C’era una volta la democrazia italiana
Premierato, presidenzialismo, semipresidenzialismo: anche tu ti sei accorto che nella nostra democrazia c’è qualcosa che non funziona? Nessun problema: come accade immancabilmente con ogni nuovo governo, anche la Meloni ha la sua bacchetta magica a forma di riforma costituzionale. Obiettivo (come sempre): garantire la governabilità. Ma sono davvero l’eccessivo potere del parlamento e la nostra Costituzione ad aver mandato in crisi la democrazia in Italia?
A ben vedere, queste discussioni sulla nostra Costituzione formale sembrano solo utili a distrarci dai veri problemi, molto più sostanziali, che hanno progressivamente distrutto la nostra socialdemocrazia e ci hanno privato di qualsiasi sovranità. Dopo il trentennio d’oro che va dall’immediato dopoguerra all’assassinio di Aldo Moro nel 1978, durante il quale l’Italia era stabilmente tra le prime sei potenze economiche mondiali e in cui il 99 per cento ha visto un incredibile miglioramento delle proprie condizioni di vita, è infatti cominciata quella controrivoluzione neoliberista e quella politica del vincolo esterno che ci hanno, anno dopo anno, messo in ginocchio. E allora, invece che continuare ad illudersi che modificando la Costituzione del ‘48 l’Italia ricomincerà a correre, forse sarebbe il caso di mettere finalmente in questione le vere cause di questo disastro, dal fallimento dell’integrazione europea al nostro rapporto con gli Stati Uniti, alla nostra cultura sempre meno imperniata da valori comunitari e solidaristici. In questa puntata cercheremo di capire come fece l’Italia, negli anni dopo la seconda guerra mondiale, a diventare una delle nazioni più sviluppate al mondo e ripercorreremo quei passaggi politici decisivi negli anni tra la prima e la seconda Repubblica che hanno stravolto per sempre il volto della nostra ex democrazia perché, come scrive il professore di filosofia del diritto Alfredo D’Attorre “Ogni superamento della condizione attuale di crisi e svuotamento della rappresentanza democratica dovrà fare i conti con una ricostruzione realistica delle origini e delle implicazioni del passaggio tra la prima e la seconda repubblica ben oltre le caricature propagandistiche che hanno dominato negli ultimi anni”.
Vincenzo Russo, patriota e martire della repubblica partenopea, già nel 1799 dichiarava:
“La democrazia non consiste nelle favole della Costituzione democratica! Questa soltanto accenna a quello che si debba fare per avere democrazia, ma da sé stessa nol fa. La democrazia convien piantarla negli animi”, ma a più di 200 anni di distanza sembra che questo messaggio non lo abbiamo ancora capito. Una Repubblica, scrive il giurista Umberto Vincenti su La Fionda, non è semplicemente una struttura normativa, e cioè una forma di stato o di governo specifica; il termine Repubblica si riferisce invece a qualcosa di molto più profondo e strutturale: la partecipazione al potere dei cittadini ed implica, come primo dovere, il rispetto del legame sociale e il primato dell’interesse comune. In astratto, quindi, non ci sarebbe alcun problema a modificare – anche in profondità – la Costituzione del ‘48, ma nella realtà dovrebbero essere gli attuali rapporti di forza a dover essere cambiati: come sappiamo ormai tutti, nell’Italia del 2024 i rapporti di forza sono tutti a favore di una ristrettissima oligarchia che, con il sostegno di Bruxelles e di Washington, vorrebbe portare a termine la devastazione sociale del nostro paese senza ostacolo in parlamento e nella Costituzione, ma non è sempre stato così.
Nel 1948, ad esempio, i rapporti di forza erano molto diversi e quella Costituzione ne fu la perfetta espressione; l’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale e fondata sulla resistenza antifascista è un’Italia dove le masse popolari e le loro organizzazioni hanno un potere enorme e sono in grado di imporre al capitale e alle élite al suo servizio un equilibrio politico e sociale di cui l’intero paese beneficerà per i successivi 30 anni. Nel trentennio successivo, infatti, la tanto bistrattata Prima Repubblica riesce a sprigionare gran parte delle potenzialità della nostra Nazione: sul piano economico l’Italia diventa una delle prime 6 economie del pianeta, con una crescita media annua della produttività che si mantenne su livelli superiori a Germania e Francia; per la prima e unica volta nell’intera nostra storia unitaria gli indici economici segnalano anche una riduzione del divario Nord-Sud a partire dal dato del PIL pro capite, un risultato reso possibile anche da una relativa autonomia sia della politica economica che anche di quella monetaria, in grado da un lato di assicurare il legame tra politica fiscale e monetaria e dall’altro di mantenere un elevato livello di controllo sul movimento dei capitali. “Questo impianto” scrive Alfredo D’Attorre “ha consentito il mantenimento di una lunga stagione di cambi sostanzialmente fissi, che in quel contesto hanno fatto della lira una della valute più stabili del pianeta”.
