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La critica alla sinistra alla moda e l’accusa di rossobrunismo

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Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del rossobrunismo. E il suo nome, è Sahra Wagenknecht. Più o meno, così alcuni ce la raccontano.

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Chi è Sahra Wagenknecht? La critica alla sinistra alla moda e l’accusa di rossobrunismo

Maischberger – 2023-02-08

Uno spettro si aggira per l’Europa!
È lo spettro del rossobrunismo ed ha un aspetto terrificante, il suo: si chiama Sarah Wagenknecht ed ha causato un vero e proprio terremoto in quel che rimane della così detta sinistra radicale europea.
Per la prima volta dai tempi della riunificazione tedesca, infatti, la scorsa settimana un partito ha proclamato il proprio autoscioglimento al Bundestag. Il partito in questione è Die Linke, un partito di sinistra radicale di cui Sarah Wagenknecht faceva parte e da cui in questi giorni ha annunciato la scissione insieme a un nutrito gruppo di parlamentari. Il nuovo partito si chiamerà Alleanza Sahra Wagenknecht, e il motivo della scissione è che agli occhi della Wagenknecht Die linke da forza radicale si è trasformata nell’ennesima variante di quella sinistra liberista e anti-popolare che anche noi in Italia, purtroppo, conosciamo molto bene.
Ma se anche potrebbe sembrare l’ennesima inutile scissione a sinistra e l’ennesimo partitino personalistico destinato sparire in poco tempo, questa volta le cose potrebbero andare diversamente.

Innanzitutto, la Wagenknecht è dei uno dei personaggi pubblici più conosciuti in Germania, il suo libro “critica alla sinistra neo-liberale” è stato per anni un best-seller, e secondo un sondaggio del periodico Frankfurt Allgemeine Zeitung il 27% dei tedeschi non escluderebbe di votare il suo nuovo partito.
Inoltre, l’attuale coalizione di sinistra che governa la Germania è forse uno dei più grandi fallimenti politici degli ultimi decenni, avendo spinto il paese sull’orlo della recessione a causa di una politica estera suicida, e avendo così trasformato l’AFD, il principale partito dell’estrema destra tedesca, e di gran lunga il primo partito in molti dei laender economicamente più arretrati. La sinistra liberal e alla moda insomma, in questi anni di governo del paese ha sfoggiato senza ritegno tutte le proprie ipocrisie, contraddizioni, e soprattutto incapacità di perseguire l’interesse nazionale e popolare, aprendo finalmente gli occhi a molti elettori e forse lo spazio ad un soggetto politico nuovo. La cosa sorprendente però, è che alcune delle persone interessate alla proposta politica della Wagenknecht sembrerebbero proprio molti degli attuali elettori dell’AFD.

Ma non è una novità.

Una delle accuse che le sono state più spesso rivolte in questi anni infatti, appunto, è quella di rosso-brunismo, a causa delle sue posizioni sovraniste, del suo scetticismo su alcune politiche ambientaliste e alla sua posizione decisamente conservatrice relativamente alle politiche migratorie.
Ma quale è quindi la vera linea politica della Wagenknecht? E perché le sue proposte si pongono perfettamente agli antipodi rispetto a quelle della “sinistra della ZTL”?

“Il rappresentante della sinistra alla moda è cosmopolita e ovviamente a favore dell’Europa. Si preoccupa per il clima e si impegna in favore dell’ dell’immigrazione e delle minoranze sessuali. È convinto che lo Stato nazionale sia un modello in via di estinzione e si considera cittadino del mondo senza troppi legami con il proprio paese. Non può – né desidera – essere definito un “socialista”: semmai un liberale di sinistra.”

Nel suo libro “Critica alla sinistra neo-liberale”, uscito nel 2021 e pubblicato in Italia da Fazi editore, la Wagenknecht condensa il proprio manifesto politico e dipinge un ritratto realistico della sinistra occidentale degli ultimi decenni. Ad esser sinceri il titolo italiano non rende giustizia all’originale tedesco, che sarebbe Die Selbstgerechten, letteralmente “i pieni di sé”, “i presuntuosi”, con riferimento all’atteggiamento presuntuoso ed elitario dell’elettore medio della sinistra liberale.

