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Tag: riforma

Se l’impero USA in ritirata prova a colonizzare di nuovo l’America Latina (e non ci riesce)

“Gli Stati Uniti possono anche aver annunciato la fine della Dottrina Monroe” ha affermato il portavoce del ministero degli esteri cinese Lin Jian “ma il fatto è che, negli ultimi 200 e passa anni, la lotta per l’egemonia e la politica di potenza, che sono intrinseci nella Dottrina, sono ben lungi dall’essere stati abbandonati”: mentre l’imperialismo USA continuava ad accumulare sconfitte e figurette su tutti i fronti della grande guerra contro l’avanzata del nuovo ordine multipolare, lo Stato profondo – che fa la spola tra Washington e Wall Street – tornava a tessere le sue trame oscure per assicurarsi di nuovo il dominio totale perlomeno in quello che da sempre considerano il giardino di casa e il tutto, ovviamente, con la piena complicità delle oligarchie e delle borghesie compradore locali che, da sempre, preferiscono rinunciare all’esercizio di una qualsiasi forma di sovranità nazionale pur di non doverla condividere con le classi popolari del continente. Il lavoro certosino degli apparati politici ed economici per rimettere le mani sul continente è tornato a manifestarsi nell’autunno del 2022 in Perù, dove un golpe bianco ha messo fine alla presidenza del sindacalista indigeno Pedro Castillo; nel frattempo, un golpe giudiziario architettato in grande stile metteva all’angolo il kirchnerismo e spalancava le porte della Casa Rosada ai deliri cripto-fascisti di Javier Milei e della sua motosega (che la prima cosa che ha tagliato è l’adesione dell’Argentina ai BRICS). Intanto in Colombia il primo presidente della storia a non essere emanazione diretta del neocolonialismo USA, Gustavo Petro, si doveva confrontare con il ricatto di imponenti manifestazioni di piazza foraggiate dalle oligarchie svendi-patria locali, forti del sostegno di imponenti quinte colonne all’interno delle istituzioni che sono, ovviamente, ancora strapiene di agenti dell’impero; come, ad esempio, l’ex ambasciatore colombiano negli USA Luis Gilberto Murillo, che Petro alla fine dovrà rassegnarsi a nominare ministro degli esteri portandosi direttamente in casa il nemico. Sempre grazie al lavoro certosino delle quinte colonne al servizio dell’impero, intanto, anche i timidi tentativi di ritagliarsi alcuni spazi di sovranità da parte di Lula in Brasile cadranno sistematicamente nel vuoto: dopo il golpe giudiziario che, nel 2016, aveva messo fine al governo Roussef e aveva messo dietro le sbarre lo stesso Lula, il leader storico del partito dei lavoratori aveva ricevuto il semaforo verde per il ritorno al potere, ma solo a patto di accettare condizionamenti decisamente invasivi; come, ad esempio, la nomina al ministero degli esteri di Mauro Vieira, anche lui ex ambasciatore a Washington.
Ma a ben vedere, nonostante i numerosi innegabili successi, anche nel giardino di casa per l’imperialismo americano non è tutto rose e fiori: l’ennesimo tentativo di golpe in Venezuela, sostenuto all’unanimità da tutti gli alleati occidentali (comprese le frange più imbarazzanti e sprovvedute della sinistra imperiale, come la militante no borders oggi europarlamentare Carola Rackete), si è schiantato contro il muro della resistenza bolivariana che continua a tenere botta nonostante l’embargo illegale imposto dagli USA; in Honduras, il tentativo maldestro dell’ambasciatrice statunitense Laura Dogu di provare a delegittimare il segretario alla difesa Manuel Zelaya dopo aver contribuito, già oltre 15 anni, fa alla sua destituzione da presidente con un altro colpo di Stato, si è scontrato con la cazzimma della Presidenta Xiomara Castro, che ha annullato un trattato di estradizione con gli Stati Uniti vecchio di un secolo . Ma la partita più delicata è quella che gli USA si giocano in Messico: il Messico, infatti, riveste un ruolo strategico di primissimo piano per gli USA, soprattutto per quanto riguarda la necessità di Washington di perseguire il disaccoppiamento dalla potenza manifatturiera cinese; riportare in patria la produzione delocalizzata in Cina negli ultimi 40 anni, infatti, per gli USA è una mission impossible perché, con la poca manodopera qualificata che si ritrovano, significherebbe consegnare ai lavoratori un potere contrattuale gigantesco. Il grosso delle rilocalizzazioni necessarie per provare a dipendere meno dal nemico cinese e accorciare un po’ le catene del valore, dovrebbe quindi necessariamente coinvolgere proprio il Messico, ma se anche il Messico comincia a comportarsi come un vero Paese sovrano e approfitta di queste condizioni per portare avanti i suoi interessi nazionali, invece che quelli delle oligarchie USA, siamo punto e a capo. Anzi, forse addirittura ancora più indietro: per la prima volta gli USA si troverebbero proprio alle frontiere un Paese economicamente sviluppato e politicamente indipendente; per l’imperialismo USA, che sopravvive solo grazie alla capacità di rapinare ricchezza prodotta altrove, sarebbe una minaccia esistenziale intollerabile, come d’altronde è intollerabile assistere al trionfo militare della Russia in Ucraina o al collasso per logoramento di Israele o alla resilienza economica e tecnologica della Cina, nonostante le sanzioni.

