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Tag: rivoluzione d’ottobre

“PATRIA O MUERTE” – L’amore per la patria come antidoto alla dittatura globale delle oligarchie

Si avvicinano le elezioni europee e, come ormai accade inevitabilmente da anni, uno spettro si aggira per il vecchio continente: lo spettro dell’affermazione elettorale dell’estrema destra nazionalista. Che strano… I cantori delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista, infatti, avevano dato il tema dell’identità nazionale per morto già diversi lustri fa: sostenevano, in soldoni, che sarebbe stato – inevitabilmente e definitivamente – relegato in un angoletto buio della soffitta dei ricordi un po’ scomodi dall’ascesa incontrastata di un’economia sempre più mondializzata e interconnessa, dal superamento delle frontiere della governance globale e da identità sempre più fluide; gli stati nazionali, secondo questa ottica un po’ messianica, non erano altro che un rimasuglio arcaico che si ostinava a tentare di ostacolare con scarsissimo successo il pieno dispiegamento di una società sempre più aperta e il definitivo trionfo a livello globale dell’unico modello possibile immaginabile: la democrazia liberale. Come mai anche a questo giro non c’avevano capito assolutamente una cippa?
“Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere, né confini”: così si esprimeva il 12 aprile del 1961 il primo essere umano ad avere la possibilità di guardare il nostro pianeta dallo spazio; non a caso, era un cosmonauta sovietico. L’aspirazione alla costruzione di un mondo senza frontiere e alla costruzione di un essere umano nuovo cittadino del mondo è da sempre parte integrante del movimento operaio e dell’identità politica di ogni sincero progressista; oggettivamente, però, con scarsissimi risultati fino a quando qualcuno non ebbe una incredibile intuizione: quello che non erano riusciti a ottenere i subalterni di tutti i paesi attraverso la lotta politica, lo si poteva raggiungere attraverso il mercato. Altro che internazionale dei lavoratori! A garantire un futuro di pace e di progresso c’avrebbe pensato direttamente la globalizzazione. Purtroppo si è rivelata essere un’intuizione non particolarmente brillante, diciamo: a fregare i nostri amici idealisti, l’assenza dell’aggettivo che deve sempre accompagnare il termine globalizzazione – e senza il quale si rischia sempre di prendere cazzi per mazzi – e cioè neoliberista. Quella che stavano sostenendo i nostri amici alla disperata ricerca di una nuova forma di internazionalismo non era genericamente la globalizzazione, ma specificatamente la globalizzazione neoliberista; e la differenza non potrebbe essere maggiore: lungi dall’essere un progetto post – nazionale, la globalizzazione neoliberista, infatti, mirava a consolidare un ordine economico internazionale fondato su una gerarchia precisa, con alcuni stati nazionali e i loro imperi al centro e gli altri alla periferia, che potevano accompagnare solo. In particolare, accompagnare la logica feroce dell’accumulazione capitalistica che, con il sostegno dell’impero, ha operato per mettere gli stati della periferia gli uni contro gli altri in una competizione senza fine a chi si accaparra più capitali dalle oligarchie finanziarie a suon di privatizzazioni, incentivi e guerra senza frontiere ai diritti di chi lavora. E così alla fine, paradossalmente, l’identità nazionale più che cedere il passo si è potenziata: la crescita di una governance internazionale sempre più oligarchica e meno democratica ha rafforzato vecchi e nuovi nazionalismi, e la comunità nazionale si è confermata la comunità di riferimento principale per miliardi di cittadini e cittadine in tutto il mondo.
Nel suo L’insicurezza sociale, cosa significa essere protetti? Robert Castel ci ricorda come gli individui, per sentirsi sicuri, sentano la necessità di sentirsi parte di una comunità; nel novecento, però, esistevano due tipi di comunità non necessariamente antitetiche, e cioè quelle nazionali e quella, senza confini fisici, del lavoro: la sconfitta del movimento operaio, dei suoi attori e delle sue istituzioni, quindi, non poteva che lasciare il posto al primato incontrastato della comunità nazionale. Davanti all’insicurezza della globalizzazione, la nazione non poteva che venire sempre più percepita come l’unico rifugio sicuro rimasto; di fronte a questo fenomeno, una fetta maggioritaria della sinistra ha reagito con uno schematismo un po’ superficiale e non particolarmente lungimirante: nel tentativo di tenere fede in modo completamente astratto al dogma internazionalista, non solo si è allineata totalmente all’ostilità del grande capitale nei confronti del concetto di nazione, ma ha rilanciato scagliandosi come un solo uomo contro l’idea stessa di stato. “Nel mondo globalizzato” sintetizzava il maître à penser per eccellenza di questa deriva, Toni Negri, “ogni reminiscenza statalista è destinata a piegarsi al sovranismo e all’identitarismo, e rinnova derive fasciste”.