«“Sinistra”, scrive Wagenknecht “era un tempo sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale, di resistenza, di rivolta contro la classe medio-alta e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra”, prosegue la Wagenknecht, “voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale, rendere loro la vita più facile, più organizzata e pianificabile. Chi era di sinistra credeva nella capacità della politica di plasmare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato. Nel complesso”, conclude la Wagenknecht, “una cosa era chiara: i partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o, in molti paesi dell’Europa occidentale, comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati».

Ma oggi le cose sono evidentemente cambiate. L’autrice individua il punto di svolta nella cosiddetta “terza via” di Clinton, Blair e Schröder, che diede inizio alla seconda ondata di riforme economiche neoliberali dopo quella di Reagan e di Thatcher, e che trovò come sappiamo illustri imitatori anche nella sinistra italiana. Se un tempo al centro dell’interesse dei partiti di sinistra c’erano i problemi sociali ed economici da cui lo Stato aveva il dovere di emancipare la maggioranza della popolazione, oggi per la “sinistra alla moda” come la chiama Wgenknecht, sembra che i problemi fondamentali delle persone comuni non riguardino la sicurezza sociale e la povertà, ma bensì questioni come gli stili di vita, le abitudini di consumo, e i giudizi morali sul comportamento individuale. Problemi insomma più facilmente risolvibili con qualche lezione di bon ton e qualche appuntamento dall’armocromista piuttosto che con nuove politiche sociali ed economiche. Frutto di questo approccio ai problemi secondo Wagenknecht sono due distinti cambi di linea politica: il primo è lo spostamento dal campo dei diritti sociali a quello dei diritti civili e, più di recente, della salvaguardia ambientale; il secondo è la sostanziale adesione all’identificazione concettuale e politica, prima solo della destra, tra politiche economiche neoliberiste e l’idea di “progresso”.

Altro aspetto distintivo della sinistra alla moda, scrive la Wagenknecht, è quello di risultare ipocrita e poco simpatica, e questo perché: “pur sostenendo una società aperta e tollerante, mostra di solito nei confronti di opinioni diverse dalle proprie un’incredibile intolleranza”.

E Di questo atteggiamento intollerante e presuntuoso la stessa Wagenknecht ci offre diversi esempi che ci ricordano le etichette dispregiative e gli slogan a cui anche noi in Italia siamo purtroppo abituati. «Chi si aspetta che il proprio governo si occupi prima di tutto del benessere della popolazione interna e la protegga dal dumping internazionale e da altre conseguenze negative della globalizzazione – un principio, questo, che per la sinistra tradizionale sarebbe stato ovvio – viene oggi etichettato come nazionalsociale” (L’insulto corrispettivo di “sovranista” in Italia) E «chi non trova giusto trasferire sempre più competenze dai parlamenti e dai governi prescelti a un’imperscrutabile lobbycrazia a Bruxelles è di certo un antieuropeo».
Come ci viene ripetuto continuamente in Italia, chi desidera che l’immigrazione sia regolamentata è un razzista, chi ritiene che il Trattato di Maastricht e la moneta unica abbia in gran parte danneggiato i lavoratori e la nostra economia è un “nostalgico della liretta”, chi ritiene che lo Stato debba recuperare alcune prerogative fondamentali è una persona fuori dal tempo che non ha capito che siamo nell’epoca della globalizzazione. Come ricorda anche Vladimiro Giacchè nell’Introduzione al libro, tra gli aspetti importanti di questo saggio c’è poi il coraggio di mettere direttamente in questione valori fondamentali della sinistra alla moda come l’individualismo e il cosmopolitismo.

