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MELONI L’AFRICANA – Putin e il Sud globale smascherano la pantomima del piano Mattei

Patto con l’Africa titolava a 6 colonne il Giornanale martedì: “Storico incontro con 25 leader, VIA AL PIANO MATTEI”, ma non pensate male. Non è il remake di Faccetta Nera: la Giorgiona nazionale ha preso atto che il mondo è cambiato e s’è riscoperta un po’ il Thomas Sankara de noantri e promette “un nuovo modello di sviluppo dell’Africa”; “Una nuova pagina nelle nostre relazioni” sottolinea enfaticamente la nostra MadreCristiana “basata su una cooperazione strutturale, da pari a pari, lontana da quell’approccio predatorio che per troppo tempo ha caratterizzato le relazioni con l’Africa e che troppo spesso ha impedito all’Africa di crescere e prosperare come avrebbe potuto”. Ha fatto più la Meloni “che gli altri in 100 anni” esulta il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari rilancia: “Meloni ha appena ribaltato 200 anni di storia europea”. “E’ l’inizio di una nuova stagione” conclude la Giorgiona nazionale, una svolta epocale “che dobbiamo e possiamo fare insieme”. Un copione hollywoodiano impeccabile, col supervillain che, dopo averne combinate più di Pinocchio, alla fine si ravvede e pieno di compassione tende la mano alla sua vittima in mondovisione; ma il colpo di scena è sempre dietro l’angolo. Ed ecco così che quando meno te lo aspetti – sempre ancora in pieno stile hollywoodiano – arriva l’evento inatteso che squarcia la superficie patinata, la variabile che era stata trascurata e che ribalta in un colpo solo tutta la narrazione.
A questo giro, questa variabile si chiama Moussa Faki, il presidente dell’Unione Africana e una vecchia conoscenza di Giorgia: 2 mesi fa, due giornalisti russi le avevano fatto uno scherzetto e spacciandosi per Faki l’avevano tenuta mezz’ora al telefono. “Questa volta è quello vero” ha dichiarato scherzando Giorgiona; forse erano meglio i comici russi. “Sul piano Mattei” ha scandito infatti Faki durante il suo intervento “avremmo auspicato di essere consultati”; e meno male era l’alba di una nuova era all’insegna del dialogo e del rapporto tra pari: Giorgiona del piano Mattei ha parlato di più con due comici russi che con il presidente dell’Unione Africana. Cosa mai potrebbe andare storto?

Fester Sallusti

Così l’Italia torna in campo titola entusiasta il suo editoriale Fester Sallusti: “in questo piano” – scrive coi lucciconi agli occhi la penna più reazionaria d’Italia – “credo ci sia l’essenza della politica di Giorgia Meloni e del suo governo: avere una visione politica di dove portare questo strano paese al di là delle contingenze che continuamente lo assillano”. Peccato che la destinazione sia sempre la stessa: il Regno Incantato della Post Verità. A chiacchiere, infatti, la narrazione che circonda la favola del piano Mattei è inappuntabile perché non solo, appunto, prende le distanze dalle antiche tentazioni predatorie, ma “anche da quell’impostazione caritatevole nell’approccio con l’Africa che mal si concilia con le sue straordinarie potenzialità di sviluppo” (Giorgia Meloni); insomma, dopo aver passato gli ultimi 15 anni a parlare a vanvera del nuovo colonialismo cinese in Africa, alla fine si è costretti a copiarne l’approccio: l’Africa non è solo un fardello, ma una straordinaria opportunità. E non si tratta di fare la carità, ma di mettere da parte, appunto, le tentazioni predatorie e di permetterle finalmente di liberare tutte le sue potenzialità produttive: Giorgia ricorda come il continente nero è tutt’altro che povero ma, al contrario, racchiude il 30% delle risorse minerarie mondiali e il 60% delle terre coltivabili, e con il 60% della popolazione che ha meno di 25 anni è il continente più giovane del pianeta. Tra i più entusiasti c’è Stefano Simontacchi che, in passato, è stato nominato da questa stramba classifica stilata da GQ Italia (e di cui sinceramente nessuno sentiva il bisogno) L’avvocato più potente d’Italia e che dalle pagine del Corriere della Serva si sfrega già le mani: l’obiettivo dell’Italia, sostiene Simontacchi, dovrebbe essere quello di diventare nientepopodimeno che il “partner privilegiato per chiunque voglia investire in Africa”, “un hub