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Tag: sicurezza nazionale

La fine dell’exit strategy: come Hamas costringe gli USA a impantanarsi di nuovo in Medio Oriente

La regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto lo sia mai stata negli ultimi vent’anni”. Con questa illuminante profezia, Jake Sullivan è finalmente riuscito a spodestare Piero Fassino e si è consacrato come il più grande raccoglitore di figure di merda dell’intero globo. Era soltanto il 29 settembre scorso e, appena una settimana dopo, quel Medio Oriente pacificato sognato da Sullivan tornava ad infiammarsi come non accadeva da diversi lustri, rendendo ancora più fitte, cupe e indecifrabili le nubi che ci separano dal nostro futuro. E quel che è più grave è che Sullivan, per portare il pane a casa e pure il companatico, e pure parecchi extrabonus in più, fa nientepopodimeno che il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA. Che se minimamente davvero ci tengono non dico alla nostra, di sicurezza – che la risposta la sappiamo già – ma anche solo alla loro, i suoi consigli farebbero bene a non ascoltarli proprio proprio pedissequamente, diciamo. “L’Asia occidentale potrebbe essere diretta verso una guerra su larga scala che si estenderà ben oltre la striscia di Gaza e Israele”, ammoniva enfaticamente ieri Hasan Illaik dalle pagine di The Cradle; “La guerra è iniziata”, si intitola l’articolo. E’ la stessa previsione nefasta condivisa anche da Suzanne Maloney dalle pagine di Foreign Affairs: vice presidente del Brooking Institute, quando si parla di Medio Oriente la Maloney è una delle voci più ascoltate di Washington, a prescindere da chi sia ai posti di comando. “Ciò che è iniziato”, scrive, “quasi inesorabilmente è la prossima guerra. Una guerra che sarà sanguinosa, costosa e terribilmente imprevedibile nel suo corso e nei suoi esiti”. Per tutti i nuovi adepti di ogni schieramento politico della teoria postfascista, secondo la quale la colpa delle ritorsioni degli occupanti ricade sulle spalle dei resistenti, ovviamente, la responsabilità è tutta di Hamas, che come un Putin qualsiasi ha agito senza essere manco stata provocata.

Fortunatamente però c’è ancora qualcuno che non si è completamente bevuto il cervello, come Jonathan Cook, che dalle colonne di Middle East Eye prova disperatamente a ricordarci una cosa che a me pareva abbastanza ovvia, ma evidentemente non lo era: “Va detto”, scrive, “che la popolazione di Gaza stava lentamente e nel disinteresse di tutti affrontando un lento e apparentemente tranquillo percorso verso la cancellazione definitiva”.
Con il consenso e la complicità di sostanzialmente tutto il resto del mondo, nonostante politiche che Cook non fatica a definire esplicitamente genocide, “negli ultimi 16 anni il sostegno occidentale a Israele non ha mai vacillato, nonostante Israele stesse trasformando Gaza, dalla più grande prigione a cielo aperto del mondo, in una raccapricciante camera di tortura dove i palestinesi sono stati sottoposti a una lunga serie di esperimenti: cibo razionato, beni essenziali negati, accesso all’acqua potabile gradualmente rimosso e cure mediche impedite”. In queste condizioni, continua Cook, “i politici europei non si sono limitati a non fare niente per intervenire, ma anzi hanno premiato Israele con un sostegno infinito e incondizionato di carattere finanziario, diplomatico e anche militare. La verità è che senza un sostegno così incondizionato della politica occidentale, e senza la complicità dei media che ribrandizzano i furti di terre da parte dei coloni e l’oppressione da parte delle forze armate israeliane come una sorta di “crisi umanitaria”, Israele non sarebbe mai riuscita a farla franca con i suoi crimini. Sarebbe stato costretto a raggiungere un accordo adeguato con i palestinesi, e sarebbe stato costretto a normalizzare davvero i rapporti con i vicini arabi senza costringerli ad accettare una pax americana in Medio Oriente”.

Una pax americana che – dagli e ridagli – alla fine aveva convinto finanche i sauditi ad ingoiare la pillola: come ricorda Spencer Ackerman su The Nation infatti, “A nessuno, men che meno i palestinesi, sfugge che nel 2002 l’allora principe ereditario saudita Abdullah bin Abdul Aziz condizionava il riconoscimento di Israele a quello dello stato palestinese. Ora”, invece, “il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha rimosso tale condizione. Durante un’intervista del 20 settembre con Bret Baier di Fox News, ad esempio, si è impegnato solo per “una buona vita per i palestinesi”, parole che molti dei miei interlocutori hanno interpretato come l’accettazione di Riyadh dell’occupazione a tempo indeterminato”.