Wolfgang Streeck

A tentare di riportare il dibattito sul piano del materialismo dialettico, sottraendolo a queste derive semplicistiche, c’ha pensato fortunatamente Wolfgang Streeck , direttore emerito dell’Istituto Max Planck per lo studio delle Società di Colonia: Streeck, infatti, sottolinea proprio come quel Leviatano repressivo che è lo stato – e, in particolare, proprio nella sua forma nazionale – sia stato storicamente la forma più efficace a disposizione delle classi popolari per controllare e socializzare l’economia e come, ancora oggi, rappresenti l’ultimo argine al dominio incontrastato delle forze del capitale. Anche per questo – anche se in modo spesso confuso o ambiguo – in assenza della comunità del lavoro organizzata, oggi le forme di opposizione prevalente al regime neoliberista globalizzato si presentano come rivendicazioni di sovranità nazionale o substatale, siano esse di sinistra o di destra, escludenti o inclusive.
Ma cos’è la nazione? Davvero questo concetto è necessariamente strumento della reazione? Oppure, al contrario, può essere anche uno strumento di emancipazione egualitaria e popolare? Un quesito fondamentale che, finalmente, oggi possiamo affrontare con due strumenti in più: il primo si chiama Un’idea di paese. La nazione nel pensiero della sinistra ed è l’ultima fatica del giovane Jacopo Custodi, ricercatore in comunicazione politica alla Scuola Normale; l’altro invece si chiama Nazioni in cerca di stato ed è opera di un altro giovane ricercatore, lo storico Paolo Perri. Due libri che da prospettive diverse e complementari ci parlano, appunto della nazione, di come questo concetto non vada necessariamente declinato su base etnicocentrica ed escludente e di come un approccio diverso a questa questione possa rappresentare finalmente una base per una sinistra egemonica, nazionalpopolare e in grado di sfidare sia l’egemonia della globalizzazione neoliberista sia il suo alter ego complementare, rappresentato dal nazionalismo xenofobo e finto sovranista. I due autori condividono la definizione di Benedict Anderson di nazione come comunità immaginata: le ideologie, sostengono, non sono mistificazioni fuorvianti da sfatare rivelando una presunta verità, ma sono invenzioni concettuali che creano un ordine ideale che produce effetti materiali concreti: identità, affetti, passioni. Il fatto che, per secoli, lo sviluppo dello stato si sia accompagnato a quello della nazione e che miliardi di uomini e donne in tutto il pianeta crescano e vivano in un contesto culturale, istituzionale e comunitario in cui la nazione è la principale comunità d’appartenenza, rende la nazione un concetto materialmente vivo ed estremamente potente, che ci piaccia o no; il problema, allora, più che disquisire su quanto ci piace o meno un dato di realtà incontrovertibile, consiste più prosaicamente nel comprendere concretamente il tipo di nazione evocato: escludente e rivolto al passato, o includente e rivolto al futuro? A incidere, continuano i nostri due autori, sarebbero in particolare due variabili: da un lato la storia e, dall’altro, il progetto politico inteso come l’insieme di interessi e di gruppi sociali che ci si propone di rappresentare; un concetto escludente di nazione è, ad esempio, per eccellenza, quello che si fonda sull’appartenenza etnica che, contro ogni minima parvenza di rigore storico, viene spacciata come chiusa, statica e naturale. La nazione fondata su una purezza etnica necessariamente posticcia non può che essere funzionale esclusivamente a vedersi eternamente come un fortino minacciato da tutti gli altri popoli – culturalmente ancora più che politicamente; è una nazione che teme ogni mutamento sociale, sogna il ritorno a un eden passato totalmente artefatto e, nel farlo proprio mentre magari legittimamente contesta le oligarchie transnazionali, punta al rafforzamento di gerarchie sociali che vedono le oligarchie locali al centro e tutti gli altri intorno, che possono accompagnare solo: insomma, l’esatto opposto di una nazione che si fonda sulla condivisione di principi e orizzonti democratici, aperta a chiunque voglia condividere un progetto sociale fondato sull’uguaglianza e necessariamente in eterno divenire. Questa idea includente di nazione rifiuta l’artificio dell’omogeneità etnica e culturale, e più che essere interessata al pedigree e da dove vieni, è interessata a dove vorresti andare e al contributo che sei disposto a dare per arrivarci, insieme; in quanto fondata su un progetto politico condiviso e democratico, la nazione includente è un’arma straordinaria di contrasto allo strapotere delle oligarchie e, paradossalmente, è per sua natura intrinseca molto più concretamente internazionalista di quanto non lo siano le utopie astratte, perché già solo per il fatto di esistere – e di resistere – contribuisce concretamente alla costruzione di un sistema di relazioni internazionali più equo e democratico.

