Navi Militari Europee nel Mar Rosso: Escalation o Armata Brancaleone?
Mar Rosso, l’Italia si schiera titolava lunedì il Corriere della serva: il riferimento, come ben saprete, è alla missione Aspides che in greco, non a caso, significa scudo e che è la missione militare targata Unione Europea che dovrebbe avere il compito di difendere le nostre navi mercantili nel Mar Rosso. Una missione che però, titolava ieri Il Giornanale, resta un annuncio: per il via libera infatti, come minimo, bisognerà attendere il 19 febbraio, quando si riunirà il consiglio esteri convocato da Bruxelles. Nel frattempo, in molti rimangono piuttosto titubanti: il ministro degli esteri spagnolo Josè Manuel Albares avrebbe annunciato l’intenzione del suo paese di non partecipare; idem l’Irlanda. L’Olanda, invece, c’aveva judo: partecipa già alla missione Prosperity Guardian a guida americana. Missioni difensive europee sono for pussies, missioni offensive angloamericane sono for real men– anche se i real men non sempre brillano proprio per lucidità strategica: “Gli attacchi aerei allo Yemen stanno funzionando?” ha chiesto un giornalista a Biden durante una conferenza stampa di qualche giorno fa; “Dipende da cosa cosa intendi per funzionare” ha risposto Biden. “Stanno stoppando gli Houti? No. Continueranno? Sì.”, che poi – a ben vedere – è il riassunto perfetto della strategia geopolitica USA da un po’ di tempo a questa parte. D’altronde, come commenta il mitico blog Moon of Alabama, “Quando il tuo unico arnese è un martello, ogni problema assomiglia a un chiodo”.
Ma se i razzi USA e britannici non sembrano impattare poi molto sulle capacità offensive di Ansar Allah e, invece che riportare la calma, sembrano esclusivamente aumentare il bordello, anche la nostra Aspides rischia di non essere molto efficace nella difesa; risultato? Aspides ad oggi potrà contare su appena tre navi messe a disposizione dalla triplice italo – franco – tedesca: “l’Italia così” scrive Gian Micalessinofobia sempre sul Giornanale “si ritroverebbe a fare la parte del leone. La nostra marina militare, già presente nel Mar Rosso con la fregata Martinengo che partecipa alla missione anti – pirateria Atlanta, è pronta infatti a mandare un’altra unità dedicata”; un po’ pochino per coprire un’area che andrebbe dallo stretto di Bab-el-Mandeb – attualmente sotto fuoco yemenita – a quello di Hormuz, che separa l’Iran da Oman ed Emirati e che, sulla carta, pattugliato dovrebbe esserlo già da 4 anni: nel 2020, infatti, Parigi riuscì a strappare all’Europa l’ok alla missione Agenor, che doveva proteggere la navigazione commerciale dal rischio che arrivava dall’Iran e che però, come sottolinea lo stesso Micalessinofobia, è “rimasta un’inutile scatola vuota”. Siamo di fronte a un remake? Al momento sembra abbastanza probabile: tra i due stretti infatti, ricorda ancora Micalessinofobia, “ci sono oltre 2.300 chilometri di mare. Un’estensione impossibile da coprire con appena tre navi e qualche drone”.