Wagenknecht osserva infatti che: «con questi valori si può sottrarre legittimità tanto a una concezione dello Stato sociale elaborata entro i confini dello Stato nazionale, quanto a una concezione repubblicana della democrazia. Ricorrendo a questo canone di valori, è possibile inserire il liberismo economico, la globalizzazione e lo smantellamento delle infrastrutture sociali in una narrazione che li fa apparire alla stregua di cambiamenti progressisti: una narrazione che parla di superamento dell’isolamento nazionalista, dell’ottusità provinciale e di un opprimente senso della comunità, una narrazione a favore dell’apertura al mondo, dell’emancipazione individuale e della realizzazione di sé».

Naturalmente, questa mutazione antropologica delle sinistre occidentali non poteva che spianare la vittoria delle destre più reazionarie proprio tra gli strati più disagiati della popolazione. Questi elettori vedono nella retorica e nelle politiche della sinistra alla moda un duplice attacco nei propri confronti: un attacco ai loro diritti sociali, in quanto viene descritta come modernizzazione progressista proprio la distruzione di quello stato sociale che dava loro benessere e la sicurezza; ma al tempo stesso un attacco ai loro valori e al modo in cui vivono, costantemente delegittimato moralmente e squalificato come retrogrado.
Insomma, conclude la Wagenknecht, possiamo tranquillamente dire che i partiti di sinistra occidentale oggi non rappresentino più gli interessi degli ultimi e dei più svantaggiati, ma anzi quelli di una up-middle class metropolitana che anche attraverso la sua sostanziale egemonia negli apparati mediatici e culturali combatte ogni giorno con gli artigli per conservare i propri privilegi e contemporaneamente affossare, come fisiologico in ogni lotta di classe, le condizioni di vita delle classi sociali inferiori.
Eppure, nonostante tutto questo, i rappresentanti della sinistra alla moda non sembrano proprio capacitarsi di come mai non vengano più votati nelle provincie e nelle periferie, o meglio, lo hanno capito. Il motivo è che essendo i poveri (detto tra noi) un pò ignoranti e retrogradi, non sono nemmeno in grado poverini di capire quali sono o loro veri interessi, e così si lasciano facilmente abbindolare da quei rozzi populisti e sovranisti. Insomma, se il popolino fosse un tantino più illuminato e moralmente progredito, immediatamente capirebbe che i populisti stanno parlando alla loro pancia e non alla loro testa, che la realtà è più complessa di come sembra, e che costruire ponti è sempre molto più saggio che costruire muri.

La seconda parte del libro della Wagenknecht è dedicata invece alla sua proposta politica.

Ovviamente qui ci limitiamo a richiamare i punti più interessanti, non potendo analizzare tutto nel dettaglio né discutere alcune delle sue teorie più controverse sul clima e sull’immigrazione. Uno dei motivi per i quali molti ex elettori di sinistra hanno cominciato a votare a destra, riflette la Wagenknecht, è che una certa destra sociale anche se quasi sempre solo a parole, ha continuato a fare riferimento a concetti come comunità, nazione, e difesa senza e senza ma dei propri cittadini, che invece la sinistra alla moda ha sostanzialmente abbandonato in nome del liberismo economico, del cosmopolitismo, dell’individualismo. La sinistra del futuro quindi, riallacciandosi alla propria tradizione socialista, dovrà recuperare questi valori, che non sono valori retrogradi o identitari, ma anzi possiedono una forte carica democratica e di emancipazione umana e materiale.

“Una sinistra che ridicolizzi il pensiero comunitario e i valori che da esso derivano perde consensi e diventa sempre più ininfluente. Ma non si tratta solo di questo. La vera domanda è un’altra: i valori comunitari sono davvero invecchiati e superati? Il desiderio di vivere in un mondo fidato e riconosciuto, di avere posti di lavoro sicuri, di risiedere in quartieri tranquilli e godere di rapporti familiari stabili è davvero un sentimento retrogrado? Oppure questi valori non sono invece un’alternativa molto più convincente al capitalismo sfrenato, che si fa portavoce dell’individualismo, dell’autorealizzazione priva di vincoli, dell’idea tipica del liberalismo di sinistra di essere cittadini del mondo, un’idea che, guarda caso, si adatta particolarmente bene all’ambiente economico dei mercati globali e alle aspettative di mobilità e flessibilità delle imprese?”