Jacopo Custodi

Jacopo Custodi si sofferma principalmente sull’idea di nazione nella sinistra radicale e nella sua tradizione teorica, in particolare nel contesto italiano, e lo fa a partire da una semplice ma fondamentale riflessione: pensate se io oggi mi svegliassi e su un qualsiasi social mi azzardassi ad affermare una cosa tipo “O la patria, o la morte”. Immaginate? Razzista! Rossobruna!
Ebbene sì: sono razzista e rossobruna, come Che Guevara: Patria o muerte infatti, com’è ben noto, è stato a lungo il più celebre dei suoi slogan. A lungo, appunto, ma da una trentina di anni, un po’ meno, diciamo. Il Che, ovviamente, si riferiva in particolare alla funzione fondamentale che l’idea di comunità nazionale rivestiva nelle lotte di decolonizzazione, ma la centralità della questione nazionale nelle riflessioni di un militante rivoluzionario non era certo una sua invenzione: da Lenin a Rosa Luxembourg, in tutta la storia del movimento operaio la questione nazionale è sempre stata centrale; durante la rivoluzione d’Ottobre, la lotta per l’autodeterminazione nazionale di quelle che diventeranno poi le repubbliche sovietiche è stato uno degli assi fondamentali, e per Antonio Gramsci la partita principale consisteva nella definizione di un un progetto nazionalpopolare di unità del proletariato del Nord con i contadini del Sud per un blocco storico nazionale capace di costruire un’Italia socialista. Amare il proprio paese, scrive Jacopo Custodi, “vuol dire attivarsi per cambiarlo, e allo stesso tempo identificarsi con esso e rappresentarlo”, ed “è questo” continua l’autore “il senso profondo di quell’espressione, costituirsi in nazione, che compare nel Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels e che porta con sé l’eco della Rivoluzione Francese”; “Ciò che è nell’interesse della nazione” continua Custodi “dipende da cos’è la nazione, e da dove viene messa la sua frontiera immaginata”. Il punto, insiste, è la lotta per l’egemonia e la rivendicazione del fatto che le battaglie per l’uguaglianza e l’emancipazione dei subalterni non solo coincidono con l’interesse nazionale, ma SONO l’interesse nazionale; lasciare alle forze della reazione la costruzione dell’idea di nazione significa, molto semplicemente, rinunciare a lottare per l’egemonia e nascondersi mentalmente in qualche paradiso perduto, tra qualche battuta snob sulla necessità di abolire il suffragio universale e qualche piagnisteo vittimista su quanto il volgo non sia in grado di comprenderci.

