Skip to main content

Tag: sinistra

Meloni e la destra ZTL: come dichiararsi patrioti e poi vendersi per servilismo e per denaro

Quella oggi al governo è la classica destra ZTL, ossia la variante finto-sovranista e finto-conservatrice di quel partito unico neoliberista che ha, in questi anni, distrutto lo stato sociale italiano e ha svenduto il suo popolo alle oligarchie economiche straniere; prima Berlusconi, adesso Meloni: bravissimi a prendere per il culo le classi popolari parlando di interesse nazionale e di libertà e poi sempre pronti, una volta al governo, a privatizzare settori nazionali strategici, a prendere ordini dal padroncino d’oltreoceano in nome della presunta difesa comune dell’Occidente e a tagliare fondi pubblici destinati alla cura e all’emancipazione degli ultimi. Ormai è evidente a tutti: l’unico obiettivo politico della destra ZTL è da sempre soltanto la conservazione del regime aumentando – nel frattempo – il più possibile il proprio profitto e la propria impunità (e quella degli imprenditori che la finanziano) perché pensare che ai Salvini, ai Toti e alle Santanchè di turno interessi veramente qualcosa della patria, dei valori tradizionali e della sacralità famiglia fa ridere soltanto a pensarci; e su questo non c’è davvero molto altro da dire.
Molto più interessante invece – come fa Alain De Benoist, forse il più grande intellettuale di destra degli ultimi 50 anni – è rivolgersi a chi in questi valori ci crede per davvero e mostrare loro come le attuali classi dirigenti di destra europee (la destra ZTL, appunto) sono quanto di più lontano dalla vera cultura di destra: è la destra ZTL il più grande pericolo per i valori tradizionali, sostiene De Benoist, non certo i musulmani, i cinesi o Fabio Fazio, come invece sembrerebbe sfogliando un qualunque giornalaccio della finta destra. E questo per una ragione semplicissima: sovranità nazionale, vita etica e valori della tradizione – sostiene, giustamente, il filosofo francese – sono infatti totalmente incompatibili con l’economia e la cultura capitalista e con lo status di provincia asservita dell’Europa, ossia con quei fondamenti strutturali della nostra politica nazionale ed europea che destra ZTL e sinistra ZTL condividono pienamente da 30 anni e mai si sognerebbero di mettere in discussione. Se quindi la destra volesse veramente fare la destra, riflette il filosofo francese, la smetterebbe di inventarsi nemici esterni immaginari: metterebbe la propria classe dirigente di fronte alle proprie responsabilità e tradimenti e la costringerebbe a combattere il capitalismo neoliberista e l’occupazione straniera, altrimenti continueremo ad assistere al ridicolo spettacolino che ci offrono tutti i giorni queste maschere prive di qualsiasi onore e coerenza e continueremo a vedere i rappresentanti della destra ZTL riempirsi la bocca di patria e sovranità e, al tempo stesso, essere i primi cantori dell’occupazione militare americana del nostro suolo e della presunta unità tra i nostri e loro interessi; oppure riempirsi la bocca con il primato e la salvaguardia dell’interesse nazionale e poi essere i primi che, per un po’ di profitto in più o per far contento qualche imprenditore amico, non ci pensano due volte a privatizzare aziende pubbliche strategiche, tagliano i fondi alla sanità e affermano di voler trasformare la comunità nazionale in un’azienda. E, infine, riempirsi la bocca di difesa dei valori tradizionali di religione e di sacralità della famiglia e, al tempo stesso, promuovere attivamente un ordine economico e culturale – quello neoliberista – che nulla ha a che vedere con il cristianesimo e con le nostre tradizioni e che è, invece, fondato sull’importazione dei modelli culturali anglosassoni, sull’individualismo consumistico e sulla lotta di tutti contro tutti in nome del mitologico libero mercato.
Insomma: con la destra ZTL si raggiungono vette di viltà e ipocrisia quasi irraggiungibili e, a ben vedere, l’unica grande fortuna della destra ZTL in questi anni (fortuna che gli ha permesso di avere un maggiore consenso elettorale rispetto alla sinistra ZTL) è che non esistendo praticamente intellettuali e una cultura di destra degni di questo nome, ed essendo in Italia i principali giornali di destra proprietà dei partiti di riferimento, la sua classe dirigente finto-patriottica e finto-conservatrice ha agito sostanzialmente indisturbata alla svendita del proprio paese e al tradimento dei propri valori senza che, praticamente, nessuno da destra gliene chiedesse conto. In questo video, allora, parleremo di De Benoist e alcune altre rare eccezioni che, invece, hanno deciso di non prostituire i propri valori al capitale e al denaro e, per questo, non hanno mai smesso in questi anni di incolpare la propria parte politica per la propria sfacciata ipocrisia.

Alain De Benoist

Quando parlate con un rappresentante medio della destra ZTL, sembra che i nemici dei suoi valori vengano sempre dall’esterno: dall’eccessivo numero di ristoranti turchi nel quartiere, dai sempre sospettosi musulmani che potrebbero reclutare terroristi nelle nostre città e, adesso, dai cinesi comunisti che stanno per costringere l’Occidente ad una nuova guerra di civiltà; la possibilità che i nemici dei loro professati valori, veri o di facciata che siano, ce li abbiano in casa – e, in particolare, nelle dinamiche strutturali del capitalismo degli ultimi 40 anni – è solitamente qualcosa che va oltre le loro capacità di analisi e preferiscono pacificarsi la coscienza pensando che sia tutta colpa dei sinistroidi alla Roberto Saviano e alla Luciana Litizzetto la cui colpa sarebbe quella di essere troppo aperti e tolleranti con i presunti nemici dell’Occidente e dei suoi valori. Ma andiamo con ordine; come ci ricorda il professore di filosofia teoretica Vincenzo Costa nel suo ultimo libro Categorie della politica, per semplicità possiamo distinguere almeno quattro tipi di destra: “1) la destra neoliberale, che propugna il mercato capitalistico spacciato per libero mercato; 2) la destra conservatrice, preoccupata di mantenere la continuità della tradizione; 3) la destra fascista, a sua volta articolata e complessa e 4) la destra reazionaria, che vorrebbe ripristinare un mondo gerarchico su base aristocratica.” Ora, se la destra reazionaria è praticamente scomparsa nel ‘900, quella fascista e conservatrice erano ancora ben presenti in Italia fino alla fine dello scorso secolo prima di lasciare il posto all’unica destra compatibile con il capitalismo neoliberista e l’egemonia americana in Europa e, cioè, la destra liberista, la destra ZTL, quella che continua a fare riferimento a parole d’ordine delle altre destre come i valori tradizionali, la religione e la sovranità nazionale come mera propaganda e tentativo di accalappiare voti tra le fasce popolari ancora affezionate a questi temi.
Temi che la destra ZTL è naturalmente sempre pronta a gettare a mare quando entrano in conflitto con le forme economiche e culturali del capitalismo e con gli interessi dell’impero americano nel mondo; così, se la sinistra al caviale, come la chiama De Benoist, ha reciso completamente i propri legami con la tradizione socialista e del popolarismo cattolico, la destra lo ha fatto – oltre che con la tradizione cristiana a cui ancora la vecchia borghesia italiana faceva riferimento – anche con la destra sociale novecentesca, tradizioni politiche che erano ancora legate ad un’idea del primato della politica sul mercato, dell’interesse nazionale contro ogni ingerenza esterna e del rifiuto di forme culturali all’apparenza moderne solo perché di origine anglosassone. La destra ZTL, insomma, ha rinnegato le proprie origini e il proprio timbro religioso, nazionalistico e comunitario in nome del profitto e della merce: Dio, Patria e famiglia sono rimasti insomma, per quelli della destra ZTL, slogan puramente estetici e di rito, buoni giusto per darsi un tono da uomini forti nelle discussioni politiche, ma nei fatti privi di qualunque implicazione e conseguenza pratica, sia nella sfera privata che in quella pubblica. “Un cambiamento divenne visibile già nel passaggio dal MSI ad Alleanza Nazionale” scrive Costa “così come emerge nell’elaborazione di colui che fu, forse, il più importante ideologo di quella svolta, cioè Alessandro Campi. È così emersa una destra che usa le nozioni di tradizione, conservazione, identità come meri simulacri perché, da un lato, promuove un ordine liberale che stermina le solidarietà sociali e le forme di legame tramandate dalla tradizione proprio mentre, dall’altro, cerca di conservarle come souvenirs”; per questo, conclude, “La destra sociale e tradizionalista ha perso le sue caratteristiche per assumere i connotati di una più accettabile e moderna destra liberista in economia e con qualche richiamo di colore, quasi più estetico che altro, alla tradizione e ai valori tradizionali.” Il fenomeno di Berlusconi come leader della destra italiana fu, in questo senso, emblematico: una figura priva di qualsiasi onore e senso dello Stato capace di frodare il fisco e aprire fondi in paradisi fiscali pur di non contribuire all’interesse nazionale, una figura che parlava di voler trasformare la patria in un’azienda, una figura che con il cristianesimo non aveva mai avuto nulla a che fare e figurarsi con la famiglia tradizionale, capace – nonostante tutto ciò – di farsi passare per uomo di destra. Certo che hanno davvero avuto poca stima di se stessi e delle proprie idee gli elettori di destra in questi anni, ma, insomma, chiediamoci finalmente: perché il patriottismo, la religione e i valori tradizionali sono incompatibili con l’economia e la cultura del capitalismo neoliberista?
La cosa migliore da fare è ascoltare le riflessioni di Alain De Benoist nel suo testo Populismo: la fine della destra e della sinistra: il capitalismo, sottolinea il filosofo francese, è infatti una forza rivoluzionaria e totalitaria che distrugge tutto quello che incontra; il suo fine è quello di imporre la logica dell’interesse economico, del profitto e della merce in ogni ambito della vita individuale e comunitaria e, per farlo, distrugge ogni tradizione e visione del mondo alternativa alla propria che potrebbe rappresentare una resistenza e un ostacolo al proprio sviluppo. Nulla è sacro per il capitalismo: tutto può essere venduto e mercificato e non esistono valori superiori ai valori puramente economici; non è un caso, quindi, che Dio, Patria, famiglia, in quanto valori potenzialmente immuni e superiori a quelli economici e alle logiche del profitto e del mercato, siano stati praticamente spazzati via proprio negli ultimi 40 anni e, cioè, proprio nella fase neoliberista del capitalismo, cioè quella fase in cui il capitalismo è riuscito a fare quasi piazza pulita del nostro passato e non ha più incontrato ostacoli al proprio sviluppo. Sviluppo – ricordiamolo – di cui destra e sinistra ZTL sono le compiute espressioni politiche. Scrive De Benoist, che poi cita alcune celebri affermazioni di Marx: dove è giunto il capitalismo, esso “ha dissolto ogni condizione feudale, patriarcale, idillica. Ha distrutto spietatamente ogni più disparato legame che univa gli uomini al loro superiore naturale, non lasciando tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti. Ha fatto annegare nella gelida acqua del calcolo egoistico i sacri fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo piccolo borghese. Ha risolto nel valore di scambio la dignità della persona e ha rimpiazzato le innumerevoli libertà riconosciute e acquisite con un’unica libertà, quella di un commercio senza freni.”
Il capitalismo, insomma, si fonda sulla distruzione sistematica di tutte le forme culturali e dimensioni della vita privata e pubblica che eccedono la logica dell’interesse egoistico ed economico: “Se la logica del capitalismo di consumo è quella di vendere qualunque cosa a chiunque” scrive De Benoit “gli è indispensabile eliminare uno ad uno tutti gli ostacoli culturali e morali (tutti i tabù, nella neolingua liberale e mediatica) che potrebbero opporsi alla mercificazione di un bene o di un servizio”. L’idea di una superiore comunità nazionale, che dovrebbe essere anche un valore di destra, si basa sull’idea di una comunità in cui vigono logiche di solidarietà e sacrifici reciproci per salvaguardare l’interesse collettivo e per il quale, nei casi estremi, si è anche pronti a sacrificare la vita: ecco, tutto questo è completamente incompatibile con le logiche individualistiche ed economicistiche del capitalismo. L’idea che esista una vita dopo la morte che impone doveri e sacrifici in questa vita (come pensa il cristianesimo) e che implichi magari un freno alla ricerca del piacere immediato, al profitto e alla ricerca della felicità attraverso il consumo di merci esclusive, è assolutamente incompatibile con il capitalismo; l’idea che esista una cellula comunitaria, la famiglia, in cui non vigono rapporti di mero scambio di favori e interessi economici reciproci, ma in cui valgono logiche di solidarietà, dono e appartenenza, è qualcosa di insopportabile per il capitalismo, e l’idea – ancora – che in una comunità esistano delle tradizioni e dei costumi provenienti dalla storia di un popolo e dal suo rapporto con la terra e con la vita circostante, è un qualcosa di potenzialmente pericoloso per il capitalismo perché sono possibili visioni del mondo e significati della vita alternativi a quelli del consumo e della merce.
Alla luce di tutto questo – quantomeno a partire dai tanto amati Thatcher e Reagan – la destra del denaro, pur avendo continuato (per propaganda e marketing elettorale) a fare riferimento alla famiglia, alla nazione, alla religione e ai valori tradizionali, ha poi nei fatti portato avanti politiche ultracapitaliste che tutte queste dimensioni le ha materialmente distrutte; la destra del denaro e la sinistra del caviale hanno così insieme, in questi anni, diffuso senza più incontrare limiti e resistenze la riduzione del valore del mondo a merce, del pianeta a parco giochi dei ricchi e della vita a mero intervallo tra la nascita e la morte in cui non resta che cercare di godere il più possibile consumando i prodotti più esclusivi. Hanno così creato la figura antropologica dell’infelice atomo consumatore che, permanentemente privato di passioni utopiche e di appartenenza alla propria terra e comunità, non crede più in nulla se non nel mercato; hanno svuotato le nuove generazioni di ogni spirito critico e di ogni legame con le identità e con le tradizioni, privandoli così degli strumenti culturali per opporre qualunque resistenza alla violenza del nichilismo economico. In nome del mitologico mercato hanno poi deregolamentato la finanza e il lavoro rendendo questi stessi giovani precari il più a lungo possibile, impedendo loro di formare una famiglia e rendendoli quanto più ricattabili possibile dalle oligarchie economiche; infine, hanno promosso l’imperialismo americano nel mondo come strumento armato della globalizzazione capitalista e come imposizione, attraverso le sanzioni economiche e le bombe, di questa unica, nichilistica visione del mondo a tutti i popoli nella terra.
Per tutto questo noi non finiremo mai di ringraziare i popoli resistenti, i cosiddetti Stati canaglia, per aver resistito (e, forse, fatto fallire per sempre) questo progetto di imposizione, in ogni angolo del globo, del nichilismo capitalistico e dell’egemonia del suo braccio armato. Si chiede però amareggiato De Benoist: “Come ha potuto la destra, legata per sua natura alla conservazione, sostenere tanto costantemente un sistema capitalistico così distruttore di tutto ciò che essa intende conservare?”. Anche in politica estera, riflette “Dopo il 1945, nel contesto della guerra fredda, l’antisovietismo ha portato la destra a solidarizzare con un mondo libero dominato dall’imperialismo americano, che essa ha rumorosamente sostenuto nelle sue imprese predatrici, tanto politiche e commerciali quanto belliche (ricordiamo le manifestazioni di solidarietà con il regime molto corrotto del Vietnam del Sud), facendola così ritrovare all’avanguardia di una difesa dell’Occidente che, in ultima analisi, altro non era che la difesa dell’internazionale del Capitale.” Insomma: la destra del denaro, conclude De Benoist, distruggendo tutte le altre culture di destra in quanto potenzialmente anticapitaliste, è solo l’altra espressione vincente dell’occupazione americana nel nostro Paese (e delle nostre coscienze) e dell’eterna lotta di classe dall’alto verso il basso. E non è sempre stato così: “In passato” riflette De Benoist “le poche volte in cui la destra ha sviluppato una dottrina economica e sociale, lo ha sempre fatto con la dichiarata intenzione di mettere fine alla lotta di classe. Questa volontà di riconciliare il padrone e l’operaio, il capitale e il lavoro, spesso per mezzo di una mistica dell’unità nazionale, la si ritroverà anche nel fascismo. La grande idea è sempre quella di armonizzare gli interessi in campo, invece di opporli. Si mirava alla pace sociale, sforzandosi di convincere lavoratori e padroni che i loro veri interessi sono comuni.” Si potrebbe certo ribattere qualcosa a questa ricostruzione del fascismo di De Benoist, ma tant’è; ma quello che è sicuro è che non ci si può aspettare nulla di buono dalla destra ZTL, ossia quella classe dirigente che ha venduto – probabilmente in contanti – tutti i propri valori (perché il contante è importante!), si è prostituita all’occupante straniero e che ha poi avuto persino il coraggio di incolpare gli altri per tutto questo – che fosse la cosiddetta sinistra, qualche disgraziato sbarcato a Lampedusa o i presunti nemici esterni dell’Occidente. Che dire: tanta roba! Voi sì che siete uomini d’altri tempi, di principio, e tutti d’un pezzo!
La buona notizia è, però, che adesso anche tu puoi decidere di smettere di farti prendere in giro dalla propaganda dei tuoi beniamini al governo e dei pennivendoli al loro libro paga e, magari, cominciare a pretendere da loro un minimo in più di coraggio, statura morale e senso dello Stato. E se anche tu hai voglia di lasciarti alle spalle questo ridicolo teatrino messo in piedi dalla destra e dalla sinistra ZTL per difendere con le unghie il regime e non permettere di cambiare le cose, aiutaci a costruire un media che ti racconti il mondo dagli occhi degli interessi italiani, europei e del 99 per cento: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giorgia Meloni