Qualcosina in più di Agenor sembra l’abbia portato a casa un’altra operazione: si chiama Atalanta, è in corso ormai dal lontano 2008 e ha l’obiettivo di proteggere i mercantili della pirateria a largo della Somalia; quando inizialmente gli USA avevano annunciato l’avvio dell’operazione Prosperity Guardian, l’Unione Europea – per voce di Borrell – aveva inizialmente parlato di un nostro contributo proprio attraverso l’operazione Atalanta, ma il tutto era stato inizialmente bloccato dal veto spagnolo: poi Biden ha alzato il telefono, ha chiamato direttamente Sanchez e il divieto è venuto meno, ma l’iniziativa è rimasta dov’era. Una volta tanto, l’Europa ha avuto un sussulto di dignità e ha evitato di fare il portaborse in un’operazione dove la catena di comando era saldamente in mano agli USA e dove le regole di ingaggio, come abbiamo visto chiaramente, vanno decisamente al di là della difesa dei mercantili. Ma sull’utilità di quello che abbiamo già dispiegato per l’operazione Atalanta in questo nuovo contesto, ci sono più di qualche dubbio: “Gli Houti” infatti, spiega l’ex ufficiale della folgore e fondatore del Security Consulting Group Carlo Biffani intervistato da AGI, “non attaccano con barchini dotati di motori fuoribordo e fucili d’assalto e rappresentano ben altro tipo di minaccia”; in quel caso, continua Biffani, “bastò schierare navi da guerra che incrociavano a largo della Somalia, e posizionare a bordo dei cargo personale armato con dotazioni consistenti unicamente in fucili d’assalto. In questo caso invece si tratta di neutralizzare in tempo reale il lancio di missili contro obiettivi navali”. Per assolvere a questo ruolo, bisognerà ricorrere probabilmente a delle portaerei e sfruttare “la terza dimensione, ovvero quella dei cieli, con sistemi di ascolto e di controllo radar di ampissimo raggio”; per le regole d’ingaggio di questa missione, come sottolinea il Corriere, “mancano ancora i dettagli”. I media, comunque, sono concordi nel dare per scontato che sarà appunto meramente difensiva: “Sono categoricamente escluse azioni a terra” scrive Di Feo sulla Repubblichina, “neppure per eliminare le rampe da cui partono ordigni contro le forze occidentali” e questo, se confermato, è senz’altro una buona notizia.
Ma le buone notizie, come le bugie, hanno le gambe corte: come spiegava Stephen Bryen su Asia Times già una decina di giorni fa, infatti, se USA e UK – a un certo punto – da scortare i mercantili (come dovremmo cominciare a fare anche noi con l’operazione Aspides) sono passati a lanciare razzi sullo Yemen non è perché sono scemi o perché sono cattivi, o almeno non esclusivamente; il problema, spiega Bryen, è che “sono sorti seri dubbi sia da parte britannica che da parte statunitense sul fatto che fossero adeguatamente attrezzati per resistere ancora a lungo agli attacchi di sciami di droni e di missili Houthi”. Solo nella giornata del 10 gennaio scorso, ad esempio, “le forze statunitensi e britanniche hanno dovuto abbattere 21 droni e missili. E per stessa ammissione del segretario dalla difesa britannico Grant Shapps, questo non sarebbe sostenibile”; il problema, meramente tecnico ma fondamentale, è che le imbarcazioni militari di missili non è che ce n’abbiano all’infinito e quello che è più grave, sottolinea Bryen, “non possono essere rifornite in mare”. Con l’aumento del numero degli attacchi da parte di Ansar Allah, in realtà rimanevano quindi due sole opzioni: o smettere di scortare i mercantili – che non era pensabile – o provare ad attaccare le postazioni dalle quali gli attacchi partivano pur sapendo che i risultati sarebbero probabilmente stati molto limitati, tanto che ancora lunedì USA e UK hanno colpito di nuovo in almeno sei località diverse, ma Ansar Allah nel frattempo – sempre più superstar assoluta per tutta l’opinione pubblica del mondo arabo – è riuscita a continuare i suoi attacchi senza grossi problemi. Ieri, ad esempio, Ansar Allah ha comunicato di aver colpito l’americana Ocean Jazz che, sempre secondo gli yemeniti, sarebbe solitamente scortata dalla marina mercantile USA e che sarebbe solitamente adibita al trasporto di attrezzatura militare statunitense di grandi dimensioni. Le 3 navi europee in dotazione a Aspides potrebbero ritrovarsi di fronte a questo dilemma ancora prima perché, molto banalmente, sostanzialmente non sono dotate di sistemi per fronteggiare i missili balistici; sappiamo che possono abbattere i droni, ma che riescano ad abbattere un missile balistico è piuttosto difficile. L’unica soluzione realistica sembrerebbe quella di impiegare, appunto, aerei da ricognizione in grado di individuare tempestivamente l’eventuale lancio di missili per poi comunicarlo alla marina USA, che sarebbe l’unica in grado di abbatterli, ma fornire intelligence alla marina USA sul nemico che sta bombardando non sarebbe poi molto diverso da partecipare direttamente alla loro missione e, quindi, entrare in guerra contro lo Yemen.
