YEMEN: se il paese più povero del mondo mette fine alla globalizzazione
Come dice Alberto Negri, in Medio Oriente la guerra è già regionale da 50 anni: senza questa semplice premessa il rischio di prendere fischi per fiaschi rimane altino, diciamo; a partire dallo Yemen e dal Mar Rosso. Iniziamo dalla cronaca: come saprete tutti benissimo, tra le forze regionali che con più vigore hanno reagito militarmente alla guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, spiccano gli Houthi che da noi vengono definiti ribelli – o addirittura terroristi – e, ovviamente, niente più che marionette in mano a Teheran che, per la proprietà transitiva, ha mutuato lo stesso potere paranormale dell’amico Putin: riuscire ad essere a un passo dal collasso e, allo stesso tempo, una superpotenza politica e militare alla quale tutte le altre forze della regione obbediscono senza battere ciglio. Potrebbe non essere una narrazione esattamente rigorosissima, diciamo; quelli che chiamiamo Houthi – ma che sarebbe più appropriato chiamare col loro vero nome e cioè Ansar Allah – infatti, in realtà ormai altro non sono che il governo di uno stato che, dopo oltre 15 anni di conflitti fratricidi, sta lottando per riaffermare la sua sovranità. Certo, un governo ancora non riconosciuto in un paese ancora diviso, ma che è ormai stabilmente in controllo della stragrande maggioranza del paese, che mette assieme diverse forze politiche e che, sostanzialmente, è uscito vincitore da una lunghissima e sanguinosissima guerra contro un’alleanza che, sulla carta, è ordini di grandezza più potente e che va dagli Emirati ai sauditi e gode del sostegno incondizionato di Washington; ovviamente, tutto questo senza il sostegno di Teheran non sarebbe stato possibile, come non sarebbe stata possibile in Libano l’eroica resistenza di Hezbollah, ma la caricatura che ne fa la nostra propaganda – di veri e propri pupazzi telecomandati dall’Iran – è una semplificazione becera che, come sempre, impedisce di capire cosa sta accadendo.
Ansar Allah, come Hezbollah, sono forze di governo che godono di un vastissimo consenso popolare e che guidano le rispettive lotte di liberazione nazionale in un contesto regionale di lotta generalizzata contro quel che rimane del dominio coloniale; ora, come tutti sapete, sin dallo scoppio del genocidio di Gaza Ansar Allah – appunto – ha cominciato a prendere di mira Israele. All’inizio si trattava fondamentalmente di azioni dimostrative: razzi e droni diretti verso Israele e, in particolare, la Miami israeliana di Eilat, che però venivano piuttosto sistematicamente intercettati e abbattuti, prima di raggiungere la loro destinazione, proprio dai sauditi; al ché, Ansar Allah ha cominciato a prendere di mira le navi che passavano dallo stretto di Bab el-Mandeb, la porta di ingresso nel Mar Rosso, e che erano dirette in Israele. Una leva potentissima: da quel minuscolo stretto passano, infatti, il 30% dei container di tutto il mondo che sono stati costretti a cambiare strada, causando danni incalcolabili alla logistica globale proprio mentre ancora, tra tensioni geopolitiche e post covid, le supply chain – le catene del valore globale – continuano a vivere una situazione di stress come non si era mai vista dall’inizio della grande globalizzazione. Toccando il tasto dolente della logistica globale, Ansar Allah ha alzato vistosamente l’asticella da diversi punti di vista: il primo, immediato, è che bloccando le navi dirette in Israele concretamente causava danni molto più rilevanti di quelli causati da razzi e droni di avvertimento; il secondo è che trasformava una guerra locale in un problema globale che ricade sul groppone degli USA. Tra i compiti principali dell’Impero, infatti, c’è proprio quello di garantire la libera circolazione delle merci nei mari; è uno degli aspetti che, per decenni, ha giustificato il preteso eccezionalismo USA: certo – è vero – saranno pure l’unica superpotenza rimasta e sicuramente se ne approfittano pure, ma senza questa superpotenza chi sarebbe in grado di garantire che le merci possono spostarsi in sicurezza da un capo all’altro del mondo? Un ruolo che, ovviamente, è diventato ancora più fondamentale con la globalizzazione: se i paesi del Nord globale potevano permettersi di delocalizzare la produzione laddove gli tornava più conveniente, era anche perché c’era una superpotenza che gli garantiva che quelle merci poi sarebbero sempre arrivate in sicurezza a destinazione; ora l’entusiasmo per le delocalizzazioni e la globalizzazione sicuramente non è più al suo apice, e si preferisce parlare piuttosto di decoupling, di derisking e di reshoring o di nearshoring, ma il fatturato delle grandi corporation transnazionali dipende ancora (e dipenderà ancora a lungo ancora) da questo meccanismo.