Andrés Manuel López Obrador

Ecco: anche in Messico le cose non stanno andando molto meglio. La prima batosta è arrivata con le elezioni: gli USA avevano provato in tutti i modi a ostacolare il trionfo del partito di Manuel Lopez Obrador; nel bel mezzo della campagna elettorale, nell’arco di poche ore, su tre importanti testate occidentali erano apparse tre inchieste che muovevano la stessa scioccante accusa. Nel 2006 Obrador si sarebbe fatto finanziare la campagna elettorale dal cartello di Sinaloa e, in cambio, la sua amministrazione “avrebbe facilitato le loro operazioni criminali”; a scriverlo erano stati tre fiori all’occhiello dell’informazione del mondo libero e democratico: la tedesca Deutsche Welle, il portale statunitense Insight Crime e anche, sul sito di ProPublica, il premio pulitzer Tim Golden, tutti sapientemente pilotati da fonti della DEA (la famigerata Drugs Enforcement Agency) tutte rigorosamente anonime. Purtroppo, però, l’operazione ha ottenuto scarsi risultati e, alla fine, il partito di AMLO ha ottenuto una vittoria schiacciante; ma riconquistare la presidenza in un paese dove l’architettura istituzionale, nei decenni, è stata interamente piegata alle esigenze di dominio neocoloniale del vicino statunitense, è una cosa ben diversa dal conquistare il diritto a esercitare pienamente la sovranità: ecco perché, una volta ottenuto il pieno mandato dai cittadini messicani, la Presidenta Sheinbaum ha deciso di rilanciare una massiccia opera riformatrice in grado di minare il potere delle quinte colonne, a partire dalla magistratura, vero e proprio braccio armato delle oligarchie e degli affaristi al soldo di Washington. La riforma prevede che i giudici federali (compresi quelli della Corte Suprema) vengano eletti democraticamente; per gli obiettivi strategici USA è peggio che assistere alla ritirata delle truppe ucraine da Bakhmut o da Pokrovsk, ma – purtroppo per loro – le armi a disposizione per reagire ormai sembrano completamente spuntate. L’ambasciatore USA ha provato a interferire minacciando esplicitamente ripercussioni gravissime nel rapporto tra i due paesi; la risposta di AMLO è stata nientepopodimeno che congelare i rapporti diplomatici: “Finché sarò qui” ha dichiarato “non permetterò alcuna violazione della nostra sovranità”. Ma prima di entrare nel dettaglio di questa ennesima battaglia che l’imperialismo USA sembra destinato a perdere malamente, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci anche oggi a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi dell’impero e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi vi costa meno tempo di quanto impieghi la DEA ad architettare un cambio di regime in America Latina, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di insinuare a sempre più persone qualche dubbio sul fatto che chiunque non sia di gradimento alla Casa Bianca è un pericoloso trafficante internazionale di cocaina probabilmente non è una tesi proprio esattamente verosimile.