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Sinistra ZTL: anatomia di un tradimento

Sinistra ZTL non è un’offesa, ma una vera e propria categoria sociologica che indica una mutazione storica fondamentale nella politica della sinistra occidentale; tutte le rilevazioni post elettorali sia in Italia che in Europa ci indicano infatti che, nella stragrande maggioranza dei casi, i partiti di sinistra e centrosinistra sono votati da elettori con alti redditi. Una situazione di completo ribaltamento rispetto a quanto era accaduto nel ‘900, rispetto a quando i partiti e gli intellettuali socialisti si erano posti il compito di rappresentare gli interessi degli ultimi e portarli al governo e, per questo, avevano radicato il proprio consenso tra le classi popolari. Ma che cosa è accaduto dopo? E quale è, invece, il compito politico e la visione del mondo della nuova sinistra 2.0 completamente inglobata nelle logiche oligarchiche e antisociali del capitalismo neoliberista? Lo vedremo tra poco. Quello che è sicuro è che non possiamo più certo accontentarci di come i rappresentanti della sinistra ZTL raccontano e giustificano a se stessi questo abbandono di consensi nel proprio ex elettorato e, cioè, delle solite argomentazioni per le quali al popolino delle periferie, essendo ignorante e un po’ rozzo, gli sfuggirebbe la complessità del mondo contemporaneo ed essendo questa gente un po’ come infanti – e, quindi, gente incapace di capire il proprio vero interesse – si lascerebbe prendere in giro da quegli egoisti e beceri populisti che parlano alla loro pancia e non alla loro testa; ecco: da queste argomentazioni snob e classiste in stile salotti vittoriani di fine ‘800 è bene stare alla larga.