Per quanto oggi siate turbati, la verità è che il vostro turbamento negli ultimi 20 anni non aveva impedito ad Israele, con il sostegno di tutto l’Occidente e anche del mondo arabo, di portare sostanzialmente a compimento il suo progetto genocida: “una politica di incessante escalation” – come la definisce lucidamente Cook – “venduta dai media occidentali come “calma” e “tranquilla”, almeno fino a che i palestinesi non si azzardano a tentare di reagire ai loro aguzzini. Solo allora si parla di escalation. Sono sempre e solo i palestinesi ad “intensificare le tensioni”. E a quel punto la riproposizione su scala allargata delle oppressioni permanenti inflitte da Israele può essere rietichettata come ritorsione”.

“Quello che ci si aspetta dai palestinesi”, conlcude Cook, “è che soffrano in silenzio”. Ma intrappolare nel silenzio la rabbia di un popolo fiero e ostinato, evidentemente, è più complicato del previsto.

La fine della exit strategy degli USA dal Medio Oriente”: così ha intitolato il suo lungo articolo apparso martedì su Foriegn Affairs Suzanne Maloney, secondo la quale “l’assalto di Hamas ha messo fine alle illusioni di Washington. Ad essere finita, almeno per chiunque abbia voglia di ammetterlo, l’illusione che gli Stati Uniti possano districarsi da una regione che ha dominato l’agenda della sicurezza nazionale americana nell’ultimo mezzo secolo”. L’idea del ritiro, suggerisce la Maloney, sarebbe maturata gradualmente, mano a mano che si cominciavano a fare i conti con i fallimenti in Iraq e Afghanistan, e si faceva avanti l’idea che le gigantesche risorse che erano state investite con scarsi risultati in quest’area erano ormai diventate indispensabili per fronteggiare adeguatamente la doppia sfida rappresentata da Russia e Cina. Ma per non lasciare l’intera area in balia delle mire espansionistiche dei due competitor geopolitici, bisognava prima ridisegnare i rapporti tra potenze regionali (ovviamente ammesso e non concesso che queste mire espansionistiche esistano davvero, ma d’altronde pretendere da un membro dell’establishment USA di ragionare in termini diversi dal puro dominio sarebbe velleitario, quindi andiamo avanti). Questo nuovo equilibrio tra potenze regionali che gli USA dovevano avviare prima di lasciare l’area in balia del suo destino, erano appunto gli accordi di Abramo che, per quelli che si ostinano ancora a credere davvero che gli interessi strategici degli USA cambino a seconda di chi c’è al governo, ricordiamo essere stati un’invenzione dell’amministrazione del populista Trump, che il democratico Biden ha fatto immediatamente sua; un’invenzione che però è rimasta sempre solo sulla carta. L’obiettivo finale infatti era allineare due dei tre attori principali della regione cioè sauditi e israeliani, mettendo all’angolo il terzo, l’Iran, cavallo di troia di russi e cinesi. Un piano che ha subito una brusca deviazione quando, con la mediazione cinese, in maniera del tutto inaspettata Iraniani e sauditi hanno deciso di tornare a parlarsi e saltato il piano, l’opportunità per gli USA di uscire dall’area per concentrarsi sulle loro sfide esistenziali, è sfumata. Secondo la Maloney, agli USA non rimane che “impiegare, nei confronti dell’Iran, lo stesso tenace realismo che ha informato la recente politica statunitense nei confronti di Russia e Cina: costruire coalizioni di coloro che sono disposti ad aumentare la pressione e paralizzare la rete terroristica transnazionale dell’Iran; ripristinare l’applicazione delle sanzioni economiche”, e usare tutti gli strumenti a disposizione, dalla “diplomazia”, alla “forza”, per scoraggiare l’aggressività regionale di Teheran. Insomma, da brava neocon integralista, l’importante è impedire che le forze regionali trovino una forma di convivenza, perché da qualsiasi forma di convivenza pacifica ne uscirebbero avvantaggiate Russia e Cina. Gli USA devono rinunciare alla exit strategy dal Medio Oriente non per stabilizzarlo, ma proprio per impedirne strutturalmente ogni volontà di stabilizzazione. Ed ecco così che “mentre la campagna di terra israeliana a Gaza inizia”, scrive la Maloney, “è altamente improbabile che il conflitto rimanga lì. L’unica domanda è la portata e la velocità dell’espansione della guerra”: l’importante per un neocon è che si parli sempre e solo di guerra, e che la parola pace non compaia mai. Ma come insegna l’Ucraina, e prima di lei l’Afghanistan – giusto per fare un esempio a caso – parlare volentieri di guerra non sempre significa avere anche idea di cosa occorre fare per vincerla, a partire proprio dalla campagna di terra a Gaza, che è più facile da dire che da fare. Come ricorda infatti l’Economist, ovviamente Hamas sapeva benissimo sarebbe arrivata, e potrebbe essere meno impreparata di quanto non sembri; già nel 2014, ricorda ancora l’Economist, “nello scontro con Israele le brigate di Hamas continuarono a combattere per 50 giorni” e oggi, “dopo numerose guerre, sono più agguerrite, innovative e meglio equipaggiate che mai”.