Ma il vero e proprio nemico politico del pensiero liberista di destra e di sinistra, è secondo la Wagenknecht lo Stato nazionale. Secondo la retorica della destra liberista, che combatte ogni giorno e senza ipocrisie contro la redistribuzione della ricchezza e a favore delle oligarchie finanziare, lo Stato deve essere abbattuto in quanto il welfare sarebbe troppo costoso, la burocrazia limiterebbe la libera impresa, e la gestione privata dei servizi sarebbe ontologicamente più efficiente di quella pubblica. La variante di sinistra a questo attacco allo Stato invece, consiste nel rappresentare lo Stato nazionale:«non solo come obsoleto, ma addirittura come pericoloso, ovvero potenzialmente aggressivo e guerrafondaio. Per questo i contributi del liberalismo di sinistra sul tema culminano quasi sempre con l’avvertimento che non ci deve essere un ritorno allo Stato nazionale, come se esso facesse parte del passato e noi vivessimo già in un mondo transnazionale».
In Italia, dove l’esterofilismo snob della elite di sinistra ha ormai raggiunto livelli surreali, va di moda dire che per loro limiti ontologici gli italiani non sarebbero in grado di governarsi da soli, e che quindi dovremmo immediatamente cedere quanti più poteri e sovranità possibile ai tecnici dell’Unione europea, i quali non essendo stati eletti non sarebbero populisti e saprebbero sicuramente tutelare meglio di noi il nostro interesse. Ma al di là di questa parentesi un pò folkloristica e tornando al testo della Wagenknecht, all’autrice l’idea che l’UE possa sostituire le democrazie nazionali appare invece una pericolosa illusione.

I diritti attribuiti al Parlamento europeo infatti non solo sono ben poco rilevanti, ma funzionano oggi da malcelata copertura a una deterritorializzazione delle decisioni politiche a vantaggio di poteri sovranazionali opachi e sostanzialmente privi di legittimazione democratica.

«Il progressivo scivolamento delle competenze decisionali dal piano nazionale più controllabile ed esposto alla sorveglianza pubblica” scrive Wagenkncht “a quello internazionale, poco trasparente e facilmente manovrabile da banche e grandi imprese, significa allora soprattutto una cosa: la politica perde il suo fondamento democratico».

Alla pericolosa utopia europeista, per la quale per incanto i 27 Stati membri a suon di pacche sulle spalle si unificheranno in un grande abbraccio democratico e fraterno, Wagenknecht contrappone allora un’altra prospettiva: «il livello più alto in cui potranno esistere istituzioni, che si occupino del commercio e della soluzione di problemi condivisi e siano controllate in modo democratico, non sarà in tempi brevi né l’Europa né il mondo. Sarà, invece, il tanto vituperato e troppo precocemente dato per morto Stato nazionale. Esso rappresenta al momento l’unico strumento a disposizione per tenere sotto controllo i mercati, garantire l’uguaglianza sociale e liberare determinati ambiti dalla logica commerciale. È quindi possibile ottenere maggiore democrazia e sicurezza sociale non limitando, bensì accrescendo la sovranità degli Stati nazionali».

Per concludere, vorrei fare infine un accenno alla politica estera.

In questi anni la Wagenknecht ha spesso preso posizione contro le politiche americaniste del proprio paese, soprattutto durante la guerra in Ucraina e riguardo alle suicide sanzioni economiche imposte alla Russia. Ma sia nel suo libro che nelle sue ultime dichiarazioni la questione della vitale lotta di indipendenza tedesca dagli Usa non viene affrontata abbastanza, e questo nonostante sia assolutamente evidente come tutte le derive della sinistra europea che lei dice di combattere siano una chiara importazione dei valori e del modello culturale del partito democratico americano. In generale, credo si possa però dire che la descrizione della Wagenknecht della sinistra alla moda sia giusta e calzante, e che la sua proposta politica sia interessante in moltissimi aspetti anche se decisamente discutibile in altri.