Vincenzo Costa

Molto più utile, invece, è leggersi l’ultimo libro Vincenzo Costa, Categorie della politica, dove il professore di filosofia teoretica all’Università San Raffaele svolge un’interessante analisi storica e culturale della politica contemporanea e in cui dimostra come, oggi, le categorie di destra e sinistra non rispecchino più interessi sociali contrapposti, ma sia diventata una distinzione tutta interna alla classe dominante; insomma: una distinzione concettuale e politica che invece di esprimere i reali conflitti sociali in atto e aiutarci a comprendere le principali sfide politiche per la nostra comunità, al contrario occulta e manipola la realtà proponendo una finta alternanza, svuotando così di significato la democrazia rappresentativa e portando, tra le altre cose, agli spaventosi dati attuali dell’astensionismo. Costa propone di lasciarsi alle spalle questa rappresentazione binaria e propone un modello politico diverso (di cui ci occuperemo sicuramente in un prossimo video); in questo, invece, cercheremo di capire insieme a lui la storia e le caratteristiche della variante snob e moralisteggiante dell’ideologia della classe dominante – la cosiddetta, appunto, sinistra ZTL – facendo così luce su uno dei più meschini voltafaccia politici della modernità.
È negli anni ‘80 che si comincia a parlare di superare, una volta per tutte, la diade destra/sinistra, anche se con un intento completamente opposto a quello di Costa: l’idea era di voler abbandonare le visioni politiche alternative a quella capitalista e liberale dominante per costruire un sistema politico sostanzialmente omogeneo e indifferenziato che avrebbe trasformato la politica da pratica trasformatrice della realtà a mera gestione amministrativa dell’esistente; erano, infatti, gli anni della cosiddetta fine della storia e, cioè, di quell’atmosfera culturale che si era diffusa in tutto l’Occidente per la quale le società occidentali erano arrivate alla fine del loro percorso politico. Secondo questa visione un po’ fanciullesca, alle democrazie liberali, protette dall’ombrello dell’esercito americano, non restava che conservare quanto più gelosamente possibile il proprio assetto politico ed economico, un assetto che si era dimostrato di gran lunga il migliore della storia e a cui tutti i popoli del mondo non potevano che guardare con invidia e ammirazione; insomma: “Viviamo nel migliore dei mondi possibili” si pensava convinti. “Ogni altro progetto politico non può che trasformarsi in gulag e persecuzioni di ogni tipo e solo qualche adolescente un po’ ribelle o frustrato vetero-comunista di mezz’età può davvero mettere in dubbio la sostanziale bontà e giustizia dell’attuale regime.”
Sfortunatamente, prima con la crisi e poi con il crollo definitivo dell’Unione Sovietica e con l’imporsi definitivo dell’egemonia americana in Europa che ne è conseguito, questo unico campo politico capitalista e liberista (diviso da qualche sfumatura folkloristica su questioni secondarie) ipotizzato negli anni ‘80 è, infine, diventato realtà; una situazione distopica di cui solamente adesso tante persone cominciano a rendersi conto. Venendo infatti meno l’alternativa tra visioni del mondo e modelli politici alternativi, i partiti politici si riposizionarono come semplici varianti dell’unica visione del mondo rimasta – quella neoliberista -, ossia quella visione del mondo fondata sull’ideologia del primato del capitale sulla politica, sull’idea del governo dei cosiddetti competenti (intesi come coloro che sanno come soddisfare il mitologico mercato adeguando lo Stato e la democrazia alle sue esigenze) e sul primato morale e militare di Washington nel pianeta. “A partire dagli anni ottanta” scrive Costa “si passò da partiti politici che rappresentavano un’alternanza al modo di produzione capitalistico a partiti che della sua stabilizzazione e modernizzazione fanno la base del loro progetto politico”; quest’unica visione del mondo e della politica, di matrice anglosassone, scalzò nel nostro paese tanto la tradizione socialista quanto quella del popolarismo cattolico, le tradizioni che, più di ogni altra, avevano condizionato la nostra vita politica e ispirato la nostra Costituzione, tradizioni politiche e culturali che ancora condividevano una visione della politica fondata sull’idea dell’emancipazione materiale e morale della maggioranza delle persone, della lotta ai privilegi e della pace internazionale attraverso la cooperazione e la diplomazia. Va da sé che, scomparendo tutto questo dall’orizzonte culturale e politico, destra e sinistra hanno pian piano assunto significati completamente diversi, se non opposti, rispetto a quelli novecenteschi.
Il risultato più eclatante di questa trasformazione del campo politico fu la scomparsa del tema della redistribuzione della ricchezza e dell’emancipazione delle classi popolari dai progetti politici dei partiti: “Nel corso di queste trasformazioni” scrive Costa “le classi subalterne cessarono di essere un soggetto storico. Un soggetto ancora posto al centro sia dalla tradizione socialista che da quella del popolarismo cattolico. La loro emancipazione non fu più parte del progetto politico.”; e se quindi, nel corso della Prima Repubblica, i partiti di massa si erano posti come obiettivo l’inclusione delle masse popolari nella vita politica nazionale, con gli anni ‘80 iniziò un processo opposto, ossia di graduale esclusione delle masse popolari dalla vita politica. Secondo questo cambio di paradigma, le classi popolari non dovevano più esser le protagoniste e il fine della vita politica, ma coloro che – dato il loro stato di minorità – si dovevano limitare a scegliere dei candidati esprimendo delle preferenze: c’è, insomma, un’élite illuminata che decide la rosa di coloro che possono essere eletti e che possono governare; compito degli elettori è quello di scegliere entro quella rosa prestabilita.
Forse ancora più decisiva e strutturale però, è stata la trasformazione del ruolo e della funzione della politica nazionale nel suo complesso perché, come conseguenza dell’ideologia neoliberista, il sistema politico ha perso progressivamente la propria autonomia ed è diventato semplicemente un sottosistema di quello economico e finanziario: la funzione della politica neoliberista di destra, centro e sinistra, scrive Costa “venne a consistere nell’adattare le istituzioni e l’impianto legislativo alle esigenze del mercato, rendendo possibile il libero dispiegamento delle sue dinamiche naturali”; in tutto questo – perché forse è bene sempre ricordarlo – l’amministrazione dell’esistente intesa come mera esecuzione delle scelte politiche prese dai mercati (e quindi, oggi, dalle oligarchie finanziare che il mercato lo muovono e dalla superpotenza militare a cui fanno riferimento) ha significato per l’Italia un disastroso declino economico, la distruzione dello stato sociale, la diminuzione di salari e pensioni e l’aumento della povertà e della disoccupazione: questo è il risultato tangibile di 30 anni di neoliberismo e, nonostante sia da anni sotto gli occhi di tutti, sovranismo, qualunquismo e populismo sono state le accuse pronte ad essere indirizzate da partiti e intellettuali di regime contro chi osava mostrare perplessità sul migliore dei mondi possibili.
Per chi, infatti, è il migliore dei mondi possibili? dovremmo chiederci: per l’Italia e per le classi lavoratrici occidentali? Per la partecipazione del popolo al potere? A quanto pare no.
Ma l’offensiva delle oligarchie e della superpotenza contro le classi popolari italiane non si è fermata qui, perché furono anche i loro valori e le loro forme di legame a finire sotto attacco: “Il loro attaccamento alle tradizioni, le loro forme di legame solidaristico, il loro rifiuto di uno stile di vita competitivo e comparativo, così come i loro modi di sentire la vita, furono declassati a mero residuo del passato” scrive Costa, una roba antimoderna da buttare sostanzialmente nel cesso della storia per abbracciare, senza sé e senza ma, le forme culturali chic ipercapitaliste che ci venivano proposte dal centro dell’impero; specialmente, come vedremo tra poco, per la cosiddetta sinstra ZTL, in questo straordinario stravolgimento della realtà le classi popolari non solo cessarono di essere le classi da emancipare, ma le loro forme culturali il modello da cui emanciparsi per diventare finalmente liberi e moderni.
Solo adesso, quindi, possiamo capire l’emergere di TonyBlair in Inghilterra, di Schroeder in Germania e del PD in Italia, ossia della classe dirigente che traghettò le culture del socialismo e del popolarismo cristiano verso il partito unico neoliberale. E così, riflette Costa, per far felici i nuovi padroni del mondo “la vecchia novecentesca contrapposizione tra capitale e lavoro doveva cedere il passo a una sinistra pragmatica, concreta, gestionale, e le stesse differenze tra destra e sinistra dovevano essere considerate in una prospettiva di un’alternanza ma senza reale alternativa”; “La nuova destra teorizzata da Alessandro Campi e la nuova sinistra auspicata da molti intellettuali progressisti convergevano su ciò: l’orizzonte politico entro cui siamo entrati prevede avvicendamento di governi, senza che ciò metta in discussione il sistema delle compatibilità previste dall’ordine del mercato.” Ma, conclude Costa, “Se la politica non è il luogo della trasformazione storica che incide su privilegi e disuguaglianze, allora destra/sinistra è, logicamente, una distinzione tutta interna alle classi dominanti.” Ancora nel 2013, su Repubblica, Massimo Cacciari, uno degli intellettuali più organici a questo cambiamento della sinistra e, quindi, tra i più invitati dai salotti televisivi, scriveva: “I valori in politica sono i buoni progetti. Che la politica possa rendere giusto il mondo lo raccontano nei comizi”.
Il neolibersimo, insomma, ha trasformato la politica in mera amministrazione di condominio, che si chiami Italia oppure Unione europea: una mera gestione tecnica di questioni che nulla hanno a che fare con la lotta alla disuguaglianza o i rapporti di forza e i sistemi di potere storicamente determinati con i relativi privilegi. Di qui, una serie anche di slittamenti di significato dei termini politici novecenteschi che Costa fa bene a ricordare: il primo riguarda il termine riformista che, nella storia del movimento operaio e socialista, alludeva a una via, a una società più libera e giusta fatta di passaggi graduali resi possibili dal sistema parlamentare; riforme significava, insomma, riforme strutturali che permettessero gradualmente una maggiore partecipazione del popolo alla politica, quindi una maggiore distribuzione della ricchezza, quindi una maggiore libertà per tutti gli individui. “Nella riformulazione che conduce ai nostri giorni invece” scrive Costa “la nozione di riformismo venne a indicare una politica che tende a mantenere l’efficienza del sistema attraverso lo smantellamento dei diritti sociali: riforme venne a significare introduzione di elementi di liberalismo, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro. Riformismo non si coniuga più con trasformazione sociale, ma con efficienza sistemica.” In questo slittamento semantico, anche il termine giustizia ha cambiato di significato per diventare non il risultato della lotta dal basso contro i privilegi, ma, al contrario, una sorta di dono che viene concesso dall’élite dall’alto della loro superiorità morale: per le élite della sinistra ZTL, scrive il professore di filosofia “La giustizia diviene un dono concesso dall’alto, non una conquista dal basso. La sinistra filantropica è ai buoni sentimenti che fa appello, non all’analisi delle contraddizioni oggettive di un regime politico-economico storicamente determinato.”
Ovviamente, per conservare l’esistente e difendere il regime che, ricordiamocelo sempre, è da sempre l’unico vero scopo e funzione della sinistra ZTL, ogni conflitto di classe deve essere non solo sopito, ma addirittura negato: “Ma quale conflitto di classe?” ci racconta la sinistra ZTL; “Non esistono le classi sociali! È un concetto superato, novecentesco. Esistono i buoni da una parte, ossia noi, poi quelli arretrati che ancora credono alla nazione e ai valori tradizionali e, infine, gli estremisti senza scampo, che sono rimasti al ‘900 e ancora non hanno capito che il capitalismo e l’America avranno anche forse dei difetti, ma sono assolutamente necessari” pensa la sinistra ZTL. La logica conseguenza di questa ideologia di regime, scrive Costa, è che “Non occorre redistribuire il profitto, ma favorire i processi di accumulazione del capitale. Non si tratta più, pertanto, di criticare o di contestare il capitalismo o l’ordine di mercato per la sua irrazionalità strutturale come aveva fatto il marxismo, né di contestarlo in quanto sistema che, generando differenze di ricchezza, genera anche differenze di potere e strutture di subordinazione. Si tratta solo di farlo funzionare, di favorire il processo di accumulazione del capitale e la sua circolazione. Il concetto di emancipazione viene sostituito dal concetto di crescita.”
Se ci pensiamo bene infatti, ogni provvedimento legislativo è stato infatti valutato, negli ultimi decenni, sempre e solo a partire dalla domanda Come reagiranno i mercati? È solo il mercato infatti, e cioè le oligarchie economiche e l’impero che lo governano, ad essere diventato l’unico giudice politico; è solo il mercato a dire se un governo è un buon governo, “per cui” continua Costa “da un lato il sistema politico diviene dipendente dal sistema economico-finanziario, perché è questo a dettare le condizioni di verità del suo operato, dall’altro le classi popolari devono accettare il verdetto di questo Dio che, a rigore, si presenta adesso come un Dio immortale, origine di ogni senso e di ogni verità, che elargisce premi a quei governi e quelle comunità che osservano le sue leggi ferree e punizioni a quelle che le violano.” Forse adesso, dopo tutti i ragionamenti, si capiscono anche meglio le ragioni dell’amore spasmodico della sinistra ZTL e del sistema nel suo complesso per i governi tecnici. Ce lo ricordiamo tutti: prima Monti, ma poi soprattutto Draghi; canti, ovazioni, redazione di Repubblica. Finalmente erano arrivati gli uomini della provvidenza. Effettivamente, essendo il mitologico mercato l’unico sovrano della politica, l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno è di un esecutore efficiente delle sue volontà, uno che finalmente si lasci alle spalle la politica vecchio stampo – fatta ancora di parlamenti, partiti ed elettori – e proceda con saggezza alla modernizzazione del paese. Lasciatelo lavorare urlavano frementi i giornalisti della sinistra ZTL impauriti dall’idea che rappresentanti del popolo potessero essere d’intralcio all’uomo di Goldman Sachs. Escluso che la politica debba fare altro che assecondare gli interessi dei mercati, ci conferma Costa “L’esito fu la propensione per governi tecnici che nessuno ha eletto, dettati da stati di eccezione continui. I governi non devono infatti esprimere l’opinione pubblica, non devono rappresentare il popolo e l’articolarsi del mondo della vita: devono dargli forma.”: e chi meglio di un tecnico illuminato che ha lavorato a stretto contatto con la finanza ed è un fedele servitore dell’impero è in grado di farlo? Come ebbe a dire Mario Monti in un’intervista a Time, l’obiettivo del suo governo era cambiare “la cultura e un certo modo di vivere e di lavorare degli italiani”. Sono, insomma, queste le ragioni profonde dell’amore dei cosiddetti antifascisti di Repubblica e del Corriere per tecnici autocrati privi di mandato popolare a cui vorrebbero sostanzialmente dare pieno potere.
Ma come hanno fatto i partiti della sinistra ZTL a salvarsi la faccia di fronte ad un’opinione pubblica che, fino a qualche tempo fa, ancora aveva nel suo immaginario le parole d’ordine del socialismo e del popolarismo cattolico? La risposta, argomenta Costa, è che cessando di combattere le discriminazioni e le diseguaglianze economiche, si sono cominciati a spacciare come i paladini dei cosiddetti diversi: non più, quindi, lotta politica per l’emancipazione delle classi popolari, ma lotta per la tutela delle minoranze etniche, religiose e sessuali la cui inclusione nel migliore dei mondi possibili (se sei ricco o puoi emigrare) non deve certo essere impedita a nessuno dagli egoisti e beceri fascisti e sovranisti; “L’inclusione stessa dei diversi – a cui la sinistra progressista si richiama come alla sua caratteristica di fondo – diventa il modo in cui ci si autorizza a tacere dell’esclusione di chi subisce il mercato” scrive Costa. “L’inclusione progressista è un’inclusione che esclude. Viene inclusa ogni differenza che non turba l’ordine di mercato, ed esclusa (al punto che non ha né voce né rappresentazione nella sfera pubblica) ogni differenza che sarebbe contestazione del mercato e dei rapporti di dominio da esso generati.” E, così, i temi della giustizia e dell’uguaglianza vengono incredibilmente sganciati da quelli della ricchezza e del potere e si occulta in tutti i modi il fatto, evidente a tutti, che chi ha denaro ha potere sugli altri e che i veri discriminati sono sempre i poveri, indipendentemente dall’essere donne, musulmani o di colore; e si tenta di far credere che a dover essere emancipate sono le cosiddette minoranze, indipendentemente dal loro reddito. Ancora nel ‘900, quando non si era completamente obnubilati dalla propaganda neoliberista, lo si sapeva tutti: è la differenza di ricchezza il vero grande pericolo per la libertà di tutti, ma perdendosi nel proprio mondo autoreferenziale (spacciato persino per realismo e pragmatismo) la sinistra ZTL ha invece completamente rimosso il reale anche se forse, scrive Costa, “dovremmo parlare di negazione del reale, di una sorta di difesa primitiva attorno a cui è strutturata la cultura progressista.”
Arrivati a questo punto, in questa radiografia ideologica e politica della sinistra ZTL, mancherebbe solo un ultimo penosissimo passaggio: la politica estera; e si potrebbero passare ore a parlare dell’armamentario ideologico del partito unico neoliberista quando si tratta di giustificare l’occupazione americana del nostro Paese o del suo imperialismo nel mondo. La sinistra ZTL anche in questo ha reciso ogni legame con il socialismo e tradito ogni tipo di riferimento alla pace e alla cooperazione tra stati sovrani, ma – in fondo – è pur sempre domenica e Ottolina Tv sono mesi che ha sviscerato l’argomento in lungo e in largo; per concludere, invece, possiamo dire che la sinistra ZTL e la destra ZTL (a cui dedicheremo uno dei prossimi video) sono un’espressione culturale vincente dell’imperialismo e dell’eterna lotta di classe dall’alto verso il basso, lotta che adesso anche il 99 per cento deve riprendere a combattere. La buona notizia è che adesso anche tu puoi decidere se continuare a ripetere a pappagallo la propaganda e continuare difendere con le unghie il regime oppure, magari, saltare dal nostro lato della barricata e cominciare tutti insieme una nuova storia. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mario Draghi

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Oltre destra e sinistra – Come superare i nostri schemi mentali funzionali al capitalismo e all’impero

Nel suo ultimo libro Le categorie della Politica; oltre destra e sinistra Vincenzo Costa critica le categorie politiche tradizionali di destra e sinistra e prova a formularne di nuove. Oggi sia dal punto di vista politico che mentale queste categorie sono semplici varianti di un unica visione del mondo, quella neoliberista, fondata sull’egemonia americana in Europa e sul dominio economico delle oligarchie finanziarie, che mirano a distruggere ogni pratica democratica e depredare ricchezze dal basso verso l’alto. Come possiamo reagire?

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

L’ignobile teatrino di Meloni la svendipatria in ginocchio a Bruxelles per trattare la resa italiana