Per gli USA ,quindi, intervenire per riportare ordine in quel collo di bottiglia strategico è oggettivamente inevitabile: sta scritto proprio nel suo DNA e nel DNA dell’ordine mondiale che ha imposto a sua immagine e somiglianza; e infatti, per settimane, nelle principali testate mainstream internazionali – quelle che fanno da megafono all’agenda delle oligarchie del Nord globale e la impongono come senso comune al resto della popolazione mondiale – non si è fatto che chiedere un intervento degli USA. D’altronde, per la più grande superpotenza militare della storia dell’umanità mettere a cuccia le forze armate del paese più povero del Medio Oriente, che è ancora nel bel mezzo di una guerra civile, non dovrebbe essere chissà che mission impossible. O, almeno, è inevitabilmente l’idea che si fa chiunque dia credito proprio alla propaganda suprematista che prova ancora a convincerci che gli USA abbiano i superpoteri; potrebbe non essere un’analisi proprio accuratissima. Un primo tentativo, ricordava ancora ieri Bloomberg, era stato fatto passando appunto da Teheran: “In privato” scrive Bloomberg “gli Stati Uniti hanno inviato ripetuti messaggi segreti all’Iran, esortandolo a fermare gli attacchi Houthi”. I più maliziosi, tra questi avvertimenti ci vedono addirittura anche l’attentato a Kerman dell’Isis Khorasan, che molti ritengono essere nient’altro che un’organizzazione fantoccio totalmente eterodiretta dall’asse che tiene assieme USA, Israele e petromonarchie del Golfo: “Teheran” però, continua Bloomberg, avrebbe risposto “di non avere alcun controllo sul gruppo”, risposta che però non convince la testata newyorkese che ricorda come “l’intelligence britannica” abbia a lungo dato indicazioni e fornito prove “che gli Houthi si rifornivano di armi che potevano essere ricondotte all’Iran” che è un’osservazione anche ragionevole, intendiamoci, che però la propaganda mainstream si fa solo quando riguarda gli altri. Quando viene fuori che Israele non potrebbe durare una settimana in più senza il sostegno degli USA, a nessuno gli viene in mente di dire che Israele è uno stato fantoccio eterodiretto da Washington, come non viene in mente neanche nel caso ancora più eclatante dell’Ucraina, ma se in ballo ci sono gli arabi diventa incontrovertibile, alla faccia del doppio standard.