E se anche tu ti auguri che anche in Italia possano affermarsi nuovi soggetti politici liberi dalle maglie ideologiche collaborazioniste, abbiamo bisogno di un media libero e indipendente che combatta l’egemonia culturale della sinistra alla moda

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Palestina come Haiti: le rivolte degli schiavi che non piacciono alla sinistra imperiale

Omar è un ormai non più giovanissimo giornalista e vive nella più grande prigione a cielo aperto del globo, il lager più amato dai democratici di tutto il pianeta: la Striscia di Gaza.

Sono le 6 di sabato mattina, quando una serie di boati lo svegliano di colpo: è un rumore che conosce fin troppo bene. Era il giugno 2006; gli israeliani si erano ritirati da Gaza da meno di un anno. Troppo rischiosa. Vuoi mettere un caro vecchio assedio? Massimo risultato col minimo sforzo e sostanzialmente senza pericoli, a parte i famigerati razzi Qassam.

Da quando le forze armate israeliane si erano ritirate, le milizie di Hamas ne avevano sparati oltre 700, fortunatamente – e ovviamente – senza grosse conseguenze, ma abbastanza per scatenare l’ira dell’occupante.

Inizia così la campagna Pioggia d’estate. Gli israeliani, alle loro campagne, danno spesso nomignoli. Nell’arco di pochi giorni la reazione israeliana causerà oltre 400 morti e 1000 feriti; uno di loro era appunto il nostro Omar, che capisce subito che a questo giro c’è qualcosa di anomalo.

Si ricordava ancora di quando, nel febbraio del 2008, gli israeliani avevano ucciso 115 palestinesi nell’operazione Inverno caldo: a provocarli, 200 Qassam lanciati nell’arco di una notte.

Pochi mesi dopo, a dicembre, le milizie di Hamas avevano deciso di fare le cose in grande: 360 razzi nell’arco di qualche giorno. La risposta, a questo giro, venne ribattezzata Piombo fuso: oltre 1500 vittime palestinesi, contro 10 israeliane.

Questa volta però Omar non riusciva a tenere il conto. Quelli che sentiva partire non erano decine di razzi, nemmeno centinaia. Erano migliaia. Non era mai successo prima e nessuno sospettava stesse per accadere adesso.

Omar decide subito di prendere la macchina e andare a vedere di persona: si dirige verso il valico di Erez, il passaggio obbligato per quei pochi fortunati che hanno ottenuto il permesso di uscire dalla prigione Gaza per l’ora d’aria, e quando arriva si trova di fronte a una scena incredibile.

Era aperto”, racconta Omar al Middle East Eye, “e un gran numero di persone lo stavano attraversando con ogni mezzo a disposizione. Chi su una macchina scassata, chi in moto, chi a piedi”. Proprio mentre Omar sta attraversando il valico, ecco che arrivano i primi aerei israeliani;

aprono il fuoco, per disperdere la folla “ma alla gente non importava”, racconta Omar, “continuavamo ad attraversare il confine come se nulla fosse” e, una volta attraversato, Omar viene sopraffatto da una sensazione indescrivibile.

Ho provato gioia e ho iniziato a piangere”, ha raccontato Omar. “Anche la gente attorno a me ha cominciato a piangere e a prostrarsi perché era entrata nella terra da cui era stata sfollata nel1948. Eravamo in uno stato di stupore mentre giravamo, liberi, nelle nostre terre, fuori dalla prigione che è Gaza. Sentivamo di avere il controllo delle nostre terre”.

Di fronte a Omar scene sconcertanti, di una violenza che ti lacera il cuore, o almeno lo lacererebbe a chi ormai di violenze di ogni genere ne ha viste troppe, e da lacerare non c’è rimasto più niente:

giovani soldati israeliani, “quelli che eravamo abituati a vedere di vedetta sul confine, e che avevamo visto innumerevoli volte aprire il fuoco contro i nostri bambini e i nostri giovani amici”, ora venivano sopraffatti con violenza dai combattenti palestinesi, e si presentavano “nella loro forma più debole”.