Come cambiano rapidamente le cose! Soltanto lunedì, tutta la propaganda filogovernativa era in brodo di giuggiole e annunciava una rivoluzione imminente: Meloni alza la posta titolava il Giornanale; cambieremo anche l’Europa. Nuova UE? si chiedeva il combattivo Maurizio Beldidietro su La Verità; Meloni ci mette la faccia: “Grazie a una donna che non ha mai rinnegato il suo passato” sottolineava Beldidietro “il nostro Paese ha più peso di prima, forse addirittura di quando a condurlo era san Mariopio da Goldman Sachs”. A galvanizzare l’orgoglio dei fintosovranisti era stata l’astensione dei partiti di maggioranza quando, pochi giorni prima, era arrivata nell’aula del parlamento europeo la riforma del patto di stabilità, una non riforma che, dopo una breve pausa, reintroduce i dogmi religiosi dell’austerity, ma on steroids perché, nel frattempo, il debito pubblico è aumentato a dismisura e i tassi d’interesse sono letteralmente esplosi e, nonostante gli annunci, al momento non sembrano destinati a diminuire granché. Come ha affermato Madis Muller, il governatore della Banca centrale estone, a Bloomberg “I rischi geopolitici comportano rischi per l’inflazione” e “la Banca centrale europea non dovrebbe affrettare ulteriori tagli dei tassi dopo giugno”, un concetto che ha ribadito anche il vicepresidente della Banca centrale Luis de Guindos lunedì da Londra davanti ai membri dell’Euro 50 group, una delle tante conventicole informali che collaborano alla definizione dell’agenda delle oligarchie finanziarie dell’Occidente collettivo: “Anche se prevediamo che l’inflazione ritorni al nostro obiettivo del 2% l’anno prossimo, le prospettive sono circondate da rischi sostanziali” ha affermato; “La situazione geopolitica, soprattutto in Medio Oriente, pone un particolare rischio al rialzo per l’inflazione”. Tradotto: non scommettete su una riduzione rapida dei tassi d’interesse perché ci rimarreste scottati.
La reintroduzione del patto di stabilità, anche se riformato, con un debito esploso e i tassi di interesse alle stelle significa una cosa sola: la mazzata definitiva allo stato sociale e una bella lunga fase di recessione senza via d’uscita che, alla fine del giro, si traduce immancabilmente esattamente in quello che – a chiacchiere – avrebbe dovuto scongiurare e, cioè, un rapporto debito/PIL sempre peggiore, perché se mentre provi a tagliare la spesa il PIL, inevitabilmente, crolla, il rapporto sempre lì rimane (quando non peggiora); una spirale perversa che conosciamo già benissimo e che, a questo giro in particolare, più di ogni altro paese riguarda proprio l’Italia, che non ha nessuna chance di uscirne viva. Se non fosse per la cazzimma dei patrioti della maggioranza che, la settimana scorsa, hanno mostrato i denti: ricordate? 24 aprile, Libero: Patto di stabilità, gli italiani si astengono. I partiti del centrodestra: riforma poco coraggiosa, la cambieremo dopo il voto. La riforma del patto è “un’occasione mancata da parte della UE” denunciava la Lega; “Anziché puntare su un netto cambiamento rispetto al passato, la UE ha scelto di non voltare pagina rispetto a un modello economico che ha mostrato tutti i suoi limiti, in cui prevale l’aspetto dell’austerità”. La cosa divertente è che a fargli la pubblicità migliore, come spesso accade, anche a questo giro è stata l’opposizione e la sua incredibile macchina propagandistica: No al patto UE, Meloni dà battaglia titolava La Stampa; La Repubblichina rilanciava con un gigantesco UE, il patto tradito: incoerenti e inaffidabili, la retromarcia della destra ci allontana dall’Europa. Il Domani, che ormai sembra proprio una caricatura degli aspetti più cringe della sinistra ZTL, era letteralmente in lacrime: Patto di stabilità, figuraccia dell’Italia: la destra si astiene; completamente scollegati dalla realtà e obnubilati dai fiumi di alcol che innaffiano, giustamente, le innumerevoli apericene delle terrazze romane in stile La grande bellezza, i sinistronzi sono davvero convinti che accusando Meloni & company di essere scorretti nei confronti dell’establishment di Bruxelles, l’elettore medio si ravveda e corra a confessare i suoi peccati a Carletto librocuore Calenda.
E’ esattamente lo stesso, identico, tragicomico film che era andato in scena ai tempi della tassa sugli extraprofitti delle banche: ricordate? La propaganda fintosovranista filogovernativa aveva annunciato in pompa magna l’introduzione, da parte del governo dei patrioti, di una sacrosanta tassa sui giganteschi profitti che le banche hanno realizzato truffando letteralmente i loro correntisti, che non avevano ricevuto un euro di interessi sui loro depositi mentre le banche incassavano cifre stratosferiche da mutui che, grazie all’aumento dei tassi di interesse, erano raddoppiati; la sinistra ZTL allora, invece che sottolineare la portata limitata dell’iniziativa e fomentare le folle a non accontentarsi delle briciole, aveva avuto la geniale trovata di difendere le banche e i banchieri multimiliardari: “E’ un attentato al libero mercato”; “Così metti a rischio i conti delle banche”. Quando si dice essere in sintonia col sentimento popolare… Allora, ovviamente, noi ci buttammo come degli avvoltoi a banchettare sulle carcasse della sinistra ZTL e dedicammo un intero video a questo epic fail dei progressisti che odiano il volgo e l’interesse nazionale; come ampiamente prevedibile, però, manco il tempo di festeggiare la prima misura vagamente popolare di questo governo di svendipatria ed ecco che erano già cominciati ad arrivare i primi indizi di marcia indietro fino a che, in mezzo al silenzio totale, la tassa non è scomparsa nel nulla: era stato uno scherzo che, tra l’altro, nel frattempo aveva permesso a una manciata di speculatori di incassare qualche centinaio di milioni con la più banale e prevedibile manovra di scommesse al ribasso che puzza di vera e propria truffa da chilometri di distanza. Alla fine di quel giro, nella sfrenata competizione a chi svende meglio gli interessi del Paese, il governo dei fintosovranisti era riuscito a superare anche la sinistra ZTL; come sarà andata a finire a questo nuovo giro?
Prima di scoprirlo, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi sui nostri canali e attivare tutte le notifiche: a voi porta via 10 secondi di tempo; per noi fa la differenza e ci aiuta a provare a evitare la guerra a colpi di armi di distrazione di massa combattuta, fino all’ultima puttanata, da sinistra ZTL e alt right.
Dopo l’esperienza traumatica dell’inspiegabile scomparsa della tassa del governo dei patrioti sugli extraprofitti della banche rapinatrici, a questo giro, prima di accanirci sull’ennesimo epic fail delle groupies di Mario Monti ed Elsa Fornero, abbiamo deciso di aspettare di vedere come andava a finire la faccenda e – devo confessare – non è stato per niente facile; la serie di assist che c’hanno fornito, infatti, è veramente ragguardevole: tra tutti, una menzione speciale per il prestigioso premio analfoliberale della settimana va senz’altro all’editorialista della Repubblichina Andrea Bonanni. Bonanni sottolinea come quello che è andato in scena al parlamento europeo è “il plateale fallimento dell’attuale classe politica italiana” perché “il ritorno del patto pone dei limiti alla spesa”, ma “le nuove norme sono molto più morbide” che in passato e, per un paese indebitato come l’Italia, rappresentano “una scelta obbligata dal buon senso”, soprattutto dal momento che permettono comunque “di continuare gli investimenti produttivi”, che è un po’ come dire che dare una vaschetta di prugne a uno che si sta squagliando per la cacherella è una scelta di buon senso, dal momento che – altrimenti – le prugne andrebbero buttate per terra e si sporcherebbe il pavimento e che, comunque, bisogna essere felici perché a queste prugne c’hanno levato il nocciolo (e quindi morirai disidratato entro un paio di settimane, ma almeno, nel frattempo, non ti strozzi).

Francesco Lollobrigida

Ciononostante abbiamo resistito e, immancabilmente, anche a questo giro il governo degli svendipatria non ci ha tradito: Via libera al nuovo patto di stabilità titolava martedì La Stampa: sì dell’Italia dopo l’astensione in Aula. Il sì definitivo del governo è arrivato nell’ambito della riunione dei ministri dell’Agricoltura dove, ad astenersi, i barricaderi italiani hanno lasciato da soli i poveri belgi: una figura di merda talmente epica che il titolare del dicastero, l’uomo che fermava i treni, il cognato d’oro d’Italia, al secolo Francesco Lollobrigida, non ha avuto manco il coraggio di presentarsi; c’ha mandato il suo vice che, tra l’altro, è un leghista. Uno sgambetto in piena regola che il principale partito di governo aveva pianificato da tempo: quando, la scorsa settimana, anche Fratelli d’Italia aveva sconfessato l’azione del governo con l’astensione, infatti, la colpa era stata attribuita proprio ai leghisti che avevano deciso di astenersi comunque; e così, per non fare la figura dell’unico partito che obbediva ciecamente alla disciplina anti-italiana di Bruxelles, regalando una marea di voti ai loro alleati/competitor aveva costretto a fare altrettanto anche al partito della madrecristiana. D’altronde Il Giornanale lo rivendicava pure: “Il nodo politico” scriveva “era tenere la maggioranza compatta per evitare fughe del Carroccio in vista delle elezioni”. Ad esser maligni, viene quasi da sospettare che Giorgia la madrecristiana, sempre alla ricerca dell’approvazione dei suoi superiori (come col bacino sulla fronte di Rimbabiden) sia magari pure andata a chiedere il permesso, della serie fateci lanciare quest’arma di distrazione di massa, che tanto non comporta niente, altrimenti capace alle europee vi trovate con una marea di parlamentari leghisti in più ed è peggio per tutti, che quelli sono amici di Putin e non è detto siano sempre completamente appecorati come noi. Con l’approvazione definitiva della riforma, ora, come riassume La Stampa, si va incontro a un “taglio deciso e a ritmi serrati del debito, maggiore riduzione del deficit, e poi riforme strutturali a gogo” e a differenza del vecchio patto di stabilità che sì, era più rigido, ma era talmente rigido e irrealistico che alla fine nessuno l’aveva mai rispettato e le infrazioni ormai finivano sistematicamente nel dimenticatoio, col patto riformato “Le regole dovranno essere attuate da subito, pena multe salate che potrebbero arrivare già a giugno”.
Ma perché Giorgiona la madrecristiana e il suo cerchio magico, cresciuti nel mito di Mussolini che Tutto quello che ha fatto, l’ha fatto per l’Italia (cit. Giorgia Meloni), si riducono a imporre all’Italia manovre lacrime e sangue per fare contento l’establishment globalista e liberale di Bruxelles che tanto odiano? Prima di tutto perché è gratis: l’unica opposizione reale al partito unico della guerra e degli affari temporaneamente rappresentato da Giorgia la madrecristiana, infatti, è quella di Giuseppe Conte e dei 5 stelle, l’unico che non si è limitato a mettere la testa sotto la sabbia con l’astensione, ma ha votato contro; “Questo è un governo di patrioti che sta svendendo l’Italia” ha commentato in modo molto ottolino. Ma lo spettro di Daddy Conte non sembra poter impensierire minimamente Giorgia la madrecristiana anche perché, come è stato ampiamente dimostrato, non gode del sostegno dell’establishment di Bruxelles e di Washington senza il quale, molto banalmente, in Italia al governo non ci vai o se, per qualche bug temporaneo nel sistema, ci vai, duri come un gatto in tangenziale.
L’unica opposizione possibile perché organica all’establishment (ancora più di Giorgia stessa) rimane, appunto, quella della sinistra ZTL, dove regna sovrana l’egemonia delle oligarchie transnazionali rappresentate dal gruppo GEDI, un’opposizione che condivide con Giorgia tutte le misure anti-italiane e antipopolari – dalla politica internazionale all’austerity come strumento della lotta di classe dall’alto contro il basso – e che basa tutta la sua battaglia politica sulla guerra culturale che però, ormai, sembra aver definitivamente perso. Giorgia lo sa benissimo ed è per questo che domenica scorsa gli ha dedicato il grosso del lungo comizio che ha tenuto per la chiusura della convention di Fratelli d’Italia a Pescara, scaldando i cuori della sua fan base: La Meloni si candida e promette una spallata alle follie green dell’UE titolava entusiasta La Verità, il giornale di riferimento dell’alt right italiana. Oltre all’immancabile crociata contro l’ideologia green, il discorso di Giorgia è un decalogo esaustivo di tutte le armi di distrazione di massa messe in campo negli anni dai fintosovranisti: dall’Europa che volevano si liberasse della sua identità religiosa e oggi invoca la chiusura delle scuole per la fine del Ramadan al politicamente corretto, tanto di moda nei salotti bene dei quartieri chic delle grandi città occidentali, per finire con l’esigenza di continuare a parlare di mamma e di papà in un’epoca che ha perso il senso dei confini dettati dalla natura, Giorgia coglie con maestria tutte le occasioni che un dibattito pubblico a dir poco demenziale gli ha offerto su un piatto d’argento; e allo zoccolo duro del blocco sociale che la sostiene, tanto basta.
E alla fine anche agli altri, tutto sommato, va bene così perché, nel frattempo, l’agenda del partito unico degli affari e della guerra procede incontrastata su entrambe le gambe: quella militare da un lato – e, cioè, la costruzione della NATO globale e la guerra totale contro i paesi che si ribellano all’imperialismo fondato sul dominio del dollaro e del pentagono – e quella finanziaria – e, cioè, la finanziarizzazione dell’economia degli alleati vassalli di Washington, che è la precondizione affinché gli USA possano permettere alle colonie di armarsi senza temere che le colonie stesse usino la loro forza militare per ritagliarsi uno spazio di autonomia strategica, perché totalmente dipendenti e subordinati al capitale finanziario gestito dai monopoli finanziari privati a stelle e strisce. L’approvazione della riforma del patto di stabilità da parte del governo degli svendipatria dopo il teatrino dell’astensione della settimana scorsa, fa parte esattamente di questo vero e proprio progetto eversivo e anticostituzionale e totalmente bipartisan: una fetta enorme della nostra spesa pubblica, infatti, serve a finanziare il sistema previdenziale e quello sanitario; obbligare il nostro paese, grazie al vincolo esterno, a contenere il deficit mentre sempre più soldi servono per pagare gli interessi sul debito, significa – in soldoni – tagliare drasticamente pensioni e sanità. E quello che manca dovranno pagarlo direttamente i cittadini che, dopo 30 anni di stagnazione salariale, devono essere costretti a destinare una quota sempre maggiore del loro misero reddito residuo ai fondi privati che gli garantiranno di avere una pensione dignitosa e di potersi curare in qualche modo; e questi fondi che gestiscono i soldi (che prima potevamo spendere allegramente per vivere dignitosamente e, d’ora in poi, serviranno per evitare di morire di fame o di malattie) sono i mattoncini di base dell’economia completamente finanziarizzata che le diverse fazioni del partito unico degli affari e della guerra stanno costruendo sulla nostra pelle. Ma non vi incazzate, mi raccomando: pensate che, secondo quanto prospettato da Draghi e da Letta, una bella fetta di queste risorse serviranno per più che raddoppiare la nostra industria bellica, che è indispensabile per andare a sterminare i bambini palestinesi e chissà di quale altro popolo in futuro; insomma, è un sacrificio, ma tutto sommato è per una buona causa.
Al piano distopico della privatizzazione di pensioni e sanità (che la Meloni rende sempre più necessario grazie al suo sì al nuovo patto di stabilità) dedica un paio di articoli molto istruttivi l’inserto economico de La Repubblichina, il principale giornale della finta opposizione al governo dei fintosovranisti: il primo pubblicizza un grande evento di Affari & Finanza dedicato alla previdenza complementare e fa un quadro esaustivo della cuccagna che attende le oligarchie finanziarie; l’articolo, infatti, ricorda come se oggi, in media, la nostra pensione è pari all’81,5% del nostro ultimo stipendio, nel 2050 questa percentuale, nonostante l’aumento dell’età lavorativa, scenderà al 67,6% che per la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani, molto banalmente, non è sufficiente per vivere. “In questo scenario” sottolinea l’articolo “ben si capisce come il ricorso alla previdenza complementare possa ribilanciare la componente pubblica destinata ad assottigliarsi sempre più”; eppure, continua rammaricato l’articolo, “nel nostro paese sono ancora in pochi ad aver intrapreso questa strada”: secondo le stime dello Studio Ambrosetti “La previdenza pubblica oggi contribuisce per il 75% al reddito degli individui con più di 65 anni, mentre la previdenza complementare solo per il 5,3%”. In Germania, elenca con malcelata invidia, sono già al 13,7; in Francia al 15,4 – e questi sono i dilettanti; tra i professionisti, nel Regno Unito si arriva al 41,8, nei Paesi Bassi al 44,9. Le risorse gestite dalla previdenza complementare in Italia sono, in soldoni, ancora spiccioli: appena 223 miliardi, il 12,7% del PIL; non ci compri nemmeno il 10% di una big tech americana (e infatti siamo a un decimo della media OCSE). Quel che manca ancora è una vera e propria miniera d’oro.