Forte del mandato popolare conferitogli da un trionfo elettorale che nell’Occidente collettivo non raggiungono nemmeno tutti i partiti mainstream messi assieme, MORENA, il partito di Manuel Lopez Obrador, procede spedito nella sua lotta di liberazione nazionale contro le interferenze straniere e lo strapotere delle borghesie compradore e lo fa andando a toccare il nervo più scoperto dell’architettura istituzionale neocoloniale messicana: il potere giudiziario. La riforma, in soldoni, prevede l’elezione diretta dei giudici federali e “rappresenta un grave rischio per il funzionamento della democrazia”, ha affermato l’ambasciatore USA in Messico Ken Salazar; da che pulpito! In 41 stati su 50 infatti, com’è noto, anche negli USA i giudici vengono eletti, e con molte meno garanzie di quelle previste dalla riforma messicana: a differenza che negli USA, infatti, in Messico sarà fatto divieto totale di ricorrere a finanziamenti privati e ai candidati verrà garantito spazio televisivo e radiofonico gratuito. Forse è per questo che Salazar lo ha definito un rischio per la democrazia: per un autentico patriota statunitense, qualsiasi cosa non possa essere comprata liberamente da chi è più ricco, lo è. La realtà, ovviamente, è diametralmente opposta a quella descritta dall’ambasciatore USA: l’elezione diretta dei giudici, infatti, è una misura necessaria per rompere la totale subordinazione del potere giudiziario agli interessi delle oligarchie locali in affari con Washington e Wall Street; come sottolinea Kurt Hackbarth su Jacobin “La magistratura messicana ha la fama di essere una sorta di cocktail club caratterizzato da stipendi eccessivi, privilegi di ogni genere, e scandali etici al servizio dell’oligarchia e di altri interessi sgradevoli”. Un caso eclatante che ha a lungo occupato le cronache nazionali è quello dello sconto ingiustificato da 32 milioni concesso a Totalplay, la società di telecomunicazioni della terza persona più ricca del Messico, il famigerato evasore seriale Ricardo Salinas Pliego. I casi di “carte false per consentire a ricchi sospettati di uscire dal carcere senza problemi” non si contano: è il caso, ad esempio, di Emilio Lozoya, accusato di aver triangolato i fondi neri della brasiliana Odebrecht che, nel 2012, hanno garantito la vittoria di Enrique Pena Nieto; oppure Rosario Robles, accusato di aver distratto milioni di dollari destinati ai fondi per lo sviluppo sociale; oppure Francisco Garcia Cabeza de Vaca, l’ex governatore di Tamaulipas che si era visto togliere l’immunità per costringerlo ad affrontare svariate accuse di riciclaggio e appartenenza alla criminalità organizzata, fino a quando non è intervenuta la Corte Suprema che ha sospeso la procedura permettendogli di fuggire in Texas; e, infine, Mario Marin, ex governatore di Puebla, accusato di aver ordinato la tortura della giornalista Lydia Cacho per aver rivelato la storia della sua presunta partecipazione a un traffico e di pornografia infantile. E ormai “in Messico un passatempo comune è attendere di vedere quale nuovo individuo benestante verrà scarcerato di sabato, quando c’è meno copertura mediatica e gli uffici governativi sono chiusi”; ma questi casi di corruzione quotidiana ed endemica sono solo la punta dell’iceberg.
Il problema vero è che da quando, finalmente, è salito al potere una presidente intenzionata a portare avanti una vera e propria lotta anti-coloniale, dall’elargire favori a destra e manca ai rampolli delle oligarchie, la magistratura si è trasformata in un vero e proprio organo controrivoluzionario: durante i primi 5 anni di presidenza Obrador, la Corte Suprema ha cancellato la bellezza di 74 leggi; il caso più eclatante risale al gennaio scorso, quando ad essere presa di mira è stata la riforma della legge sull’industria elettrica, che ridimensionava lo strapotere delle multinazionali straniere, ma che secondo la Corte violava non solo “i principi della libera concorrenza”, ma addirittura anche quelli dello “sviluppo sostenibile”. Morale della favola: nonostante fosse stata votata ad ampia maggioranza da tutto il parlamento, per bloccarla è bastato il voto di 2 giudici su 11. Dopo la battaglia per bloccare la riforma del mercato energetico, le cose sono ulteriormente degenerate quando a maggio, in piena campagna elettorale, sono emerse le prove di un incontro segreto tra il giudice capo della Corte Suprema Norma Pina, alcuni magistrati del Tribunale Elettorale federale e Alejandro Moreno, il presidente del principale partito di opposizione: nelle settimane successive sono state rese pubbliche le conversazioni WhatsApp che erano avvenute tra i vari partecipanti nei giorni precedenti l’incontro e nelle quali Pina definiva esplicitamente Moreno un alleato e un amico; con la riforma della giustizia, AMLO, molto semplicemente, è determinato a fare in modo che una roba del genere non possa accadere mai più.