Morte e distruzione erano ovunque, eppure Omar, “per la prima volta nella sua vita, si sentiva profondamente felice”, commenta l’articolo; “aver messo piede su quelle terre ed essere uscito anche se solo per un attimo dall’enclave assediata dove era stato recluso per gran parte della sua vita è stata una forma di liberazione” anche se, in quelle poche ore, “alcuni dei miei amici e uno dei miei cugini”, ha raccontato Omar, “sono scomparsi, e un altro è stato ucciso”.

Quando ti strappano via con la violenza ogni forma di normalità, la tua nuova normalità – per qualsiasi persona che non abbia condiviso le tue sofferenze – è necessariamente incomprensibile.

Ho vissuto tutta la mia vita sotto assedio”, ha raccontato Omar, “e questa era la prima volta in assoluto che mi sentivo libero”.

Poche ore dopo Omar è tornato nella sua minuscola casa dentro la prigione di Gaza, e il giorno dopo è andato a scattare qualche foto ad una famiglia che si era vista distruggere completamente la casa dagli attacchi aerei israeliani: “Il padre di famiglia”, racconta Omar, “mi ha detto: anche se ci uccidono, a questo giro moriremo a testa alta. lasciate pure che ci uccidano quanto vogliono”.

Tutte le altre volte erano loro a venire da noi: ci uccidevano, uccidevano i nostri figli, giustiziavano intere famiglie”, ha raccontato Omar. E a loro non era concesso che assistere inermi, rinchiusi nella loro gabbia. “Questa è la prima volta che resistiamo e riusciamo a entrare, anche se solo per un momento, nelle terre dalle quali siamo stati cacciati

E’ il racconto più realistico, complesso e straziante che ho sentito fino ad oggi di questa incredibile nuova fase dell’eterna guerra di resistenza che l’occidente democratico globale ha imposto a questi ultimi della terra. Riusciremo, dall’alto della nostra supponenza perbenista di privilegiati e anche un po’ conniventi, a farci veramente i conti?

Che la controrivoluzione neoliberista non si fosse limitata a renderci tutti più poveri e meno liberi, ma che ci avesse anche imposto una gigantesca involuzione culturale e anche antropologica, noi lo abbiamo sempre sostenuto, ma lo spettacolo messo in scena in questi giorni dai benpensanti di ogni colore politico supera di slancio anche la più catastrofista delle previsioni.

Il primo dato è la vittoria egemonica dell’idea postsfascista delle responsabilità di ogni forma di resistenza; per 70 e passa anni, l’idea comune di ogni democratico antifascista, anche il più moderato, è stata che la responsabilità delle rappresaglie degli occupanti non possa mai essere attribuita ai resistenti.

I resistenti conducono una guerriglia con tutti i mezzi a loro disposizione, compresi i più cruenti, e le razzie che inevitabilmente provocano sono conseguenze inevitabili che non ne mettono in discussione la legittimità morale.

A pensarla diversamente, fino a poco tempo fa, era solo la marmaglia fascistoide che oggi, evidentemente, è diventata egemone: l’idea è che lo schiavo se ne deve fare una ragione e non deve fare niente che possa scatenare l’ira funesta del padrone. Tanto in schiavitù ci vive lui, mica noi.

Nell’occidente del pensiero unico e dell’encefalogramma piatto, l’idea che qualcuno – come la famiglia di Gaza descritta da Omar – sia disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari per tentare una volta nella vita di alzare la testa e rivendicare la sua dignità è tabù.

Viviamo in una realtà così radicalmente separata da non avere proprio gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi, senza troppi calcoli, costi quel che costi, è l’unica opzione veramente razionale per chi vive in determinate condizioni.

International Journalism Festival from Perugia, Italia / Ph. Alessandro Migliardi

Un vero e proprio capolavoro da questo punto di vista è l’articolo di Francesca Mannocchi su La Stampa di ieri: “Hamas condanna Gaza a restare una prigione”, scrive il volto più amato dal popolo dei teleaperitivi romani di Propaganda Live.

