degli spiriti selvaggi vede invece di buon occhio politiche monetarie più espansive e, quindi, tassi d’interesse più contenuti e un dollaro più debole: le politiche monetarie espansive servono a fornire ai fondi la liquidità che serve per fare le classiche operazioni di leverage buy-out e, cioè, di comprare aziende ricorrendo al debito, ristrutturarle, spezzettarle e rivenderle con ampi margini. Un dollaro più debole, invece, serve a rendere le aziende statunitensi più competitive sui mercati internazionali e tornare a fare profitti anche attraverso gli investimenti produttivi e non più solo ed esclusivamente attraverso la finanza; ma la cosa che qui ci preme sottolineare, in particolare, è che il conto della guerra feroce che si è scatenata tra questi due partiti del derisking e degli spiriti selvaggi, tanto per cambiare, lo paghiamo noi: per una strana coincidenza, subito dopo il mercoledì nero del ritorno della volatilità sui mercati azionari, Standard&Poors ha pubblicato il suo Purchasing Managers Index, il famigerato indice PMI; come chi ci segue ha imparato da tempo, l’indice PMI è un indice che viene costruito a partire da una lunga serie di interviste ai responsabili agli acquisti delle principali aziende di ogni paese ai quali vengono chieste informazioni dettagliate su produzione, ordini, livelli occupazionali, prezzi (e molto altro ancora) e indica le prospettive di crescita dei relativi settori che, nel caso della manifattura dell’Eurozona, sono disastrose. L’indice indica una prospettiva di crescita quando è sopra i 50 punti, di flessione quando è inferiore; il PMI manifatturiero dell’Italia è a 45,7 – e non siamo manco quelli messi peggio, anzi: la Polonia è a 45, la Francia a 44,1, l’Austria a 43,6, la Germania – addirittura – a 42,6. E il problema non è solo che sono cifre drammatiche, ma che sono decisamente peggiori del previsto e non tanto perché sono peggiori, ma perché pone un grosso interrogativo sulle capacità di comprendonio dei nostri quadri aziendali.
Poche ore dopo la pubblicazione degli indici PMI, infatti, sono arrivati altri dati significativi: questa volta riguardano la crescita effettiva del PIL statunitense nel secondo trimestre del 2024; anche qui i migliori economisti in circolazione hanno preso una cantonata, ma questa volta in meglio. Si aspettavano una crescita del 2%; s’è avvicinata al 3 e indovinate un po’ cos’è che, in particolare, ha contribuito a questo risultato? Come sottolineiamo da tempo, a trainare sono gli investimenti delle imprese, che sono cresciuti di un corpulento 5,2% a discapito degli investimenti in Europa e il tutto, come ormai avrete imparato, grazie ai finanziamenti pubblici che Washington ha messo in campo per convincere le aziende ad abbandonare a se stessi i paesi vassalli e a concentrarsi tutte per Make America Great Again, finanziamenti che, ormai, fanno letteralmente esplodere il debito pubblico statunitense che cresce di mille miliardi ogni 60 giorni che, in buona parte, finanziamo noi con il 70% dei nostri risparmi che ogni anno abbandonano l’Italia (come gli altri paesi europei) per dirigersi oltreoceano. Insomma: tutto ampiamente prevedibile, a parte per i nostri dirigenti e i nostri economisti che continuano a pensare che la propaganda che leggono sui media mainstream corrisponda alla realtà. Per la cronaca: indovinate a quanto sta, nel frattempo, l’indice manifatturiero dei paesi contro i quali l’invincibile Occidente collettivo ha ingaggiato la sua inarrestabile guerra economica (e non solo)? La Cina – che, secondo i nostri media, è anche a questo giro sull’orlo della bancarotta – è a 51,8, in forte crescita; la Russia, a 54,9. Gli USA, nonostante tutto il debito che stanno accumulando a spese nostre, registrano un non esattamente incoraggiante 49,5, in calo rispetto al mese precedente e al di sotto delle aspettative, una vera beffa: non solo per permettere agli USA di mantenere il loro primato, nella speranza che l’Occidente collettivo continui ancora a dominare sul resto del pianeta, ci facciamo serenamente derubare, ma poi questo benedetto primato (che non si capisce chi dovrebbe favorire concretamente) manco arriva. Cornuti e mazziati.