Paolo Perri

Paolo Perri inquadra invece la questione nazionale da un altro punto di vista, ripercorrendo la storia dei movimenti e partiti politici che rappresentano quelle nazioni senza stato in cerca di maggiore autonomia o indipendenza; l’autore ripercorre la storia dei principali indipendentistmi, dalla Spagna all’Irlanda passando per Scozia, Galles, Fiandre e chi più ne ha più ne metta, e in questo modo ci permette di toccare con mano, in qualche modo, quello che Custodi ha provato a descrivere teoricamente. Come Custodi, Perri condivide l’idea della nazione come un prodotto dell’immaginazione politica che mette insieme elementi sociali, religiosi, economici e storici per un concetto di nazione sempre mutevole; questi nazionalismi diventano spesso il catalizzatore politico di una domanda di trasformazione più ampia il cui maggiore o minore successo è determinato da un lato dal grado di repressione dello stato nazionale in cui si sviluppano e, dall’altro, dalla loro capacità di rappresentare un progetto sociale ed economico alternativo : “Le mobilitazioni autonomiste e indipendentiste nell’Europa di questi ultimi anni” scrive Perri “si possono e si devono ricondurre a una molteplicità di fenomeni, quasi sempre espressione della crisi della democrazia rappresentativa. I movimenti nazionalisti, allora, possono proporsi da un lato come canali di radicalizzazione democratica, avanzando soluzioni antiliberiste e redistribuzioniste, come nei casi irlandese, basco, catalano e scozzese; oppure possono agire come forze autoritarie e conservatrici, che declinano il nazionalismo in forme di chiusura neo – comunitarista e xenofoba, come nel caso fiammingo.” L’idea nazionale, in questo caso, diviene il perno centrale di un immaginario antisistemico che catalizza il dissenso sociale: durante le crisi, sottolinea Perri, “Partiti spesso marginali, o addirittura organizzazioni clandestine e/o paramilitari, si sono trasformati in veri protagonisti della scena politica, sostituendosi in molti casi ai partiti tradizionali di destra, di centro e di sinistra. In tutti i casi qui presi in considerazione, il nazionalismo, da semplice espressione della frattura centro – periferia, ha finito quindi per interagire con diverse ideologie politiche, sposandone sempre più convintamente alcuni aspetti e producendo una sintesi liquida, che gli ha permesso di rispondere a un numero molto più ampio di istanze e richieste provenienti dalla società”; non è un caso che molti di questi movimenti abbiano rappresentato una delle risposte politiche alla globalizzazione neoliberista e che il loro sostegno elettorale sia cresciuto nelle fasi successive alla crisi del 2008. Paolo Perri ci costringe a prendere atto dell’ineludibile centralità del concetto di nazione nei momenti di crisi mostrandoci, ancora una volta, come la lotta per una declinazione diversa di nazione sia non solo possibile ma, probabilmente, l’unica possibilità che ci rimane per provare davvero a tornare a combattere per l’egemonia e non rassegnarci in eterno a rimanere ad abbaiare alla luna da un angolino.
Per riflettere insieme su come uscire concretamente dall’angolino l’appuntamento è per mercoledì 31 gennaio a partire dalle ore 21 in diretta su Ottolina Tv insieme a Paolo Perri e a Jacopo Custodi per una nuova puntata di Ottosofia .Noi comunque, nel frattempo, un’ideina ce la siamo fatta: servirebbe un vero e proprio media che faccia i conti con la realtà – a partire dall’esistenza di stati e nazioni – e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tony Blair

Perché in Italia non c’è mai stata una rivoluzione?

