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Tag: schiavitù

Scandalo Giorgio Armani: come si diventa il terzo uomo più ricco d’Italia grazie alla schiavitù

“Le borse di pelle firmate Giorgio Armani” scrive Alessandro Da Rold su La Verità “si vendono nelle boutique dello stilista sparse per il mondo a poco meno di 2000 euro l’una”; “per produrle però” svela “di euro ne bastano una novantina. 75, se evadi pure l’IVA”: è il quadro che emerge dall’inchiesta della procura di Milano che ha portato all’”amministrazione giudiziaria della Giorgio Armani Operations spa, nell’ambito dell’indagine sul rapporto tra la holding e i suoi fornitori”. Il fornitore ufficiale italiano di Armani si chiama Manifatture Lombarde che, a sua volta, subappaltava le commesse a subfornitori cinesi, un rapporto che gli inquirenti hanno definito di caporalato di manodopera straniera irregolare e sul quale il gruppo, nella migliore delle ipotesi, “non vigilava”; in realtà, però, vigilava eccome, solo che si concentrava su altro: come ricorda Luigi Ferrarella sul Corriere della sera, infatti, “Un mese fa i carabinieri del Comando Tutela del Lavoro in uno di questi opifici cinesi hanno persino trovato un ispettore della Giorgio Armani Operations spa intento a fare il controllo di qualità dei prodotti”. “Nel corso delle indagini”, insistono gli inquirenti, “si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee e isolate di singoli, ma di una illecita politica di impresa”.
Nel frattempo, il mondo del lusso italiano veniva stravolto da un’altra notizia incredibile: la Kering della famiglia Pinault, infatti, si sarebbe comprata una storica palazzina in via Montenapoleone a Milano per la modica cifra di 1,3 miliardi, 110 mila euro al metro quadrato; è, in assoluto, la più grande operazione immobiliare della storia del nostro paese e servirà a vendere a cifre astronomiche gli oggetti prodotti dai nuovi schiavi che, ormai, si moltiplicano nel nostro paese. E’ la nuova normalità nell’era del declino putrescente del capitalismo finanziarizzato e dell’impero. Buon visione, e buon mal di stomaco.