preferenziale per gli investimenti in Africa” capace di “intercettare i capitali con maggiori propensione al rischio, che generano innovazione e maggiore valore aggiunto”; questa cosa, pensate un po’ – sostiene Simontacchi – potrebbe addirittura “massimizzare le possibilità per il nostro paese di giocare un ruolo nelle grandi sfide del futuro quali, ad esempio, l’intelligenza artificiale, i droni, la space economy e l’idrogeno” e sapete grazie a cosa in particolare? Grazie, scrive Simontacchi, “al quantum leap tecnologico di cui l’Africa beneficia”; scrive proprio così, giusto, quantum leap tecnologico: fuffa allo stato puro, come si confà a ogni arringa di un bravo avvocato che mescola un po’ a caso termini roboanti per sbalordire il pubblico prima di arrivare con nonchalance al vero nocciolo della questione. Per trasformarsi in questo fantomatico hub infatti, sottolinea Simontacchi, c’è bisogno di rivoltare come un calzino l’intero funzionamento della macchina statale a suon di “minore burocrazia, velocità nell’ottenimento dei permessi, certezza del diritto e fiscalità favorevole sia per l’investimento sia per la distribuzione dei proventi”: insomma, in soldoni, trasformare l’Italia in un paradiso fiscale e in una centrale mondiale del riciclaggio di proventi illeciti pronti a invadere l’Africa e depredarla come sempre di tutta la sua ricchezza, ma con mezzi innovativi e degni di una nuova copertina su GQ. Ma anche per chi non arriva ai deliri distopici di Simontacchi le aspettative rimangono comunque altissime: secondo Fester Sallusti, infatti, il piano finalmente sarebbe la realizzazione concreta del vecchio mantra dell’aiutiamoli a casa loro e farebbe in modo che “in almeno in una parte di quel continente nascano condizioni economiche e quindi sociali stabili per poter affermare il diritto a non emigrare”; dai, almeno ha specificato “almeno una parte di continente” e non proprio tutto tutto.
Ma quanto costa cambiare definitivamente la sorte di almeno un pezzo di continente? E’ qui la magia dei fratelli di mezza italia: assolutamente niente, manco un euro. A chiacchiere, infatti, il piano dovrebbe godere di una dotazione di 5,5 miliardi che, anche se fossero veri, sarebbero una goccia nell’oceano: soltanto per la transizione ecologica, il continente – infatti – è stato stimato avrebbe urgentemente bisogno di 500 miliardi e l’Unione Europea, nell’ambito della sua risposta alla Nuova Via della Seta cinese denominata Global Gateway, prevede finanziamenti diretti in Africa per circa 150 miliardi. Ovviamente, come abbiamo spiegato già svariate volte, è tutta fuffa: sono quasi esclusivamente investimenti diretti privati, quasi esclusivamente nel settore dell’energia fossile (che già esistono) ai quali l’Unione Europea aggiungerà qualche spicciolo del suo bilancio per poi ribattezzare il tutto con un nuovo nome per fare finta di aver imparato dai cinesi che l’era delle chiacchiere è finita e che anche l’Europa ha un piano concreto per lo sviluppo africano, ma almeno, fuffa per fuffa, l’hanno sparata grossa. Qui, ormai, anche a dire le cazzate siamo diventati scarsi: 5,5 miliardi che, appunto, non esistono; in parte lo spiega benissimo, con un altro vero e proprio capolavoro di satira involontaria, il vice direttore de La Verità, l’ex carabiniere Claudio Antonelli, che del suo vecchio mestiere ha mantenuto il rapporto non proprio confidenziale con la matematica delle scuole primarie. Antonelli spiega infatti che di questi 5,5 miliardi due arriveranno dai fondi che ogni anno vengono stanziati per la cooperazione e lo sviluppo: Antonelli ricorda come, ogni anno, per la cooperazione e lo sviluppo vengono stanziati circa 4,5 miliardi dei quali, però, soltanto il 40% è destinato all’Africa; “d’ora in avanti invece” annuncia entusiasta “ben 2 miliardi dei 4,5 andranno nel continente nero” e cioè esattamente il 40%, come prima. “Facile immaginare come cambierà la musica” commenta, con disprezzo per ogni forma di autostima: il bello è che una fetta di questi soldi per la cooperazione in realtà, secondo quanto denunciato dalle opposizioni, andavano e continueranno ad andare molto semplicemente direttamente ad ENI per progetti legati allo sfruttamento delle risorse fossili in Africa.