Rivoluzioni mancate, una lunga tradizione italiana. Ce ne fosse mai riuscita una: dalla rivoluzione scientifica alla riforma religiosa, dalle rivoluzioni di fine ‘700 al  risorgimento, dal biennio rosso fino alla guerra partigiana: la storia del nostro paese è in buona parte storia del fallimento sistematico di ogni tentativo di rivoluzionare alla radice i rapporti sociali, morali e politici.  Perché?
Io sono Valentina Morotti, e questa è la nuova puntata di “Ottosofia” e oggi parliamo di una delle più importanti e durature tradizioni italiane: le rivoluzioni mancate.
Biennio rosso (1919-1920): mai come allora l’Italia è stata davvero sull’orlo di una rivoluzione. Duemila scioperi, oltre 3 milioni di lavoratori mobilitati dal sindacato – per la stragrande maggioranza di fede socialista – e con il Partito Socialista che alle elezioni del novembre del 1919 raggiunge la quota astronomica del 32% e triplica in un balzo i propri seggi in Parlamento. Sull’onda lunga della Rivoluzione d’Ottobre, tra gli operai europei era emerso il bisogno di organizzare in modo nuovo la lotta per “fare dappertutto come in Russia”. Nelle industrie torinesi spuntano come funghi i consigli di fabbrica, guidati da uno degli intellettuali più importanti della storia del nostro paese: Antonio Gramsci. E’ lui a investire l’avanguardia operaia di un ruolo rivoluzionario fondamentale: quello di costituire la base di una nuova “democrazia proletaria” che si opponga alla democrazia parlamentare borghese, scossa alle fondamenta e terrorizzata dal contagio della “febbre bolscevica” dalle pianure dell’est. Tutto sembra pronto a un cambiamento esplosivo, il tritolo è ben posizionato, ma proprio sul più bello ecco che qualcosa si inceppa nell’innesco; il Partito Socialista, infatti, incapace di porsi alla testa delle masse, non riesce a dare alle occupazioni e alle esperienze dei consigli di fabbrica una degna traduzione politica. Un’incapacità strategica e addirittura, potremmo dire, filosofica che finisce per disinnescare il Biennio Rosso, trasformandolo in un’altra delle tante rivoluzioni mancate del nostro paese.

in foto: Antonio Gramsci

Ma com’è potuto accadere? Dove si nasconde l’anello debole nella guida politica del PSI che ha impedito la creazione di un laboratorio rivoluzionario? E’ a partire da queste dolorose domande che si snoda la riflessione di Gramsci sull’incapacità del suo partito di organizzare politicamente le sollevazioni operaie. Nei “Quaderni dal carcere” Gramsci giunge all’apice della sua ricerca sul fallimento delle rivoluzioni in Italia, ampliando il discorso alla storia italiana passata e ricollegandosi all’elefante nella stanza del Risorgimento: la mancata rivoluzione agraria. Laddove il Risorgimento avrebbe potuto prendere una direzione popolare e rivoluzionaria, camminando sulle gambe della classe contadina per riscattarla socialmente ed economicamente, quella maledetta riforma agraria non arrivò; anche e soprattutto, sottolinea Gramsci, per l’ostilità culturale più o meno esplicita delle élites liberali del tempo. Nella classe politica borghese e cittadina, sottolinea il filosofo, “c’è l’odio e il disprezzo contro il “villano”, un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della campagna”. (Gramsci, “Quaderni dal carcere”, p. 2035).
E ovviamente, come in ogni contro-rivoluzione che si rispetti, quel “fronte unico” implicito diventa esplicito, riesumando le forze sociali uscite bastonate e frastornate dai cambiamenti in corso nel tentativo di stabilizzare lo status quo. Nasce così la forza reazionaria post-risorgimentale, fondata sull’alleanza eclettica tra borghesi del Nord e grandi latifondisti del Sud, con uno scopo ben preciso, divenuto fatto storico: il soffocamento dei contadini del meridione, delle loro rivendicazioni e della loro forza organizzativa. Per Gramsci, dunque, il problema del Mezzogiorno esplode nella pancia dello Stato unitario come una lacerante contraddizione: non solo l’organizzazione dello stato unitario privilegiava una piccola fetta della società, trascurando le classi popolari e i loro bisogni, ma era anche incapace di percepirle e interpretarle come un soggetto di trasformazione storica. La soluzione, per la minoranza di latifondisti e borghesi, non poteva essere che schiacciare – non solo fisicamente ma anche ideologicamente – la grande maggioranza contadina. E’ questo mix di condizioni socio-economiche e mancato riconoscimento culturale che, nella riflessione di Gramsci, unisce la possibilità di rivoluzione nel presente con i mancati cambiamenti nel passato, poiché per lui “il passato non era solo ciò che doveva essere, bensì anche, se non soprattutto, ciò che avrebbe potuto essere e non era stato; ciò che è rimasto irrealizzato e che però ancora chiede di svolgersi, di attuarsi”. (Brugnolo, p. 266).
Con i Quaderni si lancia così uno spunto di riflessione sulle condizioni economiche, sociali e culturali che permettono a una rivoluzione di passare dall’utopia alla realtà, ed è il filo rosso al quale prova a ricollegarsi Stefano Brugnolo, professore di teoria della letteratura all’università di Pisa, e autore di “Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo”.