In uno slancio di ingiustificato ottimismo proviamo comunque ad attaccarci a un’ultima possibilità e cioè che entrino in gioco anche la diplomazia e il dialogo: se l’Europa garantisse che Aspides non servirà per scortare anche navi israeliane o dirette in Israele, e che si limiterà a scortare cargo e petroliere diretti verso gli altri porti del Mediterraneo, potrebbe anche strappare ad Ansar Allah l’impegno a non minacciarle con missili balistici; difficile, però, che questo gentleman agreement possa avvenire se – appunto – Aspides prevederà, come sembra scontato, l’impiego di aerei da ricognizione che ovviamente sarebbero sospettati di lavorare per gli angloamericani. Insomma, sembra che la strada sia piuttosto stretta: da un lato una missione davvero puramente difensiva che ci esporrebbe a molti rischi e, dall’altro, l’adesione sostanziale alla missione offensiva USA, che a rischio ci metterebbe tutto il nostro traffico commerciale. L’unica soluzione concreta per tutelare i nostri interessi nell’area rimane quella di affrontare il problema alla radice, e cioè il genocidio al quale, fino ad ora, abbiamo assistito – nella migliore delle ipotesi – impassibili. Qualche piccolo spiraglietto si è aperto: dopo che i familiari degli ostaggi lunedì hanno fatto irruzione alla Knesset, Israele ha annunciato di aver ripreso a parlare con Hamas di una nuova pausa e di un nuovo scambio di prigionieri. Tutto sommato, potrebbero cominciare a sentire il bisogno anche i militari israeliani: sul campo, infatti, la resistenza palestinese nonostante tutto sembra tenere botta e le forze armate israeliane, dopo aver provato a sollevare un mezzo polverone, lunedì hanno dovuto ammettere di aver subito 24 perdite in un giorno solo.
Anche sul fronte della guerra ibrida contro l’Iran probabilmente si sperava di poter ottenere qualcosa in più, a partire dalla scaramuccia col Pakistan; fortunatamente invece, dopo lo scambio di razzi, le relazioni diplomatiche sono state subito riavviate e il ministro degli esteri iraniano Abdollahian è atteso per una visita ufficiale ad Islamabad il prossimo 29 gennaio; allo stesso tempo, l’Arabia Saudita ha fatto sapere che per Israele non è troppo tardi per tornare indietro e che, se si tornasse a discutere seriamente della soluzione dei due Stati, le petromonarchie potrebbero tornare a dialogare con Tel Aviv.
Insomma, la soluzione definitiva contro la lotta di liberazione palestinese sembra sempre più un miraggio delirante, come anche la marginalizzazione dell’Iran; nel mezzo ci stanno 30 mila vittime civili totalmente gratuite che rimarranno a eterna memoria di come l’Occidente collettivo, dopo 5 secoli di dominio globale, al momento del suo declino relativo abbia avuto ancora l’energia per mostrare il peggio di sé – e questo, diciamo, nella migliore delle ipotesi. Contro i colpi di coda dell’impero in declino e i deliri suprematisti della sua macchina propagandistica, abbiamo bisogno subito di un vero e proprio media che stia dalla parte dei popoli che lottano per la loro liberazione e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Antonio Tajani