Anzi no, perché, in realtà, qualcosa da guadagnare ce lo abbiamo anche noi; lo annunciava entusiasta a 6 colonne in prima pagina l’inserto economico de La Repubblichina lunedì scorso: Boom degli arrivi dagli Stati Uniti – titolava – ossigeno per la crescita dei paesi del sud Europa. L’articolo riporta festante come addirittura “Gli americani sono la prima nazionalità a Capri, Forte dei Marmi e Portofino” e come “a settembre 2023 il 55% del volume degli acquisti dell’isola di Capri è stato effettuato da cittadini americani”; “Negli ultimi anni temevamo di avere perso una quota importante di turisti alto-spendenti” avrebbe dichiarato la presidente di Federturismo Marina Lalli: “La crescita del turismo americano ha abbondantemente compensato quel calo”. “Gli americani” continua la Lalli “sono in assoluto i turisti che spendono di più, alloggiano in alberghi di lusso, mangiano nei migliori ristoranti” (e a quanto pare, se ti comporti bene, ti lanciano pure le noccioline): ed ecco così che, dopo aver perso la possibilità di una brillante carriera in un’azienda ad alto tasso d’innovazione perché s’è spostata negli USA a caccia dei finanziamenti pubblici, l’ingegnere medio italiano potrà finalmente puntare a preparare una bella pizza ai grani antichi con la burrata a qualche analfabeta funzionale texano, magari al nero e senza un vero salario (tanto si sa che i texani, con le mance, sono di manica larga) e quando avrà finito di stare intorno a un forno a legna per 12 ore per un salario da Africa subsahariana, sarà costretto a stare in una città completamente rasa al suolo socialmente e culturalmente dal divertentificio per vecchi rincoglioniti di tutte le età che è quest’abominio chiamato industria turistica. Anzi, no; giusto questo non se lo dovrà accollare: nella città turistica dove lavora, una casa (nonostante le laute mance dei petrolieri fai da te texani) non se la potrà permettere perché, nel frattempo, la piaga degli affitti brevi ha fatto esplodere il prezzo degli affitti. A parte la schiavitù nelle piantagioni di cotone, sinceramente faccio fatica a pensare a un modello di sviluppo più degradante e aberrante di questo, tant’è che in tutta Europa la gente, piano piano, si comincia a ribellare; l’altro giorno a Barcellona, durante una manifestazione di circa 3000 persone, un gruppo di turisti bello spaparanzato sulla terrazza di un caffè è stato bullizzato dai colpi di centinaia di pistole ad acqua, che gli avrà anche comportato uno shock culturale: “A casa nostra” avrà pensato il turista colonizzatore statunitense medio “le pistole le usiamo diversamente”. Alcune amministrazioni particolarmente illuminate hanno cominciato a prendere delle contromisure: a Lisbona il rilascio di nuove licenze per l’affitto a breve è stato congelato e, sempre a Barcellona, l’amministrazione ha promesso di chiudere i 10 mila appartamenti in affitto su Airbnb entro il 2028; spinti da questa ondata di proteste, anche il PD (in cerca di un rapido restyling d’immagine, ora che – finalmente – è all’opposizione e può far finta di essere minimamente progressista in alcune vertenze senza indispettire troppo i suoi mandanti) ha depositato una legge che mirerebbe a ostacolare perlomeno gli eccessi più palesi. Una legge farlocca, che lascerebbe la facoltà ai Comuni di porre qualche limite al numero di abitazioni che è possibile destinare agli affitti brevi esentando, inoltre, dai limiti chiunque abbia ottenuto un finanziamento non ancora estinto per l’acquisto o la ristrutturazione di un immobile – ovviamente per trasformarlo da abitazione per residenti a scannatoio per il divertentificio. Insomma: una legge che dire all’acqua di rose è un eufemismo, eppure più che sufficiente per far chiudere la vena alle bimbe del governo Meloni. Agguato PD agli affitti brevi titolava Libero indignato la scorsa settimana: Attacco alla proprietà privata. Cioè, per questi svendere la patria è proprio un istinto; gli viene naturale: dalla Germania hitleriana agli USA della guerra civile tra oligarchi, l’importante è stendere tappeti rossi al prepotente e all’invasore di turno, alla faccia del sovranismo.
Sarebbe arrivata l’ora di organizzarsi per mandarli tutti a casa e riprenderci tutto quello che è nostro: per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che agli interessi dei parassiti che campano di rendita, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Flavio Briatore