Giorgio Armani

Quella su Armani non è la prima inchiesta del genere: a gennaio, a venire commissariata era stata l’Alviero Martini che, rispetto ad Armani, c’ha anche l’aggravante di fare prodotti di una bruttezza rara che ancora oggi interrogano tutti i principali psicologi del consumo globale; anche in questo caso l’azienda era stata “ritenuta incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo” forse anche perché, appunto, le garantivano lauti margini di profitto. In generale, il punto è che i marchi appaltano la produzione ad aziende che non hanno nemmeno lontanamente la struttura produttiva necessaria; sono solo intermediari che servono esclusivamente ad allontanare il luogo dove si concentra l’accumulazione di capitali e il profitto dal luogo ultimo dello sfruttamento più abietto, al di fuori di ogni perimetro di legalità. Gli intermediari, infatti, competono tra loro esclusivamente andando alla ricerca dei subfornitori più economici e, a quel livello, la gara sui prezzi si fa solo in un modo: violando ogni tipo di legge sui diritti del lavoro; non c’è investimento, non c’è know how, solo bruto sfruttamento oltre ogni limite, come nelle fabbriche di Manchester del 1800.
Le testimonianze raccolte dagli inquirenti tra i lavoratori delle aziende subfornitrici indagate sono la descrizione di un girone dantesco, anche se – evidentemente – non abbastanza per scatenare una reazione collettiva che vada oltre l’indignazione da salotto; la schiavitù, come lo sterminio di massa, evidentemente è ormai parte integrante del giardino ordinato e bisogna farsene una ragione senza indulgere troppo nel buonismo.
Tra i vari casi elencati, uno di quelli che mi ha colpito di più è quello della supply chain di Minoronzoni, il gruppo di Ponte San Pietro proprietario dei marchi Toscablu e Minoronzoni 1953, ma che il grosso dei quattrini li fa – appunto – subappaltando a lavoratori rinchiusi in qualche scantinato le commesse milionarie che gli arrivano dai principali brand del lusso internazionali: secondo le dichiarazioni raccolte dagli inquirenti, ricorda sempre Da Rold su La Verità, in buona parte lavoravano a cottimo “con una paga inferiore a un euro al pezzo per lavori che potevano durare fino a quattro ore”; secondo la testimonianza di un lavoratore, l’azienda pagava “più o meno 60 centesimi per manifattura e confezionamento”, spesa che poi fatturava direttamente a nome suo ai vari committenti, “da Guess, a Versace, passando per Armani” a circa 15 euro a cintura, un trentesimo del prezzo di boutique.
La cosa più inquietante è che tutte queste dinamiche (e il fatto che siano sistematiche) lo sappiamo ormai da anni: quando lavoravo a Report, la sempre cazzutissima Sabrina Giannini a un certo punto se ne venne fuori con ore e ore di filmati, girati con la telecamera nascosta dentro le aziende cinesi del pratese; si era spacciata per un’intermediaria in cerca di fornitori adeguati per alcuni brand del lusso. Il quadro che ne era emerso era raccapricciante: decine e decine di capannoni dormitorio con migliaia di lavoratori ammucchiati a farsi il mazzo per 12/14 ore al giorno, festivi compresi, prevalentemente la notte, tutto completamente fuori regola in mezzo a corridoi pieni del meglio del meglio del lusso made in Italy. “Da quanto tempo producete queste borse Gucci?” aveva chiesto la Giannini: “Da una decina di anni” aveva risposto l’imprenditore cinese; era il 2007, 17 anni fa. Da lì in poi, la Giannini s’è appassionata al tema e c’è tornata più e più volte, svelando quanto questo scandalo fosse sistematico e ben noto a tutti i soggetti coinvolti, tra ispezioni fasulle e leggi che – guarda caso – lasciavano sempre aperto uno spiraglino per continuare sempre col business as usual; e se oggi questa situazione raggiunge le aule dei tribunali è solo perché a Milano c’è un procuratore cazzutissimo che ha dichiarato guerra alla nuova schiavitù che la tecnocrazia neoliberista ha serenamente reintrodotto nel nostro paese, dal lusso alla logistica.
Si chiama Paolo Storari e, da qualche anno a questa parte, si è conquistato il ruolo di pm più odiato della penisola (o, almeno, dal partito unico della guerra e degli affari): sempre nell’ambito di un’altra sua inchiesta, ad esempio, nel dicembre del 2022 la guardia di finanza ha sequestrato 102 milioni di euro ai colossi della logistica Brt, che è l’ex Bartolini, e Geodis che, tra l’altro (giusto en passant) sono – come in buona parte del mondo del lusso – altri due esempi di aziende italiane acquisite da megaconglomerati francesi; nel corso delle indagini, Storari era andato a controllare a campione una trentina abbondante di cooperative che lavoravano come fornitori dei colossi della logistica e aveva trovato conferma a tutti i peggiori sospetti. Bartolini truffava sistematicamente Stato e fornitori riconoscendo in busta paga solo ed esclusivamente il minimo, per poi saldare a parte evitando di pagare i contributi; per “non far emergere criticità fiscali che potessero riverberarsi su Brt”, le cooperative venivano sistematicamente chiuse ogni due anni che, tra l’altro, per i lavoratori comportava anche la perdita sistematica degli scatti di anzianità e degli altri diritti maturati e il tutto era sostanzialmente gestito direttamente dall’azienda, con le coop che non avevano nessunissima autonomia organizzativa. In quel caso, nonostante tutti i crimini emersi e le prove che i crimini erano stati perpetrati sistematicamente, volontariamente e consapevolmente, il tutto – alla fine – s’è risolto con un anno di amministrazione giudiziaria, “alla ricerca di una misura efficace”, sottolineava il Corriere, “ma invasiva il meno possibile”: nessun esproprio, nessuna conseguenza penale; solo l’affiancamento per un anno alla solita struttura, che è rimasta al suo posto, di un amministratore esterno che faccia da tutor “per bonificare l’azienda” scriveva ancora il Corriere, “irrobustire i controlli ed evitare che si possano nuovamente verificare ulteriori situazioni agevolatrici di attività illecite”. Insomma: una pacca sulle spalle; d’altronde, in quel caso, era solo sfruttamento, non vera e propria schiavitù.
Nel caso dello scandalo Armani di sicuro le conseguenze saranno state più drastiche. Colcazzo; anche qua infatti, nonostante tutte le prove accumulate dagli inquirenti, le conseguenze dal punto di vista strettamente legale, al momento, sono minime: “La società” ricorda infatti il Corriere “non è indagata, né lo è l’89enne stilista terzo uomo più ricco d’Italia” e i vertici dell’azienda, che vede nel CdA tutti e tre i nipoti di Re Giorgio, sono sempre comodamente al loro posto. Il tutto, infatti, si limita – appunto – ad affiancare alla struttura aziendale, per un anno, il commercialista Piero Antonio Capitini per “bonificare i rapporti con tutti i fornitori”; ovviamente si tratta di casi eclatanti di giustizia dei ricchi: agisci per anni e anni impunemente mettendo in opera comportamenti illeciti eclatanti, alla fine vieni perseguito esclusivamente perché, nel mare magnum dell’esercito dei passacarte formati ad hoc per permettere al sistema di replicarsi sempre identico a se stesso, ogni tanto una scheggia impazzita comunque sfugge. E quando, dopo mesi di indagine, finalmente si riescono a provare in modo circostanziato e inoppugnabile tutte le zozzerie possibili immaginabili, il massimo che ti tocca è che per un anno ti viene affiancato un altro amministratore che deve controllare che non lo farai più, almeno fino a che non se ne va. E’ la conferma eclatante che nel giardino ordinato se hai un conto in banca a 6 zeri il massimo che ti puoi aspettare per i crimini più efferati è un po’ di toto’ sul culetto, ma oltre a questa vergogna che grida evidentemente vendetta, sarebbe anche il caso di andare oltre il moralismo e provare a capire le ragioni strutturali di tutta questa monnezza.
Iniziamo da un piccolo riassunto delle puntate precedenti: una sorta di micro-bignamino dell’idea ottolina di come s’è evoluto il capitalismo negli ultimi decenni. Facciamo un salto indietro, negli anni ‘70: la logica ferrea del capitalismo industriale ha comportato la concentrazione della produzione in fabbriche sempre più grandi e sempre più automatizzate; questo processo, però, aveva due problemini non da poco. Da un lato, gradualmente, riduceva i margini di profitto, come diceva Marx: la caduta tendenziale del saggio di profitto, che avviene inesorabilmente mano a mano che aumentano gli investimenti in quello che si chiama capitale fisso, (e cioè, appunto, grandi stabilimenti pieni zeppi di macchinari); dall’altro, che nella grande fabbrica, sempre più automatizzata, numeri crescenti di persone che hanno ruoli sempre più standardizzati si ritrovano a condividere la stessa identica condizione di sfruttamento e questo favorisce la creazione di grandi organizzazioni di massa in grado di contendere ai grandi capitalisti e ai loro docili servitori il monopolio del potere politico. Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 questo processo aveva raggiunto una dimensione tale da gettare nel panico le élite economiche globali che, per sopravvivere, hanno organizzato la loro controrivoluzione: la controrivoluzione neoliberista, che viene ufficialmente teorizzata, a partire dal 1975, con il famoso studio dal titolo La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie che un gruppo di ricercatori al servizio della dittatura del capitale capitanato dal famigerato Samuel Huntington ha redatto su richiesta della Commissione Trilaterale; nello studio si sottolinea, appunto, come la dittatura del capitale nei paesi più industrializzati è messa a rischio da un “eccesso di democrazia” che, appunto, deriva dalla capacità organizzativa dei lavoratori ai tempi della grande fabbrica. Da allora, l’obiettivo del grande capitale diventa, appunto, rimuovere la causa principale che aveva permesso ai lavoratori di guadagnare così tanto potere politico e cioè, appunto, la grande fabbrica taylorista; le strategie sono principalmente due: nei settori dove questo è possibile, frammentare il più possibile il processo produttivo, passando dalla grande fabbrica alle reti di piccoli produttori, un fenomeno che in Italia – in particolare – ha preso le sembianze della famosa distrettualizzazione che, incredibilmente, da certa sinistra è stato visto addirittura come un processo positivo, mentre, in realtà, non era appunto che uno degli strumenti della guerra di classe dall’altro contro il basso. Per quei settori dove, invece, questa frammentazione non era possibile, la strada maestra diventava la delocalizzazione; in entrambi i casi, ovviamente, era fondamentale introdurre meccanismi di concentrazione del potere economico che impedissero ai padroncini dei distretti, tanto quanto ai fornitori del Sud globale, di diventare indipendenti e quindi, alla fine, di fregare le oligarchie capitalistiche occidentali: tra questi meccanismi, i più importanti sono stati il monopolio del know how tecnologico, il monopolio – diciamo così – “culturale” (e quindi della creazione dell’immaginario attraverso il marketing con l’affermazione dei grandi brand) e, soprattutto, il monopolio finanziario, che è il vero cuore del potere politico.
Il cuore del potere politico, infatti, è sostanzialmente il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa e questo potere si è concentrato sempre di più nei grandi monopoli finanziari occidentali e, in particolare, statunitensi: prima con le grandi banche e, negli ultimi anni, in particolare, con gli asset manager che gestiscono patrimoni di ordini di grandezza superiori ai prodotti interni lordi della stragrande maggioranza dei paesi del globo; grazie alla concentrazione dei capitali nei grandi monopoli finanziari, la proprietà del grosso delle principali corporation globali – per la stragrande maggioranza basate negli USA – è oggi, sostanzialmente, tutta in mano a un manipolo di fondi che hanno completamente stravolto il meccanismo originario con il quale, nel capitalismo industriale, ci si arricchiva. Invece di investire per produrre merci e poi rivenderle per fare profitti, mettere i soldi nei mercati finanziari e riscuotere una rendita; il principale prodotto di questo nuovo capitalismo monopolistico completamente finanziarizzato non sono più le merci, ma le azioni – dal feticismo delle merci, al feticismo delle azioni quotate in borsa.

