Se l’impero USA in ritirata prova a colonizzare di nuovo l’America Latina (e non ci riesce)
“Gli Stati Uniti possono anche aver annunciato la fine della Dottrina Monroe” ha affermato il portavoce del ministero degli esteri cinese Lin Jian “ma il fatto è che, negli ultimi 200 e passa anni, la lotta per l’egemonia e la politica di potenza, che sono intrinseci nella Dottrina, sono ben lungi dall’essere stati abbandonati”: mentre l’imperialismo USA continuava ad accumulare sconfitte e figurette su tutti i fronti della grande guerra contro l’avanzata del nuovo ordine multipolare, lo Stato profondo – che fa la spola tra Washington e Wall Street – tornava a tessere le sue trame oscure per assicurarsi di nuovo il dominio totale perlomeno in quello che da sempre considerano il giardino di casa e il tutto, ovviamente, con la piena complicità delle oligarchie e delle borghesie compradore locali che, da sempre, preferiscono rinunciare all’esercizio di una qualsiasi forma di sovranità nazionale pur di non doverla condividere con le classi popolari del continente. Il lavoro certosino degli apparati politici ed economici per rimettere le mani sul continente è tornato a manifestarsi nell’autunno del 2022 in Perù, dove un golpe bianco ha messo fine alla presidenza del sindacalista indigeno Pedro Castillo; nel frattempo, un golpe giudiziario architettato in grande stile metteva all’angolo il kirchnerismo e spalancava le porte della Casa Rosada ai deliri cripto-fascisti di Javier Milei e della sua motosega (che la prima cosa che ha tagliato è l’adesione dell’Argentina ai BRICS). Intanto in Colombia il primo presidente della storia a non essere emanazione diretta del neocolonialismo USA, Gustavo Petro, si doveva confrontare con il ricatto di imponenti manifestazioni di piazza foraggiate dalle oligarchie svendi-patria locali, forti del sostegno di imponenti quinte colonne all’interno delle istituzioni che sono, ovviamente, ancora strapiene di agenti dell’impero; come, ad esempio, l’ex ambasciatore colombiano negli USA Luis Gilberto Murillo, che Petro alla fine dovrà rassegnarsi a nominare ministro degli esteri portandosi direttamente in casa il nemico. Sempre grazie al lavoro certosino delle quinte colonne al servizio dell’impero, intanto, anche i timidi tentativi di ritagliarsi alcuni spazi di sovranità da parte di Lula in Brasile cadranno sistematicamente nel vuoto: dopo il golpe giudiziario che, nel 2016, aveva messo fine al governo Roussef e aveva messo dietro le sbarre lo stesso Lula, il leader storico del partito dei lavoratori aveva ricevuto il semaforo verde per il ritorno al potere, ma solo a patto di accettare condizionamenti decisamente invasivi; come, ad esempio, la nomina al ministero degli esteri di Mauro Vieira, anche lui ex ambasciatore a Washington.
Ma a ben vedere, nonostante i numerosi innegabili successi, anche nel giardino di casa per l’imperialismo americano non è tutto rose e fiori: l’ennesimo tentativo di golpe in Venezuela, sostenuto all’unanimità da tutti gli alleati occidentali (comprese le frange più imbarazzanti e sprovvedute della sinistra imperiale, come la militante no borders oggi europarlamentare Carola Rackete), si è schiantato contro il muro della resistenza bolivariana che continua a tenere botta nonostante l’embargo illegale imposto dagli USA; in Honduras, il tentativo maldestro dell’ambasciatrice statunitense Laura Dogu di provare a delegittimare il segretario alla difesa Manuel Zelaya dopo aver contribuito, già oltre 15 anni, fa alla sua destituzione da presidente con un altro colpo di Stato, si è scontrato con la cazzimma della Presidenta Xiomara Castro, che ha annullato un trattato di estradizione con gli Stati Uniti vecchio di un secolo . Ma la partita più delicata è quella che gli USA si giocano in Messico: il Messico, infatti, riveste un ruolo strategico di primissimo piano per gli USA, soprattutto per quanto riguarda la necessità di Washington di perseguire il disaccoppiamento dalla potenza manifatturiera cinese; riportare in patria la produzione delocalizzata in Cina negli ultimi 40 anni, infatti, per gli USA è una mission impossible perché, con la poca manodopera qualificata che si ritrovano, significherebbe consegnare ai lavoratori un potere contrattuale gigantesco. Il grosso delle rilocalizzazioni necessarie per provare a dipendere meno dal nemico cinese e accorciare un po’ le catene del valore, dovrebbe quindi necessariamente coinvolgere proprio il Messico, ma se anche il Messico comincia a comportarsi come un vero Paese sovrano e approfitta di queste condizioni per portare avanti i suoi interessi nazionali, invece che quelli delle oligarchie USA, siamo punto e a capo. Anzi, forse addirittura ancora più indietro: per la prima volta gli USA si troverebbero proprio alle frontiere un Paese economicamente sviluppato e politicamente indipendente; per l’imperialismo USA, che sopravvive solo grazie alla capacità di rapinare ricchezza prodotta altrove, sarebbe una minaccia esistenziale intollerabile, come d’altronde è intollerabile assistere al trionfo militare della Russia in Ucraina o al collasso per logoramento di Israele o alla resilienza economica e tecnologica della Cina, nonostante le sanzioni.