In realtà, comunque, Teheran non è l’unica a sostenere che gli Houthi tutto sommato fanno un po’ come cazzo gli pare: secondo Jonathan Panikoff, direttore della Scowcroft Middle East Security presso l’Atlantico Council, ad esempio, “questi gruppi hanno tutti il proprio processo decisionale indipendente. E questo non dovrebbe essere sottovalutato”; comunque, dipenda o meno da Teheran, fatto sta che questi avvertimenti sono serviti a poco e Ansar Allah non solo ha continuato per la sua strada, ma ha gradualmente intensificato gli attacchi fino a quando Washington non si è decisa a intervenire. Come tutti ricorderete, infatti, il mese scorso il segretario alla difesa USA Lloyd Austin ha fatto una videochiamata con un po’ di alleati ed ha annunciato la missione Prosperity Defense che però, evidentemente, non ha esattamente arrapato tutti: gli USA – pare – avevano cercato di coinvolgere i cinesi; d’altronde, il grosso delle navi che passa da lì sono cariche di merci cinesi, e figurati se i cinesi – materiali come sono – rinunciano a difendere i loro traffici in nome della solidarietà alla causa palestinese. Evidentemente, però, sono meno materiali di quello che pensano a Washington e nelle redazioni di mezzo mondo e hanno risposto picche; ma quello che ha colpito di più è che hanno risposto picche pure emiratini e sauditi che contro gli Houthi ci sono in guerra da 15 anni. Forse in ballo non c’è solo la solidarietà, magari; forse, molto più prosaicamente, c’è l’idea che militarizzare ancora di più l’area, invece che ristabilire la sicurezza della navigazione, potrebbe peggiorare la situazione.
D’altronde, però, bisogna stare anche attenti da farsi prendere da facili entusiasmi; il fallimento della chiamata alle armi della Prosperity Defense non significa certo che il grosso del mondo ormai è schierato a fianco di Ansar Allah in difesa della lotta di liberazione palestinese e contro il genocidio, e per averne una prova provata non si è dovuto manco aspettare tanto: mercoledì scorso, infatti, il consiglio di sicurezza dell’ONU ha messo ai voti una risoluzione di condanna nei confronti degli Houthi. E’ passata a stragrande maggioranza, con 11 voti a favore e 4 astenuti: tra i 4 astenuti anche Russia e Cina, e cioè due membri permanenti del consiglio che quindi hanno potere di veto che, però, hanno deciso di non utilizzare; gli unici che continuano imperterriti a ricorrere al diritto di veto – anche quando sono soli contro tutti – sono gli USA che, dall’inizio del massacro, vi hanno fatto ricorso continuamente per impedire venisse imposto un cessate il fuoco. Il mancato ricorso al veto da parte di Russia e Cina ha deluso molti, e non senza ragioni: in molti, infatti, sostengono che c’è poco da mediare e che di fronte al massacro a cui stiamo assistendo il muro contro muro è l’unica opzione sensata. La Cina, però, sembra continuare a vederla diversamente e a ragionare sui tempi lunghi: un veto alla risoluzione di condanna degli attacchi, infatti, sarebbe stato uno sgarbo diplomatico nei confronti di parecchi interlocutori, dalle petromonarchie del Golfo ai paesi europei più titubanti; la Cina, invece, ha optato come sempre per la mediazione, cercando di porre le basi per una convergenza la più ampia possibile in nome del diritto internazionale. La sintesi cinese allora suona più o meno così: va bene condannare le azioni degli Houthi, ma soltanto tenendo conto che sono una conseguenza inevitabile del massacro in corso a Gaza: aveva fatto anche un emendamento per sottolineare il legame tra le due cose, ma è stato bocciato; è importante ricordare che poche ore prima del voto di questa risoluzione gli Houthi avevano portato a termine quello che Bloomberg definisce “il suo più grande attacco di missili e droni mai realizzato nel Mar Rosso” e così, subito dopo il voto all’ONU, Biden è passato all’attacco. “Le forze americane e britanniche” riporta Bloomberg “hanno colpito installazioni radar, siti di stoccaggio e siti di lancio di missili e droni utilizzando aerei da combattimento dell’aeronautica americana e della portaerei USS Eisenhower, nonché missili Tomahawk lanciati da un sottomarino e navi di superficie” e, non contenti, dopo 24 ore c’hanno pure ribadito, portando a termine un altro attacco “contro un’installazione radar che non era stata completamente distrutta la notte prima”.