Bernard Arnault

Ora, in questo scenario macro il mondo del lusso presenta una lunga serie di anomalie: la prima, macroscopica, è che è uno dei pochissimi settori dove i gruppi principali non sono controllati dai giganti dell’asset management, a partire proprio dal principale dei gruppi, la LVMH capitanata da Bernard Arnault che, con i suoi 430 miliardi e oltre di capitalizzazione, pesa da sola per quasi metà del valore in borsa di tutto il settore, soprattutto se ci si aggiungono i quasi 150 miliardi di capitalizzazione di Dior, sempre della famiglia Arnault; in entrambi questi colossi del lusso, a guidare – con una maggioranza schiacciante – la compagine azionaria non sono i soliti fondi prenditutto made in USA, ma la cassaforte di famiglia del buon vecchio Bernard che l’ha trasformato nell’uomo in assoluto più ricco del pianeta, surclassando la nuova aristocrazia del tecnofeudalesimo made in USA. Ma tenere il passo dei grandi monopoli finanziari a stelle e strisce è un’opera titanica; i monopoli finanziari privati, infatti, sono in grado di garantire due cose: uno, che essendo i principali azionisti di tutti i principali gruppi in un determinato settore, quel settore è sostanzialmente monopolistico e, quindi, è in grado di imporre sulla società i margini di profitto che desidera. E’ esattamente quello a cui abbiamo assistito negli ultimi 2 anni, dove l’inflazione non era certo dovuta a una crescita della domanda, ma proprio alla capacità delle aziende di imporre prezzi sempre crescenti in quanto monopolisti privi di concorrenza. Due, che hanno una liquidità tale che sono in grado di garantire la crescita del prezzo delle azioni a prescindere da cosa succede nell’economia reale. Sostanzialmente, almeno fino a che regge l’impero e la dittatura globale del dollaro, sono in una botte di ferro che non può essere destabilizzata dagli alti e bassi del mondo reale.
Per tenere testa alla pressione di questi colossi, Arnault deve garantire sostanzialmente le stesse condizioni: che il mercato del lusso sia sostanzialmente un monopolio e che abbia abbastanza liquidità da sostenere il prezzo delle azioni a prescindere. Ed ecco così che, nel tempo, Arnault si è letteralmente comprato tutto: da Bulgari a Fendi, passando per Loro Piana e, giusto il mese scorso, pure Tod’s, così ricavi e profitti dovrebbero essere in una botte di ferro. La capacità, invece, di sostenere il prezzo delle azioni a prescindere, un po’ meno: le azioni di LVMH, a differenza di molte di quelle dove puntano BlackRock e Vanguard, sembrano – infatti – piuttosto dipendenti dai conti economici reali; dopo il covid, quando la gente è tornata a spendere i soldi che si era messa da parte durante l’emergenza pandemica, il titolo, infatti, ha guadagnato circa il 70% nell’arco di un anno. Poi, però, la stagnazione economica ha fatto credere ai mercati che anche il lusso ne avrebbe risentito e il titolo ha cominciato a scendere, nonostante Arnault abbia cercato di fare la piccola BlackRock de noantri; il meccanismo, ovviamente, per chi non gestisce migliaia di miliardi altrui come i fondi, è sempre quello del buyback; nel luglio scorso LVMH s’è ricomprata 1,5 miliardi delle sue azioni e, siccome non è bastato, il mese dopo Arnault da solo, di tasca sua, s’è comprato altri 250 milioni delle sue aziende, ma rispetto alla potenza di fuoco dei fondi, per una società che capitalizza quasi 450 miliardi, sono spiccioli. E il titolo è continuato a scendere fino al febbraio scorso, quando LVMH pubblica i risultati economici del 2023: se non ha abbastanza cash per imitare la strategia di sostenimento artificiale del prezzo delle azioni dei fondi, ha abbastanza controllo del mercato per incassare i dividendi della sua posizione semi-monopolistica. LVMH comunica una crescita delle vendite vicina al 10% e i mercati reagiscono istantaneamente: nell’arco di poche ore il titolo guadagna oltre il 10% e, nel mese successivo, guadagnerà un altro 20%.
A contribuire, nel frattempo, un altro fattore; LVMH ha capito che c’è un’altra speculazione finanziaria che è più alla sua portata che non la manipolazione del prezzo delle azioni: la speculazione immobiliare. Nell’arco di pochi mesi investe 500 milioni di dollari per ingrandire e rinnovare il gigantesco e leggendario negozio di Tiffany sulla 5th avenue – quello, appunto, di Colazione da Tiffany; poi si è comprato i negozi dove i suoi brand erano rimasti fino ad allora in affitto sugli Champs Elysèes e sulla londinese Bond Street. E LVMH non è un’eccezione; come titolava l’Economist il mese scorso, Gucci, Prada e Tiffany scommettono sugli immobili: a guidare le danze, in particolare, c’è il principale concorrente di Arnault, Kering, l’altro megaconglomerato del lusso francese. Kering è, in tutto e per tutto, il precursore di LVMH: a partire da fine anni ‘90, ha cercato di costruire un monopolio del lusso facendo shopping forsennato – da Gucci a Yves Saint Laurent, da Bottega Veneta a Balenciaga e sempre rimanendo saldamente in mano alla famiglia Pinault, un progetto che però, a un certo punto, si è arenato. L’ultima grande acquisizione di Kering (e che poi manco è così grande) è stata quella di Balenciaga nel 2001; nell’era dei monopoli, troppo poco: ed ecco ,così, che Kering non solo, come Arnault, non ha abbastanza cash per sostenere le sue azioni, ma manco abbastanza quote di mercato per garantirsi ricavi e profitti. Ed ecco, così, che a marzo, mentre LVMH era tornato a correre grazie a un anno record, Kering doveva dichiarare il crollo dei ricavi del suo brand principale, Gucci, che ha segnato un bel -20% di ricavi. Risultato: al contrario di LVMH, il declino delle azioni di Kering, iniziato col post covid, continua ancora. Ed ecco, allora, che – più di ogni altro – il buon vecchio Pinault decide di dedicarsi all’altro ramo della speculazione: quella immobiliare; a gennaio s’è comprato, per oltre 800 milioni, il negozio sulla 5th avenue dove Gucci era stato, fino ad allora, in affitto e giovedì scorso è arrivato a casa nostra. Per 1,3 miliardi di euro, infatti, il compagno Pinault s’è comprato il palazzo storico di via Montenapoleone a Milano dove ci sono le boutique di Saint Laurent e Prada: è, in assoluto, la più grande operazione immobiliare di sempre nel nostro paese – che uno si immagina chissà quanti metri quadrati saranno 1,3 miliardi… Macché: la superficie complessiva, infatti, è di poco meno di 12 mila metri quadrati – di cui soltanto 5 mila sono commerciali. Tradotto: sono 110 mila euro al metro quadrato.
Ora, capite bene che, rispetto a queste follie, Giorgio Armani, con i suoi 9 mila dipendenti, poco più di 2 miliardi di fatturato e meno di 150 milioni di utili, sia sostanzialmente un morto che cammina e che cerca di rimandare la sua resa definitiva con ogni mezzo necessario, compresa la schiavitù. Per ora sdoganare la schiavitù pubblicamente fa ancora brutto, forse, ma state tranquilli che ci arriveremo; li vedo già i giornali nei prossimi anni: Buonisti radical chic condannano la schiavitù e fanno chiudere le aziende italiane. Anzi: in realtà, anche se non formulata esattamente così, ci sono già stati; per anni abbiamo sostenuto che la controrivoluzione neoliberista avrebbe necessariamente portato all’impoverimento e alle svolte autoritarie; eravamo ottimisti. La controrivoluzione neoliberista ci scaraventa direttamente in una entusiasmante nuova era di genocidi, stermini di massa e schiavitù. Forse sarebbe il caso di organizzarsi e reagire come si deve a questa nuova età di barbarie senza fine; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che smonti pezzetto per pezzetto la narrazione delle oligarchie affamapopoli e dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Donatella Versace