Ecco: anche in Messico le cose non stanno andando molto meglio. La prima batosta è arrivata con le elezioni: gli USA avevano provato in tutti i modi a ostacolare il trionfo del partito di Manuel Lopez Obrador; nel bel mezzo della campagna elettorale, nell’arco di poche ore, su tre importanti testate occidentali erano apparse tre inchieste che muovevano la stessa scioccante accusa. Nel 2006 Obrador si sarebbe fatto finanziare la campagna elettorale dal cartello di Sinaloa e, in cambio, la sua amministrazione “avrebbe facilitato le loro operazioni criminali”; a scriverlo erano stati tre fiori all’occhiello dell’informazione del mondo libero e democratico: la tedesca Deutsche Welle, il portale statunitense Insight Crime e anche, sul sito di ProPublica, il premio pulitzer Tim Golden, tutti sapientemente pilotati da fonti della DEA (la famigerata Drugs Enforcement Agency) tutte rigorosamente anonime. Purtroppo, però, l’operazione ha ottenuto scarsi risultati e, alla fine, il partito di AMLO ha ottenuto una vittoria schiacciante; ma riconquistare la presidenza in un paese dove l’architettura istituzionale, nei decenni, è stata interamente piegata alle esigenze di dominio neocoloniale del vicino statunitense, è una cosa ben diversa dal conquistare il diritto a esercitare pienamente la sovranità: ecco perché, una volta ottenuto il pieno mandato dai cittadini messicani, la Presidenta Sheinbaum ha deciso di rilanciare una massiccia opera riformatrice in grado di minare il potere delle quinte colonne, a partire dalla magistratura, vero e proprio braccio armato delle oligarchie e degli affaristi al soldo di Washington. La riforma prevede che i giudici federali (compresi quelli della Corte Suprema) vengano eletti democraticamente; per gli obiettivi strategici USA è peggio che assistere alla ritirata delle truppe ucraine da Bakhmut o da Pokrovsk, ma – purtroppo per loro – le armi a disposizione per reagire ormai sembrano completamente spuntate. L’ambasciatore USA ha provato a interferire minacciando esplicitamente ripercussioni gravissime nel rapporto tra i due paesi; la risposta di AMLO è stata nientepopodimeno che congelare i rapporti diplomatici: “Finché sarò qui” ha dichiarato “non permetterò alcuna violazione della nostra sovranità”. Ma prima di entrare nel dettaglio di questa ennesima battaglia che l’imperialismo USA sembra destinato a perdere malamente, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci anche oggi a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi dell’impero e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi vi costa meno tempo di quanto impieghi la DEA ad architettare un cambio di regime in America Latina, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di insinuare a sempre più persone qualche dubbio sul fatto che chiunque non sia di gradimento alla Casa Bianca è un pericoloso trafficante internazionale di cocaina probabilmente non è una tesi proprio esattamente verosimile.