in foto: Stefano Brugnolo

Nella sua riflessione, Brugnolo individua proprio nei “Quaderni dal carcere” “il testo fondamentale per chiunque voglia indagare il rapporto che gli italiani hanno avuto con quel grande non-evento che è stata la rivoluzione mancata”. Il libro parla del modo in cui gli intellettuali italiani hanno interpretato quella lunga tradizione di rivoluzioni mancate in Italia, perché “qui da noi la rivoluzione si è rivelata un disperante appuntamento mancato, costringendo gli scrittori e gli intellettuali a ritornare tante e tante volte su quel nodo irrisolto, a ripensarlo e elaborarlo”. Un j’accuse, quello di Brugnolo, che mette sulla graticola tutte le figure di spicco del panorama intellettuale italiano storicamente associate alle grandi rivoluzioni, come quella scientifica contro il sistema tolemaico. Mettendo a fuoco la figura storica di Galileo Galilei, ad esempio, Brugnolo tratteggia il profilo di un intellettuale che non c’entra nulla col rivoluzionario protagonista dell’opera di Brecht “Vita di Galileo”: i testi di Galileo, piuttosto, ci raccontano di un’altra straordinaria rivoluzione culturale mancata che affonda le sue radici nell’incapacità dello scienziato toscano di comunicare al popolo la sua innovativa visione del mondo. Per Galilei, infatti, la verità semplicemente non è adatta per il popolo, ma solo “per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe”. Le sue opere in volgare sono rivolte a loro e di certo non alla massa.
Sospetto e diffidenza, ecco ciò che Galileo prova verso il popolo: non desidera coinvolgerlo nella sua rivoluzione culturale e, a differenza della sua controparte immaginata da Brecht, non cerca di intaccare con le sue teorie le fondamenta del sistema politico-culturale in cui vive. “Uno dei primi grandi esponenti della ragione moderna”, scrive Brugnolo, proprio “nel mentre lancia il suo progetto, esprime la sfiducia nella possibilità di socializzare quel nuovo modo di pensare, trasformandolo in una forza sociale capace di cambiare il mondo”. Un’occasione mancata.
La stessa sfiducia nelle masse si rintraccia in un peso massimo del Risorgimento, Alessandro Manzoni. Anche lui, sia nei “Promessi sposi” che nel “Saggio sulla rivoluzione francese”, dà voce a tutta la sua diffidenza verso i cambiamenti rivoluzionari democratici. Ad esempio, nel capitolo XXVIII dei “Promessi Sposi” sulla rivolta dei forni, Manzoni spara a zero sulla rivoluzione giacobina: riprendendo i saccheggi compiuti durante le rivolte popolari, lo scrittore paragona le politiche economiche di Ferrer e Robespierre affermando che la colpa per entrambe è della pressione esercitata dalle masse incolte: scrive Manzoni che in Francia “si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti ad onta de’ tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa […] e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge”.