P.S.: per i più determinati, visto che un po’ di tempo fa – quando, per la prima volta, Arnault venne ufficialmente incoronato da Forbes uomo più ricco del pianeta scavalcando allora Elon Musk – gli avevamo dedicato un simpatico video biografico, adesso ve lo riproponiamo. Buona ri-visione.

Palestina come Haiti: le rivolte degli schiavi che non piacciono alla sinistra imperiale

Omar è un ormai non più giovanissimo giornalista e vive nella più grande prigione a cielo aperto del globo, il lager più amato dai democratici di tutto il pianeta: la Striscia di Gaza.

Sono le 6 di sabato mattina, quando una serie di boati lo svegliano di colpo: è un rumore che conosce fin troppo bene. Era il giugno 2006; gli israeliani si erano ritirati da Gaza da meno di un anno. Troppo rischiosa. Vuoi mettere un caro vecchio assedio? Massimo risultato col minimo sforzo e sostanzialmente senza pericoli, a parte i famigerati razzi Qassam.

Da quando le forze armate israeliane si erano ritirate, le milizie di Hamas ne avevano sparati oltre 700, fortunatamente – e ovviamente – senza grosse conseguenze, ma abbastanza per scatenare l’ira dell’occupante.

Inizia così la campagna Pioggia d’estate. Gli israeliani, alle loro campagne, danno spesso nomignoli. Nell’arco di pochi giorni la reazione israeliana causerà oltre 400 morti e 1000 feriti; uno di loro era appunto il nostro Omar, che capisce subito che a questo giro c’è qualcosa di anomalo.

Si ricordava ancora di quando, nel febbraio del 2008, gli israeliani avevano ucciso 115 palestinesi nell’operazione Inverno caldo: a provocarli, 200 Qassam lanciati nell’arco di una notte.

Pochi mesi dopo, a dicembre, le milizie di Hamas avevano deciso di fare le cose in grande: 360 razzi nell’arco di qualche giorno. La risposta, a questo giro, venne ribattezzata Piombo fuso: oltre 1500 vittime palestinesi, contro 10 israeliane.

Questa volta però Omar non riusciva a tenere il conto. Quelli che sentiva partire non erano decine di razzi, nemmeno centinaia. Erano migliaia. Non era mai successo prima e nessuno sospettava stesse per accadere adesso.

Omar decide subito di prendere la macchina e andare a vedere di persona: si dirige verso il valico di Erez, il passaggio obbligato per quei pochi fortunati che hanno ottenuto il permesso di uscire dalla prigione Gaza per l’ora d’aria, e quando arriva si trova di fronte a una scena incredibile.