Li mortacci loro: proprio ora che insieme a Zoro e Makkox stavano preparando una petizione che gli avrebbe portati, dopo 16 anni di prigionia, a una sicura liberazione.

Ricordate sempre: con la giusta dose di galateo, basta chiedere.

Ma la retorica astratta e benpensante della Mannocchi è roba da principianti di fronte ai livelli apicali raggiunti dalla Maestra: Lucia Annunziata, che come ci si aspetta che gli schiavi si debbano comportare lo spiega a tutto il mondo grazie all’azione illuminante dell’Aspen Institute, finanziato con i soldi dei Rockefeller e della famiglia Gates.

Annunziata, sempre dalle pagine de La Stampa, ci spiega come “Hamas ci sta regalando una delle peggiori pagine di sempre del conflitto Israele-Palestina”.

Che sia il popolo palestinese”, spiega la Annunziata, “a vendicarsi con gli strumenti del terrore, della violenza, della violazione delle donne, dei bambini, dei vecchi, rompendo lo spazio di ogni diritto umano, lo stesso che ha sempre invocato per la propria difesa, è un atto indegno, repellente, che sporca la dignità delle stesse sofferenze dei Palestinesi”.

Contessa, sapesse…

Studiano una vita, conquistano incarichi di prestigio e poi non sanno far altro che ripetere le stesse identiche formule che gli schiavisti illuminati impiegavano già nel 1700.

Quando gli schiavi di Haiti si ribellarono ai loro padroni ormai tre secoli fa, dando vita alla prima repubblica guidata da ex schiavi del pianeta, per giorni e giorni si dilettarono a razziare ogni abitazione incontrassero sulla loro strada, prendere donne e bambini, seviziarli, mozzargli la testa, e poi attaccarla a dei pali esposti in bella mostra. Gli schiavi purtroppo spesso son fatti così: i padroni illuminati si dimenticano, tra una frustata e l’altra, di impartirgli adeguate lezioni di galateo, e così diventano difficilmente presentabili in società.

Una cosa a dir poco disdicevole, e che ora sembra porci di fronte a un dilemma insolvibile: che requisiti devono avere gli schiavi per essere degni di pretendere di liberarsi dalla loro schiavitù?

Perché non introdurre dei test standardizzati formulati dalle cancellerie dell’occidente democratico che certifichino chi ha diritto a liberarsi e chi invece, per il bene suo e di chi gli sta accanto, deve invece rimanere in cattività? Lanciamo una petizione su change.org?

Ora, intendiamoci, chiunque abbia anche solo un minimo di umanità, di fronte ad alcune delle scene a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni non può che rimanere ovviamente sconcertato, come d’altronde chiunque non fosse rimasto sconcertato di fronte alle teste mozzate dei bambini bianchi nella Haiti del ‘700 celava in se un piccolo cucciolo di serial killer.

Ma è proprio la prospettiva ad essere completamente distorta: è il mondo visto da chi la schiavitù non l’ha mai assaporata sulla sua pelle. Il punto ovviamente non è fare la graduatoria degli atti più efferati; il punto è che nel mondo esistono cause ed effetti, azioni e reazioni.

Se uno schiavo ti taglia la testa, il punto non è la moralità dello schiavo, ma la schiavitù; chi dà pagelle agli schiavi è tra le fila degli schiavisti, a meno che sia uno schiavo a sua volta.

Loro le pagelle non solo hanno il diritto di darle: hanno il dovere. Il punto però è che gli schiavi palestinesi quelle pagelle – mi duole dirglielo, signorina Annunziata – le hanno già date

e per quanto le possa sembrare aberrante, quelli che dal suo punto ci stanno regalando “una delle peggiori pagine di sempre del conflitto israelo-palestinese”, in realtà sono stati promossi a pieni voti: chieda al nostro amico Omar, se non mi crede.

A mio modestissimo avviso, che le azioni di Hamas non possano essere tacciate superficialmente di avventurismo, ma che affondino le loro radici in un consenso popolare solido e ampio, si deduce anche da un’altra cosa: da giorni la domanda che ci tormenta un po’ tutti, da noi complottisti sfegatati fino alle più autorevoli firme del baraccone mainstream, è come minchia sia possibile che l’onniscente intelligence israeliana si sia fatta cogliere così impreparata.