Il gruppo JEDI

Il gruppo GEDI sul tema ha organizzato una mega convention che vedrà la partecipazione di tutti i peggiori squali della finanza che discuteranno di come accelerare la finanziarizzazione; ovviamente si parlerà anche di un po’ di cazzate, come l’educazione finanziaria che oggi “colloca l’Italia tristemente all’ultimo posto tra i paesi europei”, ma la ciccia, ovviamente, sta tutta da un’altra parte: rendere il ricorso alla previdenza integrativa sempre più urgente e inevitabile tagliando tutto il tagliabile e, in questo senso, la previdenza deve lavorare in tandem con la sanità. Gli italiani, infatti, possono ancora illudersi di potersi accontentare di sopravvivere con pensioni nettamente inferiori ai loro salari in uscita perché, comunque, hanno ancora accesso a un servizio sanitario che, per quanto devastato, è ancora universale e gratuito; per incentivarli, quindi, il modo migliore è raderlo letteralmente al suolo e, già che ci siamo, affidare quel poco che rimane ad altri fondi integrativi.
Ed è a questo che è dedicato l’altro articolo di Affari & Finanza: Per la sanità integrativa l’obiettivo è far crescere la platea degli iscritti titola. La frustrazione per i privati, nel caso della sanità integrativa, è ancora maggiore che nel caso della previdenza perché la torta, ad oggi, è stata appena appena intaccata: in tutto, infatti, in Italia ad oggi sono iscritti a fondi sanitari integrativi soltanto 16,5 milioni di italiani e raccolgono appena 4 miliardi di euro all’anno; e in grandissima parte si tratta di fondi di categoria, previsti dai contratti collettivi nazionali. Una roba che puzza ancora troppo di socialismo anche se, sottolinea Nino Cartabellotta della Fondazione GIMBE, ha già fatto i suoi bei danni: quando sono stati istituiti nel 1992, infatti, i fondi integrativi dovevano essere dedicati sostanzialmente solo alle prestazioni che non rientrano nei livelli essenziali di assistenza che dovrebbero essere garantiti dal servizio sanitario pubblico; parliamo quindi di prestazioni odontoiatriche, fisioterapia, check up, prevenzione e robe simili, “ma nel corso degli anni” ricorda Cartabellotta “una serie di provvedimenti normativi varati da diversi governi ha previsto che i fondi possano erogare anche fino all’80% delle prestazioni offerte dal servizio sanitario nazionale”. Ora, quindi, che l’idea dei fondi integrativi, passo dopo passo, si è evoluta verso una sostituzione del servizio sanitario e con la spesa sanitaria pubblica che è già oggi il fanalino di coda dell’Europa (ed era già previsto venisse ridotta di poco meno del 15% nei prossimi 3 anni prima ancora che si tornasse a parlare di austerity), la torta è bella pronta per essere infornata e servita agli oligarchi. E su questo, i fautori delle follie green e del politicamente corretto e quelli della grande rivoluzione conservatrice, come la definisce Sechi su Libero, un modo di fare pace lo trovano sempre.
Contro il disegno eversivo del partito unico della guerra e degli affari e contro le armi di distrazione di massa della guerra culturale tra scemo e più scemo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce ai bisogni concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Roberto Saviano

Ma l’Italia è davvero a rischio fascismo? – Il tradimento delle sinistre occidentali

Ma in Italia c’è davvero un pericolo fascismo? Ma non è che, forse, le finte sinistre continuano a tirare fuori il mitologico ritorno del fascismo per nascondere il fatto che sono prime collaboratrici del vero potere totalitario e repressivo di oggi – e, cioè, il capitalismo neoliberista?
Riguardo alla cancellazione del monologo di Scurati dalla RAI per il 25 aprile, possiamo dire questo: da sempre i governi in carica cercano il più possibile di utilizzare la RAI come proprio megafono e, per quanto sia ovviamente una pratica sbagliata, non è certo una novità del governo Meloni; nel caso specifico non si sa ancora bene cosa sia successo, ma è verosimile che i vertici RAI abbiano preso l’iniziativa di cancellare il discorso per non scontentare la padroncina. Come dicevamo, non è certo una novità e ogni tentativo di riformare la RAIper farla diventare indipendente da partiti è da sempre miseramente fallito e questo perché, in fondo, a tutti gli schieramenti piace e fa comodo così.
Molto più interessante, invece, è cercare di capire le ragioni per le quali la sinistra neoliberista, capitalista e filoamericana tiri continuamente fuori il pericolo della presunta deriva fascista e dittatoriale: se aprite anche oggi il sito di Repubblica, infatti, sembra che Scurati sia un martire della libertà e della democrazia e che il direttore Molinari, cantore, in questi mesi, della soluzione finale del popolo palestinese, sia assurto a nuovo Gobetti o Matteotti. La ragione principale di questa messinscena, come già profetizzava Pasolini negli anni ‘70, è che la finta sinistra della ZTL si proclama antifascista in assenza di fascismo per non essere anticapitalista e anti-imperialista in presenza di capitalismo e imperialismo americano. Davvero degli eroi.
Da quando ha abbandonato le proprie radici socialiste per diventare una semplice variante del partito unico neoliberista filoamericano che governa l’Italia da 30 anni, l’unica strategia elettorale rimasta alla sinistra per distinguersi dalla destra e far finta di rappresentare un’alternativa è, infatti, quella di far credere che in Italia ci sia sempre un imminente pericolo fascista alla porta a cui sarebbero l’unico argine: “Votate noi, perché quelli sono fascisti, con quelli c’è il rischio della deriva autoritaria e la democrazia è in pericolo!” Ma tutto questo polverone serve solo a nascondere un fatto chiarissimo a chi abbia un minimo di buonsenso e non sia completamente obnubilato dalla propaganda: che oggi, per la nostra comunità e per la nostra Costituzione, il pericolo non si chiama fascismo e questo perché il potere di oggi non ha nulla a che vedere con l’olio di ricino, il partito unico fascista, l’abolizione delle elezioni, le leggi razziali e una possibile dichiarazione di guerra alla Grecia.
Il potere da combattere si chiama, da una parte, capitalismo neoliberista ed è il potere che ha finanziarizzato il capitale, sta smantellando lo stato sociale e i servizi pubblici, sta impoverendo i ceti medi e popolari e sta creando delle oligarchie economiche con molto più potere decisionale della classi dirigenti nazionali e, dall’altra, il potere da combattere per noi oggi si chiama imperialismo americano, che è una continua fonte di destabilizzazione e guerre nel mondo, che impedisce un funzionamento democratico del diritto internazionale e che noi italiani subiamo nella forma di un’occupazione militare da 80 anni e di infiltrazione in tutti gli apparati statali che condizionano la vita politica. Ecco: rispetto a questo potere i partiti di destra e sinistra sono perfettamente ed ugualmente collaborazionisti: hanno portato avanti insieme, in questi anni, l’agenda antisociale, antipopolare e filoamericana che ci ha ridotti in questo stato; e rispetto a chi dissente rispetto a questo potere, le finta destra e finta sinistra non si fanno problemi e scrupoli a censurare, delegittimare e cercare di estromettere dalla vita democratica con mezzi autoritari, con buona pace del liberalismo e della democrazia.
Un italiano che ha quindi a cuore la sovranità popolare e la Costituzione non deve continuare a farsi prendere in giro con vecchi fantasmi mentre i poteri reali del capitalismo neoliberista, appoggiati da tutti i nostri partiti, ci stanno – anno dopo anno – sempre più mettendo in ginocchio. E quindi se anche tu ti dichiari antifascista e, quindi, credi nei valori eterni dell’antifascismo e della resistenza, a aiutaci a costruire un media veramente libero e indipendente che attualizzi questi valori e che combatta chi oggi veramente li minaccia. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mario Draghi

La GUERRA TOTALE degli USA di Biden contro il resto del pianeta, fino all’ULTIMO EUROPEO

Su una cosa sono tutti d’accordo: il discorso di giovedì scorso di Biden per l’annuale Stato dell’Unione è stato un discorso storico anche se, per ognuno, per un motivo diverso. La più entusiasta di tutti è la sinistra ZTL: Sleepy Joe si sveglia titola Il Manifesto; “A testa bassa contro Trump e l’Alta Corte” continua, “nel discorso sullo Stato dell’Unione il presidente Biden sorprende media e avversari e risale nei sondaggi”. Ancora più enfasi sul Domani, che minaccia un bivio storico: o retorica dem o barbarie. L’argine di Biden alla barbarie di Trump titola a 4 colonne: “Il tonante discorso sullo Stato dell’Unione detta il passo della campagna elettorale”; il suo intervento, sottolinea il giornale del compagno de Benedetti, sarebbe un vero e proprio “grido di battaglia per difendere la democrazia”. Un Biden da leccarsi i baffi rilancia anche l’altra sponda del partito unico della guerra e degli affari; secondo Il Foglio “quel che resta di una serata che meglio di così non poteva andare è la fierezza di Biden, che ha rovesciato il tavolo di una campagna elettorale che pareva destinata a stare sulla difensiva e la consapevolezza che democrazia e libertà non sono beni da dare per scontati, nemmeno nell’America che li ha sempre avuti a cuore”. Come Trump, più di Trump, peggio di Trump ribatte invece Libero che, incredibilmente, da testata ufficiale del fasciocomplottismo più spudorato accusa Biden di aver tenuto “un discorso populista” e “pieno di furbizie”, anche se gli riconosce di essere stato “stranamente lucido”. Di un Biden incredibilmente “vigoroso e all’attacco” parla anche l’immancabile Edward Luttwack sul Giornanale, che suggerisce “se non parla di trans e confini può vincere”, una tesi che per essere supportata ha bisogno di un paio di fake news che al Giornanale credo siano imposte da contratto per vedersi pubblicato un articolo; secondo Luttwack, infatti “nel suo discorso Biden ha saggiamente evitato di menzionare l’attivismo transgender della sua amministrazione” e “la scelta di Biden di non sfiorare neppure questo argomento ha funzionato”. Insomma… La Stampa invece opta per un registro diametralmente opposto e, festeggiando con un giorno di ritardo l’8 marzo, la butta sul femminismo delle ZTL; Biden, fattore donna titola, e riporta anche un altro aspetto ignorato da tutti gli altri media: “Pronto a bandire Tiktok”. Che strano… questo passaggio me lo sono perso; e pensare che, sul tema, sono anche fissato. Mentre Sleepy Joe si risveglia, sono rincoglionito io? Di sicuro, ma forse non a questo giro: nella trascrizione del discorso, infatti, la parola Tiktok non compare; il virgolettato della Stampa, in bella mostra sul titolo, è completamente inventato, tanto per cambiare. Anche questo fa parte della lotta contro le fake news e la disinformazione russa?