Era aperto”, racconta Omar al Middle East Eye, “e un gran numero di persone lo stavano attraversando con ogni mezzo a disposizione. Chi su una macchina scassata, chi in moto, chi a piedi”. Proprio mentre Omar sta attraversando il valico, ecco che arrivano i primi aerei israeliani;

aprono il fuoco, per disperdere la folla “ma alla gente non importava”, racconta Omar, “continuavamo ad attraversare il confine come se nulla fosse” e, una volta attraversato, Omar viene sopraffatto da una sensazione indescrivibile.

Ho provato gioia e ho iniziato a piangere”, ha raccontato Omar. “Anche la gente attorno a me ha cominciato a piangere e a prostrarsi perché era entrata nella terra da cui era stata sfollata nel1948. Eravamo in uno stato di stupore mentre giravamo, liberi, nelle nostre terre, fuori dalla prigione che è Gaza. Sentivamo di avere il controllo delle nostre terre”.

Di fronte a Omar scene sconcertanti, di una violenza che ti lacera il cuore, o almeno lo lacererebbe a chi ormai di violenze di ogni genere ne ha viste troppe, e da lacerare non c’è rimasto più niente:

giovani soldati israeliani, “quelli che eravamo abituati a vedere di vedetta sul confine, e che avevamo visto innumerevoli volte aprire il fuoco contro i nostri bambini e i nostri giovani amici”, ora venivano sopraffatti con violenza dai combattenti palestinesi, e si presentavano “nella loro forma più debole”.

Morte e distruzione erano ovunque, eppure Omar, “per la prima volta nella sua vita, si sentiva profondamente felice”, commenta l’articolo; “aver messo piede su quelle terre ed essere uscito anche se solo per un attimo dall’enclave assediata dove era stato recluso per gran parte della sua vita è stata una forma di liberazione” anche se, in quelle poche ore, “alcuni dei miei amici e uno dei miei cugini”, ha raccontato Omar, “sono scomparsi, e un altro è stato ucciso”.

Quando ti strappano via con la violenza ogni forma di normalità, la tua nuova normalità – per qualsiasi persona che non abbia condiviso le tue sofferenze – è necessariamente incomprensibile.

Ho vissuto tutta la mia vita sotto assedio”, ha raccontato Omar, “e questa era la prima volta in assoluto che mi sentivo libero”.

Poche ore dopo Omar è tornato nella sua minuscola casa dentro la prigione di Gaza, e il giorno dopo è andato a scattare qualche foto ad una famiglia che si era vista distruggere completamente la casa dagli attacchi aerei israeliani: “Il padre di famiglia”, racconta Omar, “mi ha detto: anche se ci uccidono, a questo giro moriremo a testa alta. lasciate pure che ci uccidano quanto vogliono”.

Tutte le altre volte erano loro a venire da noi: ci uccidevano, uccidevano i nostri figli, giustiziavano intere famiglie”, ha raccontato Omar. E a loro non era concesso che assistere inermi, rinchiusi nella loro gabbia. “Questa è la prima volta che resistiamo e riusciamo a entrare, anche se solo per un momento, nelle terre dalle quali siamo stati cacciati

E’ il racconto più realistico, complesso e straziante che ho sentito fino ad oggi di questa incredibile nuova fase dell’eterna guerra di resistenza che l’occidente democratico globale ha imposto a questi ultimi della terra. Riusciremo, dall’alto della nostra supponenza perbenista di privilegiati e anche un po’ conniventi, a farci veramente i conti?

Che la controrivoluzione neoliberista non si fosse limitata a renderci tutti più poveri e meno liberi, ma che ci avesse anche imposto una gigantesca involuzione culturale e anche antropologica, noi lo abbiamo sempre sostenuto, ma lo spettacolo messo in scena in questi giorni dai benpensanti di ogni colore politico supera di slancio anche la più catastrofista delle previsioni.

Il primo dato è la vittoria egemonica dell’idea postsfascista delle responsabilità di ogni forma di resistenza; per 70 e passa anni, l’idea comune di ogni democratico antifascista, anche il più moderato, è stata che la responsabilità delle rappresaglie degli occupanti non possa mai essere attribuita ai resistenti.

I resistenti conducono una guerriglia con tutti i mezzi a loro disposizione, compresi i più cruenti, e le razzie che inevitabilmente provocano sono conseguenze inevitabili che non ne mettono in discussione la legittimità morale.

A pensarla diversamente, fino a poco tempo fa, era solo la marmaglia fascistoide che oggi, evidentemente, è diventata egemone: l’idea è che lo schiavo se ne deve fare una ragione e non deve fare niente che possa scatenare l’ira funesta del padrone. Tanto in schiavitù ci vive lui, mica noi.

Nell’occidente del pensiero unico e dell’encefalogramma piatto, l’idea che qualcuno – come la famiglia di Gaza descritta da Omar – sia disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari per tentare una volta nella vita di alzare la testa e rivendicare la sua dignità è tabù.

Viviamo in una realtà così radicalmente separata da non avere proprio gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi, senza troppi calcoli, costi quel che costi, è l’unica opzione veramente razionale per chi vive in determinate condizioni.

International Journalism Festival from Perugia, Italia / Ph. Alessandro Migliardi

Un vero e proprio capolavoro da questo punto di vista è l’articolo di Francesca Mannocchi su La Stampa di ieri: “Hamas condanna Gaza a restare una prigione”, scrive il volto più amato dal popolo dei teleaperitivi romani di Propaganda Live.

Li mortacci loro: proprio ora che insieme a Zoro e Makkox stavano preparando una petizione che gli avrebbe portati, dopo 16 anni di prigionia, a una sicura liberazione.

Ricordate sempre: con la giusta dose di galateo, basta chiedere.

Ma la retorica astratta e benpensante della Mannocchi è roba da principianti di fronte ai livelli apicali raggiunti dalla Maestra: Lucia Annunziata, che come ci si aspetta che gli schiavi si debbano comportare lo spiega a tutto il mondo grazie all’azione illuminante dell’Aspen Institute, finanziato con i soldi dei Rockefeller e della famiglia Gates.

Annunziata, sempre dalle pagine de La Stampa, ci spiega come “Hamas ci sta regalando una delle peggiori pagine di sempre del conflitto Israele-Palestina”.