Oltre agli stessi identici soldi che abbiamo sempre mandato in Africa con scarsissimi risultati, comunque, quello che manca – invece – verrà preso dal fondo per il clima e tra l’altro, ricorda il ministero dell’ambiente, sono spalmati su più anni: 840 milioni l’anno dal 2022 al 2026 e altri 40 dal 2027 in poi; ma la cosa divertente è che erano soldi che dovevano servire ad accelerare la transizione ecologica e, quindi, a ridurre almeno in minima parte il gap che abbiamo accumulato in termini di investimenti per le energie rinnovabili e che invece, grazie al piano Mattei, vengono stornati su progetti che riguardano le fonti fossili. Che siano in Africa, diciamo, è secondario: se erano in Sardegna, per dire, lo facevano in Sardegna; come sottolineano quei troll favolosi di Libero di scrivere minchiate “la sinistra s’indigna, perché vorrebbe spenderli per inseguire gli obiettivi fissati negli accordi internazionali per la decarbonizzazione” che però, commentano, sono “del tutto inutili finché Cina e India non si impegneranno a fare altrettanto”. “Dirottare quei finanziamenti in Africa per costruire infrastrutture destinate a produrre e trasportare energia di cui beneficerà anche l’Italia” concludono “è molto più intelligente”. Insomma, tutto questo rumore per un piano che non esiste, che non è accompagnato da nessun progetto concreto, dove manca totalmente una lista dei risultati attesi, senza un euro in dotazione e portato avanti senza consultare la controparte: come svolta epocale un po’ pochino, diciamo. Forse la speranza era – molto banalmente – che quelle che temo continuino a considerare le solite vecchie faccette nere, non se accorgessero; d’altronde, vai a sapere come ragionano questi che vivono fuori dal nostro giardino ordinato.

Moussa Faki

A quanto pare però, incredibilmente, si sbagliavano: “l’Africa non si accontenta più di semplici promesse che poi non vengono mantenute” ha sottolineato nel suo intervento sempre Moussa Faki che poi, rivolgendosi direttamente al nostro prestigioso ministro degli esteri Antonio Tajani, ha ribadito “Sette anni fa mi sono presentato al Parlamento Europeo da Lei presieduto, e oggi trasmetto lo stesso concetto”. Insomma, carissimo Antonio, ‘ste chiacchiere son 10 anni che le sentiamo: cambia il packaging, ma la fuffa è sempre la stessa. E Moussa Faki almeno a Roma c’è venuto. La lista delle defezioni, infatti, è abbastanza pesante: l’Algeria, che è il primo partner commerciale dell’Italia nel continente e dove, recentemente, si sono recati di persona sia Mario Draghi che la Meloni, si è limitato a inviare la ministra degli esteri; l’Egitto, quella per la cooperazione internazionale. Per la Libia, secondo partner commerciale dell’Italia nel continente, il premier c’era pure, ma molto probabilmente quello sbagliato: mentre il debolissimo Dabaiba era a Roma, infatti, l’uomo forte della Cirenaica – quello che ha le chiavi delle risorse fossili del paese, il generale Haftar – si incontrava a Bengasi con il vice ministro della difesa russo Yunus-Bek Yevkurov. Solo che, invece di parlare di piani immaginari e di quattrini fantasma, parlavano di un accordo per una megabase navale a Tobruk. E la Libia di Haftar non è certo l’unico paese che privilegia i rapporti con la Russia rispetto alla fuffa meloniana: a mancare infatti, com’era più che prevedibile, erano anche Mali, Burkina Faso e Niger, i 3 paesi al centro della grande decolonizzazione dell’Africa occidentale. Dopo aver vissuto ognuno il suo golpe patriottico, sono stati minacciati di interventi militari dai vicini riuniti nell’ECOWAS e dai francesi: “Anche se i governanti militari del