Le conseguenze economiche della guerra [pt1]: chi pagherà l’inflazione che arriva dal Medio Oriente?

“I venti di guerra gelano la crescita” titolava già martedì scorso Il Sole 24 ore. Ma – non per essere puntiglioso eh – di quale cazzo di crescita parlano?

in foto: Alessandro Volpi

Come insieme ad Alessandro Volpi abbiamo spiegato con dovizia di particolari già la settimana scorsa, ben prima che si riaprisse questo ennesimo capitolo di questa terza guerra mondiale a rate, l’economia del nord globale era già bella che affacciata sul bordo di un gigantesco baratro. Quella italiana in particolare poi si è già portata un bel pezzo avanti: non solo è già in caduta libera, ma ha anche raggiunto il fondo ed ha già iniziato a scavare, ma solo con le mani. L’escalation in Medio Oriente, diciamo, non fa altro che fornirci una bella trivella nuova di pacca per scavare più velocemente. Il meccanismo è di nuovo quello che si è già ampiamente manifestato dopo lo scoppio nel febbraio del 2022 della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. A partire da una tensione di carattere geopolitico, a prescindere dal suo impatto concreto sull’economia reale, parte un’offensiva speculativa che innesca una spirale inflazionistica; le banche centrali colgono la palla al balzo e, con la scusa della lotta all’inflazione, avviano una corsa al rialzo dei tassi d’interesse. All’inflazione però, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie, perché ormai il mercato e la concorrenza sono solo ricordi del passato: in tutti i settori che contano davvero vige un regime oligopolistico, e a determinare i prezzi sono una manciata di imprese che continuano a tenerli alti anche quando la crescita dei prezzi delle materie prime ormai è rientrata.
In compenso però la corsa al rialzo dei tassi d’interesse un effetto lo scatena eccome: la recessione, e nella recessione, la fuga dei capitali verso i beni rifugio, e cioè i titoli di stato USA e le bolle speculative denominate in dollari. D’altronde chi te lo fa fare di investire nell’economia reale in tempi così turbolenti quando puoi parcheggiare i tuoi quattrini in macchine infernali che non fanno altro che generare soldi da altri soldi? Ed ecco così che le economie più deboli, per far finta di tenere un minimo in ordine i conti, si ritrovano costrette a vendere i gioielli di famiglia, e le oligarchie finanziarie col portafoglio ovunque ma col cuore a Washington fanno shopping in giro per il mondo a prezzi di saldo e riempono le tasche all’1%, sulla pelle del 99.
Con questo video, grazie al contributo essenziale del mitico Alessandro Volpi e dell’amico Matteo Bortolon de La Fionda, abbiamo deciso di inaugurare una piccola miniserie che nel corso di questa settimana cercherà non solo di farvi una cronaca di quello che sta accadendo, ma anche di fornirvi gli strumenti analitici per capire perché sta accadendo e che ripercussioni avrà sulla nostra vita quotidiana e di provare a convincervi che l’unica soluzione realistica e razionale è distruggere una volta per tutte il meccanismo perverso imposto dall’1% e tornare a dare voce e potere al 99.
Con l’avvio dell’operazione Diluvio di al Aqsa da parte della resistenza palestinese sabato scorso, e con l’intensificarsi della pulizia etnica da parte del regime sionista che ha scatenato, il Medio Oriente, dopo una fase di apparente relativa calma, è tornato a incendiarsi e con lui, inevitabilmente, anche il mercato dell’energia, ridando così rinnovato slancio alla spirale inflazionistica che questi due anni di politiche monetarie suicide non erano in realtà riuscite mai a spezzare sul serio.