Che sia il popolo palestinese”, spiega la Annunziata, “a vendicarsi con gli strumenti del terrore, della violenza, della violazione delle donne, dei bambini, dei vecchi, rompendo lo spazio di ogni diritto umano, lo stesso che ha sempre invocato per la propria difesa, è un atto indegno, repellente, che sporca la dignità delle stesse sofferenze dei Palestinesi”.

Contessa, sapesse…

Studiano una vita, conquistano incarichi di prestigio e poi non sanno far altro che ripetere le stesse identiche formule che gli schiavisti illuminati impiegavano già nel 1700.

Quando gli schiavi di Haiti si ribellarono ai loro padroni ormai tre secoli fa, dando vita alla prima repubblica guidata da ex schiavi del pianeta, per giorni e giorni si dilettarono a razziare ogni abitazione incontrassero sulla loro strada, prendere donne e bambini, seviziarli, mozzargli la testa, e poi attaccarla a dei pali esposti in bella mostra. Gli schiavi purtroppo spesso son fatti così: i padroni illuminati si dimenticano, tra una frustata e l’altra, di impartirgli adeguate lezioni di galateo, e così diventano difficilmente presentabili in società.

Una cosa a dir poco disdicevole, e che ora sembra porci di fronte a un dilemma insolvibile: che requisiti devono avere gli schiavi per essere degni di pretendere di liberarsi dalla loro schiavitù?

Perché non introdurre dei test standardizzati formulati dalle cancellerie dell’occidente democratico che certifichino chi ha diritto a liberarsi e chi invece, per il bene suo e di chi gli sta accanto, deve invece rimanere in cattività? Lanciamo una petizione su change.org?

Ora, intendiamoci, chiunque abbia anche solo un minimo di umanità, di fronte ad alcune delle scene a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni non può che rimanere ovviamente sconcertato, come d’altronde chiunque non fosse rimasto sconcertato di fronte alle teste mozzate dei bambini bianchi nella Haiti del ‘700 celava in se un piccolo cucciolo di serial killer.

Ma è proprio la prospettiva ad essere completamente distorta: è il mondo visto da chi la schiavitù non l’ha mai assaporata sulla sua pelle. Il punto ovviamente non è fare la graduatoria degli atti più efferati; il punto è che nel mondo esistono cause ed effetti, azioni e reazioni.

Se uno schiavo ti taglia la testa, il punto non è la moralità dello schiavo, ma la schiavitù; chi dà pagelle agli schiavi è tra le fila degli schiavisti, a meno che sia uno schiavo a sua volta.

Loro le pagelle non solo hanno il diritto di darle: hanno il dovere. Il punto però è che gli schiavi palestinesi quelle pagelle – mi duole dirglielo, signorina Annunziata – le hanno già date

e per quanto le possa sembrare aberrante, quelli che dal suo punto ci stanno regalando “una delle peggiori pagine di sempre del conflitto israelo-palestinese”, in realtà sono stati promossi a pieni voti: chieda al nostro amico Omar, se non mi crede.

A mio modestissimo avviso, che le azioni di Hamas non possano essere tacciate superficialmente di avventurismo, ma che affondino le loro radici in un consenso popolare solido e ampio, si deduce anche da un’altra cosa: da giorni la domanda che ci tormenta un po’ tutti, da noi complottisti sfegatati fino alle più autorevoli firme del baraccone mainstream, è come minchia sia possibile che l’onniscente intelligence israeliana si sia fatta cogliere così impreparata.

In molti sospettano una qualche forma di connivenza, un po’ in stile strategia della tensione, diciamo; sinceramente, non mi sento di escluderlo. Sennò che complottista sarei?

In mancanza di elementi concreti, però, proporrei un’altra chiave di lettura: li hanno fregati sul serio.

Ovviamente hanno pesato una serie infinita di concause: la spaccatura politica interna a Israele, l’essersi focalizzati sulla difesa dei coloni in Cisgiordania, e chi più ne ha più ne metta. Ma c’è un altro aspetto che, a mio avviso, non è stato adeguatamente sottolineato: per mettere in piedi un’operazione del genere, senza farsi fregare, c’è bisogno del sostegno di tutti. Non che tutti siano direttamente coinvolti, ovviamente, ma il sostegno deve essere, se non unanime, perlomeno molto diffuso, trasversale, e anche parecchio solido. Non ci possono essere crepe che permettano al nemico di insinuarsi e ci devono essere amici fidati ovunque: così a occhio, è l’idea che si sono fatti anche gli israeliani che stanno agendo di conseguenza, perché se il problema non è un’avanguardia di avventurieri, ma il sostegno unanime che godono in una popolazione esasperata che non ha più niente da perdere, allora il nemico non è più semplicemente un’organizzazione militare, è il popolo tutto. Senza distinzione.

Ecco così che, da questo punto di vista, la reazione terroristica israeliana – che mira proprio a colpire indiscriminatamente tutta la popolazione senza troppi distinguo – è cinicamente razionale,

e il moralismo stucchevole dei benpensanti non fa altro che offrirgli una solida giustificazione.

E’ un altro esempio del classico cortocircuito che unisce sinistra imperiale e criptofascisti: la sinistra imperiale sparge giudizi moralistici a destra e manca convinta che la vera aspirazione di tutti i popoli sia essere guidati dalla Emma Bonino di turno, e i criptofascisti poi ci mettono il carico da 40 del realismo politico. Sostengono, non senza ragioni, che in realtà alla fine il popolo è complice delle classi dirigenti che si ritrova, e quindi se di animali si tratta – come li definiscono gli stessi pidioti per primi – l’unica soluzione è sterminare tutti e così si fa pari e patta.

Che le posizioni ufficiali del nord globale portino dritte in quella direzione mi sembra piuttosto evidente: gli USA hanno già promesso una ventina abbondante di nuovi caccia tra F-16 e F-35

e al confine col Libano la situazione si fa di ora in ora più incandescente.

Ovviamente, in tutto questo, che al governo in Israele attualmente ci siano i fascisti veri, dichiarati, e non quelli immaginari di Hamas, passa ovviamente in secondo piano; d’altronde, dopo che hai spacciato per partigiani i neonazisti di Azov e pure quelli vecchio stile della 14esima divisione delle SS, vale tutto, diciamo.