Joe Biden

Tra fake news, tifo da stadio, facili entusiasmi e altrettanto facili accuse strampalate, quello che colpisce di come i nostri media parlano del discorso di Biden è la chiara sensazione che non l’abbiano manco ascoltato e che, se l’hanno ascoltato, non c’abbiano capito proprio tantissimo, come se fosse un Putin o un Li Qiang qualsiasi; nell’ultima settimana, infatti, si sono seguiti i 3 interventi più importanti dell’anno da parte delle 3 leadership delle 3 grandi potenze globali e il trait d’union di come le ha riportate la nostra stampa è stato sostanzialmente uno solo: non aver capito assolutamente una seganiente di quello che c’era in ballo. Non dovrebbe sorprendere: siamo in una fase di trasformazione senza precedenti e le grandi potenze stanno strutturando il modo in cui intendono affrontarla nel tentativo di determinarne gli esiti; entrare nel merito di questa dialettica, per le nostre élite e per i loro organi di propaganda, molto banalmente non è fattibile, sia perché l’Europa non è una grande potenza autonoma – e quindi non ha niente da dire se non subire passivamente – ma ancora di più perché dovrebbe ammettere che il grande, storico discorso di Biden sostanzialmente significa una cosa sola: l’Occidente collettivo è in guerra col resto del mondo e a pagare i costi della guerra saranno i nostri alleati. In questo video cercheremo di analizzare le parole di Biden da questo punto di vista; un lavoro che tocca a noi fare perché c’è un Mondo Nuovo che avanza e pensare che a raccontarcelo saranno i vecchi media è semplicemente velleitario.
E giù di standing ovation, la prima di una lunga serie: prima di addentrarci nei contenuti dell’ora di comizio che Biden ha tenuto al congresso giovedì scorso, volevamo concentrarci su una piccola nota di costume che, però, aiuta a comprendere diverse cosine. Nei giorni scorsi abbiamo assistito prima alle due ore di discorso di Putin di fronte all’Assemblea Federale e poi al discorso annuale del premier cinese LI Qiang di fronte all’Assemblea nazionale del popolo; in entrambi i casi, sembrava di essere a una conferenza: molti dettagli tecnici, pochissime frasi ad effetto, nessuna standing ovation. Dal punto di vista comunicativo lo zero assoluto, dei veri e propri dilettanti. Nella patria di Hollywood, però, le cose funzionano diversamente: lo Stato dell’Unione, più che un momento di riflessione politica, sembra un copione di Spielberg. Il meccanismo è molto semplice: frasi a effetto che raramente superano i 20 secondi supportate da una standing ovation, una dietro l’altra, decine e decine di volte; se uno si concentrava sulla vicepresidente Kamala Harris, alle spalle di Biden, più che un comizio sembra una sessione di fitness e, tra una standing ovation e l’altra, il colpo di genio. Perfettamente coordinato con la regia, ogni tanto la telecamera si concentrava su un membro del pubblico che, pochi secondi dopo, veniva chiamato in causa da Biden come esempio concreto delle magnifiche sorti e progressive di 3 anni di Bidenomics e del sogno americano più in generale – dal capo del sindacato degli automobilisti accompagnato dall’operaio della fabbrica di auto dell’Illinois risollevata da Biden, alla cosiddetta voce di Selma, la cantante Bettie Mae Fikes, simbolo della resistenza alla repressione razzista del governo USA che nel marzo del 1965 si abbatté sui manifestanti per i diritti civili in Alabama. D’altronde, nella politica USA la coreografia non è solo importante: è il cuore di tutto; è quello che la distingue dalle altre dittature. Una dittatura smart, camuffata dietro allo sfavillio della società dello spettacolo, e con degli sceneggiatori da Oscar.
Ma, al di là della coreografia, c’è anche la ciccia; il nocciolo fondamentale del discorso di Biden, dal nostro punto di vista, sta esattamente tutto qui: la grande controrivoluzione neoliberista, fondata su globalizzazione e finanziarizzazione – entrambe fortemente sostenute, per oltre 40 anni, da Biden stesso anche in ruoli chiave nell’amministrazione – hanno reso gli USA incredibilmente vulnerabili sia esternamente perché, al contrario delle previsioni, hanno permesso l’emergere di altre potenze che ora minacciano la democrazia USA (che tradotto significa appunto, banalmente, il dominio del grande capitale USA sull’intero pianeta), sia internamente, perché hanno minato dalle fondamenta la tenuta sociale del paese e hanno così favorito l’ascesa di ogni sorta di avventurismo politico, che ora mette a repentaglio dall’interno il sistema nel suo complesso. Trump, con il suo Make America great again, ha rappresentato un primo tentativo di reazione a questa deriva, ma non ha funzionato e non può funzionare: prima di tutto perché, dal punto di vista della politica economica, per tornare a crescere gli USA hanno bisogno di un nuovo patto sociale di carattere fondamentalmente socialdemocratico; questo implica in primo luogo, come ci insegna Michael Hudson, dare un colpo alle rendite a partire, ad esempio, da quelle che ogni anno Big Pharma estrae dall’economia USA. L’altro aspetto fondamentale, sempre come spiega Michael Hudson, è investire il governo del dovere di creare le precondizioni per una produzione competitiva e, cioè, sviluppare quelle che genericamente si chiamano forze produttive – e cioè le infrastrutture materiali come, se non di più, quelle immateriali, a partire da una forza lavoro adeguatamente preparata e istruita: senza un governo in grado di sviluppare le forze produttive, tornare a essere competitivi è una chimera. Se, da un lato, hai un paese dove lo sviluppo delle forze produttive è affidato direttamente al governo e allo Stato – che ha come unico obiettivo abbassare i costi complessivi – e dall’altro, invece, è tutto in mano ai privati che hanno come unico scopo quello di estrarre la rendita più alta possibile, tra i due, in termini di competitività, non c’è scozzo.
Nell’Occidente collettivo innamorato delle privatizzazioni, questo inconveniente è stato parzialmente aggirato scaricando il costo che l’estrazione di rendite ha sulla società direttamente sulle spalle dei lavoratori, ma il risultato – alla fine – non cambia granché: rimane il fatto che un pezzo sempre più grande della ricchezza prodotta, invece di contribuire alla crescita dell’economia nel suo complesso, finisce nelle tasche di una ristretta oligarchia sotto forma di rendita e l’economia nel suo insieme diventa sempre meno produttiva. Il problema, ovviamente, è che per finanziare questa funzione che lo Stato e il governo devono svolgere per il bene di tutta l’economia servono tanti quattrini e quei quattrini arrivano dalle tasse; peccato che gli USA, comprese le amministrazioni nelle quali Biden ha ricoperto ruoli di primissimo piano (o, almeno, ha sostenuto con vigore) quelle tasse non abbiano fatto altro che ridurle continuamente e, ovviamente, non in maniera equa: i lavoratori, sempre più impoveriti, hanno continuato a pagare sempre le stesse tasse, mentre alle grandi corporation che li sfruttavano – e agli oligarchi che le possedevano – venivano fatti regali sempre più corposi.
Insomma: Rimbambiden non sembra poi così rimbambito; cosa sarebbe necessario fare per Make Amaerica great again, tutto sommato, ce lo ha chiaro e, di fronte a un avversario che continua a proporre tasse più basse per i super ricchi e il minimo ruolo possibile immaginabile per lo Stato e il governo come un Milei qualsiasi, propone un ritorno alla cara vecchia formula socialdemocratica che è l’unica che può garantire la crescita. Ed ecco così che, anche comprensibilmente, la sinistra delle ZTL ritrova il suo campione. C’è solo un piccolo problemino: il fatto è che la socialdemocrazia ai tempi del derisking state e, cioè, dello Stato che ha come sua prima missione quella di eliminare i rischi alla grande rendita finanziaria, molto banalmente, si riduce a una formula retorica. Biden vuole combattere il peso che le rendite scaricano sull’economia nazionale, ma si scorda della rendita più grande di tutte: la rendita dei monopoli finanziari; sono loro a imporre una tassa gigantesca su tutto il resto della società e a fare in modo che una quantità enorme di ricchezza esca dai circuiti produttivi e vada direttamente in tasca alle oligarchie USA – e degli alleati degli USA – ma a loro, in un’ora abbondante di discorso, non si fa cenno. Non potrebbe essere altrimenti: la campagna elettorale USA è, in grandissima parte, una competizione sfrenata a chi raccoglie più fondi e quindi, banalmente, a chi offre la prospettiva più vantaggiosa a chi detiene il grosso della ricchezza e Biden, da questo punto di vista, sta letteralmente asfaltando il suo competitor.
Tutta fuffa, quindi? Non esattamente, perché a sostenere il gigantesco costo che comporta farsi succhiare il sangue dalle oligarchie non devono essere necessariamente i lavoratori USA; a far quadrare i conti ci può pensare anche qualcun altro: l’imperialismo e il colonialismo, d’altronde, hanno sempre funzionato così. Il problema oggi, però, è che il Sud del mondo sembra aver iniziato ad alzare la testa e di pagare i conti USA non sembra avercene più tanta voglia. Chi li pagherà quindi? Esattooooo! TE. PROPRIO TE: te e tutti quelli come te che vivono nel giardino ordinato delle democrazie europee ai tempi dell’iperimperialismo USA. Oddio, in realtà non proprio tutti tutti: c’è anche un 1% che, in realtà, ci guadagna e sono gli unici a essere rappresentati dalle nostre élite politiche e dalla propaganda al loro servizio, una piccola élite compradora che, per conto dell’egemonia USA, succhia il sangue a tutti i suoi concittadini e li riempie pure di puttanate propagandistiche, un segreto di Pulcinella che, però, per i nostri media al servizio delle oligarchie rimane ancora inconfessabile.
Ed ecco così spiegato com’è che sui nostri media mainstream non troverai traccia del vero, profondo, storico contenuto del grande discorso di Joe lo sveglio: è il piano di una rapina e i proprietari dei nostri media sono il suo palo. Per non vivere nel mondo delle pete candite e continuare a farci rapinare senza manco rendercene conto, abbiamo bisogno di un media che, invece che alla propaganda dell’1%, dia voce agli interessi concreti del 99. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

PAOLO BORIONI: come sinistra libertaria e oligarchie si sono alleate contro la socialdemocrazia

Ottoliner buongiorno e bentornati all’appuntamento con le interviste di OttolinaTv. Oggi su rieducational channel parleremo di un fenomeno decisamente eccentrico: la socialdemocrazia, e non una socialdemocrazia qualsiasi, ma proprio del modello socialdemocratico per eccellenza in assoluto: le socialdemocrazie scandinave e della finaccia che hanno fatto tra bolle immobiliari, privatizzazioni e, addirittura, l’adesione alla NATO. Insomma, un po’ la stessa parabola che hanno vissuto in generale tutte le democrazie moderne uscite dalla seconda guerra mondiale, dove il welfare, lo stato sviluppista e le politiche keynesiane avevano garantito per qualche decennio un compromesso virtuoso tra capitale e lavoro, e poi il tutto è stato spazzato via nell’arco di pochi anni da una possente controrivoluzione guidata dalle oligarchie e sostenuta da tutte le principali forze politiche sedicenti democratiche; una parabola che nel caso scandinavo fa particolarmente male proprio perché il modello messo a punto in questi paesi aveva garantito una ricchezza diffusa, un’efficienza e un livello sia di uguaglianza che di reale partecipazione democratica che probabilmente non hanno eguali nella storia dell’umanità.
Com’è possibile che una società così avanzata a un certo punto decida deliberatamente di sfasciare tutto e condannarsi al declino abbracciando il modello distruttivo dell’imperialismo neoliberista? Per provare a capirlo abbiamo intervistato a lungo l’intellettuale italiano che, probabilmente, meglio di chiunque altro ha studiato e compreso quel pezzetto di mondo: si chiama Paolo Borioni ed è professore associato di Storia delle istituzioni e delle dottrine politiche alla Sapienza, e ha un’idea decisamente dirompente. Perché sì, ovviamente anche in Scandinavia le oligarchie hanno reagito all’eccesso di democrazia -denunciato a suo tempo dalla Commissione trilaterale e che metteva definitivamente a rischio l’ordine gerarchico della società con gli stessi strumenti impiegati dalle oligarchie di tutto il Nord globale – ma in una società come quella scandinava, dove il mondo del lavoro – grazie, in particolare, alla forza di organizzazioni sindacali che erano a tutti gli effetti uno Stato dentro lo Stato – aveva conquistato un potere politico senza pari nel mondo occidentale (e probabilmente non solo), per vincere la guerra di classe dall’alto le oligarchie avevano bisogno di un alleato anche nel campo nemico, una fidata quinta colonna, e secondo Paolo Borioni questa fidata quinta colonna ha un nome e cognome piuttosto preciso: la sinistra libertaria post sessantottina che a un certo punto, di fronte al potere crescente di questi corpi intermedi, s’è cominciata a sentire un po’ troppo oppressa e ha cominciato a rivendicare una maggiore libertà individuale: chi sei tu sindacato, o anche Stato, per impormi un unico sistema educativo universale? O per impormi la tua dittatura sanitaria? Perché invece che obbligarci ad andare tutti negli stessi ospedali con gli stessi medici o nelle stesse scuole con gli stessi professori non vi limitate a darci dei bei voucher da spendere dove meglio crediamo? Secondo Borioni la parabola scandinava, insomma, è l’esempio più eclatante di come, sotto le mentite spoglie del primato dei diritti civili e delle libertà individuali, la grande controrivoluzione neoliberale ha fatto breccia anche nel cuore di chi si professava rivoluzionario e l’ha trasformato nell’utile idiota perfetto della guerra di classe condotta dalle oligarchie contro il popolo.
Buona visione.

La critica alla sinistra alla moda e l’accusa di rossobrunismo

@ottolinatv

Chi è Sahra Wagenknecht? Pill8lina – La critica alla sinistra alla moda e l’accusa di rossobrunismo sahrawagenknecht dielinke sinistra germania rossobrunismo sovranismo sovranità pill8lina ottolinatv

♬ suono originale – OttolinaTV – OttolinaTV

Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del rossobrunismo. E il suo nome, è Sahra Wagenknecht. Più o meno, così alcuni ce la raccontano.

Per vedere l’intero episodio della Pill8lina, clicca qui!

Chi è Sahra Wagenknecht? La critica alla sinistra alla moda e l’accusa di rossobrunismo

Maischberger – 2023-02-08

Uno spettro si aggira per l’Europa!
È lo spettro del rossobrunismo ed ha un aspetto terrificante, il suo: si chiama Sarah Wagenknecht ed ha causato un vero e proprio terremoto in quel che rimane della così detta sinistra radicale europea.
Per la prima volta dai tempi della riunificazione tedesca, infatti, la scorsa settimana un partito ha proclamato il proprio autoscioglimento al Bundestag. Il partito in questione è Die Linke, un partito di sinistra radicale di cui Sarah Wagenknecht faceva parte e da cui in questi giorni ha annunciato la scissione insieme a un nutrito gruppo di parlamentari. Il nuovo partito si chiamerà Alleanza Sahra Wagenknecht, e il motivo della scissione è che agli occhi della Wagenknecht Die linke da forza radicale si è trasformata nell’ennesima variante di quella sinistra liberista e anti-popolare che anche noi in Italia, purtroppo, conosciamo molto bene.
Ma se anche potrebbe sembrare l’ennesima inutile scissione a sinistra e l’ennesimo partitino personalistico destinato sparire in poco tempo, questa volta le cose potrebbero andare diversamente.

Innanzitutto, la Wagenknecht è dei uno dei personaggi pubblici più conosciuti in Germania, il suo libro “critica alla sinistra neo-liberale” è stato per anni un best-seller, e secondo un sondaggio del periodico Frankfurt Allgemeine Zeitung il 27% dei tedeschi non escluderebbe di votare il suo nuovo partito.
Inoltre, l’attuale coalizione di sinistra che governa la Germania è forse uno dei più grandi fallimenti politici degli ultimi decenni, avendo spinto il paese sull’orlo della recessione a causa di una politica estera suicida, e avendo così trasformato l’AFD, il principale partito dell’estrema destra tedesca, e di gran lunga il primo partito in molti dei laender economicamente più arretrati. La sinistra liberal e alla moda insomma, in questi anni di governo del paese ha sfoggiato senza ritegno tutte le proprie ipocrisie, contraddizioni, e soprattutto incapacità di perseguire l’interesse nazionale e popolare, aprendo finalmente gli occhi a molti elettori e forse lo spazio ad un soggetto politico nuovo. La cosa sorprendente però, è che alcune delle persone interessate alla proposta politica della Wagenknecht sembrerebbero proprio molti degli attuali elettori dell’AFD.

Ma non è una novità.

Una delle accuse che le sono state più spesso rivolte in questi anni infatti, appunto, è quella di rosso-brunismo, a causa delle sue posizioni sovraniste, del suo scetticismo su alcune politiche ambientaliste e alla sua posizione decisamente conservatrice relativamente alle politiche migratorie.
Ma quale è quindi la vera linea politica della Wagenknecht? E perché le sue proposte si pongono perfettamente agli antipodi rispetto a quelle della “sinistra della ZTL”?

“Il rappresentante della sinistra alla moda è cosmopolita e ovviamente a favore dell’Europa. Si preoccupa per il clima e si impegna in favore dell’ dell’immigrazione e delle minoranze sessuali. È convinto che lo Stato nazionale sia un modello in via di estinzione e si considera cittadino del mondo senza troppi legami con il proprio paese. Non può – né desidera – essere definito un “socialista”: semmai un liberale di sinistra.”