Le tattiche che abbiamo visto utilizzare da Hamas nell’attacco contro Israele”, titola Al Jazeera, “sono state tra le più sofisticate, finora. Il gruppo ha utilizzato aria, mare e terra in quelle che in termini militari sono note come operazioni multi-dominio”: prima ha utilizzato i droni per attaccare i posti di osservazione israeliani, poi ha lanciato una quantità infinita di missili che nessuno sospettava avessero, fino a saturare e rendere inefficace il tanto decantato iron dome,poi è passata all’infiltrazione fisica, attaccando il gigante israeliano da una miriade di direzioni diverse, compreso un fitto reticolo di tunnel di cui di nuovo nessuno sospettava l’esistenza.

Certo, lo so che sono solo subumani e che Israele, come baluardo delle democrazie avanzate in Medio Oriente, è sostanzialmente infallibile, ma magari un pizzico di umiltà in più non basta.

Per capirlo, è sufficiente guardare proprio la facilità con la quale è stata bucata l’intelligence: “La causa principale del fallimento dell’intelligence israeliana nei confronti di Hamas”, scrive il sempre ottimo Scott Ritter che – ricordiamo – per campare lavorava proprio nell’intelligence dei Marines, “è stata l’eccessiva fiducia che Israele riponeva nella raccolta e nell’analisi dell’intelligence stessa”.

Fare gli sboroni è bello, ma a volte fa male.

L’unità 8200” – che è l’unità delle forze armate israeliane incaricata dello spionaggio e delle intercettazioni di ogni segnale possibile immaginabile – “ha speso miliardi di dollari per creare capacità di raccolta di informazioni che assorbono ogni dato digitale proveniente da Gaza: chiamate al cellulare, e-mail e SMS. Gaza è il luogo più fotografato del pianeta e, tra immagini satellitari, droni e telecamere a circuito chiuso, si stima che ogni metro quadrato di Gaza venga ripreso ogni 10 minuti”. Per analizzare tutto questo materiale, l’unità 8200 ha sviluppato i suoi algoritmi di intelligenza artificiale, la cui efficacia e capacità predittiva sono state tra le chiavi dei grandi successi ottenuti appena due anni fa, nel 2021, con la campagna Guardiani del Muro, durante la quale sono state fatte 1500 vittime e sono stati decapitati i vertici di Hamas, il tutto senza perdere quasi nemmeno un uomo. Poi però, evidentemente, qualcosa si è rotto: “L’errore fatale di Israele”, scrive Ritter, “è stato quello di vantarsi apertamente del ruolo svolto dall’intelligenza artificiale nell’operazione Guardiani del Muro. Perché evidentemente, da allora, Hamas è riuscita a prendere il controllo del flusso di informazioni raccolte da Israele”. Secondo Ritter, sostanzialmente, li hanno fregati: invece che smettere di usare i canali di comunicazione controllati dagli Israeliani e analizzati dai loro sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale, li hanno continuati ad usare eccome, ma solo per mandare falsi segnali. Agli occhi del sistema tutto procedeva come al solito, mentre lontano dagli occhi del grande fratello israeliano, Hamas si preparava in tutta tranquillità a infliggergli una delle sconfitte più tragiche della storia del paese.

Fortunatamente c’è già un bel piano B: ad architettarlo, un nutrito gruppo di menti brillanti che mercoledì scorso si sono riunite in manifestazione a New York. Nel caso servissero, gli USA avrebbero già dato mandato di inviare nelle vicine basi sparse nella regione un’altra ventina abbondante di caccia F-16 e F-35; alcuni carichi di munizioni – sembra -sarebbero già arrivati. L’aarsenale della democrazia diventa così ufficialmente l’arsenale del genocidio. Ma come si fa a giustificare l’idea di radere più o meno completamente al suolo un fazzoletto di terra dove vivono ammucchiate come topi quasi 3 milioni di persone, per quasi la metà bambini?

Semplice. Così:

Libero: HAMAS DECAPITA I BIMBI
Il giornale: DECAPITANO I BAMBINI
La verità: SCOPERTI 40 PICCOLI CORPI MARTORIATI, MOLTI DECAPITATI
La stampa: LA STRAGE DEGLI INNOCENTI, ANCHE DEI NEONATI DECAPITATI TRA I CADAVERI

E così via; lo stesso identico titolo su tutti – e dico letteralmente tutti – i giornali italiani.