Fortunatamente però, nel frattempo, il mondo ha smesso di sperare nelle sorti umane e progressive della sinistra imperiale del nord globale e si è cominciato ad attrezzare diversamente: ed ecco così che, anche in questo caso, l’unica speranza che l’armageddon possa essere almeno rimandato arriva di nuovo da quello che pidioti e criptofascisti, come un sol uomo, definiscono “l’asse del male”, e cioè tutti i paesi che non sostengono acriticamente l’agenda imperiale di Washington e di Tel aviv, a prescindere dalle forme concrete di governo che si sono dati. Una strana accozzaglia, fatta spesso di regimi impresentabili che, ciò nonostante, anche in questo caso dimostrano di essere più allineati con gli interessi generali della specie umana di quanto non lo siano le democrazie liberali del mondo sviluppato e i loro eccentrici cantastorie.

Per restare umani, come minimo, dobbiamo costruire un media che impedisca che rimangano l’unica voce in circolazione.

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E chi non aderisce è Lucia Annunziata.

La grande rapina: come le oligarchie ci hanno rubato tre stipendi e hanno reintrodotto la schiavitù.

Questa sui media di sicuro non la troverete. Eppure è l’informazione che probabilmente più ha impattato sulle vostre vite da qualche anno a questa parte.

Nel 2022, infatti, la vita degli italiani è stata letteralmente devastata da un’ondata di crimini senza precedenti. Una nutrita banda di insospettabili, organizzati in modo scientifico e sostenuti dalle più alte cariche dello Stato, s’è armata di passamontagna e di piedi di porco, ha fatto irruzione nelle case degli italiani e gli ha fottuto circa un quarto di tutti i loro averi.

Sono gli azionisti delle 2000 principali aziende italiane, dove i dipendenti, nell’arco di un anno, hanno visto crollare il potere d’acquisto dei loro salari del 22%.

Ripeto: non il 5% o il 10%, come ipotizzavamo scandalizzati qualche settimana fa. Il 22%

Un quarto del vostro stipendio. Come se oggi arrivasse qualcuno e vi dicesse che da qua a gennaio niente più stipendi. Zero. Solo file alla Caritas.

“Vabbè, ma c’è la crisi”.

Complottista. Nessuno ha rubato niente. È tutta colpa dell’inflazione…”

Sì, colcazzo.

Perché proprio mentre i lavoratori perdevano il 22% del loro salario reale, i profitti continuavano ad aumentare. Di quanto? Esatto: proprio del 22%. Né un punto in meno, né un punto in più.

A tanto ammonta l’aumento del margine operativo netto delle oltre duemila principali aziende italiane nel 2022.

E non lo dice qualche pericoloso bolscevico, lo certifica l’area studi di Mediobanca. Lo annuncia come un vero e proprio trionfo: “In conclusione”, si legge nel report, “le imprese italiane mostrano oggi profili finanziari maggiormente adatti a fare fronte all’inflazione rispetto a quanto accadde negli anni ‘80”. Quando evidentemente rapinare sfacciatamente i propri dipendenti ancora non era considerata una virtù.


C’è un grande mistero che da qualche mese pervade tutto il vecchio continente. Dopo decenni di controrivoluzione neoliberista ci siamo abituati a credere che il mondo nel quale viviamo giri tutto attorno a un feticcio: la crescita economica.

D’altronde, è quello che ci raccontano continuamente: sei preoccupato perché il tuo lavoro è sempre più instabile e precario? È necessario per tornare a crescere.

Le istituzioni sono sempre più verticistiche, e gli spazi di democrazia scompaiono uno dietro l’altro? È indispensabile per la governabilità che è indispensabile per crescere.

Le scuole, gli ospedali e il tuo conto all’INPS vengono demoliti? È per mettere in ordine i conti e tornare a crescere.

Fino a quando un bel giorno ai piani alti decidono di gettarci anima e cuore in una guerra diretta contro il nostro principale fornitore di energia, devastando la competitività della nostra industria. Ma non solo, come se non bastasse, decidono pure di adottare una spericolata politica monetaria che toglie risorse all’economia.

Le conseguenze, ovviamente, non tardano ad arrivare.

Ci aspettiamo che l’eurozona nel terzo trimestre di quest’anno entri definitivamente in recessione”, avrebbe dichiarato il capo economista della Hamburg Commercial Bank a Bloomberg. “Il nostro indice, che incorpora gli indici PMI”, avrebbe affermato, “indica un calo dello 0,4% rispetto al secondo trimestre“.

Come vi raccontiamo ormai da mesi, era del tutto scontato. Ma allora, questo benedetto feticcio della crescita che fine ha fatto? Vabbè, ma celokiedono gli USA.

Ok, sì, ci sta. Che lo stato metta davanti, almeno temporaneamente, la necessità di essere fedele ai diktat del padrone a stelle e strisce agli interessi immediati della sua economia, è un’ipotesi del tutto plausibile.

Ma le imprese? Le imprese mica sono think tank di geopolitica. La loro logica dovrebbe essere piuttosto chiara, e lineare: vogliamo che l’economia cresca. Com’è allora che di fronte al suicidio scientificamente programmato dell’economia europea, se ne rimangono in silenzio? Mute proprio.

È un mistero mica da poco. O almeno, lo era. Fino a quando i compagni di Mediobanca non si sono messi a investigare. Hanno preso i conti delle principali 2150 aziende italiane alla ricerca di qualche indizio e quello che hanno scoperto è AGGHIACCIANTE. Da un lato infatti, hanno scoperto che le scelte suicide dei governi i lavoratori le hanno pagate molto più care di quanto ipotizzate anche dai più pessimisti, a partire proprio da noi.

La forza lavoro”, scrive Mediobanca, “è la componente maggiormente penalizzata in termini di potere d’acquisto, con una perdita stimata intorno al 22% per l’anno 2022

Scusate se ripetiamo questo dato all’infinito. Ma è una cosa talmente scandalosa che noi per primi abbiamo riletto il rapporto dieci volte prima di farcene una ragione. Per capire l’entità, basta fare un confronto con il 1980, ovvero l’ultima volta che l’inflazione era cresciuta a doppia cifra. Allora, ricorda sempre Mediobanca, nell’arco di un anno il costo totale del lavoro aumentò di poco meno del 17%, nonostante il numero assoluto dei lavoratori si fosse ridotto di quasi l’1%. Significa che quel 99% che il lavoro se l’era conservato, aveva guadagnato in media appunto oltre il 17% in più rispetto all’anno precedente. Una cifra più che sufficiente per veder aumentato il suo potere d’acquisto, nonostante un’inflazione certificata del 13,5%. A questo giro invece l’occupazione è aumentata dell’1,7%, ma il costo del lavoro è rimasto sostanzialmente al palo, mentre il fatturato delle aziende aumentava addirittura di oltre il 30%.