Alessandro Volpi: “il prezzo del gas, che prima che iniziasse questa nuova tensione bellica era indicativamente intorno ai 32 – 34 € a megawattora. Oggi siamo a cinquantatré, quindi nel giro di pochissimi giorni il gas ha preso venti euro senza che in realtà sia successo nulla sul piano delle forniture reali. Questo è il preludio di un’ulteriore crescita, perché è evidente che è ripartita la speculazione. Non dimentichiamoci che durante l’ondata inflazionistica 2021 – 2022 il petrolio era stato sostanzialmente intorno ai 70 – 75 $ al barile. Ora siamo ormai ampiamente sopra gli 80. Ci dirigiamo verso i 90 e quindi è abbastanza evidente che ci troveremo con una bolletta energetica molto pesante. Questo è un quadro per niente rassicurante e ancora una volta figlio delle ventate speculative prima ancora che dell’economia reale, perché dieci giorni di tensione militare, pur nella loro crudezza, non hanno inciso in nessun modo su quelli che sono gli approvvigionamenti reali e siamo anche certi che non incideranno negli approvvigionamenti reali dei prossimi mesi e probabilmente di tutto il prossimo anno.
Quindi, veramente, stiamo facendo stiamo facendo pura speculazione che determina di nuovo un’inflazione pesantissima.
Ma come fa concretamente la finanziarizzazione e la speculazione finanziaria ad alterare alla radice il meccanismo attraverso il quale i così detti mercati, che è l’eufemismo che la propaganda liberale ha adottato per descrivere un manipolo di oligarchi, determinano il prezzo reale delle materie prime senza le quali tutto il mondo si blocca. Il buon Alessandro Volpi ci ha fatto un riassuntino for dummies, perchè anche se il giochino ormai dovrebbe essere arcinoto, la potenza di fuoco della propaganda che usa ogni mezzo per dissimulare i crimini contro l’umanità sui quali si fonda la dittatura globale delle oligarchie finanziarie rischia sempre di distrarci dai nodi fondamentali. Ecco allora che con grande piacere vi introduco questa piccola rubrica di Rieducottolina, dove spieghiamo perché la finanziarizzazione dei mercati delle materie prime rappresenta uno ‘mbuto gigantesco per l’economia reale.