In molti sospettano una qualche forma di connivenza, un po’ in stile strategia della tensione, diciamo; sinceramente, non mi sento di escluderlo. Sennò che complottista sarei?

In mancanza di elementi concreti, però, proporrei un’altra chiave di lettura: li hanno fregati sul serio.

Ovviamente hanno pesato una serie infinita di concause: la spaccatura politica interna a Israele, l’essersi focalizzati sulla difesa dei coloni in Cisgiordania, e chi più ne ha più ne metta. Ma c’è un altro aspetto che, a mio avviso, non è stato adeguatamente sottolineato: per mettere in piedi un’operazione del genere, senza farsi fregare, c’è bisogno del sostegno di tutti. Non che tutti siano direttamente coinvolti, ovviamente, ma il sostegno deve essere, se non unanime, perlomeno molto diffuso, trasversale, e anche parecchio solido. Non ci possono essere crepe che permettano al nemico di insinuarsi e ci devono essere amici fidati ovunque: così a occhio, è l’idea che si sono fatti anche gli israeliani che stanno agendo di conseguenza, perché se il problema non è un’avanguardia di avventurieri, ma il sostegno unanime che godono in una popolazione esasperata che non ha più niente da perdere, allora il nemico non è più semplicemente un’organizzazione militare, è il popolo tutto. Senza distinzione.

Ecco così che, da questo punto di vista, la reazione terroristica israeliana – che mira proprio a colpire indiscriminatamente tutta la popolazione senza troppi distinguo – è cinicamente razionale,

e il moralismo stucchevole dei benpensanti non fa altro che offrirgli una solida giustificazione.

E’ un altro esempio del classico cortocircuito che unisce sinistra imperiale e criptofascisti: la sinistra imperiale sparge giudizi moralistici a destra e manca convinta che la vera aspirazione di tutti i popoli sia essere guidati dalla Emma Bonino di turno, e i criptofascisti poi ci mettono il carico da 40 del realismo politico. Sostengono, non senza ragioni, che in realtà alla fine il popolo è complice delle classi dirigenti che si ritrova, e quindi se di animali si tratta – come li definiscono gli stessi pidioti per primi – l’unica soluzione è sterminare tutti e così si fa pari e patta.

Che le posizioni ufficiali del nord globale portino dritte in quella direzione mi sembra piuttosto evidente: gli USA hanno già promesso una ventina abbondante di nuovi caccia tra F-16 e F-35

e al confine col Libano la situazione si fa di ora in ora più incandescente.

Ovviamente, in tutto questo, che al governo in Israele attualmente ci siano i fascisti veri, dichiarati, e non quelli immaginari di Hamas, passa ovviamente in secondo piano; d’altronde, dopo che hai spacciato per partigiani i neonazisti di Azov e pure quelli vecchio stile della 14esima divisione delle SS, vale tutto, diciamo.

Fortunatamente però, nel frattempo, il mondo ha smesso di sperare nelle sorti umane e progressive della sinistra imperiale del nord globale e si è cominciato ad attrezzare diversamente: ed ecco così che, anche in questo caso, l’unica speranza che l’armageddon possa essere almeno rimandato arriva di nuovo da quello che pidioti e criptofascisti, come un sol uomo, definiscono “l’asse del male”, e cioè tutti i paesi che non sostengono acriticamente l’agenda imperiale di Washington e di Tel aviv, a prescindere dalle forme concrete di governo che si sono dati. Una strana accozzaglia, fatta spesso di regimi impresentabili che, ciò nonostante, anche in questo caso dimostrano di essere più allineati con gli interessi generali della specie umana di quanto non lo siano le democrazie liberali del mondo sviluppato e i loro eccentrici cantastorie.

Per restare umani, come minimo, dobbiamo costruire un media che impedisca che rimangano l’unica voce in circolazione.

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E chi non aderisce è Lucia Annunziata.