Che fine hanno fatto tutti questi quattrini in più? Semplice, sono andati in tasca agli azionisti, tutti quanti. “Il margine operativo netto”, riporta entusiasta Mediobanca, “è avanzato del 21,9%. il risultato netto”, addirittura “del 26,2%”.

E graziarcazzo che le aziende non si sono ribellate al suicidio del governo. Non era un suicidio, ma un genocidio: dei lavoratori, per fregargli il malloppo e consegnarlo nelle mani degli azionisti. Che te frega a te sei il paese va allo scatafascio, se per tutto il bottino che comunque rimane ti lasciano mano libera di fare la più grande rapina a mano armata della storia repubblicana?

Vabbè, potrebbe obiettare giustamente qualcuno, consoliamoci almeno col fatto che questi quattrini sono andati nelle tasche di gente benestante, che ci avrà pagato sopra il massimo scaglione dell’IRPEF, che al momento è al 43%. Non sarà il 72% che si applicava ai più ricchi quando ancora andava di moda rispettare la costituzione italiana, ma sono comunque dei bei soldoni per garantire i servizi essenziali anche ai più disgraziati. Magari. Quei profitti infatti in larga misura diventano dividendi da pagare agli azionisti.

In due anni la Borsa di Milano ha pagato dividendi per quasi 140 miliardi di euro”, ricorda il nostro sempre puntualissimo Alessandro Volpi, e “sono tassati al 26 per cento. Se i beneficiati hanno residenza fiscale all’estero non pagano neppure quello”.

Le aziende armate di piede di porco e di passamontagna, quindi, non si sono limitate ad andare a svaligiare le case dei loro dipendenti, ma anche di tutto il resto degli italiani.

Ma la catena infernale non è ancora finita. Perché a questo punto uno potrebbe dire, vabbè, consoliamoci almeno col fatto che i nostri imprenditori hanno un sacco di quattrini da reinvestire nella nostra economia e rendere le loro aziende sempre più competitive.

Anche qui, magari. In realtà, purtroppo, la destinazione finale è tutt’altra. I quattrini che gli azionisti con la residenza fiscale all’estero hanno rubato ai lavoratori e sui quali non hanno pagato manco un euro di tasse non ci pensano proprio, infatti, di rinfilarsi nelle beghe degli investimenti nell’economia reale. Vanno tutti direttamente a produrre altri soldi tramite soldi. E il luogo per eccellenza dove si produce il grosso dei soldi attraverso altri soldi è uno solo: gli Stati Uniti e tutte le bolle speculative che continua a gonfiare proprio grazie a questa iniezione infinita di capitali rubati alla gente normale in tutto il resto del pianeta.

Capito ora perché non protestano? Capito perché i giornali, le tv e tutti gli altri mezzi di produzione del consenso, di loro proprietà, ci raccontano una serie infinita di fregnacce per indorare la pillola a costo di scadere continuamente nel ridicolo?

Comunque, per chiudere definitivamente il cerchio, rimane un problemino. Perché va bene che della crescita te ne frega il giusto, ma se tiri troppo la corda e la gente poi rimane senza il becco di un quattrino per comprare i tuoi prodotti e i tuoi servizi, alla fine quel profitto iniziale che ti permette di vivere una vita in vacanza tra le bolle speculative a stelle e strisce, da dove lo tiri fuori?

Ed ecco allora che la soluzione arriva dalla Grecia. In tema di devastazione e furto sistematico della ricchezza, una specie di piccola Italia che ce l’ha fatta. Pochi giorni fa infatti il governo reazionario di Mitsotakis ha presentato al Parlamento una proposta di riforma della legge sul lavoro da far invidia alle colonie schiaviste dei Caraibi dell’800: il tuo lavoro full time non ti permette più di mettere assieme uno stipendio sufficiente per sopravvivere? Che problema c’è: da oggi potrai liberamente e felicemente aggiungere un secondo lavoro, per un totale di tredici ore giornaliere. Sei giorni la settimana. Fino a 74 anni.

E se quando a 70 anni vuoi fare lo sborone e per mangiare inizi a fare un secondo lavoro che però dimostri di non essere in grado di svolgere in modo produttivo, nessun problema: entro un anno ti potrò licenziare senza preavviso, né retribuzione. E se da lurida zecca comunista, quale sei, stai pensando a organizzare una qualche forma di protesta, forse è il caso se ci ripensi: per i lavoratori che creano qualche blocco durante uno sciopero e impediscono ai colleghi di farsi sfruttare fino alla morte liberamente, in serbo ci sono una bella multa da cinquemila euro e sei mesi di carcere. D’altronde, ha affermato Mitsotakis, questa misura è indispensabile per combattere il fenomeno del lavoro nero e, ovviamente, “tornare a crescere”.

Un modello che piace moltissimo a quelli che la propaganda chiama mercati, ma che altro non sono sempre il solito manipolo di oligarchi di cui sopra. E anche ai loro giornali.

Come scrive Veronica De Romanis su La Stampa, infatti, grazie alle riforme di Mitsotakis, la Grecia crescerà il doppio dell’Italia nel biennio 2023-2024. E i mercati la premiano. Nonostante un debito di 30 punti superiore al nostro, continuano a pagare uno spread molto inferiore: 130 punti contro i nostri 180. “L’economia italiana”, sottolinea ovviamente la De Romanis, “è molto diversa da quella greca per dimensioni e forza produttiva. Tuttavia”, suggerisce, potremmo ispirarci al “percorso di cambiamento” che ha intrapreso. Questa idea vetusta che in un paese sviluppato non ci dovrebbe essere la schiavitù, suggerisce la De Romanis, è una patetica velleità. Ce lo chiedono i mercati: per tornare a crescere.

Contro la propaganda delle oligarchie che tifano per il ritorno alla schiavitù, oggi più che mai abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo.

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E chi non aderisce è Matteo Renzi.