Alessandro Volpi: “Il prezzo del gas europeo continua a essere fatto, appunto, in questo listino privato che si chiama TTF che – mettiamolo in chiaro con evidenza – è di proprietà dei grandi fondi speculativi, perché gli azionisti di TTF sono in larga misura Vanguard, Black Rock e State Street, quindi gli stessi soggetti che direttamente e indirettamente – in quanto azionisti di banche che operano sul listino su questo TTF – contribuiscono a determinare il prezzo perché fanno scommesse sui contratti reali. In altre parole lo scambio di gas viene definito in termini reali fra un compratore e un venditore nel listino TTF a un prezzo pari a 32 – 33 € per megawattora a parte, una serie di scommesse che prevedono un’ipotetica mancanza di gas, perché c’è stato un boicottaggio? Perché? Partono queste scommesse prodotte da questi grandi fondi o dalle banche che sono possedute, dei fondi che sono a loro volta i proprietari del listino dove vengono fatte queste scommesse che dicono: scommettiamo che fra tre mesi il prezzo, al momento dell’eventuale consegna dei gas, non sarà trentatré ma sarà cinquantatré? Immediatamente il prezzo sale arriva a cinquantatré. Il contratto successivo di vendita reale non è più firmato, non è più concluso a trenta, trentatré euro a megawattora, ma cinquantatré e così via. Questo perché, appunto, il TTF è un listino privato che definisce i prezzi, che ammette al proprio interno non solo compratori e venditori reali, ma anche tutta una serie di oggetti finanziari che sono di proprietà di questi stessi fondi che alla fine, peraltro, sono gli stessi che sono in larga misura gli azionisti principali delle società di produzione e distribuzione dei gas del petrolio. Noi peraltro ci siamo invaghiti ormai del gas liquido naturale che per sua natura è il più soggetto alle ondate speculative, perché è un mercato dove la speculazione si può fare: nella Borsa dove si definisce; durante i transiti doganali; sul noleggio della nave. Una roba dove la definizione del il prezzo, lo sanno bene gli operatori, è praticamente impossibile Quindi noi non abbiamo più in questo momento una dimensione dell’economia reale. Abbiamo una dimensione dell’economia dove i prezzi sono finanziarizzati e quindi la valutazione è semplicemente quella di stabilire, in un clima di forti aspettative o comunque di probabili aspettative di tensione, significhi la possibilità di scommettere al rialzo. Si scommette al rialzo, la forza di questi soggetti è tale che è come se tutti scommettevano nella stessa direzione. Chi capisce il vento, ovviamente, va dietro a quel tipo di scommesse. I prezzi si sganciano dalla realtà e ogni tensione si traduce appunto per effetto di questa finanziarizzazione, in un’ondata inflazionistica che travolge il potere d’acquisto reale delle popolazioni. E chi scatena le tensioni è consapevole che dietro c’è l’effetto amplificatore estremo della finanziarizzazione.
Aggiungerei peraltro, un’ultima annotazione: non so se hai notato negli Stati Uniti hanno inasprito alcune sanzioni nei confronti della Russia proprio in questi giorni, guarda caso nel momento in cui i prezzi del petrolio hanno cominciato a risalire. Perché in effetti questo dato ha contribuito a un ulteriore aumento del prezzo del petrolio e del gas e qui è una sorta di braccio di ferro. Perché paradossalmente l’aumento del prezzo dei gas poi alla fine finisce per favorire anche la stessa Russia di Putin. Gli americani ne traggono beneficio perché certamente c’è un aumento del prezzo del petrolio. Alla fine chi ne subisce le conseguenze in maniera chiara sono gli importatori di questo tipo di produzione, di questo tipo di energia, quindi in larga parte buona parte del sistema del sistema produttivo europeo.”

La concorrenza sleale del finto alleato USA a partire dai costi dell’energia, è ormai un vecchio classico, come d’altronde è un vecchio classico la risposta che le banche centrali si sentono in dovere di dare ogni qualvolta si ripresenta una spinta inflazionistica. Anche se, come abbiamo visto, le cause sono meramente di carattere speculativo e quindi l’arma di distruzione di massa della corsa al rialzo dei tassi di interesse molto banalmente, non funziona. Ancora meno funziona nella fase successiva e cioè quando la speculazione rientra, i costi delle materie prime ritornano a livelli più o meno ragionevoli, ma non quelli dei prodotti delle aziende, che anzi continuano ad aumentare senza nessunissima ragione concreta, con l’unico risultato che fette sempre più grandi di ricchezza passano dalle tasche di chi lavora alle tasse di chi campa sul lavoro altrui. La corsa al rialzo dei tassi di interesse serve a qualcosa per contenere l’inflazione soltanto nella fase ancora successiva, e cioè quando i lavoratori finalmente si incazzano, e si organizzano per pretendere un adeguamento dei salari all’aumento del costo della vita. Che è un po’ la fase che stiamo attraversando adesso, anche se in Italia non si direbbe.

Ma negli USA ad esempio si.

Come sta succedendo ad esempio nell’industria automobilistica, dove i sindacati sono ormai da oltre un mese sul piede di guerra per pretendere aumenti salariali nell’ordine del 40%, e anche la riduzione dell’orario di lavoro. Ora si che i tassi di interesse alti servono: ai padroni. come arma contro le rivendicazioni di chi lavora.
Ed ecco perchè, nonostante l’intera economia del nord globale sia ormai più o meno ufficialmente in recessione, le banche centrali continuano in questa politica folle e con il medio oriente che torna a incendiarsi, ogni speranza di un cambiamento di rotta nel prossimo futuro, per quanto esile, va definitivamente a farsi benedire.