Niger chiedessero il ritiro delle truppe francesi, come è già accaduto nei vicini Mali e Burkina Faso” dichiarava nell’agosto 2023 alla PBS la portavoce del ministero degli esteri francese Anne-Claire Legendre “ciò non farebbe alcuna differenza. Non rispondiamo ai golpisti. Riconosciamo un solo ordine costituzionale e una sola legittimità, quella del presidente Bazoum”. E, invece, non solo alla fine i francesi sono stati cacciati, ma i tre paesi sono usciti dall’ECOWAS, hanno formato un’alleanza formale, stanno lavorando in prospettiva per una vera e propria confederazione e stanno rafforzando le relazioni con la Russia: pochi giorni fa, infatti, sono sbarcati in Burkina i primi 100 soldati dell’Africa Corps russo che, rivela Bloomberg, saranno presto seguiti da altri 200 uomini che contribuiranno all’addestramento delle forze armate. Intanto consiglieri russi sono già presenti da tempo in Mali e, secondo RT, il 17 gennaio sarebbe arrivato a Mosca il presidente della giunta nigerina e i due paesi avrebbero “concordato di sviluppare la cooperazione militare e di lavorare insieme per stabilizzare la sicurezza della regione” e ora questi tre paesi, scrive ancora il sempre lucidissimo Claudio Antonelli, “sono un problema per il piano Mattei”. Antonelli nella sua eterna confusione mentale, anche a questo giro, involontariamente, svela alcune delle riflessioni inconfessabili che attraversano il nostro governo di svendipatria e fintosovranisti al soldo di Washington: l’umiliazione della Francia nell’area ha sottratto alle ex potenze coloniali il loro avamposto ed ha lasciato “un buco geopolitico”; ora in quel buco si stanno insinuando le potenze, a partire dalla Russia, che sostengono e difendono la sovranità di questi governi multipolaristi. L’Italia, sostiene in sostanza Antonelli, è piazzata bene per cercare di diventare il cocco di Washington nell’area, molto meglio anche della Francia che, oltre ad essere ormai universalmente odiata, ogni tanto qualche velleità sovranista e di indipendenza – al contrario nostro – ancora ha provato a mantenerla; ovviamente, però, la situazione è tesa e quindi, sostiene Antonelli, “serviranno più fondi alla difesa, più elasticità in capo allo stato maggiore e” UDITE UDITE “un passo avanti nel campo della guerra ibrida” fino a “dotare l’Italia e l’Europa di compagnie militari private che tutelino secondo regole locali gli sforzi delle aziende italiane”.
Insomma, alla faccia del nuovo paradigma: visto dagli occhi dei sostenitori del governo il piano Mattei altro non è che il ritorno delle vecchie pulsioni coloniali, solo che questa volta sono in nome di Washington che ormai, però, come sponsor probabilmente non è manco più che sia tutto sto granché: mentre a Roma erano assenti i paesi sovranisti del Sahel, infatti, anche il loro più acerrimo amico c’aveva judo. Si chiama Bola Tinubu ed è il presidente della Nigeria che non solo è la prima potenza economica e demografica della regione, ma che era stato anche il primo artefice delle minacce d’intervento militare contro i golpe patriottici in nome dell’ECOWAS ma, a questo giro, sulla sete di vendetta ha avuto la meglio lo charme parigino: Tinubu, infatti, a Roma ha bucato pur non avendo nessun impegno; era, molto banalmente, in vacanza oltralpe. Alla Meloni non è rimasto che attaccarsi a Macky Sall, il presidente del Senegal, così amato nel suo paese e nell’intera regione che per piazzare uno dei suoi alle prossime elezioni di febbraio in Senegal ha dovuto sostanzialmente mettere in galera tutti gli oppositori e senza che, in questo caso, dalle nostre parti a nessuno venisse in mente di parlare di golpe.