Soprattutto adesso che la battaglia anti-coloniale dentro al cuore delle istituzioni si appresta ad entrare nella sua fase più calda, con una serie infinita di emendamenti costituzionali che dovranno essere votati dal parlamento nei prossimi mesi: dal rafforzamento dell’autonomia per i popoli indigeni e afro-messicani, a un regime che prevede maggiori tutele salariali, al divieto del fracking e dell’estrazione mineraria a cielo aperto, passando per il divieto del mais OGM per consumo umano; ecco perché l’ambasciatore USA ha messo da parte l’etichetta e ha ribaltato completamente quello che era stato il suo approccio fino ad oggi. Salazar, infatti, in passato è stato addirittura accusato di essere eccessivamente tenero e dialogante con Obrador: “Il miglior diplomatico di Biden in Messico è andato troppo oltre?” si chiedeva due anni fa il New York Times; “I funzionari dell’amministrazione” proseguiva l’articolo “temono che il rapporto intimo dell’ambasciatore americano con il presidente messicano si sia ritorto contro e possa ostacolare gli interessi americani nella regione” tant’è che, ancora il 24 luglio scorso, Salazar affermava che “come impostare la riforma sarà una decisione del governo messicano e del legislatore messicano. Non mi farò coinvolgere in ciò che dovrebbe essere fatto”. Il mese precedente aveva dichiarato che “Non è una nostra decisione. Noi, gli Stati Uniti, non possiamo imporre le nostre opinioni su tali questioni”; poi, senza preavviso, la svolta: “Penso che il dibattito minaccerà lo storico rapporto commerciale che abbiamo costruito, che si basa sulla fiducia degli investitori nel quadro giuridico del Messico” ha affermato lo scorso 22 agosto. “Un voltafaccia così improvviso” ha commentato sempre Hackbarth “chiaramente non è stato ordito a Città del Messico, ma a Washington. La domanda, ovviamente, è da chi. In assenza del potere proveniente dalla Casa Bianca di Joe Biden, altri centri di potere all’interno del governo federale si sono affrettati a riempire il vuoto, scavalcandosi a vicenda nel processo”: “Un candidato ovvio” continua Hackbarth “è la Drug Enforcement Administration, che ha condotto un’operazione per diffamare AMLO attraverso voci arrendevoli dei media in risposta alla limitazione dei suoi poteri sul suolo messicano. Un altro sono i falchi del Dipartimento di Stato o di una delle altre agenzie di intelligence. Ma la fonte più ovvia probabilmente di tutte, in realtà, è proprio la comunità imprenditoriale, che da tempo si avvale di giudici amici e abusa di procedimenti legali di vario genere per promuovere i suoi interessi in settori strategici come quello bancario, quello minerario, quello energetico e quello idrico, bloccando tutte le legislazioni che mirerebbero a regolamentarli. Nonostante tutti gli spaventosi avvertimenti su come un sistema giudiziario democraticamente eletto aprirebbe la porta a una maggiore influenza dei cartelli, la vera preoccupazione delle multinazionali è piuttosto che chiuderebbe la porta alle loro tangenti e alla calda accoglienza di cui hanno goduto storicamente presso i giudici che hanno sempre garantito decisioni a loro favore”. E, ovviamente, anche i media delle oligarchie hanno fatto la loro parte: poche settimane fa sono emerse le prove che Lourdes Mendoza, la pimpante e celeberrima editorialista della testata economica El Financiero (il partner messicano di Bloomberg), prima di pubblicare il suo commento sulla riforma della giustizia l’ha inviato a un giudice della Corte Suprema per avere la sua approvazione.