D’altronde, pretendere che gli sciacalli non facciano sciacallaggio sarebbe velleitario. Peccato però che a questo giro ci sia un problemino in più: questa notizia che occupa le prime pagine di tutti i giornali si basa infatti su un’unica fonte, una giornalista israeliana che lavora per un canale all news nato “per pubblicizzare nel mondo il punto di vista israeliano”, scriveva Haaretz al momento del lancio. Ma non solo, perché – come ha ammesso la giornalista stessa – questi bambini decapitati lei in realtà manco li ha visti. Gliel’hanno detto. A lei però. Agli altri giornalisti no. Samuel Forey è un giornalista indipendente che vive a Gerusalemme dal 2011 e che collabora con Le Monde e Mediapart; martedì anche lui era a Kfar Azza, nel kibbutz degli orrori ma, come dichiara su X, “Nessuno mi ha parlato di decapitazioni, tanto meno di bambini decapitati, ancora meno di 40 bambini decapitati”. Qualche sospettino è venuto anche all’agenzia di stampa di stato turca Anadolu, secondo la quale un portavoce delle forze armate israeliane avrebbe dichiarato che “l’esercito israeliano non ha nessuna informazione che confermi la vicenda dei bambini decapitati da Hamas”.

Tirare in ballo i bambini un po’ a casaccio, d’altronde, è un vecchio classico: tra i precedenti più celebri c’è quello che risale all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam, che poco dopo portò alla prima guerra del Golfo.

E’ il 10 ottobre del 1990 e a testimoniare di fronte al Comitato sui Diritti Umani del congresso USA appare una ragazzina di 15 anni; la identificheranno esclusivamente con il nome di battesimo, Nayrah. Dichiarò che in seguito all’invasione aveva assistito direttamente a membri delle forze armate irachene che entravano in un ospedale, toglievano i neonati dalle incubatrici e li lasciavano morire. La notizia ovviamente conquistò immediatamente le prime pagine di tutti i giornali e divenne subito uno dei cavalli di battaglia della narrazione che Bush padre spacciava a destra e manca per giustificare l’intervento. Due anni dopo, di Naryah si scoprì il cognome: al-Sabah, figlia di Saud al-Sabah, l’ambasciatore del Kuwait negli USA, e si scoprì che l’intera sua testimonianza faceva parte della campagna denominata Citizens for a Free Kuwait architettata dal governo del Kuwait e affidata al gigante delle pubbliche relazioni Hill & Knowlton per spingere appunto gli USA verso l’intervento. Ma al ridicolo non c’è mai limite: la performance migliore ieri ce l’ha infatti offerta l’inossidabile Lucio Malan, che ha pubblicato un video che ritrae dei bambini chiusi in una gabbia.

Malan ha fatto 1+1, ma il risultato gli è venuto 3.

Orrendo video pubblicato da Hamas,” ha scritto nel commento. “Bambini israeliani rapiti e tenuti in gabbie per animali. E ci sono varie altre gabbie pronte”. Ovviamente è immediatamente venuto fuori che era un video che girava da anni e che non c’è nessun rapimento; era un gioco, anche se – va ammesso – non particolarmente divertente direi.

https://twitter.com/LucioMalan/status/1711087104237650021

D’altronde funziona così: più è feroce, spietata e clamorosamente squilibrata la guerra che ci si approccia a combattere e più la propaganda deve alzare l’asticella, puntando alla deumanizzazione totale dell’avversario; una vecchia tecnica delle potenze colonialiste, poi perfezionata dal regime hitleriano, che ormai fa apertamente scuola. “Era giusto colpire di fatto tutti i tedeschi, per colpa dei crimini commessi dalla cricca nazista?” scrive in un post allucinogeno l’infaticabile Jacopo Iacoboni. “Certamente no” risponde, “ma nelle fasi finali della guerra questa distinzione finì per sfumare, perché bisognava distruggere i nazisti e impedire che continuassero a fare del male all’umanità”.

La soluzione finale ormai non è più tabù, ma una strategia come un’altra.

Fortunatamente in questa escalation di barbarie, ogni tanto emerge qualche bella storia. Basta volerla raccontare: Middle East Eye, la testata fondata dall’ex inviato del Guardian David Hearst, è una delle poche che non c’ha completamente rinunciato e sul suo profilo tiktok, ha rilanciato questa intervista:

@middleeasteye

Israeli woman speaks of experience with Hamas fighters. An Israeli woman gave an interview to a local Israeli channel recounting her experience with Hamas fighters when they entered her home following the Hamas-led attack of 7 October. #Hamas #Israeli #israel #learnontiktok #foryou #fyp

♬ original sound – Middle East Eye

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E chi non aderisce è Jacopo Iacoboni.