in foto: Alessandro Manzoni

Per Manzoni è il popolo bestia che forza – con la violenza e senza avere alcuna cognizione di politica economica – la mano al decisore politico, che arriva ad adottare misure sciagurate per compiacere demagogicamente il vulgus profanum. Del resto, si parla di quello stesso “volgo disperso” che circa vent’anni prima, nelle pagine di “Adelchi”, aveva sollevato il capo e in maniera miope, secondo il demofobico Manzoni, si era illuso di liberarsi dal giogo longobardo confidando nel ‘disinteressato’ liberatore franco. Sono solo due esempi, ma sono sufficienti se pensiamo a quanto Manzoni sia importante per la letteratura e la cultura italiana. Non è difficile intuire, perciò, l’influenza che ha avuto Manzoni sul nostro dibattito intellettuale e a quanto questi giudizi hanno contribuito a formare la nostra cultura. Il romanzo italiano nasce così – attraverso la penna del suo più illustre pioniere – nel segno del realismo inteso come giudizio negativo sulla rivoluzione democratica. Quando la nostra classe intellettuale si è trovata di fronte la rivoluzione, o ne è stata terrorizzata o è stata incapace di comprenderne la portata; diventa chiaro come il sole che la paura del potere delle masse per le sue manifestazioni estreme (Manzoni e Verga) e la paura di “sporcare” il progresso culturale tramite la sua divulgazione (Galilei), sono due facce della stessa medaglia ideologica. E’ questa cappa culturale controrivoluzionaria che, nei termini gramsciani, si è tradotta in un’ideologia egemone nel corso dei secoli, schiacciando e delegittimando ogni pretesa di cambiamento. La soluzione, per il pensatore sardo, non può che essere una: costruire una classe intellettuale che sia al contempo parte della classe popolare e capace di porsi come sua avanguardia e rappresentante. Un partito parte della classe quindi, che sappia condurre una battaglia essenzialmente culturale per ribaltare i rapporti di forza ed esercitare una nuova egemonia. In sostanza: tutto ciò che è mancato e manca in Italia per dare il giusto peso e rappresentanza alle classi lavoratrici subalterne.
Nel libro, Brugnolo osserva che il pensiero della rivoluzione è “un pensiero capace di concepire il mondo come radicalmente “altro” da quel che è attualmente” e la forza della letteratura è quella di poter immaginare i possibili, quello che non è o non è stato, il negativo dell’esistente attuale, come il mondo dopo la rivoluzione. Se la rivoluzione è stata il grande represso della letteratura moderna, di una letteratura che provava a dare voce a come le cose non sono e potrebbero essere, questo provare a immaginare la rivoluzione nella letteratura di oggi è scomparso: oggi non c’è nemmeno più la capacità di immaginare la rivoluzione. Riusciamo a pensare la fine del mondo ma non il suo cambiamento, la catastrofe di questo pianeta piuttosto che la fine del capitalismo. Il capitalismo ci ha privato dei sogni: lo diceva già Pasolini, che vedeva in quei ragazzi di vita che erano ancora fuori da certe logiche consumistiche i semi del futuro conformismo, di un’omologazione che avrebbe spento le loro energie vitali. L’ultimo Pasolini parla dei giovani sottoproletari che sono stati conquistati dagli ideali borghesi perché la borghesia è ancora la classe dominante e egemone, mentre gli operai erano già da anni stati conquistati dagli ideali piccolo-borghesi del benessere economico. Anche il potenziale rivoluzionario del sottoproletariato urbano viene conquistato dai valori consumistici della classe borghese, che è sempre la classe egemone che impone non solo il proprio sistema di produzione ma anche i propri valori, il proprio immaginario, il proprio sistema di immaginare il mondo.
La conclusione del libro è che il tardo capitalismo, dopo la fine delle utopie novecentesche e il trionfo del neoliberismo, avrebbe atrofizzato la capacità di immaginare la rivoluzione. “Il sogno si è rattrappito”, come diceva Gaber.
Per farlo rifiorire dobbiamo discuterne senza troppi giri di parole, e se anche tu sei stufo degli intellettuali che amano i salotti e disprezzano il 99%, aiutaci a costruire il vero primo media che al 99% invece vuole dargli voce. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Ernesto Galli della Loggia