Come sempre accade in un Paese che ancora deve emanciparsi davvero dal dominio coloniale, i vari poteri deviati dello Stato e la propaganda al soldo delle oligarchie internazionali lavorano a braccetto; per questo, dal Messico all’Italia, per portare avanti la nostra battaglia contro il dominio dell’impero prima di tutto abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che agli interessi parassitari delle oligarchie svendi-patria, dia voce a quelli del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Enrico Mentana

Il governo Meloni abolisce il reato di abuso d’ufficio – ft. Claudia Candeloro

Oggi i nostri Irene e Gabriele intervistano Claudia Candeloro (avvocata del lavoro) riguardo alla riforma dell’abuso di ufficio voluta dal governo Meloni. La riforma permetterà ai singoli ufficiali pubblici una maggiore libertà di movimenti, al limite dell’abuso; particolarmente gravi le implicazioni che questa potrebbe avere sulla sicurezza pubblica. Come al solito i governi sovranisti di cartapesta confondono lo smantellamento della burocrazia con la creazione di zone grigie nel diritto, dalle conseguenze imprevedibili. Buona visione!

#AbusoDiUfficio #RiformaMeloni #Sicurezza #legalità

Fine lavoro mai: se la Meloni fa l’atlantista con le pensioni degli altri

Pensavate di esservi liberati della Fornero, eh? In realtà non aveva fatto altro che indossare una parrucca bionda, frequentare qualche corso di dizione in burinese per darsi un nuovo tono più popolare e rieccola lì ai posti di comando, pronta a condannarvi di nuovo, tra una lacrima e l’altra, ai lavori forzati a vita.
La riforma delle pensioni partorita dal governo dei fintosovranisti svendipatrioti è un inno all’austerity che fa impallidire i tecnici neoliberisti più feroci: “Dopo anni di propaganda per abolire la legge Fornero” sottolinea con una certa nota di soddisfazione Luca Monticelli su La Stampa “il centrodestra è arrivato al governo e ha di fatto eliminato la flessibilità, creando un meccanismo che addirittura rafforza il sistema pensato dal governo Monti del 2011”. Difficile dargli torto; per andare in pensione, dal prossimo anno bisognerà mettere assieme 63 anni di età e 41 anni di contributi ma non solo, perché ormai i lavoratori che hanno iniziato a lavorare a tempo pieno a 22 anni e non hanno mai spesso per i 41 successivi sono una esigua minoranza. Per tutti gli altri, si arriverà in scioltezza a 67 e per quelli che non sono riusciti a mettere assieme nemmeno 20 anni di contributi – e sono tanti – direttamente a 71. In Francia, contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, centinaia di migliaia di persone hanno messo a ferro e fuoco il paese per mesi.
Ovviamente, l’informazione e le élite liberali gongolano e lasciano il palco alla Fornero original che, sempre dalle pagine de La Stampa, si prende la sua rivincita: “La manovra dimostra che quelle regole non erano dettate da insensibilità nei confronti dei desideri e delle aspettative dei lavoratori, ma dall’insostenibilità del sistema previdenziale. Alle condizioni date, nessuna contro-riforma delle pensioni è ragionevolmente possibile”. Non ha tutti i torti. Basta intendersi su cosa si intende per “condizioni date”: per lei – e i tecnocrati come lei – sarebbero le condizioni imposte dalle scienze economiche, dove con scienza intendono quell’insieme di superstizioni create ad hoc dalle oligarchie finanziarie e osservate religiosamente dalle nostre élite, nonostante siano state smentite millemila milioni di volte negli ultimi 20 anni. Per noi, molto più prosaicamente, consistono nel fatto che tra Monti, Draghi, Letta, Giorgetti e la Meloni non ci sono differenze se non di carattere cosmetico: stanno dove stanno per svendere il paese a Washington e alle sue oligarchie finanziarie.
Avevamo basse aspettative, ma di*c**e! Non c’è modo migliore per descrivere la nostra reazione quando abbiamo visto la bozza di disegno di legge di bilancio che è cominciata a circolare martedì scorso e che tutti sostengono sia più o meno definitiva. Nonostante le avvisaglie, abbiamo sperato fino alla fine che la Lega di Salvini non fosse disposta a sbracare in maniera ignobile di fronte alla macellazione di uno dei suoi cavalli di battaglia “ma non c’è stato nulla da fare” sottolinea il Corriere della Serva: “Palazzo Chigi ha avocato a sé la scrittura della manovra anche sulle pensioni, dove il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha concorso a stringere le norme per mandare un segnale di rigore alla commissione Ue e ai mercati, agenzie di rating comprese”.