Forte del mandato popolare conferitogli da un trionfo elettorale che nell’Occidente collettivo non raggiungono nemmeno tutti i partiti mainstream messi assieme, MORENA, il partito di Manuel Lopez Obrador, procede spedito nella sua lotta di liberazione nazionale contro le interferenze straniere e lo strapotere delle borghesie compradore e lo fa andando a toccare il nervo più scoperto dell’architettura istituzionale neocoloniale messicana: il potere giudiziario. La riforma, in soldoni, prevede l’elezione diretta dei giudici federali e “rappresenta un grave rischio per il funzionamento della democrazia”, ha affermato l’ambasciatore USA in Messico Ken Salazar; da che pulpito! In 41 stati su 50 infatti, com’è noto, anche negli USA i giudici vengono eletti, e con molte meno garanzie di quelle previste dalla riforma messicana: a differenza che negli USA, infatti, in Messico sarà fatto divieto totale di ricorrere a finanziamenti privati e ai candidati verrà garantito spazio televisivo e radiofonico gratuito. Forse è per questo che Salazar lo ha definito un rischio per la democrazia: per un autentico patriota statunitense, qualsiasi cosa non possa essere comprata liberamente da chi è più ricco, lo è. La realtà, ovviamente, è diametralmente opposta a quella descritta dall’ambasciatore USA: l’elezione diretta dei giudici, infatti, è una misura necessaria per rompere la totale subordinazione del potere giudiziario agli interessi delle oligarchie locali in affari con Washington e Wall Street; come sottolinea Kurt Hackbarth su Jacobin “La magistratura messicana ha la fama di essere una sorta di cocktail club caratterizzato da stipendi eccessivi, privilegi di ogni genere, e scandali etici al servizio dell’oligarchia e di altri interessi sgradevoli”. Un caso eclatante che ha a lungo occupato le cronache nazionali è quello dello sconto ingiustificato da 32 milioni concesso a Totalplay, la società di telecomunicazioni della terza persona più ricca del Messico, il famigerato evasore seriale Ricardo Salinas Pliego. I casi di “carte false per consentire a ricchi sospettati di uscire dal carcere senza problemi” non si contano: è il caso, ad esempio, di Emilio Lozoya, accusato di aver triangolato i fondi neri della brasiliana Odebrecht che, nel 2012, hanno garantito la vittoria di Enrique Pena Nieto; oppure Rosario Robles, accusato di aver distratto milioni di dollari destinati ai fondi per lo sviluppo sociale; oppure Francisco Garcia Cabeza de Vaca, l’ex governatore di Tamaulipas che si era visto togliere l’immunità per costringerlo ad affrontare svariate accuse di riciclaggio e appartenenza alla criminalità organizzata, fino a quando non è intervenuta la Corte Suprema che ha sospeso la procedura permettendogli di fuggire in Texas; e, infine, Mario Marin, ex governatore di Puebla, accusato di aver ordinato la tortura della giornalista Lydia Cacho per aver rivelato la storia della sua presunta partecipazione a un traffico e di pornografia infantile. E ormai “in Messico un passatempo comune è attendere di vedere quale nuovo individuo benestante verrà scarcerato di sabato, quando c’è meno copertura mediatica e gli uffici governativi sono chiusi”; ma questi casi di corruzione quotidiana ed endemica sono solo la punta dell’iceberg.
Il problema vero è che da quando, finalmente, è salito al potere una presidente intenzionata a portare avanti una vera e propria lotta anti-coloniale, dall’elargire favori a destra e manca ai rampolli delle oligarchie, la magistratura si è trasformata in un vero e proprio organo controrivoluzionario: durante i primi 5 anni di presidenza Obrador, la Corte Suprema ha cancellato la bellezza di 74 leggi; il caso più eclatante risale al gennaio scorso, quando ad essere presa di mira è stata la riforma della legge sull’industria elettrica, che ridimensionava lo strapotere delle multinazionali straniere, ma che secondo la Corte violava non solo “i principi della libera concorrenza”, ma addirittura anche quelli dello “sviluppo sostenibile”. Morale della favola: nonostante fosse stata votata ad ampia maggioranza da tutto il parlamento, per bloccarla è bastato il voto di 2 giudici su 11. Dopo la battaglia per bloccare la riforma del mercato energetico, le cose sono ulteriormente degenerate quando a maggio, in piena campagna elettorale, sono emerse le prove di un incontro segreto tra il giudice capo della Corte Suprema Norma Pina, alcuni magistrati del Tribunale Elettorale federale e Alejandro Moreno, il presidente del principale partito di opposizione: nelle settimane successive sono state rese pubbliche le conversazioni WhatsApp che erano avvenute tra i vari partecipanti nei giorni precedenti l’incontro e nelle quali Pina definiva esplicitamente Moreno un alleato e un amico; con la riforma della giustizia, AMLO, molto semplicemente, è determinato a fare in modo che una roba del genere non possa accadere mai più.