Sul piano politico, grazie ad una forma istituzionale parlamentare imperniata sul sistema dei partiti e, in particolare, grazie alla presenza del più grande partito comunista d’Occidente, l’Italia conobbe una stagione riformatrice senza precedenti che la trasformò in un paese ricco, piuttosto democratico e con una chiara inclinazione socialista; è la stagione delle grandi conquiste nel campo dei diritti sociali e di una straordinaria partecipazione dei cittadini alla politica: ancora a metà degli anni Settanta gli iscritti ai partiti di massa superavano i quattro milioni e la partecipazione al voto si attestava in media sopra il 90 per cento. Sul piano geopolitico, la collocazione dell’Italia come paese di frontiera è un fattore che garantisce una notevole rendita di posizione politica ed economica – sia rispetto all’occupante americano sia rispetto ai paesi del Mediterraneo – e che la nostra classe dirigente riesce a sfruttare sapientemente; insomma, un equilibro retto da un certo tintinnar di sciabole, secondo l’espressione usata da Pietro Nenni, e in apparenza fragile per il continuo alternarsi di governi di durata media inferiore ai 12 mesi ma, in realtà, forte e stabile nei suoi indirizzi politici di fondo, che permise anche un grande fermento culturale e artistico e, soprattutto, di resistere a un’offensiva terroristica su più fronti evitando derive di tipo greco e cileno.
Tutti questi elementi essenziali vennero però progressivamente meno con il vento neoliberista proveniente dal Nord America e poi con la drammatica caduta del blocco socialista; in particolare, le cose cominciarono a cambiare nella seconda metà degli anni ‘70, in coincidenza con il mutamento di contesto economico internazionale legato al superamento dell’assetto di Bretton Woods e alla crisi del keynesismo: in una parola, con l’inizio della grande controrivoluzione neoliberista. Questo mutare di contesto, i cui effetti vennero accelerati dalla crisi petrolifera, convinsero parte rilevante del capitalismo italiano e dei ceti dirigenti ad esso collegato che il vecchio equilibrio economico sociale doveva cambiare: comincia così quello che è stato definito lo sciopero degli investimenti di consistenti settori del mondo finanziario e industriale, che accentua la spinta verso la progressiva liberalizzazione dei movimenti del capitale; è, questa, la svolta decisiva che rese di fatto insostenibile una politica economica e monetaria autonoma sul piano nazionale. “Guido Carli e Tommaso Padoa Schioppa” scrive Alfredo D’Attorre “hanno parlato a riguardo di un quartetto inconciliabile; le 4 variabili che, secondo Carli e Padoa Schioppa, non possono mai coesistere sarebbero:
1- la piena libertà degli scambi commerciali
2- la completa libertà di movimento dei capitali
3- l’esistenza di cambi fissi o governati e
4- una politica monetaria autonoma a livello nazionale
La rinuncia all’ultimo elemento viene così presentata come una necessità inderogabile per evitare una ricaduta e il conseguente continuo riaccendersi di una dinamica inflazionistica”. Parte così un percorso che si snoda dall’adesione al Sistema Monetario Europeo nel 1979, al divorzio Tesoro –Bankitalia del 1981, fino poi all’Atto Unico Europeo del 1986, al Trattato di Maastricht del 1992 e all’ingresso nella moneta unica nel 1999: un successone che, tra i vari entusiasmanti risultati, tra gli anni ‘80 e ‘90 fa anche crescere il debito pubblico italiano dal 58 al 120 per cento del PIL; sul piano politico, poi, l’attacco alla partitocrazia con la scusa di “restituire il potere ai cittadini” si è concretizzata in una lunga fase di egemonia dell’antipolitica che, alla fine, ha favorito solamente le oligarchie economiche e i nostri cosiddetti alleati europei e americani pronti a banchettare sulle nostre debolezze. Il sistema maggioritario, che avrebbe dovuto restituire “lo scettro all’elettore”, si accompagnerà invece a una costante diminuzione della partecipazione al voto, con un astensionismo che ormai sfiora il 50 per cento alle elezioni amministrative e il 40 per cento alle politiche; in questo contesto la stessa dialettica politica – anche in virtù di un irrigidimento dei vincoli esterni – è stata ridotta a mera competizione di potere tra partiti ideologicamente sempre più indistinguibili. “La combinazione di sistema maggioritario e forte irrigidimento del vincolo economico esterno” conclude il Prof. D’Attorre “è il vero DNA della seconda Repubblica”, un DNA che ha sostituito la sovranità popolare, che si esprimeva attraverso il continuum partiti – parlamento – governo, con la sovranità finanziaria e tecnocratica americana e comunitaria.
Per tornare alle riforme costituzionali, sembra quasi di sentirlo il rumore della mente dei costituzionalisti che si ingegnano nel cercare qualche formula che garantisca al tempo stesso rappresentanza e governabilità. Un falso problema: come scrive la professoressa di diritto pubblico Fiammetta Salmoni sempre su La fionda, infatti “l’integrazione europea, i Trattati, il mercato aperto e in libera concorrenza, la stabilità finanziaria, la stabilità dei prezzi e così via hanno già trasformato radicalmente sia la nostra forma di Stato sostituendo i principi fondamentali costituzionali come la garanzia dei diritti sociali, l’eguaglianza sostanziale, la finanza redistributiva, sia la forma di governo”, e non sarà certo qualche formuletta magica a restituirci ciò che ci è stato tolto.
Insomma, se anche tu credi che, in queste condizioni strutturali, modificare o non modificare la Costituzione sia un problema del tutto falso e strumentale, e se anche tu vorresti che l’Italia tornasse ad essere una Repubblica democratica, abbiamo bisogno di un media veramente libero che non si faccia prendere in giro da queste campagne di distrazione di massa. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Matteo Renzi