Ormai siamo i Bernie Madoff della politica internazionale: le nostre iniziative sono solo schemi Ponzi che poggiano solo sui titoli della stampa filogovernativa, che nessuno legge. Sarebbe arrivata l’ora di costruire una vera alternativa, a partire da un vero e proprio media che dia voce al mondo nuovo che avanza, e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani

CHI METTERA’ FINE AL GENOCIDIO? Come i BRICS stanno rimpiazzando l’Occidente e ricostruendo l’ONU

L’ondata di indignazione scatenata dalla guerra di Israele contro i bambini arabi non si arresta e travolge tutti i paesi del mondo, anche quelli con le classi dirigenti più ciniche che però, in un modo o nell’altro, all’opinione pubblica qualcosa sono comunque costrette a concedere. A parte negli USA e in qualche paese vassallo del Nord globale che si conferma così – al netto di una montagna di retorica – la parte in assoluto meno democratica del pianeta, completamente in balia degli interessi egoistici di una manciata di oligarchi. Il problema, però, è che questo manipolo di paesi in mano a un manipolo di oligarchi è, ancora oggi, in grado di ostacolare le Nazioni Unite, e così tiene per le palle l’intera comunità internazionale. O forse sarebbe meglio dire teneva: se per l’ostruzionismo dell’asse del male le Nazioni Unite non sono in grado di muovere un dito neanche di fronte a un genocidio del genere, vorrà dire che la comunità internazionale, a un certo punto, proverà a dotarsi di strumenti alternativi. Certo, sarà un percorso lungo e tortuoso che – però – ieri ha subito un’accelerazione di portata storica: per la prima volta in quasi 15 anni di vita, ieri i BRICS si sono riuniti per una conferenza di emergenza interamente dedicata a una questione internazionale imprevista. Non era mai successo prima, nemmeno quando i membri erano soltanto 5; oggi sono 11, ma di fronte alla carneficina hanno parlato con una voce sola: “La posizione dei membri BRICS è unanime” commenta il Global Times e “si sono impegnati a promuovere un cessate il fuoco a Gaza e prevenire l’escalation della violenza, presentando progetti di legge e organizzando riunioni nel quadro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”. “Alcuni altri paesi occidentali” continua il Global Times “non hanno la volontà e il coraggio di difendere la giustizia, creando così un vuoto nel sistema di governance globale. I paesi BRICS, che rappresentano i paesi dei mercati emergenti e quelli in via di sviluppo, si sono fatti avanti per colmare il vuoto”.
Che sotto le macerie di Gaza, oltre ai corpi martoriati dei bambini arabi, stiano rimanendo sepolte anche le ultime speranze di dominio globale incontrastato degli USA?
UNO: immediato cessate il fuoco;
DUE: corridoi umanitari per la popolazione di Gaza;
TRE: intervenire per impedire che il conflitto si allarghi;
QUATTRO: convocare una conferenza di pace per riportare al centro dell’agenda politica internazionale la soluzione dei due Stati.

Xi Jinping

Il piano in quattro punti proposto ieri da Xi Jinping nella prima riunione straordinaria dei BRICS a 11 per mettere fine al genocidio in corso a Gaza non è solo giusto ma è anche l’unica soluzione possibile, e che infatti è condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale che, da ormai oltre un mese e mezzo, riempie strade e piazze di tutto il pianeta un giorno sì e l’altro pure per testimoniare la sua indignazione obbligando tutti i governi – anche quelli meno democratici – a provare almeno di dare l’impressione di lavorare in quella direzione. A partire dal sostegno alle risoluzioni ONU di condanna alle azioni criminali dell’entità sionista. Ma, come sottolinea sempre il Global Times, “il conflitto israelo-palestinese è uno specchio che riflette molte cose. A causa dell’opposizione di alcuni paesi per lo più occidentali” continua l’articolo “il Consiglio di sicurezza dell’ONU non è stato in grado di intraprendere azioni concrete”: un immobilismo che le opinioni pubbliche di tutto il mondo, e in particolare dei paesi a maggioranza islamica, non hanno nessuna intenzione di assecondare.