Nel suo libro “Critica alla sinistra neo-liberale”, uscito nel 2021 e pubblicato in Italia da Fazi editore, la Wagenknecht condensa il proprio manifesto politico e dipinge un ritratto realistico della sinistra occidentale degli ultimi decenni. Ad esser sinceri il titolo italiano non rende giustizia all’originale tedesco, che sarebbe Die Selbstgerechten, letteralmente “i pieni di sé”, “i presuntuosi”, con riferimento all’atteggiamento presuntuoso ed elitario dell’elettore medio della sinistra liberale.

«“Sinistra”, scrive Wagenknecht “era un tempo sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale, di resistenza, di rivolta contro la classe medio-alta e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra”, prosegue la Wagenknecht, “voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale, rendere loro la vita più facile, più organizzata e pianificabile. Chi era di sinistra credeva nella capacità della politica di plasmare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato. Nel complesso”, conclude la Wagenknecht, “una cosa era chiara: i partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o, in molti paesi dell’Europa occidentale, comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati».

Ma oggi le cose sono evidentemente cambiate. L’autrice individua il punto di svolta nella cosiddetta “terza via” di Clinton, Blair e Schröder, che diede inizio alla seconda ondata di riforme economiche neoliberali dopo quella di Reagan e di Thatcher, e che trovò come sappiamo illustri imitatori anche nella sinistra italiana. Se un tempo al centro dell’interesse dei partiti di sinistra c’erano i problemi sociali ed economici da cui lo Stato aveva il dovere di emancipare la maggioranza della popolazione, oggi per la “sinistra alla moda” come la chiama Wgenknecht, sembra che i problemi fondamentali delle persone comuni non riguardino la sicurezza sociale e la povertà, ma bensì questioni come gli stili di vita, le abitudini di consumo, e i giudizi morali sul comportamento individuale. Problemi insomma più facilmente risolvibili con qualche lezione di bon ton e qualche appuntamento dall’armocromista piuttosto che con nuove politiche sociali ed economiche. Frutto di questo approccio ai problemi secondo Wagenknecht sono due distinti cambi di linea politica: il primo è lo spostamento dal campo dei diritti sociali a quello dei diritti civili e, più di recente, della salvaguardia ambientale; il secondo è la sostanziale adesione all’identificazione concettuale e politica, prima solo della destra, tra politiche economiche neoliberiste e l’idea di “progresso”.

Altro aspetto distintivo della sinistra alla moda, scrive la Wagenknecht, è quello di risultare ipocrita e poco simpatica, e questo perché: “pur sostenendo una società aperta e tollerante, mostra di solito nei confronti di opinioni diverse dalle proprie un’incredibile intolleranza”.

E Di questo atteggiamento intollerante e presuntuoso la stessa Wagenknecht ci offre diversi esempi che ci ricordano le etichette dispregiative e gli slogan a cui anche noi in Italia siamo purtroppo abituati. «Chi si aspetta che il proprio governo si occupi prima di tutto del benessere della popolazione interna e la protegga dal dumping internazionale e da altre conseguenze negative della globalizzazione – un principio, questo, che per la sinistra tradizionale sarebbe stato ovvio – viene oggi etichettato come nazionalsociale” (L’insulto corrispettivo di “sovranista” in Italia) E «chi non trova giusto trasferire sempre più competenze dai parlamenti e dai governi prescelti a un’imperscrutabile lobbycrazia a Bruxelles è di certo un antieuropeo».
Come ci viene ripetuto continuamente in Italia, chi desidera che l’immigrazione sia regolamentata è un razzista, chi ritiene che il Trattato di Maastricht e la moneta unica abbia in gran parte danneggiato i lavoratori e la nostra economia è un “nostalgico della liretta”, chi ritiene che lo Stato debba recuperare alcune prerogative fondamentali è una persona fuori dal tempo che non ha capito che siamo nell’epoca della globalizzazione. Come ricorda anche Vladimiro Giacchè nell’Introduzione al libro, tra gli aspetti importanti di questo saggio c’è poi il coraggio di mettere direttamente in questione valori fondamentali della sinistra alla moda come l’individualismo e il cosmopolitismo.

Wagenknecht osserva infatti che: «con questi valori si può sottrarre legittimità tanto a una concezione dello Stato sociale elaborata entro i confini dello Stato nazionale, quanto a una concezione repubblicana della democrazia. Ricorrendo a questo canone di valori, è possibile inserire il liberismo economico, la globalizzazione e lo smantellamento delle infrastrutture sociali in una narrazione che li fa apparire alla stregua di cambiamenti progressisti: una narrazione che parla di superamento dell’isolamento nazionalista, dell’ottusità provinciale e di un opprimente senso della comunità, una narrazione a favore dell’apertura al mondo, dell’emancipazione individuale e della realizzazione di sé».

Naturalmente, questa mutazione antropologica delle sinistre occidentali non poteva che spianare la vittoria delle destre più reazionarie proprio tra gli strati più disagiati della popolazione. Questi elettori vedono nella retorica e nelle politiche della sinistra alla moda un duplice attacco nei propri confronti: un attacco ai loro diritti sociali, in quanto viene descritta come modernizzazione progressista proprio la distruzione di quello stato sociale che dava loro benessere e la sicurezza; ma al tempo stesso un attacco ai loro valori e al modo in cui vivono, costantemente delegittimato moralmente e squalificato come retrogrado.
Insomma, conclude la Wagenknecht, possiamo tranquillamente dire che i partiti di sinistra occidentale oggi non rappresentino più gli interessi degli ultimi e dei più svantaggiati, ma anzi quelli di una up-middle class metropolitana che anche attraverso la sua sostanziale egemonia negli apparati mediatici e culturali combatte ogni giorno con gli artigli per conservare i propri privilegi e contemporaneamente affossare, come fisiologico in ogni lotta di classe, le condizioni di vita delle classi sociali inferiori.
Eppure, nonostante tutto questo, i rappresentanti della sinistra alla moda non sembrano proprio capacitarsi di come mai non vengano più votati nelle provincie e nelle periferie, o meglio, lo hanno capito. Il motivo è che essendo i poveri (detto tra noi) un pò ignoranti e retrogradi, non sono nemmeno in grado poverini di capire quali sono o loro veri interessi, e così si lasciano facilmente abbindolare da quei rozzi populisti e sovranisti. Insomma, se il popolino fosse un tantino più illuminato e moralmente progredito, immediatamente capirebbe che i populisti stanno parlando alla loro pancia e non alla loro testa, che la realtà è più complessa di come sembra, e che costruire ponti è sempre molto più saggio che costruire muri.

La seconda parte del libro della Wagenknecht è dedicata invece alla sua proposta politica.

Ovviamente qui ci limitiamo a richiamare i punti più interessanti, non potendo analizzare tutto nel dettaglio né discutere alcune delle sue teorie più controverse sul clima e sull’immigrazione. Uno dei motivi per i quali molti ex elettori di sinistra hanno cominciato a votare a destra, riflette la Wagenknecht, è che una certa destra sociale anche se quasi sempre solo a parole, ha continuato a fare riferimento a concetti come comunità, nazione, e difesa senza e senza ma dei propri cittadini, che invece la sinistra alla moda ha sostanzialmente abbandonato in nome del liberismo economico, del cosmopolitismo, dell’individualismo. La sinistra del futuro quindi, riallacciandosi alla propria tradizione socialista, dovrà recuperare questi valori, che non sono valori retrogradi o identitari, ma anzi possiedono una forte carica democratica e di emancipazione umana e materiale.

“Una sinistra che ridicolizzi il pensiero comunitario e i valori che da esso derivano perde consensi e diventa sempre più ininfluente. Ma non si tratta solo di questo. La vera domanda è un’altra: i valori comunitari sono davvero invecchiati e superati? Il desiderio di vivere in un mondo fidato e riconosciuto, di avere posti di lavoro sicuri, di risiedere in quartieri tranquilli e godere di rapporti familiari stabili è davvero un sentimento retrogrado? Oppure questi valori non sono invece un’alternativa molto più convincente al capitalismo sfrenato, che si fa portavoce dell’individualismo, dell’autorealizzazione priva di vincoli, dell’idea tipica del liberalismo di sinistra di essere cittadini del mondo, un’idea che, guarda caso, si adatta particolarmente bene all’ambiente economico dei mercati globali e alle aspettative di mobilità e flessibilità delle imprese?”

Ma il vero e proprio nemico politico del pensiero liberista di destra e di sinistra, è secondo la Wagenknecht lo Stato nazionale. Secondo la retorica della destra liberista, che combatte ogni giorno e senza ipocrisie contro la redistribuzione della ricchezza e a favore delle oligarchie finanziare, lo Stato deve essere abbattuto in quanto il welfare sarebbe troppo costoso, la burocrazia limiterebbe la libera impresa, e la gestione privata dei servizi sarebbe ontologicamente più efficiente di quella pubblica. La variante di sinistra a questo attacco allo Stato invece, consiste nel rappresentare lo Stato nazionale:«non solo come obsoleto, ma addirittura come pericoloso, ovvero potenzialmente aggressivo e guerrafondaio. Per questo i contributi del liberalismo di sinistra sul tema culminano quasi sempre con l’avvertimento che non ci deve essere un ritorno allo Stato nazionale, come se esso facesse parte del passato e noi vivessimo già in un mondo transnazionale».
In Italia, dove l’esterofilismo snob della elite di sinistra ha ormai raggiunto livelli surreali, va di moda dire che per loro limiti ontologici gli italiani non sarebbero in grado di governarsi da soli, e che quindi dovremmo immediatamente cedere quanti più poteri e sovranità possibile ai tecnici dell’Unione europea, i quali non essendo stati eletti non sarebbero populisti e saprebbero sicuramente tutelare meglio di noi il nostro interesse. Ma al di là di questa parentesi un pò folkloristica e tornando al testo della Wagenknecht, all’autrice l’idea che l’UE possa sostituire le democrazie nazionali appare invece una pericolosa illusione.

I diritti attribuiti al Parlamento europeo infatti non solo sono ben poco rilevanti, ma funzionano oggi da malcelata copertura a una deterritorializzazione delle decisioni politiche a vantaggio di poteri sovranazionali opachi e sostanzialmente privi di legittimazione democratica.

«Il progressivo scivolamento delle competenze decisionali dal piano nazionale più controllabile ed esposto alla sorveglianza pubblica” scrive Wagenkncht “a quello internazionale, poco trasparente e facilmente manovrabile da banche e grandi imprese, significa allora soprattutto una cosa: la politica perde il suo fondamento democratico».

Alla pericolosa utopia europeista, per la quale per incanto i 27 Stati membri a suon di pacche sulle spalle si unificheranno in un grande abbraccio democratico e fraterno, Wagenknecht contrappone allora un’altra prospettiva: «il livello più alto in cui potranno esistere istituzioni, che si occupino del commercio e della soluzione di problemi condivisi e siano controllate in modo democratico, non sarà in tempi brevi né l’Europa né il mondo. Sarà, invece, il tanto vituperato e troppo precocemente dato per morto Stato nazionale. Esso rappresenta al momento l’unico strumento a disposizione per tenere sotto controllo i mercati, garantire l’uguaglianza sociale e liberare determinati ambiti dalla logica commerciale. È quindi possibile ottenere maggiore democrazia e sicurezza sociale non limitando, bensì accrescendo la sovranità degli Stati nazionali».

Per concludere, vorrei fare infine un accenno alla politica estera.

In questi anni la Wagenknecht ha spesso preso posizione contro le politiche americaniste del proprio paese, soprattutto durante la guerra in Ucraina e riguardo alle suicide sanzioni economiche imposte alla Russia. Ma sia nel suo libro che nelle sue ultime dichiarazioni la questione della vitale lotta di indipendenza tedesca dagli Usa non viene affrontata abbastanza, e questo nonostante sia assolutamente evidente come tutte le derive della sinistra europea che lei dice di combattere siano una chiara importazione dei valori e del modello culturale del partito democratico americano. In generale, credo si possa però dire che la descrizione della Wagenknecht della sinistra alla moda sia giusta e calzante, e che la sua proposta politica sia interessante in moltissimi aspetti anche se decisamente discutibile in altri.

E se anche tu ti auguri che anche in Italia possano affermarsi nuovi soggetti politici liberi dalle maglie ideologiche collaborazioniste, abbiamo bisogno di un media libero e indipendente che combatta l’egemonia culturale della sinistra alla moda

Aiutaci a costruirlo

Aderisci alla campagna di Ottolinatv su Gofundme e Paypal.

E chi non aderisce, è Elly Schlein

Palestina come Haiti: le rivolte degli schiavi che non piacciono alla sinistra imperiale

Omar è un ormai non più giovanissimo giornalista e vive nella più grande prigione a cielo aperto del globo, il lager più amato dai democratici di tutto il pianeta: la Striscia di Gaza.

Sono le 6 di sabato mattina, quando una serie di boati lo svegliano di colpo: è un rumore che conosce fin troppo bene. Era il giugno 2006; gli israeliani si erano ritirati da Gaza da meno di un anno. Troppo rischiosa. Vuoi mettere un caro vecchio assedio? Massimo risultato col minimo sforzo e sostanzialmente senza pericoli, a parte i famigerati razzi Qassam.

Da quando le forze armate israeliane si erano ritirate, le milizie di Hamas ne avevano sparati oltre 700, fortunatamente – e ovviamente – senza grosse conseguenze, ma abbastanza per scatenare l’ira dell’occupante.

Inizia così la campagna Pioggia d’estate. Gli israeliani, alle loro campagne, danno spesso nomignoli. Nell’arco di pochi giorni la reazione israeliana causerà oltre 400 morti e 1000 feriti; uno di loro era appunto il nostro Omar, che capisce subito che a questo giro c’è qualcosa di anomalo.

Si ricordava ancora di quando, nel febbraio del 2008, gli israeliani avevano ucciso 115 palestinesi nell’operazione Inverno caldo: a provocarli, 200 Qassam lanciati nell’arco di una notte.