Secondo i più esagitati, in soldoni Russia e Cina gli avrebbero dato il via libera. La realtà potrebbe essere più complessa: ovviamente, infatti, la risoluzione dell’ONU in qualche modo legittimava almeno parzialmente l’intervento USA, ma non è che lo autorizzava; sostanzialmente, quindi, dal punto di vista del diritto internazionale non ha cambiato granché. Allo stesso tempo, dal punto di vista diplomatico, il mancato ricorso al veto ha rafforzato la credibilità cinese di potenza pacifica che lavora per il dialogo e la mediazione e rispetta il diritto internazionale. Risultato? L’Arabia Saudita ha lodato la posizione cinese, mentre ha condannato gli USA nonostante l’obiettivo dei loro attacchi sia un loro acerrimo nemico. E anche sull’utilità di questi attacchi ci sono parecchie perplessità: come ricorda Bilal Y Saab di Chatham House sul Financial Times, infatti, “Gli Houthi sono sopravvissuti per anni alla campagna di bombardamenti della coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita. Attacchi limitati da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, non importa quanto dolorosi o chirurgici, avranno effetti limitati”. Simplicius The Thinker, come sempre, è decisamente più drastico: “Gli Stati Uniti e la loro piccola e isolata marmaglia di servili alleati” scrive “hanno attaccato lo Yemen con un attacco assolutamente impotente che non ha fatto e non avrà alcun effetto sul continuo blocco del Mar Rosso da parte dello Yemen”. Da un certo punto di vista, addirittura, potrebbero averli rafforzati: come ha dichiarato Iona Craig, giornalista e inviata in Yemen dal 2010 al 2015 su Declassified UK, “Tutto questo ha reso gli Houthi estremamente popolari. Ho parlato con moltissimi yemeniti che stavano dalla parte opposta durante la guerra civile, e che mi hanno detto guarda, noi odiamo gli Houthi, ma ammiriamo quello che stanno facendo. Nessun altro sta supportando la causa palestinese come loro”. “La campagna di bombardamento di Stati Uniti e Regno Unito nello Yemen” ha scritto su X l’ex portavoce del commando USA a Baghdad e a Sanaa Nabeel Khoury “ è un altro fallimento della diplomazia di Biden: non voleva una guerra a livello regionale, ora ne ha una; voleva la pace nello Yemen, ora è in guerra con gli Houthi – chiunque gli abbia detto che questo li avrebbe scoraggiati si sbagliava di grosso, questo li radicalizzerà ulteriormente!”. “Il punto” scrive Foreign Policy “è che gli USA in Yemen non hanno nessuna buona opzione”: se non interviene, sancisce la fine della Pax Americana e il suo status di superpotenza garante della sicurezza del commercio marittimo; se interviene col freno a mano tirato, non risolve il problema e, comunque, rafforza i suoi nemici, e se interviene in grande stile rischia di impantanarsi in una guerra regionale in grande stile dove potrebbe prendere più sberle di quelle che ha preso in Ucraina, spianando alla Cina la strada verso lo status di unica grande superpotenza globale in grado di dirimere le controversie internazionali con il dialogo e la diplomazia.
Insomma: lo stato di salute dei leader dell’Occidente collettivo non sembra essere esattamente al top, letteralmente: il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha ordinato attacchi contro gli Houthi dall’ospedale dove era stato ricoverato per un cancro alla prostata che aveva tenuto nascosto al resto dell’amministrazione. Come sentenzia sempre Simplicius, siamo di fronte a “un regime decrepito guidato da un presidente senile e un segretario di stato debilitato, che ordinano massacri illegali dalle loro case di cura e dai letti d’ospedale contro la nazione più povera della terra, praticamente lo stesso giorno in cui il loro principale alleato affronta accuse di genocidio e crimini contro l’umanità davanti al tribunale dell’Aia”. “Per l’impero delle bugie” conclude Simplicius “le prospettive non sono mai state peggiori”; per dargli la mazzata finale abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Lloyd Austin