Fortunatamente, però, oggi esiste un’alternativa concreta alle vecchie istituzioni multilaterali: “I BRICS” sottolinea il Global Times “stanno diventando un simbolo e un’entità che sostiene la giustizia internazionale, e maggiore sarà l’influenza che avranno sulla scena internazionale, meglio sarà per la pace e la tranquillità del mondo”. Ed ecco così che gli USA si ritrovano in un bel cul de sac e il sostegno incondizionato alla ferocia sionista – giustificato dal ruolo strategico che Israele ricopre nei piani imperiali a stelle e strisce – comincia a presentare il conto. Per contrastare la crescita dell’influenza di quelli che considera i suoi avversari strategici – a partire da Russia e Cina – gli USA, infatti, stanno provando a corteggiare in ogni modo possibile i paesi del Sud Globale; l’esempio più eclatante si è avuto probabilmente nell’area del Sahel dove, di fronte all’ondata di colpi di stato patriottici che ha travolto paesi come il Mali, il Burkina Faso e il Niger, invece di accodarsi alla retorica bellicista e neocolonialista francese, gli USA hanno mantenuto un tono tutto sommato più conciliante e hanno cercato di tenere aperto il dialogo per non perdere totalmente la loro influenza. Qualcosa di simile è avvenuto anche proprio in Medio Oriente dove, di fronte all’intensificarsi delle relazioni con Russia e Cina – ad esempio – da parte dell’Arabia Saudita, hanno deciso di usare molte più carote che bastoni. Il bagno di sangue avviato da Israele dopo il diluvio di Al-Aqsa, e il sostegno incondizionato al genocidio che gli USA sono stati sostanzialmente obbligati a garantire, sta facendo rapidamente tabula rasa di tutti questi sforzi e sta accelerando in maniera clamorosa il processo di allineamento dei paesi del Sud globale agli interessi strategici proprio di Cina e Russia, a partire dal rafforzamento dei BRICS: “Dato che gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a convincere Israele a concedere un cessate il fuoco a Gaza” sottolinea il Global Times “il mondo arabo e i paesi in via di sviluppo mostrano crescente disappunto nei suoi confronti e ripongono ormai maggiori speranze proprio nei BRICS, una piattaforma che amplifica la voce dei paesi in via di sviluppo sugli affari mondiali”.
Ora qui è il caso di sottolineare una cosa che dovrebbe essere scontata, ma evidentemente non lo è: come per il processo di dedollarizzazione o anche – rimanendo più vicini alla questione israelo-palestinese – la questione del rafforzamento dell’asse della resistenza non si tratta di una soluzione magica; gli equilibri regionali, e ancora di più quelli globali, non si rigirano come un calzino dalla sera alla mattina. I BRICS al momento, e per molto tempo ancora, non sono assolutamente in grado di esprimersi con una voce unica così forte e perentoria da risolvere come per incanto la carneficina che ci troviamo di fronte, come non sono in grado di abolire l’egemonia del dollaro o come l’asse della resistenza non è in grado di sconfiggere militarmente Israele. Si tratta di tendenze storiche: processi lunghi, tortuosi e macchinosi, dall’esito sostanzialmente imprevedibile e che non sono in grado di soddisfare la sete di scoop continui tipica dell’era dell’iper – informazione. L’idea che cambiamenti di questa portata possano avvenire nel tempo di un tiktok è un frutto del dominio del pensiero magico, che mal si concilia col tentativo di capire come sta cambiando il sistema mondo a livello strutturale profondo, ma “anche se uno o due vertici singoli potrebbero non essere sufficienti per risolvere direttamente il conflitto” sottolinea giustamente il Global Times dove, da bravi cinesi, sono molti più avvezzi a usare il materialismo dialettico di quanto non siano gli attivisti esagitati dell’Occidente “la presenza collettiva e le rivendicazioni coerenti dei paesi in via di sviluppo saranno utili per trovare una tabella di marcia per la pace israelo-palestinese, la promozione della pace e la realizzazione di una coesistenza pacifica”. “Attraverso il meccanismo dei BRICS” continua il Global Times “l’aspetto collettivo del Sud del mondo acquisisce tutta la sua importanza, e sebbene non risolva necessariamente il conflitto, l’unità dei paesi in via di sviluppo è un svolta di portata storica” che è stata riconosciuta anche dall’ONU: al vertice dei BRICS, infatti, ha partecipato anche il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres “che” sottolinea il Global Times “rappresenta le aspettative che la comunità internazionale nutre affinché i BRICS svolgano un ruolo sempre più decisivo nell’affrontare i dossier più scottanti”.