Pochi mesi dopo, a dicembre, le milizie di Hamas avevano deciso di fare le cose in grande: 360 razzi nell’arco di qualche giorno. La risposta, a questo giro, venne ribattezzata Piombo fuso: oltre 1500 vittime palestinesi, contro 10 israeliane.

Questa volta però Omar non riusciva a tenere il conto. Quelli che sentiva partire non erano decine di razzi, nemmeno centinaia. Erano migliaia. Non era mai successo prima e nessuno sospettava stesse per accadere adesso.

Omar decide subito di prendere la macchina e andare a vedere di persona: si dirige verso il valico di Erez, il passaggio obbligato per quei pochi fortunati che hanno ottenuto il permesso di uscire dalla prigione Gaza per l’ora d’aria, e quando arriva si trova di fronte a una scena incredibile.

Era aperto”, racconta Omar al Middle East Eye, “e un gran numero di persone lo stavano attraversando con ogni mezzo a disposizione. Chi su una macchina scassata, chi in moto, chi a piedi”. Proprio mentre Omar sta attraversando il valico, ecco che arrivano i primi aerei israeliani;

aprono il fuoco, per disperdere la folla “ma alla gente non importava”, racconta Omar, “continuavamo ad attraversare il confine come se nulla fosse” e, una volta attraversato, Omar viene sopraffatto da una sensazione indescrivibile.

Ho provato gioia e ho iniziato a piangere”, ha raccontato Omar. “Anche la gente attorno a me ha cominciato a piangere e a prostrarsi perché era entrata nella terra da cui era stata sfollata nel1948. Eravamo in uno stato di stupore mentre giravamo, liberi, nelle nostre terre, fuori dalla prigione che è Gaza. Sentivamo di avere il controllo delle nostre terre”.

Di fronte a Omar scene sconcertanti, di una violenza che ti lacera il cuore, o almeno lo lacererebbe a chi ormai di violenze di ogni genere ne ha viste troppe, e da lacerare non c’è rimasto più niente:

giovani soldati israeliani, “quelli che eravamo abituati a vedere di vedetta sul confine, e che avevamo visto innumerevoli volte aprire il fuoco contro i nostri bambini e i nostri giovani amici”, ora venivano sopraffatti con violenza dai combattenti palestinesi, e si presentavano “nella loro forma più debole”.

Morte e distruzione erano ovunque, eppure Omar, “per la prima volta nella sua vita, si sentiva profondamente felice”, commenta l’articolo; “aver messo piede su quelle terre ed essere uscito anche se solo per un attimo dall’enclave assediata dove era stato recluso per gran parte della sua vita è stata una forma di liberazione” anche se, in quelle poche ore, “alcuni dei miei amici e uno dei miei cugini”, ha raccontato Omar, “sono scomparsi, e un altro è stato ucciso”.

Quando ti strappano via con la violenza ogni forma di normalità, la tua nuova normalità – per qualsiasi persona che non abbia condiviso le tue sofferenze – è necessariamente incomprensibile.

Ho vissuto tutta la mia vita sotto assedio”, ha raccontato Omar, “e questa era la prima volta in assoluto che mi sentivo libero”.

Poche ore dopo Omar è tornato nella sua minuscola casa dentro la prigione di Gaza, e il giorno dopo è andato a scattare qualche foto ad una famiglia che si era vista distruggere completamente la casa dagli attacchi aerei israeliani: “Il padre di famiglia”, racconta Omar, “mi ha detto: anche se ci uccidono, a questo giro moriremo a testa alta. lasciate pure che ci uccidano quanto vogliono”.

Tutte le altre volte erano loro a venire da noi: ci uccidevano, uccidevano i nostri figli, giustiziavano intere famiglie”, ha raccontato Omar. E a loro non era concesso che assistere inermi, rinchiusi nella loro gabbia. “Questa è la prima volta che resistiamo e riusciamo a entrare, anche se solo per un momento, nelle terre dalle quali siamo stati cacciati

E’ il racconto più realistico, complesso e straziante che ho sentito fino ad oggi di questa incredibile nuova fase dell’eterna guerra di resistenza che l’occidente democratico globale ha imposto a questi ultimi della terra. Riusciremo, dall’alto della nostra supponenza perbenista di privilegiati e anche un po’ conniventi, a farci veramente i conti?

Che la controrivoluzione neoliberista non si fosse limitata a renderci tutti più poveri e meno liberi, ma che ci avesse anche imposto una gigantesca involuzione culturale e anche antropologica, noi lo abbiamo sempre sostenuto, ma lo spettacolo messo in scena in questi giorni dai benpensanti di ogni colore politico supera di slancio anche la più catastrofista delle previsioni.

Il primo dato è la vittoria egemonica dell’idea postsfascista delle responsabilità di ogni forma di resistenza; per 70 e passa anni, l’idea comune di ogni democratico antifascista, anche il più moderato, è stata che la responsabilità delle rappresaglie degli occupanti non possa mai essere attribuita ai resistenti.

I resistenti conducono una guerriglia con tutti i mezzi a loro disposizione, compresi i più cruenti, e le razzie che inevitabilmente provocano sono conseguenze inevitabili che non ne mettono in discussione la legittimità morale.

A pensarla diversamente, fino a poco tempo fa, era solo la marmaglia fascistoide che oggi, evidentemente, è diventata egemone: l’idea è che lo schiavo se ne deve fare una ragione e non deve fare niente che possa scatenare l’ira funesta del padrone. Tanto in schiavitù ci vive lui, mica noi.

Nell’occidente del pensiero unico e dell’encefalogramma piatto, l’idea che qualcuno – come la famiglia di Gaza descritta da Omar – sia disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari per tentare una volta nella vita di alzare la testa e rivendicare la sua dignità è tabù.

Viviamo in una realtà così radicalmente separata da non avere proprio gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi, senza troppi calcoli, costi quel che costi, è l’unica opzione veramente razionale per chi vive in determinate condizioni.

International Journalism Festival from Perugia, Italia / Ph. Alessandro Migliardi

Un vero e proprio capolavoro da questo punto di vista è l’articolo di Francesca Mannocchi su La Stampa di ieri: “Hamas condanna Gaza a restare una prigione”, scrive il volto più amato dal popolo dei teleaperitivi romani di Propaganda Live.

Li mortacci loro: proprio ora che insieme a Zoro e Makkox stavano preparando una petizione che gli avrebbe portati, dopo 16 anni di prigionia, a una sicura liberazione.

Ricordate sempre: con la giusta dose di galateo, basta chiedere.

Ma la retorica astratta e benpensante della Mannocchi è roba da principianti di fronte ai livelli apicali raggiunti dalla Maestra: Lucia Annunziata, che come ci si aspetta che gli schiavi si debbano comportare lo spiega a tutto il mondo grazie all’azione illuminante dell’Aspen Institute, finanziato con i soldi dei Rockefeller e della famiglia Gates.

Annunziata, sempre dalle pagine de La Stampa, ci spiega come “Hamas ci sta regalando una delle peggiori pagine di sempre del conflitto Israele-Palestina”.

Che sia il popolo palestinese”, spiega la Annunziata, “a vendicarsi con gli strumenti del terrore, della violenza, della violazione delle donne, dei bambini, dei vecchi, rompendo lo spazio di ogni diritto umano, lo stesso che ha sempre invocato per la propria difesa, è un atto indegno, repellente, che sporca la dignità delle stesse sofferenze dei Palestinesi”.

Contessa, sapesse…

Studiano una vita, conquistano incarichi di prestigio e poi non sanno far altro che ripetere le stesse identiche formule che gli schiavisti illuminati impiegavano già nel 1700.

Quando gli schiavi di Haiti si ribellarono ai loro padroni ormai tre secoli fa, dando vita alla prima repubblica guidata da ex schiavi del pianeta, per giorni e giorni si dilettarono a razziare ogni abitazione incontrassero sulla loro strada, prendere donne e bambini, seviziarli, mozzargli la testa, e poi attaccarla a dei pali esposti in bella mostra. Gli schiavi purtroppo spesso son fatti così: i padroni illuminati si dimenticano, tra una frustata e l’altra, di impartirgli adeguate lezioni di galateo, e così diventano difficilmente presentabili in società.

Una cosa a dir poco disdicevole, e che ora sembra porci di fronte a un dilemma insolvibile: che requisiti devono avere gli schiavi per essere degni di pretendere di liberarsi dalla loro schiavitù?

Perché non introdurre dei test standardizzati formulati dalle cancellerie dell’occidente democratico che certifichino chi ha diritto a liberarsi e chi invece, per il bene suo e di chi gli sta accanto, deve invece rimanere in cattività? Lanciamo una petizione su change.org?

Ora, intendiamoci, chiunque abbia anche solo un minimo di umanità, di fronte ad alcune delle scene a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni non può che rimanere ovviamente sconcertato, come d’altronde chiunque non fosse rimasto sconcertato di fronte alle teste mozzate dei bambini bianchi nella Haiti del ‘700 celava in se un piccolo cucciolo di serial killer.

Ma è proprio la prospettiva ad essere completamente distorta: è il mondo visto da chi la schiavitù non l’ha mai assaporata sulla sua pelle. Il punto ovviamente non è fare la graduatoria degli atti più efferati; il punto è che nel mondo esistono cause ed effetti, azioni e reazioni.

Se uno schiavo ti taglia la testa, il punto non è la moralità dello schiavo, ma la schiavitù; chi dà pagelle agli schiavi è tra le fila degli schiavisti, a meno che sia uno schiavo a sua volta.

Loro le pagelle non solo hanno il diritto di darle: hanno il dovere. Il punto però è che gli schiavi palestinesi quelle pagelle – mi duole dirglielo, signorina Annunziata – le hanno già date

e per quanto le possa sembrare aberrante, quelli che dal suo punto ci stanno regalando “una delle peggiori pagine di sempre del conflitto israelo-palestinese”, in realtà sono stati promossi a pieni voti: chieda al nostro amico Omar, se non mi crede.

A mio modestissimo avviso, che le azioni di Hamas non possano essere tacciate superficialmente di avventurismo, ma che affondino le loro radici in un consenso popolare solido e ampio, si deduce anche da un’altra cosa: da giorni la domanda che ci tormenta un po’ tutti, da noi complottisti sfegatati fino alle più autorevoli firme del baraccone mainstream, è come minchia sia possibile che l’onniscente intelligence israeliana si sia fatta cogliere così impreparata.

In molti sospettano una qualche forma di connivenza, un po’ in stile strategia della tensione, diciamo; sinceramente, non mi sento di escluderlo. Sennò che complottista sarei?

In mancanza di elementi concreti, però, proporrei un’altra chiave di lettura: li hanno fregati sul serio.

Ovviamente hanno pesato una serie infinita di concause: la spaccatura politica interna a Israele, l’essersi focalizzati sulla difesa dei coloni in Cisgiordania, e chi più ne ha più ne metta. Ma c’è un altro aspetto che, a mio avviso, non è stato adeguatamente sottolineato: per mettere in piedi un’operazione del genere, senza farsi fregare, c’è bisogno del sostegno di tutti. Non che tutti siano direttamente coinvolti, ovviamente, ma il sostegno deve essere, se non unanime, perlomeno molto diffuso, trasversale, e anche parecchio solido. Non ci possono essere crepe che permettano al nemico di insinuarsi e ci devono essere amici fidati ovunque: così a occhio, è l’idea che si sono fatti anche gli israeliani che stanno agendo di conseguenza, perché se il problema non è un’avanguardia di avventurieri, ma il sostegno unanime che godono in una popolazione esasperata che non ha più niente da perdere, allora il nemico non è più semplicemente un’organizzazione militare, è il popolo tutto. Senza distinzione.

Ecco così che, da questo punto di vista, la reazione terroristica israeliana – che mira proprio a colpire indiscriminatamente tutta la popolazione senza troppi distinguo – è cinicamente razionale,

e il moralismo stucchevole dei benpensanti non fa altro che offrirgli una solida giustificazione.

E’ un altro esempio del classico cortocircuito che unisce sinistra imperiale e criptofascisti: la sinistra imperiale sparge giudizi moralistici a destra e manca convinta che la vera aspirazione di tutti i popoli sia essere guidati dalla Emma Bonino di turno, e i criptofascisti poi ci mettono il carico da 40 del realismo politico. Sostengono, non senza ragioni, che in realtà alla fine il popolo è complice delle classi dirigenti che si ritrova, e quindi se di animali si tratta – come li definiscono gli stessi pidioti per primi – l’unica soluzione è sterminare tutti e così si fa pari e patta.

Che le posizioni ufficiali del nord globale portino dritte in quella direzione mi sembra piuttosto evidente: gli USA hanno già promesso una ventina abbondante di nuovi caccia tra F-16 e F-35

e al confine col Libano la situazione si fa di ora in ora più incandescente.

Ovviamente, in tutto questo, che al governo in Israele attualmente ci siano i fascisti veri, dichiarati, e non quelli immaginari di Hamas, passa ovviamente in secondo piano; d’altronde, dopo che hai spacciato per partigiani i neonazisti di Azov e pure quelli vecchio stile della 14esima divisione delle SS, vale tutto, diciamo.

Fortunatamente però, nel frattempo, il mondo ha smesso di sperare nelle sorti umane e progressive della sinistra imperiale del nord globale e si è cominciato ad attrezzare diversamente: ed ecco così che, anche in questo caso, l’unica speranza che l’armageddon possa essere almeno rimandato arriva di nuovo da quello che pidioti e criptofascisti, come un sol uomo, definiscono “l’asse del male”, e cioè tutti i paesi che non sostengono acriticamente l’agenda imperiale di Washington e di Tel aviv, a prescindere dalle forme concrete di governo che si sono dati. Una strana accozzaglia, fatta spesso di regimi impresentabili che, ciò nonostante, anche in questo caso dimostrano di essere più allineati con gli interessi generali della specie umana di quanto non lo siano le democrazie liberali del mondo sviluppato e i loro eccentrici cantastorie.

Per restare umani, come minimo, dobbiamo costruire un media che impedisca che rimangano l’unica voce in circolazione.

Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lucia Annunziata.