Alessandro Volpi: “È probabile che questo significhi che la Banca centrale europea non riveda le proprie strategie, quindi continui con una politica di tassi che è una politica di alti tassi alti, con le conseguenze che ne derivano in termini di collocamento del debito pubblico a partire dai Paesi più deboli. Questo che cosa farà? Favorirà chi ci ha già la liquidità. Chi ce l’ha la liquidità? I grandi fondi. È chiaro che si determina una soluzione per cui invece tutti quelli che hanno bisogno del credito bancario lo pagano l’ira di Dio e quindi sono fuori dal mercato. Quindi chi è che si compra le aziende in difficoltà che non hanno più credito bancario? I grandi fondi che la liquidità ce l’hanno. Quindi è evidente che il gioco funziona e c’è questa selezione, perché è ovvio che questi soggetti potranno comprare grandi fondi, pezzi di imprese, potranno comprare parti di società pubbliche messe in dismissione. Voglio vedere chi si comprerà questo famoso venti e i famosi venti miliardi delle privatizzazioni italiane, probabilmente venti non basteranno, ne faranno venticinque. Avranno bisogno di soldi e cosa venderanno? All’Italia e Monte dei Paschi? Ci credo poco proveranno, ma venderanno qualcosa che sia appetibile. Quindi titoli di Eni, titoli di Enel. Io penso che questo non sia soltanto una follia. È una follia che ha una sua profonda lucidità. La finanziarizzazione consente di fatto una inflazione stellare, non rende più possibile il finanziamento dei debito per far fronte all’aumento del costo della vita e quindi obbliga alla riduzione del perimetro degli interventi pubblici, obbliga prima alla privatizzazione dei settori e poi, appunto, la riduzione del perimetro e questo va a vantaggio di quelli che si possono appunto comprare Eni, Enel e via dicendo. Al tempo stesso va a vantaggio di quelli che diventeranno i destinatari dei risparmi degli italiani. Blackrock e Vanguard invece che fare ventiduemila miliardi di attivi faranno anche venticinque, trentamila miliardi, perché ci saranno anche risparmi degli italiani. Che ad oggi sono solo in parte e finiranno lì. Questo è il mondo nel quale siamo drammaticamente avviluppati, è l’affermazione della centralità assoluta dei grandi fondi che stanno occupando gli spazi non solo della finanza, ma anche dell’esistenza degli Stati in quanto tali.”

La cosa più divertente in queste ore, è proprio vedere come di fronte alle evidenti ripercussioni catastrofiche che l’escalation in Israele avrà necessariamente anche sulla nostra economia già tramortita, la nostra classe dirigente sia tra le più entusiaste sostenitrice della soluzione finale. Se è raccapricciante vedere come le oligarchie non abbiano nessuna remora a sostenere un genocidio pur di arraffare un po’ di quattrini in più, vedere qualcuno sostenere apartamente con entusiasmo un genocidio addirittura contro i suoi stessi interessi, non ha prezzo. Nell’attesa di portare avanti il loro piano complessivo per il dominio globale, infatti, almeno le oligarchie finanziarie a stelle e strisce e i loro fondi speculativi intanto sono già passati all’incasso. Grazie alla carneficina in corso a Gaza, nell’arco di poche ore Lockheed Martin ha guadagnato in borsa il 9,8%, General Dynamics il 9,9%, Northrop Grumman, poco meno del 14%. Indovinate chi sono i principali azionisti? la risposta la sapete già: sempre loro, blackrock, vanguard e state street, il simbolo per eccellenza della più grande concentrazione di potere e di ricchezza nelle mani di un manipolo di aristocratici del’intera storia dell’umanità.

Una bella boccata d’ossigeno.