La botta più feroce è per i millennial, che passeranno alla storia, probabilmente, come una delle generazioni più sfigate di tutti i tempi; per chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1996, cioè l’anno del passaggio criminale dal sistema retributivo a quello contributivo, la pensione sarà una cosa da ricchi. Per andare in pensione alla tenera età di 64 anni, infatti, dovranno aver raggiunto un assegno mensile da 1.700 euro che, in soldoni, significa aver avuto per 20 anni stipendi netti intorno ai 2.300/2.400 euri: una piccola minoranza. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, dovranno aspettare di spegnere 67 candeline. Nella peggiore 71, sempre che le aspettative di vita, nel frattempo, non aumentino; in tal caso si ricalcolerà tutto e l’età aumenterà automaticamente. Siamo arrivati al punto che ogni volta che un vecchietto muore prima degli 80 anni dovremo festeggiare, e forse non basterà: tutte le risorse della manovra, infatti, sono andate al taglio del cuneo fiscale che, in realtà, non è fiscale manco per niente. A venire messi direttamente in busta paga del lavoratore, infatti, sono soldi che fino ad oggi andavano all’INPS; per il prossimo anno quei soldi all’INPS li darà lo Stato. Poi chissà.
Una fregatura; il taglio del cuneo, infatti, è diventato indispensabile dopo che l’anno scorso le aziende, nonostante l’inflazione, hanno aumentato i profitti (e di parecchio) ma senza aumentare di un centesimo gli stipendi dei lavoratori che, così, hanno perso oltre il 7% del loro potere d’acquisto, come se gli avessero tagliato di botto la tredicesima. E questo nella migliore delle ipotesi: secondo una relazione di Mediobanca del mese scorso, infatti, la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori delle 2000 principali aziende italiane sarebbe stata addirittura del 20%. Oltre alla tredicesima gli hanno fregato pure un altro stipendio e mezzo. Con il taglio del cuneo, a colmare la lacuna non dovranno essere le aziende, redistribuendo una piccola parte dei profitti letteralmente fregati sia ai lavoratori che ai consumatori, ma ci penserà lo stato, ovviamente con i soldi dei lavoratori stessi, che sono sostanzialmente gli unici che pagano davvero tutte le tasse e per i quali, in futuro, ci saranno ancora meno soldi per pagare le pensioni.
E sapete lo Stato da dove prenderà i soldi per pagare gli aumenti salariali al posto delle aziende? L’ipotesi che va per la maggiore è il blocco del turn over: se ne sentiva proprio il bisogno. L’Italia infatti, al di là delle leggende metropolitane spacciate dalla propaganda e che fanno immediatamente presa sul popolo delle partite iva – che è incazzato nero e non senza ragioni – è uno dei paesi OCSE col numero più basso di lavoratori pubblici sia rispetto al totale della popolazione attiva, sia rispetto alla popolazione complessiva; per raggiungere gli standard medi del mondo sviluppato, avremmo bisogno domattina di assumere tra gli 1 e i 2 milioni di dipendenti pubblicicosì, de botto. In queste condizioni, fare cassa rinnovando il blocco del turn over significa solo una cosa, molto semplice: ridurre l’amministrazione pubblica una scatola vuota a partire dalla sanità, dove la carenza di personale è un vero e proprio dramma.
La soluzione della Fornero con la parrucca? Pagare di più gli straordinari ed evitare scientificamente di assumere, e quello che si risparmia regalarlo alla sanità privata. Ma attenzione: non sono errori. E’ una strategia deliberata; se a garantire pensioni adeguate e sanità dignitosa non è più il pubblico, infatti, ecco che non rimane altra alternativa che dare un po’ dei nostri quattrini a fondi e assicurazioni private, e cioè alle oligarchie finanziarie – in particolare d’oltreoceano – che ormai hanno più quattrini e potere degli stati nazionali stessi che, ormai, assolvono molto banalmente il ruolo di loro comitato d’affari. E, da questo punto di vista, accanirsi più di tanto con questo governo di fenomeni da baraccone lascia il tempo che trova; sono solo l’ennesima variante, magari leggermente più pittoresca e maldestra, del partito unico degli affari e della guerra che governa l’Italia dalla fine della prima repubblica, con differenze del tutto marginali.
E quindi non ce ne vogliate, ma qui tocca aprire l’ennesimo capitolo di educ8lina e, insieme al leggendario Alessandro Volpi, provare a raccontarvi un altro pezzetto oscuro del capitalismo ai tempi della globalizzazione finanziaria che sui media mainstream non troverete mai.