Gli unici che fanno di tutto per non accorgersene, tanto per cambiare, sono i nostri media mainstream di ogni colore politico; la notizia compare solo in un trafilettino in fondo a pagina 9 del Corriere che manco parla di BRICS, ma solo di Xi e del suo appello per convocare una conferenza di pace. Di fronte al Mondo Nuovo che avanza, le cariatidi prezzolate di quello vecchio hanno deciso di adottare la tattica vincente dei bambini delle materne che sperano che, chiudendo gli occhi, i mostri che li perseguitano scompariranno per sempre (che, comunque, è sempre meglio della tattica adottata da Sallusti). Qui in ballo non c’è lo storico vertice dei BRICS, ma un altro avvenimento storico che va esattamente nella stessa identica direzione: è il ritorno di Putin, dopo quasi due anni di assenza, a un incontro del G20 – seppure virtuale; un segno palese di quanto, dopo un anno e mezzo di pensiero magico – che consiste nell’idea che hanno le élite politiche e i media che uno scenario improbabile si possa realizzare semplicemente invocandolo ripetutamente contro ogni evidenza – sia arrivata l’ora di cominciare a fare i conti con la realtà, come – a malincuore – è costretta ad ammettere addirittura la Reuters (che non è esattamente la Pravda): “L’Occidente e l’Ucraina hanno ripetutamente promesso di sconfiggere la Russia nella guerra e di espellere le forze russe, ma il fallimento della controffensiva ucraina nel raggiungere un qualsiasi obiettivo concreto ha sollevato preoccupazioni in Occidente riguardo a questa strategia”. Che – fatta la tara del tasso spropositato di propaganda dei media occidentali – in soldoni equivale a dire che l’Occidente finalmente ha preso atto di aver perso la guerra.
Come riassumeva questo evento Sallusti ieri su Il Giornale? “Perché il ritorno di Putin fra i grandi è una vittoria NATO”. Giuro, eh? (spetta che vi faccio vedere l’originale, sennò mi dite che sono del PD e che polemizzo in modo strumentale contro la destra che è vicina al popolo).

“Certamente” ammette Sallusti “si tratta di un passo che rompe l’isolamento assoluto con l’occidente in cui Putin si trova da ormai due anni” e “già mi vedo”continua “i filo-putiniani nostrani alzare i calici al rientro dello zar sulla scena e spacciarla per la sconfitta della politica occidentale filo-Ucraina, quando invece” – ecco lo scooppone del Nosferatu de noantri – “è l’esatto opposto”. Sallusti ammette che “è ormai evidente che questa guerra non la vincerà in senso tecnico nessuno dei due contendenti” ma, con un virtuosismo da guinness dei primati, eccolo rovesciare sul tavolo un poker d’assi di arrampicamento sugli specchi: secondo Sallusti, infatti, questo pareggio altro non è che una sconfitta russa, che ha fatto “un tale macello umano e politico da impedire in futuro qualsiasi possibilità di annettersi l’Ucraina neppure in caso di resa del nemico”. “Non è poco” sottolinea, “anzi, è già di per se una vittoria”. Chi s’accontenta gode, come dice il detto. Giusto qualche mese fa, la guerra non poteva finire se non con la riconquista non solo di tutti i territori persi fino ad oggi, ma anche della Crimea e, con il crollo economico della Russia, la fine politica di Putin e magari anche il suo arresto e la condanna per crimini di guerra; obiettivi talmente vitali da giustificare una recessione in tutto il Nord globale, una crisi umanitaria nel cuore dell’Europa e il sacrificio di decine e decine di migliaia di giovani vite ucraine spinte a suicidarsi al fronte in nome di promesse totalmente campate in aria.

Vladimir Putin e Yasser Arafat

Tutto cancellato; era uno scherzo, ma l’unico a ridere – alla fine – è Putin: gli ultimi dati economici pubblicati dalla Russia sanciscono il fallimento totale delle sanzioni suicide imposte dagli USA e che hanno avuto come unico risultato la devastazione definitiva dell’economia dell’eurozona, e ora Putin torna da vincitore al tavolo dei grandi, dettando le sue condizioni e quelle del Sud globale. “Ormai la situazione nell’economia globale” ha spiegato Putin ai colleghi del G20 “richiede decisioni collettive raggiunte attraverso il consenso e che riflettano l’opinione della stragrande maggioranza della comunità internazionale, sia dei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo”. “Nuovi potenti centri dello sviluppo economico globale stanno emergendo e si stanno rafforzando” ha continuato Putin: “una parte significativa degli investimenti, del commercio e del consumo globale si stanno spostando verso l’Asia, l’Africa e l’America Latina, dove vive il grosso della popolazione mondiale”.
Dall’Ucraina a Gaza, il colpo di coda del Nord globale, che sperava di invertire il suo declino a suon di bombe, sta miseramente fallendo; l’incognita rimane ancora capire quante vite siamo ancora disposti a sacrificare in nome della difesa di un’egemonia che è ormai completamente antistorica e contraria agli interessi della comunità umana dal futuro condiviso. Contro il ribaltamento della realtà e le arrampicate sugli specchi dei propagandisti dell’impero, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Alessandro Sallusti