Soprattutto adesso che la battaglia anti-coloniale dentro al cuore delle istituzioni si appresta ad entrare nella sua fase più calda, con una serie infinita di emendamenti costituzionali che dovranno essere votati dal parlamento nei prossimi mesi: dal rafforzamento dell’autonomia per i popoli indigeni e afro-messicani, a un regime che prevede maggiori tutele salariali, al divieto del fracking e dell’estrazione mineraria a cielo aperto, passando per il divieto del mais OGM per consumo umano; ecco perché l’ambasciatore USA ha messo da parte l’etichetta e ha ribaltato completamente quello che era stato il suo approccio fino ad oggi. Salazar, infatti, in passato è stato addirittura accusato di essere eccessivamente tenero e dialogante con Obrador: “Il miglior diplomatico di Biden in Messico è andato troppo oltre?” si chiedeva due anni fa il New York Times; “I funzionari dell’amministrazione” proseguiva l’articolo “temono che il rapporto intimo dell’ambasciatore americano con il presidente messicano si sia ritorto contro e possa ostacolare gli interessi americani nella regione” tant’è che, ancora il 24 luglio scorso, Salazar affermava che “come impostare la riforma sarà una decisione del governo messicano e del legislatore messicano. Non mi farò coinvolgere in ciò che dovrebbe essere fatto”. Il mese precedente aveva dichiarato che “Non è una nostra decisione. Noi, gli Stati Uniti, non possiamo imporre le nostre opinioni su tali questioni”; poi, senza preavviso, la svolta: “Penso che il dibattito minaccerà lo storico rapporto commerciale che abbiamo costruito, che si basa sulla fiducia degli investitori nel quadro giuridico del Messico” ha affermato lo scorso 22 agosto. “Un voltafaccia così improvviso” ha commentato sempre Hackbarth “chiaramente non è stato ordito a Città del Messico, ma a Washington. La domanda, ovviamente, è da chi. In assenza del potere proveniente dalla Casa Bianca di Joe Biden, altri centri di potere all’interno del governo federale si sono affrettati a riempire il vuoto, scavalcandosi a vicenda nel processo”: “Un candidato ovvio” continua Hackbarth “è la Drug Enforcement Administration, che ha condotto un’operazione per diffamare AMLO attraverso voci arrendevoli dei media in risposta alla limitazione dei suoi poteri sul suolo messicano. Un altro sono i falchi del Dipartimento di Stato o di una delle altre agenzie di intelligence. Ma la fonte più ovvia probabilmente di tutte, in realtà, è proprio la comunità imprenditoriale, che da tempo si avvale di giudici amici e abusa di procedimenti legali di vario genere per promuovere i suoi interessi in settori strategici come quello bancario, quello minerario, quello energetico e quello idrico, bloccando tutte le legislazioni che mirerebbero a regolamentarli. Nonostante tutti gli spaventosi avvertimenti su come un sistema giudiziario democraticamente eletto aprirebbe la porta a una maggiore influenza dei cartelli, la vera preoccupazione delle multinazionali è piuttosto che chiuderebbe la porta alle loro tangenti e alla calda accoglienza di cui hanno goduto storicamente presso i giudici che hanno sempre garantito decisioni a loro favore”. E, ovviamente, anche i media delle oligarchie hanno fatto la loro parte: poche settimane fa sono emerse le prove che Lourdes Mendoza, la pimpante e celeberrima editorialista della testata economica El Financiero (il partner messicano di Bloomberg), prima di pubblicare il suo commento sulla riforma della giustizia l’ha inviato a un giudice della Corte Suprema per avere la sua approvazione.
Come sempre accade in un Paese che ancora deve emanciparsi davvero dal dominio coloniale, i vari poteri deviati dello Stato e la propaganda al soldo delle oligarchie internazionali lavorano a braccetto; per questo, dal Messico all’Italia, per portare avanti la nostra battaglia contro il dominio dell’impero prima di tutto abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che agli interessi parassitari delle oligarchie svendi-patria, dia voce a quelli del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Enrico Mentana