Capitolo primo: come l’efficientissimo ordine economico neoliberale si è trasformato in una gigantesca trappola del debito

Alessandro Volpi: “Io voglio provare a fare un ragionamento che è sostanzialmente legato a 2 o 3 questioni fondamentali: la prima, che mi sembra una questione di natura generale che a mio modo di vedere merita una riflessione, sono i dati che sono emersi in questi giorni sul livello di indebitamento globale. Abbiamo visto che in questi giorni sono usciti questi rapporti di varia natura. Sono più rapporti che mettono in luce come il debito complessivo e il debito pubblico e privato abbiano superato ampiamente i 300.000 miliardi di dollari, quindi ormai è un livello stabilizzato. Sembrava che questa forte impennata dipendesse dalle spese per il covid e quant’altro, anche a livello globale; in realtà ormai viaggiamo su un indebitamento complessivo che è superiore ai 300.000 miliardi, quindi vuol dire grossomodo il 300% del prodotto interno lordo mondiale. Dentro questo numero ce n’è un altro, cioè il gigantesco indebitamento pubblico, perché siamo ormai stabilmente sopra i 100.000 miliardi: oscilliamo fra i 100 e i 98 mila miliardi, quindi il 100% del prodotto interno lordo globale. Ma il dato più rilevante rispetto a questi numeri è rappresentato dal fatto che, secondo le stime di questi istituti di varia origine e provenienza (quindi è certamente un dato oggettivo o almeno presumibilmente oggettivo) la percentuale di interessi maturati sul debito e sul prodotto interno lordo tende a oscillare fra il 15 e il 20%, che è veramente un’esagerazione. Pensare che noi abbiamo una massa di interessi da pagare – intendo il sistema globale degli stati in giro per il mondo – che è grossomodo intorno al 15% del prodotto interno lordo mondiale, vuol dire veramente una montagna di soldi. Da questa fotografia, secondo me, emergono due considerazioni di rilievo. La prima, ce lo dobbiamo mettere in testa (e spero che questo messaggio riusciremo a trasmetterlo), è che è difficile immaginare qualsiasi ipotesi di mantenimento in vita di una parvenza di stati sociali – ma a questo punto direi anche dello stesso sistema delle imprese e delle famiglie – senza il debito. Cioè l’idea che il debito sia in qualche modo, soprattutto nel caso del confronto dei debiti pubblici, un dato patologico per cui bisogna riavviare politiche di austerity, ridurre il debito, riportare i parametri – come vuole fare l’Europa con il patto di stabilità in qualche modo, sia pur gradatamente – a una riduzione, mi sembra che cozzi contro questo dato di fatto. Cioè se noi prendiamo i dati, banalmente, del 2000, i dati del 2000 ci fanno vedere che il rapporto fra il debito complessivo e il prodotto interno lordo mondiale era intorno, grossomodo, al 20 – 25%; oggi siamo al 300%. Come si può pensare che noi manteniamo in vita dei parametri, peraltro pensati a metà degli anni ‘90, quindi in condizioni dove i rapporti debito – PIL pubblico (e in parte privato) facevano dire “Beh, ma il debito è il male e quindi mettiamo tutta una serie di misure che devono far rientrare in direzione della riduzione dell’indebitamento”?

Oggi è abbastanza palese che immaginare una contrazione del debito vuol dire strangolare le economie dei paesi sia dal punto di vista privato sia dal punto di vista pubblico. È evidente che al debito si somma debito e si strangola ancora, in maniera marcata, l’economia pubblica. Quindi bisognerebbe cominciare a pensare che il debito pubblico è un dato sostanzialmente fisiologico, che va rapportato alla capacità di mantenere i Paesi in condizioni di vita che siano dignitose dal punto di vista dei servizi, e servono le politiche delle banche centrali – laddove necessario – per il finanziamento del debito. Ce lo dicono i numeri: a volte veramente è come se noi non volessimo vedere i numeri (e poi su questa arriverò a cascata sulle considerazioni anche legate allo specifico), ma i numeri ci dicono che il debito è indispensabile. Se noi non facciamo debito non siamo in grado di mantenere in vita il nostro sistema economico. I debiti pubblici hanno un ruolo decisivo.