In media infatti dall’inizio dell’anno le azioni dei tre colossi delle forniture militari avevano perso intorno al 20%. Era l’effetto delle magnifiche sorti e progressive della controffensiva ucraina, che mano a mano che si rivelava anche agli occhi dei liberali più ottusi per il grandissimo inevitabile fallimento che era, lasciava presagire che l’era d’oro delle supercommissioni per portare avanti la guerra per procura sarebbe presto tramontata. Nel frattempo, lontano dagli uffici delle oligarchie del fronte democratico, il mondo è alla fame, letteralmente.
Come ricorda Stephen Devereux dell’Institute of Development Studies su Project Syndicate infatti, “Dagli anni ’60 fino alla metà degli anni 2010, la fame è diminuita in tutto il mondo”. Il Contributo di gran lunga più importante è arrivato dalla Cina, che è talmente ferocemente turbocapitalista che ha emancipato dalla schiavitù della fame tutta la sua popolazione. Risolto il problema della fame in Cina, ricorda Devereux, “nonostante la produzione alimentare record, la tendenza è tornata a invertirsi, con circa 828 milioni di persone colpite dalla fame a livello globale nel 2021 – un aumento di 46 milioni rispetto al 2020 e di 150 milioni rispetto al 2019”.

E potrebbe essere soltanto l’inizio.

Alessandro Volpi: “I prezzi agricoli sono definiti fondamentalmente da due, tre borse a livello mondiale. Le più importanti sono la Borsa di Chicago, la Borsa di Parigi, la Borsa di Mumbai. La Borsa di Chicago, che è la più importante, in parte anche la Borsa di Parigi, sono totalmente finanziarizzate, cioè la proprietà della Borsa di Chicago è ancora una volta di State street, Vanguard e Black Rock. Quindi il luogo dove si definisce il prezzo dei prodotti agricoli, il contenitore dove si definisce è di proprietà di questi fondi. Questi fondi sono presenti, come nel caso del gas, nonostante c’entrano nulla con la produzione di beni agricoli, che peraltro sono beni assolutamente sensibili e le prime tre, quattro società di produzione di cereali e non solo, ma anche di altri beni in giro per il mondo, sono di proprietà di questi fondi. Le altre tre, quattro, le famose Big Three che regolano i prezzi. Quindi anche nel momento in cui si decide che per determinate aspettative futuribili ci può essere una carenza di determinati prodotti agricoli, abbiamo visto il caso dello zucchero, per esempio, che ha avuto un balzo del 45% in virtù di una carenza di produzione limitata al 4% complessivo. Quindi senza nessuna giustificazione, perché dietro quel contenitore sono partite le scommesse. Quindi noi dobbiamo avere ormai chiaro che il mondo nel quale viviamo non è più un mondo nel quale esiste un mercato che è in grado di fare un qualche tipo di valutazione sull’impatto geopolitico delle questioni. Cioè scoppia una tensione fra Hamas e Israele, c’è un conflitto fra Hamas e Israele? Bene, valutiamo il mercato. Dovrebbe servire indicativamente a valutare che tipo di effetti produca. Ecco, questo non esiste più.

È il libro nero del capitalismo globalizzato neoliberista, che ogni anno genera direttamente oltre dieci milioni di morti. Fortunatamente sono morti democratiche e per la libertà dei mercati, quindi non sono proprio morti vere, sono danni collaterali, in nome della democrazia e della libertà. Oltre alle decine di milioni di morti dirette, poi, c’è la schiavitù del debito che generano, e della quale ci occuperemo domattina nella seconda puntata di questa miniserie, con un lavoro a quattro mani scritto insieme all’amico Matteo Bortolon. Affinchè il libro nero del capitalismo finanziario globalizzato, che proviamo a scrivere giorno dopo giorno, raggiunga il maggior numero di persone, affidarsi ai media pagati da chi di tutto questo è la causa potrebbe essere piuttosto velleitario

Piuttosto, ci serve un media tutto nostro, che stia dalla parte del 99%.

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E chi non aderisce è Antonio Tajani.