Fortunatamente, però, un modo per sopravvivere e rendere tutto questo gigantesco debito sostenibile c’è, si chiama monetizzazione: in soldoni, significa che quando uno Stato cerca di finanziare il suo debito attraverso l’emissione di titoli di Stato ma sul mercato non trova abbastanza acquirenti, o per trovarli gli deve garantire interessi troppo alti, ecco che a intervenire è la Banca Centrale, che stampa moneta e a comprare il debito ci pensa direttamente lei. Non è una tecnica particolarmente innovativa; quando il capitalismo era ancora capitalismo industriale e per fare quattrini si puntava alla crescita economica – invece che al furto di una fetta sempre più grande di ricchezza in un’economia che si rimpicciolisce sempre di più – era la norma: in Italia, ad esempio, fino al 1981, quando la religione neoliberista ci impose di rendere la Banca Centrale indipendente e al servizio – invece che del governo – delle oligarchie finanziarie. Ma ancora oggi, in piena era di dominio delle oligarchie, c’è chi lo fa ancora, e non sono soltanto gli stati sovrani del sud globale che, anzi, da questo punto di vista qualche difficoltà in più ce l’hanno. No, no. E’ proprio il centro dell’impero.Negli USA la Fed, infatti, fa esattamente questo: dà carta bianca al governo per aumentare il debito sostanzialmente all’infinito. Questo infatti è l’andamento del debito pubblico USA dal 1970 ad oggi: ancora nel 2008 era paragonabile a quello dell’area euro,appena poco sopra il 60%. Oggi è poco meno del 125% e continua ad aumentare di brutto, e la Fed continua a comprare tutti i titoli che servono. Da noi invece, dopo la parentesi del whatever it takes di Draghi, la BCE non solo i titoli ha smesso di comprarli, ma ha anche iniziato a vendere quelli che c’aveva già, nonostante il debito complessivo dell’eurozona sia enormemente inferiore a quello USA: appena appena sopra il 90%. Secondo la leggenda metropolitana degli economisti mainstream, l’eurozona sarebbe quella virtuosa: la teoria magica, infatti, prevede che se aumenti il debito e poi lo monetizzi fai esplodere l’inflazione. Peccato, però, che l’inflazione nell’eurozona sia stabilmente superiore a quella USA: maledetta realtà, che continua a contraddire i tecnocrati neoliberisti. Senza rispetto proprio.
Ma il masochismo dell’eurozona non finisce qui, perché se non hai una Banca Centrale che monetizza il tuo debito, il tuo debito – appunto – lo devi vendere ai privati. Ma come fanno i privati a decidere quanti interessi gli devi riconoscere perché si prendano il rischio di comprare il tuo debito?
Ed ecco che qui entrano in gioco le agenzie di rating, tre aziende private che danno le pagelle al debito di tutti i paesi del mondo, e gli investitori istituzionali – come i fondi pensione – se le agenzie di rating ti hanno dato un brutto voto, il tuo debito molto banalmente non lo comprano. Insomma, delle prof esigenti e influentissime che, però, spesso non agiscono in modo esattamente disinteressato, diciamo. Le tre agenzie di rating che decidono le sorti delle finanze pubbliche di tutto il mondo sono Fitch, Moody’s e Standard & Poor; i primi tre azionisti di Standard & Poor sono Vanguard, State Street e Blackrock ,che sono anche tre dei principali cinque azionisti di Moody’s insieme a Bearkshire Hathaway, il fondo di investimento di Warren Buffet. Un conflitto di interessi gigantesco, che va ben oltre semplicemente assecondare le scommesse al ribasso dell’azionista di riferimento. Il problema è molto più generale; il voto delle agenzie di rating è per forza di cose influenzato dagli interessi generali dei grandi fondi speculativi e il modello è molto chiaro: più svendi il tuo paese ai fondi speculativi e più alti saranno i tuoi voti. Ecco perché, al di là delle polemiche da talk show, essere disposti a svendere la patria non è un’opzione politica tra le tante, ma è proprio il prerequisito per salire al governo di un paese, che tu ti chiami Monti, Fornero, Giancazzo Giorgetti o Giorgia famigliatradizionale Meloni. E sui media mainstream tutto questo noncielodikono.
Per cominciare a guardare la luna invece del dito, l’unica possibilità è che un media tutto nostro – che non faccia da megafono alle oligarchie finanziarie – ce lo si costruisca da no. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti