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Tag: Prosperity Guardian

Navi Militari Europee nel Mar Rosso: Escalation o Armata Brancaleone?

Mar Rosso, l’Italia si schiera titolava lunedì il Corriere della serva: il riferimento, come ben saprete, è alla missione Aspides che in greco, non a caso, significa scudo e che è la missione militare targata Unione Europea che dovrebbe avere il compito di difendere le nostre navi mercantili nel Mar Rosso. Una missione che però, titolava ieri Il Giornanale, resta un annuncio: per il via libera infatti, come minimo, bisognerà attendere il 19 febbraio, quando si riunirà il consiglio esteri convocato da Bruxelles. Nel frattempo, in molti rimangono piuttosto titubanti: il ministro degli esteri spagnolo Josè Manuel Albares avrebbe annunciato l’intenzione del suo paese di non partecipare; idem l’Irlanda. L’Olanda, invece, c’aveva judo: partecipa già alla missione Prosperity Guardian a guida americana. Missioni difensive europee sono for pussies, missioni offensive angloamericane sono for real men– anche se i real men non sempre brillano proprio per lucidità strategica: “Gli attacchi aerei allo Yemen stanno funzionando?” ha chiesto un giornalista a Biden durante una conferenza stampa di qualche giorno fa; “Dipende da cosa cosa intendi per funzionare” ha risposto Biden. “Stanno stoppando gli Houti? No. Continueranno? Sì.”, che poi – a ben vedere – è il riassunto perfetto della strategia geopolitica USA da un po’ di tempo a questa parte. D’altronde, come commenta il mitico blog Moon of Alabama, “Quando il tuo unico arnese è un martello, ogni problema assomiglia a un chiodo”.

Gian Micalessin

Ma se i razzi USA e britannici non sembrano impattare poi molto sulle capacità offensive di Ansar Allah e, invece che riportare la calma, sembrano esclusivamente aumentare il bordello, anche la nostra Aspides rischia di non essere molto efficace nella difesa; risultato? Aspides ad oggi potrà contare su appena tre navi messe a disposizione dalla triplice italo – franco – tedesca: “l’Italia così” scrive Gian Micalessinofobia sempre sul Giornanale “si ritroverebbe a fare la parte del leone. La nostra marina militare, già presente nel Mar Rosso con la fregata Martinengo che partecipa alla missione anti – pirateria Atlanta, è pronta infatti a mandare un’altra unità dedicata”; un po’ pochino per coprire un’area che andrebbe dallo stretto di Bab-el-Mandeb – attualmente sotto fuoco yemenita – a quello di Hormuz, che separa l’Iran da Oman ed Emirati e che, sulla carta, pattugliato dovrebbe esserlo già da 4 anni: nel 2020, infatti, Parigi riuscì a strappare all’Europa l’ok alla missione Agenor, che doveva proteggere la navigazione commerciale dal rischio che arrivava dall’Iran e che però, come sottolinea lo stesso Micalessinofobia, è “rimasta un’inutile scatola vuota”. Siamo di fronte a un remake? Al momento sembra abbastanza probabile: tra i due stretti infatti, ricorda ancora Micalessinofobia, “ci sono oltre 2.300 chilometri di mare. Un’estensione impossibile da coprire con appena tre navi e qualche drone”.
Qualcosina in più di Agenor sembra l’abbia portato a casa un’altra operazione: si chiama Atalanta, è in corso ormai dal lontano 2008 e ha l’obiettivo di proteggere i mercantili della pirateria a largo della Somalia; quando inizialmente gli USA avevano annunciato l’avvio dell’operazione Prosperity Guardian, l’Unione Europea – per voce di Borrell – aveva inizialmente parlato di un nostro contributo proprio attraverso l’operazione Atalanta, ma il tutto era stato inizialmente bloccato dal veto spagnolo: poi Biden ha alzato il telefono, ha chiamato direttamente Sanchez e il divieto è venuto meno, ma l’iniziativa è rimasta dov’era. Una volta tanto, l’Europa ha avuto un sussulto di dignità e ha evitato di fare il portaborse in un’operazione dove la catena di comando era saldamente in mano agli USA e dove le regole di ingaggio, come abbiamo visto chiaramente, vanno decisamente al di là della difesa dei mercantili. Ma sull’utilità di quello che abbiamo già dispiegato per l’operazione Atalanta in questo nuovo contesto, ci sono più di qualche dubbio: “Gli Houti” infatti, spiega l’ex ufficiale della folgore e fondatore del Security Consulting Group Carlo Biffani intervistato da AGI, “non attaccano con barchini dotati di motori fuoribordo e fucili d’assalto e rappresentano ben altro tipo di minaccia”; in quel caso, continua Biffani, “bastò schierare navi da guerra che incrociavano a largo della Somalia, e posizionare a bordo dei cargo personale armato con dotazioni consistenti unicamente in fucili d’assalto. In questo caso invece si tratta di neutralizzare in tempo reale il lancio di missili contro obiettivi navali”. Per assolvere a questo ruolo, bisognerà ricorrere probabilmente a delle portaerei e sfruttare “la terza dimensione, ovvero quella dei cieli, con sistemi di ascolto e di controllo radar di ampissimo raggio”; per le regole d’ingaggio di questa missione, come sottolinea il Corriere, “mancano ancora i dettagli”. I media, comunque, sono concordi nel dare per scontato che sarà appunto meramente difensiva: “Sono categoricamente escluse azioni a terra” scrive Di Feo sulla Repubblichina, “neppure per eliminare le rampe da cui partono ordigni contro le forze occidentali” e questo, se confermato, è senz’altro una buona notizia.
Ma le buone notizie, come le bugie, hanno le gambe corte: come spiegava Stephen Bryen su Asia Times già una decina di giorni fa, infatti, se USA e UK – a un certo punto – da scortare i mercantili (come dovremmo cominciare a fare anche noi con l’operazione Aspides) sono passati a lanciare razzi sullo Yemen non è perché sono scemi o perché sono cattivi, o almeno non esclusivamente; il problema, spiega Bryen, è che “sono sorti seri dubbi sia da parte britannica che da parte statunitense sul fatto che fossero adeguatamente attrezzati per resistere ancora a lungo agli attacchi di sciami di droni e di missili Houthi”. Solo nella giornata del 10 gennaio scorso, ad esempio, “le forze statunitensi e britanniche hanno dovuto abbattere 21 droni e missili. E per stessa ammissione del segretario dalla difesa britannico Grant Shapps, questo non sarebbe sostenibile”; il problema, meramente tecnico ma fondamentale, è che le imbarcazioni militari di missili non è che ce n’abbiano all’infinito e quello che è più grave, sottolinea Bryen, “non possono essere rifornite in mare”. Con l’aumento del numero degli attacchi da parte di Ansar Allah, in realtà rimanevano quindi due sole opzioni: o smettere di scortare i mercantili – che non era pensabile – o provare ad attaccare le postazioni dalle quali gli attacchi partivano pur sapendo che i risultati sarebbero probabilmente stati molto limitati, tanto che ancora lunedì USA e UK hanno colpito di nuovo in almeno sei località diverse, ma Ansar Allah nel frattempo – sempre più superstar assoluta per tutta l’opinione pubblica del mondo arabo – è riuscita a continuare i suoi attacchi senza grossi problemi. Ieri, ad esempio, Ansar Allah ha comunicato di aver colpito l’americana Ocean Jazz che, sempre secondo gli yemeniti, sarebbe solitamente scortata dalla marina mercantile USA e che sarebbe solitamente adibita al trasporto di attrezzatura militare statunitense di grandi dimensioni. Le 3 navi europee in dotazione a Aspides potrebbero ritrovarsi di fronte a questo dilemma ancora prima perché, molto banalmente, sostanzialmente non sono dotate di sistemi per fronteggiare i missili balistici; sappiamo che possono abbattere i droni, ma che riescano ad abbattere un missile balistico è piuttosto difficile. L’unica soluzione realistica sembrerebbe quella di impiegare, appunto, aerei da ricognizione in grado di individuare tempestivamente l’eventuale lancio di missili per poi comunicarlo alla marina USA, che sarebbe l’unica in grado di abbatterli, ma fornire intelligence alla marina USA sul nemico che sta bombardando non sarebbe poi molto diverso da partecipare direttamente alla loro missione e, quindi, entrare in guerra contro lo Yemen.

Aereo da ricognizione MQ-1 Predator

In uno slancio di ingiustificato ottimismo proviamo comunque ad attaccarci a un’ultima possibilità e cioè che entrino in gioco anche la diplomazia e il dialogo: se l’Europa garantisse che Aspides non servirà per scortare anche navi israeliane o dirette in Israele, e che si limiterà a scortare cargo e petroliere diretti verso gli altri porti del Mediterraneo, potrebbe anche strappare ad Ansar Allah l’impegno a non minacciarle con missili balistici; difficile, però, che questo gentleman agreement possa avvenire se – appunto – Aspides prevederà, come sembra scontato, l’impiego di aerei da ricognizione che ovviamente sarebbero sospettati di lavorare per gli angloamericani. Insomma, sembra che la strada sia piuttosto stretta: da un lato una missione davvero puramente difensiva che ci esporrebbe a molti rischi e, dall’altro, l’adesione sostanziale alla missione offensiva USA, che a rischio ci metterebbe tutto il nostro traffico commerciale. L’unica soluzione concreta per tutelare i nostri interessi nell’area rimane quella di affrontare il problema alla radice, e cioè il genocidio al quale, fino ad ora, abbiamo assistito – nella migliore delle ipotesi – impassibili. Qualche piccolo spiraglietto si è aperto: dopo che i familiari degli ostaggi lunedì hanno fatto irruzione alla Knesset, Israele ha annunciato di aver ripreso a parlare con Hamas di una nuova pausa e di un nuovo scambio di prigionieri. Tutto sommato, potrebbero cominciare a sentire il bisogno anche i militari israeliani: sul campo, infatti, la resistenza palestinese nonostante tutto sembra tenere botta e le forze armate israeliane, dopo aver provato a sollevare un mezzo polverone, lunedì hanno dovuto ammettere di aver subito 24 perdite in un giorno solo.
Anche sul fronte della guerra ibrida contro l’Iran probabilmente si sperava di poter ottenere qualcosa in più, a partire dalla scaramuccia col Pakistan; fortunatamente invece, dopo lo scambio di razzi, le relazioni diplomatiche sono state subito riavviate e il ministro degli esteri iraniano Abdollahian è atteso per una visita ufficiale ad Islamabad il prossimo 29 gennaio; allo stesso tempo, l’Arabia Saudita ha fatto sapere che per Israele non è troppo tardi per tornare indietro e che, se si tornasse a discutere seriamente della soluzione dei due Stati, le petromonarchie potrebbero tornare a dialogare con Tel Aviv.
Insomma, la soluzione definitiva contro la lotta di liberazione palestinese sembra sempre più un miraggio delirante, come anche la marginalizzazione dell’Iran; nel mezzo ci stanno 30 mila vittime civili totalmente gratuite che rimarranno a eterna memoria di come l’Occidente collettivo, dopo 5 secoli di dominio globale, al momento del suo declino relativo abbia avuto ancora l’energia per mostrare il peggio di sé – e questo, diciamo, nella migliore delle ipotesi. Contro i colpi di coda dell’impero in declino e i deliri suprematisti della sua macchina propagandistica, abbiamo bisogno subito di un vero e proprio media che stia dalla parte dei popoli che lottano per la loro liberazione e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani

YEMEN: se il paese più povero del mondo mette fine alla globalizzazione

Come dice Alberto Negri, in Medio Oriente la guerra è già regionale da 50 anni: senza questa semplice premessa il rischio di prendere fischi per fiaschi rimane altino, diciamo; a partire dallo Yemen e dal Mar Rosso. Iniziamo dalla cronaca: come saprete tutti benissimo, tra le forze regionali che con più vigore hanno reagito militarmente alla guerra di Israele contro i bambini arabi a Gaza, spiccano gli Houthi che da noi vengono definiti ribelli – o addirittura terroristi – e, ovviamente, niente più che marionette in mano a Teheran che, per la proprietà transitiva, ha mutuato lo stesso potere paranormale dell’amico Putin: riuscire ad essere a un passo dal collasso e, allo stesso tempo, una superpotenza politica e militare alla quale tutte le altre forze della regione obbediscono senza battere ciglio. Potrebbe non essere una narrazione esattamente rigorosissima, diciamo; quelli che chiamiamo Houthi – ma che sarebbe più appropriato chiamare col loro vero nome e cioè Ansar Allah – infatti, in realtà ormai altro non sono che il governo di uno stato che, dopo oltre 15 anni di conflitti fratricidi, sta lottando per riaffermare la sua sovranità. Certo, un governo ancora non riconosciuto in un paese ancora diviso, ma che è ormai stabilmente in controllo della stragrande maggioranza del paese, che mette assieme diverse forze politiche e che, sostanzialmente, è uscito vincitore da una lunghissima e sanguinosissima guerra contro un’alleanza che, sulla carta, è ordini di grandezza più potente e che va dagli Emirati ai sauditi e gode del sostegno incondizionato di Washington; ovviamente, tutto questo senza il sostegno di Teheran non sarebbe stato possibile, come non sarebbe stata possibile in Libano l’eroica resistenza di Hezbollah, ma la caricatura che ne fa la nostra propaganda – di veri e propri pupazzi telecomandati dall’Iran – è una semplificazione becera che, come sempre, impedisce di capire cosa sta accadendo.

Il logo di Ansar Allah

Ansar Allah, come Hezbollah, sono forze di governo che godono di un vastissimo consenso popolare e che guidano le rispettive lotte di liberazione nazionale in un contesto regionale di lotta generalizzata contro quel che rimane del dominio coloniale; ora, come tutti sapete, sin dallo scoppio del genocidio di Gaza Ansar Allah – appunto – ha cominciato a prendere di mira Israele. All’inizio si trattava fondamentalmente di azioni dimostrative: razzi e droni diretti verso Israele e, in particolare, la Miami israeliana di Eilat, che però venivano piuttosto sistematicamente intercettati e abbattuti, prima di raggiungere la loro destinazione, proprio dai sauditi; al ché, Ansar Allah ha cominciato a prendere di mira le navi che passavano dallo stretto di Bab el-Mandeb, la porta di ingresso nel Mar Rosso, e che erano dirette in Israele. Una leva potentissima: da quel minuscolo stretto passano, infatti, il 30% dei container di tutto il mondo che sono stati costretti a cambiare strada, causando danni incalcolabili alla logistica globale proprio mentre ancora, tra tensioni geopolitiche e post covid, le supply chain – le catene del valore globale – continuano a vivere una situazione di stress come non si era mai vista dall’inizio della grande globalizzazione. Toccando il tasto dolente della logistica globale, Ansar Allah ha alzato vistosamente l’asticella da diversi punti di vista: il primo, immediato, è che bloccando le navi dirette in Israele concretamente causava danni molto più rilevanti di quelli causati da razzi e droni di avvertimento; il secondo è che trasformava una guerra locale in un problema globale che ricade sul groppone degli USA. Tra i compiti principali dell’Impero, infatti, c’è proprio quello di garantire la libera circolazione delle merci nei mari; è uno degli aspetti che, per decenni, ha giustificato il preteso eccezionalismo USA: certo – è vero – saranno pure l’unica superpotenza rimasta e sicuramente se ne approfittano pure, ma senza questa superpotenza chi sarebbe in grado di garantire che le merci possono spostarsi in sicurezza da un capo all’altro del mondo? Un ruolo che, ovviamente, è diventato ancora più fondamentale con la globalizzazione: se i paesi del Nord globale potevano permettersi di delocalizzare la produzione laddove gli tornava più conveniente, era anche perché c’era una superpotenza che gli garantiva che quelle merci poi sarebbero sempre arrivate in sicurezza a destinazione; ora l’entusiasmo per le delocalizzazioni e la globalizzazione sicuramente non è più al suo apice, e si preferisce parlare piuttosto di decoupling, di derisking e di reshoring o di nearshoring, ma il fatturato delle grandi corporation transnazionali dipende ancora (e dipenderà ancora a lungo ancora) da questo meccanismo.
Per gli USA ,quindi, intervenire per riportare ordine in quel collo di bottiglia strategico è oggettivamente inevitabile: sta scritto proprio nel suo DNA e nel DNA dell’ordine mondiale che ha imposto a sua immagine e somiglianza; e infatti, per settimane, nelle principali testate mainstream internazionali – quelle che fanno da megafono all’agenda delle oligarchie del Nord globale e la impongono come senso comune al resto della popolazione mondiale – non si è fatto che chiedere un intervento degli USA. D’altronde, per la più grande superpotenza militare della storia dell’umanità mettere a cuccia le forze armate del paese più povero del Medio Oriente, che è ancora nel bel mezzo di una guerra civile, non dovrebbe essere chissà che mission impossible. O, almeno, è inevitabilmente l’idea che si fa chiunque dia credito proprio alla propaganda suprematista che prova ancora a convincerci che gli USA abbiano i superpoteri; potrebbe non essere un’analisi proprio accuratissima. Un primo tentativo, ricordava ancora ieri Bloomberg, era stato fatto passando appunto da Teheran: “In privato” scrive Bloomberg “gli Stati Uniti hanno inviato ripetuti messaggi segreti all’Iran, esortandolo a fermare gli attacchi Houthi”. I più maliziosi, tra questi avvertimenti ci vedono addirittura anche l’attentato a Kerman dell’Isis Khorasan, che molti ritengono essere nient’altro che un’organizzazione fantoccio totalmente eterodiretta dall’asse che tiene assieme USA, Israele e petromonarchie del Golfo: “Teheran” però, continua Bloomberg, avrebbe risposto “di non avere alcun controllo sul gruppo”, risposta che però non convince la testata newyorkese che ricorda come “l’intelligence britannica” abbia a lungo dato indicazioni e fornito prove “che gli Houthi si rifornivano di armi che potevano essere ricondotte all’Iran” che è un’osservazione anche ragionevole, intendiamoci, che però la propaganda mainstream si fa solo quando riguarda gli altri. Quando viene fuori che Israele non potrebbe durare una settimana in più senza il sostegno degli USA, a nessuno gli viene in mente di dire che Israele è uno stato fantoccio eterodiretto da Washington, come non viene in mente neanche nel caso ancora più eclatante dell’Ucraina, ma se in ballo ci sono gli arabi diventa incontrovertibile, alla faccia del doppio standard.

Jonathan Panikoff

In realtà, comunque, Teheran non è l’unica a sostenere che gli Houthi tutto sommato fanno un po’ come cazzo gli pare: secondo Jonathan Panikoff, direttore della Scowcroft Middle East Security presso l’Atlantico Council, ad esempio, “questi gruppi hanno tutti il proprio processo decisionale indipendente. E questo non dovrebbe essere sottovalutato”; comunque, dipenda o meno da Teheran, fatto sta che questi avvertimenti sono serviti a poco e Ansar Allah non solo ha continuato per la sua strada, ma ha gradualmente intensificato gli attacchi fino a quando Washington non si è decisa a intervenire. Come tutti ricorderete, infatti, il mese scorso il segretario alla difesa USA Lloyd Austin ha fatto una videochiamata con un po’ di alleati ed ha annunciato la missione Prosperity Defense che però, evidentemente, non ha esattamente arrapato tutti: gli USA – pare – avevano cercato di coinvolgere i cinesi; d’altronde, il grosso delle navi che passa da lì sono cariche di merci cinesi, e figurati se i cinesi – materiali come sono – rinunciano a difendere i loro traffici in nome della solidarietà alla causa palestinese. Evidentemente, però, sono meno materiali di quello che pensano a Washington e nelle redazioni di mezzo mondo e hanno risposto picche; ma quello che ha colpito di più è che hanno risposto picche pure emiratini e sauditi che contro gli Houthi ci sono in guerra da 15 anni. Forse in ballo non c’è solo la solidarietà, magari; forse, molto più prosaicamente, c’è l’idea che militarizzare ancora di più l’area, invece che ristabilire la sicurezza della navigazione, potrebbe peggiorare la situazione.
D’altronde, però, bisogna stare anche attenti da farsi prendere da facili entusiasmi; il fallimento della chiamata alle armi della Prosperity Defense non significa certo che il grosso del mondo ormai è schierato a fianco di Ansar Allah in difesa della lotta di liberazione palestinese e contro il genocidio, e per averne una prova provata non si è dovuto manco aspettare tanto: mercoledì scorso, infatti, il consiglio di sicurezza dell’ONU ha messo ai voti una risoluzione di condanna nei confronti degli Houthi. E’ passata a stragrande maggioranza, con 11 voti a favore e 4 astenuti: tra i 4 astenuti anche Russia e Cina, e cioè due membri permanenti del consiglio che quindi hanno potere di veto che, però, hanno deciso di non utilizzare; gli unici che continuano imperterriti a ricorrere al diritto di veto – anche quando sono soli contro tutti – sono gli USA che, dall’inizio del massacro, vi hanno fatto ricorso continuamente per impedire venisse imposto un cessate il fuoco. Il mancato ricorso al veto da parte di Russia e Cina ha deluso molti, e non senza ragioni: in molti, infatti, sostengono che c’è poco da mediare e che di fronte al massacro a cui stiamo assistendo il muro contro muro è l’unica opzione sensata. La Cina, però, sembra continuare a vederla diversamente e a ragionare sui tempi lunghi: un veto alla risoluzione di condanna degli attacchi, infatti, sarebbe stato uno sgarbo diplomatico nei confronti di parecchi interlocutori, dalle petromonarchie del Golfo ai paesi europei più titubanti; la Cina, invece, ha optato come sempre per la mediazione, cercando di porre le basi per una convergenza la più ampia possibile in nome del diritto internazionale. La sintesi cinese allora suona più o meno così: va bene condannare le azioni degli Houthi, ma soltanto tenendo conto che sono una conseguenza inevitabile del massacro in corso a Gaza: aveva fatto anche un emendamento per sottolineare il legame tra le due cose, ma è stato bocciato; è importante ricordare che poche ore prima del voto di questa risoluzione gli Houthi avevano portato a termine quello che Bloomberg definisce “il suo più grande attacco di missili e droni mai realizzato nel Mar Rosso” e così, subito dopo il voto all’ONU, Biden è passato all’attacco. “Le forze americane e britanniche” riporta Bloomberg “hanno colpito installazioni radar, siti di stoccaggio e siti di lancio di missili e droni utilizzando aerei da combattimento dell’aeronautica americana e della portaerei USS Eisenhower, nonché missili Tomahawk lanciati da un sottomarino e navi di superficie” e, non contenti, dopo 24 ore c’hanno pure ribadito, portando a termine un altro attacco “contro un’installazione radar che non era stata completamente distrutta la notte prima”.
Secondo i più esagitati, in soldoni Russia e Cina gli avrebbero dato il via libera. La realtà potrebbe essere più complessa: ovviamente, infatti, la risoluzione dell’ONU in qualche modo legittimava almeno parzialmente l’intervento USA, ma non è che lo autorizzava; sostanzialmente, quindi, dal punto di vista del diritto internazionale non ha cambiato granché. Allo stesso tempo, dal punto di vista diplomatico, il mancato ricorso al veto ha rafforzato la credibilità cinese di potenza pacifica che lavora per il dialogo e la mediazione e rispetta il diritto internazionale. Risultato? L’Arabia Saudita ha lodato la posizione cinese, mentre ha condannato gli USA nonostante l’obiettivo dei loro attacchi sia un loro acerrimo nemico. E anche sull’utilità di questi attacchi ci sono parecchie perplessità: come ricorda Bilal Y Saab di Chatham House sul Financial Times, infatti, “Gli Houthi sono sopravvissuti per anni alla campagna di bombardamenti della coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita. Attacchi limitati da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, non importa quanto dolorosi o chirurgici, avranno effetti limitati”. Simplicius The Thinker, come sempre, è decisamente più drastico: “Gli Stati Uniti e la loro piccola e isolata marmaglia di servili alleati” scrive “hanno attaccato lo Yemen con un attacco assolutamente impotente che non ha fatto e non avrà alcun effetto sul continuo blocco del Mar Rosso da parte dello Yemen”. Da un certo punto di vista, addirittura, potrebbero averli rafforzati: come ha dichiarato Iona Craig, giornalista e inviata in Yemen dal 2010 al 2015 su Declassified UK, “Tutto questo ha reso gli Houthi estremamente popolari. Ho parlato con moltissimi yemeniti che stavano dalla parte opposta durante la guerra civile, e che mi hanno detto guarda, noi odiamo gli Houthi, ma ammiriamo quello che stanno facendo. Nessun altro sta supportando la causa palestinese come loro”. “La campagna di bombardamento di Stati Uniti e Regno Unito nello Yemen” ha scritto su X l’ex portavoce del commando USA a Baghdad e a Sanaa Nabeel Khoury “ è un altro fallimento della diplomazia di Biden: non voleva una guerra a livello regionale, ora ne ha una; voleva la pace nello Yemen, ora è in guerra con gli Houthi – chiunque gli abbia detto che questo li avrebbe scoraggiati si sbagliava di grosso, questo li radicalizzerà ulteriormente!”. “Il punto” scrive Foreign Policy “è che gli USA in Yemen non hanno nessuna buona opzione”: se non interviene, sancisce la fine della Pax Americana e il suo status di superpotenza garante della sicurezza del commercio marittimo; se interviene col freno a mano tirato, non risolve il problema e, comunque, rafforza i suoi nemici, e se interviene in grande stile rischia di impantanarsi in una guerra regionale in grande stile dove potrebbe prendere più sberle di quelle che ha preso in Ucraina, spianando alla Cina la strada verso lo status di unica grande superpotenza globale in grado di dirimere le controversie internazionali con il dialogo e la diplomazia.

Lloyd Austin

Insomma: lo stato di salute dei leader dell’Occidente collettivo non sembra essere esattamente al top, letteralmente: il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha ordinato attacchi contro gli Houthi dall’ospedale dove era stato ricoverato per un cancro alla prostata che aveva tenuto nascosto al resto dell’amministrazione. Come sentenzia sempre Simplicius, siamo di fronte a “un regime decrepito guidato da un presidente senile e un segretario di stato debilitato, che ordinano massacri illegali dalle loro case di cura e dai letti d’ospedale contro la nazione più povera della terra, praticamente lo stesso giorno in cui il loro principale alleato affronta accuse di genocidio e crimini contro l’umanità davanti al tribunale dell’Aia”. “Per l’impero delle bugie” conclude Simplicius “le prospettive non sono mai state peggiori”; per dargli la mazzata finale abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lloyd Austin

ITALIA IN GUERRA – Perché da Hitler a Netanyahu l’Italia è sempre al fianco del colonialismo più feroce

Conflitto in Medio Oriente”; “Nave italiana in prima linea”.
Oohhh, lo vedi? Dai, dai! Il prurito alle mani che tormentava i sostenitori italiani del genocidio e della pulizia etnica trova finalmente un piccolo sfogo e l’Italia così, dopo la solita inevitabile sfilata di fake news, doppi standard e ipocrisia un tot al chilo, finalmente entra ufficialmente in guerra e si riposiziona nel posto che gli è più congeniale: quello di cane da compagnia del colonialismo più feroce disponibile sul mercato. Da Hitler, a Biden e Netanyahu.

La fregata Virgilio Fasan

Il riferimento, ovviamente, è alla decisione di spedire la nostra fregata lanciamissili Virgilio Fasan nel mar Rosso per contrastare il nodo dell’asse della resistenza che, al momento, sembra più determinato a sostenere la lotta di liberazione del popolo palestinese contro la forza di occupazione e lo sterminio indiscriminato dei bambini arabi: Ansar Allah, i partigiani di Dio dello Yemen. La nave della Marina militare farà parte di una flotta composta da mezzi provenienti da una decina di nazioni, e che avrebbe lo scopo di proteggere le imbarcazioni commerciali di Israele e dei paesi che sostengono il suo genocidio dalle reazioni che hanno scatenato in tutta la regione: “L’Italia” ha dichiarato solennemente il ministro degli affari dell’industria militare Guido Big Jim Crosetto “farà la sua parte per contrastare l’attività terroristica di destabilizzazione degli Houthi” dove per terrorismo, ovviamente, si intende banalmente tutto quello che viene fatto per tentare di salvare la vita al futuro terrorista che si nasconde in ogni bambino palestinese, “e tutelare la prosperità del commercio garantendo la libertà di navigazione”. Tradotto: compagno Netanyahu, stermina chi te pare che, alle brutte, le spalle te le copriamo noi (e senza che, ovviamente, la questione fosse portata in Parlamento). D’altronde quando l’ordine arriva dall’alto non è che ti puoi mettere tanto a disquisire con la scusa dei riti della pagliacciata che è diventata la democrazia parlamentare, e qui l’ordine è stato perentorio: una breve comunicazione via teleconferenza da parte del compagno Lloyd Austin, ed ecco fatto.
D’altronde non si è trattato altro che di anticipare un po’ un’operazione già a lungo programmata: la Fasan, infatti, già a inizio estate aveva partecipato a un’esercitazione con le squadre navali USA alla fine della quale aveva ottenuto il patentino che le concede l’onore di fare da bodyguard alle portaerei dell’impero; l’arsenale di bordo, infatti, dovrebbe essere in grado di intercettare tutte le armi a disposizioni della resistenza Houthi, dai droni ai missili balistici, e anche senza l’annuncio di questa missione che, ironicamente, è stata battezzata Prosperity Guardianguardiani della prosperità, alla facciaccia di quegli animali umani che abitano a Gaza – sarebbe comunque partita verso il golfo di Aden il prossimo febbraio. D’altronde – fa sapere il governo – garantire la sicurezza della navigazione è essenziale per gli interessi di tutti voi consumatori: vedersi bloccare il canale di Suez per l’irresponsabilità di questi maledetti terroristi significa aumentare a dismisura i costi della logistica. Un po’ come costa proteggere gli extraprofitti registrati dalle aziende durante questi anni di iperinflazione, che hanno visto i consumatori impoverirsi e le oligarchie arricchirsi a ritmi mai visti; in quel caso, però, contro l’avidità delle oligarchie di fregate ne abbiamo viste pochine, e manco di tasse sugli extraprofitti: quella sulle banche, dopo essere stata annunciata in pompa magna, nel giro di due mesi è sparita del tutto pure dalla legge di bilancio.
A questo giro, però, non si tratta di far pagare i super – ricchi, ma i bambini di Gaza e, oggettivamente, è più semplice: mica c’hanno i giornali, le Tv, le lobby e il potere di far schizzare verso quota 500 lo spread. T’immagini? L’Italia condanna i bambini di Gaza allo sterminio: lo spread impenna.

Mario Sechi

Lo sprezzo di quel che rimane della nostra democrazia – dimostrato aderendo all’operazione militare senza passare dal Parlamento – ha gasato i più appassionati tra i sostenitori del genocidio: Mario Sechi su Libero ci invita a immaginarci “Un governo Conte – Schlein in questo scenario: avremmo già issato la bandiera bianca consegnandoci come nazione neutrale nelle mani dei commissari del popolo di Putin e Xi Jinping”; come ricorda il carabiniere giornalista Claudio Antonelli dalle pagine de La Pravda dell’Alt Right infatti, “in ballo c’è ben più della sicurezza nel mar Rosso: si tratta di contrastare le manovre di Mosca e Pechino lungo la Via della Seta”. Come giustamente sottolinea Antonelli, infatti, “non si può non notare che la potenza militare degli Houthi non giustifica il dispiegamento di un’intera flotta di queste dimensioni”; “le posizioni delle batterie missilistiche” continua Antonelli “sono conosciute al millimetro e gli USA potrebbero intervenire all’istante grazie ai satelliti”. Difficile qui capire quando questo sia un giudizio equilibrato e quanto invece sia l’ennesimo delirio di onnipotenza di un suprematista qualsiasi; di sicuro, però, c’è che pattugliare quell’area è un modo per tenere per le palle i cinesi che, ovviamente, sono i produttori del grosso delle merci che transitano attraverso Suez per arrivare nella sponda settentrionale del Mediterraneo. I primi ad avere interesse che si ristabilisca questa benedetta libertà di navigazione, a regola, dovrebbero essere proprio loro, soprattutto dal momento che anche la strada alternativa è sostanzialmente chiusa per lavori: “Il canale di Panama” ricorda Federico Bosco su Il Foglio, infatti, “è gravemente limitato da una siccità che ne riduce la portata”. Eppure, appunto, i cinesi alla Prosperity Guardian non sono stati chiamati a collaborare. Strano: in passato, nel golfo di Aden, USA e Cina hanno lavorato di comune accordo contro la pirateria e per la sicurezza della navigazione; non è mai stato pubblicizzato più di tanto ma, come scriveva il Council on Foreign Relations già nel 2013, “Lontano dai riflettori, la cooperazione nel Golfo di Aden ha fornito sia alla Cina che agli Stati Uniti un canale vitale per contatti militari sempre più intensi in un contesto di sfiducia prolungata nell’Asia Pacifico. In effetti” continua l’articolo “le due marine hanno recentemente condotto un’esercitazione anti – pirateria congiunta. E In futuro” conclude “la cooperazione non tradizionale in materia di sicurezza nei mari lontani è destinata a svolgere un ruolo ancora più importante nel rafforzare le relazioni militari sino – americane”.
Bei tempi, quando ancora i suprematisti USA pensavano di poter tenere al guinzaglio la Cina e che, magari, a Hu Jintao in Cina sarebbe subentrato un presidente ancora più espressione diretta delle oligarchie cinesi invischiate con la finanza USA e la Cina avrebbe abbandonato – così – la sua strada verso il socialismo con caratteristiche cinesi e abbracciato le magnifiche sorti e progressive del totalitarismo neoliberista. A Hu Jintao, invece, è subentrato Xi Dada, e il socialismo con caratteristiche cinesi, da oggetto di scherno degli intellettuali fintoprogressisti del Nord globale, è diventato elemento di ispirazione per tutti i paesi che tentano di uscire dal dominio coloniale; e anche la lotta alla pirateria, da elemento di collaborazione tra le due superpotenze, si è trasformata nell’ennesima scusa per provare a ostacolare manu militari l’ascesa economica e politica cinese. E così, oggi, i pattugliamenti cinesi nell’area continuano: in questo caso però – sottolinea il Global Times – si tratta di “missioni anti – pirateria autorizzate dalle Nazioni Unite” e che hanno il solo scopo di garantire il transito “degli aiuti umanitari diretti a Gaza”; l’operazione guidata dagli USA, invece, “non ha l’autorizzazione dell’ONU, e rischia solo di intensificare la crisi a Gaza”.
D’altronde, da oltre 2 mesi, l’unico obiettivo degli USA all’ONU è proprio ostacolare con le scuse più ridicole ogni progresso verso un cessate il fuoco ricorrendo al veto e, in queste ore, ancora sta facendo di tutto per far slittare ancora il voto in Consiglio di Sicurezza dopo che l’assemblea generale dell’ONU ha adottato – per la seconda volta consecutiva a larghissima maggioranza – una risoluzione che spinge, appunto, verso il cessate il fuoco. Come ha sottolineato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese martedì scorso “Ci auguriamo che gli Stati Uniti ascoltino la voce della comunità internazionale, smettano di bloccare scientificamente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e inizino a svolgere il ruolo dovuto nel promuovere un cessate il fuoco immediato e prevenire una catastrofe umanitaria ancora più grande”.
Come cambia il mondo, eh? Quelli che, per 50 anni, hanno accusato chiunque non si sottomettesse ai suoi interessi di essere stati canaglia – per poi bombardarli – oggi sono considerati dalla comunità internazionale l’unico vero stato canaglia; ed ecco così che, a parte l’Italia e una manciata di altri vassalli, a non aver risposto alla chiamata alle armi USA sarebbero in parecchi: “Secondo i rapporti” riporta sempre il Global Times “Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Oman si sarebbero rifiutati di aderire all’operazione. E’ facile vedere” continua l’articolo “come a partecipare all’operazione siano pochi paesi della regione, che sembrano anzi piuttosto preoccupati che questa operazione possa intensificare il conflitto”. D’altronde sarebbe stato difficile spacciarla come qualcosa di ragionevole alle proprie opinioni pubbliche, tutte indistintamente solidali con la causa palestinese: come ha dichiarato ad Al Mayadeen Mohamed al-Bukahiti, uno dei più autorevoli leader di Ansar Allah, “Lo Yemen attende la creazione della coalizione più sporca della storia per impegnarsi nella battaglia più sacra della storia”, e si chiede “Come verranno percepiti i paesi che si sono affrettati a formare una coalizione internazionale contro lo Yemen per proteggere gli autori del genocidio israeliano?”. Nel frattempo, intanto – riporta sempre Al Mayadeen – la Malesia impone il divieto di attracco alle navi israeliane. “La geopolitica del Medio Oriente” sottolinea Global Times “è estremamente complessa, e ogni piccola azione può avere conseguenze di vasta portata. Nella regione gli Stati Uniti hanno avviato numerose guerre e istigato molte rivolte, ma hanno anche subito molte battute d’arresto, e hanno pagato un prezzo elevato. Il motivo è che gli USA non hanno mai assunto una posizione equa, e non hanno mai preso in considerazione gli interessi concreti dei paesi del Medio Oriente, ma hanno sempre messo avanti a tutto esclusivamente le proprie esigenze egemoniche. Gli USA ora vorrebbero disimpegnarsi, ma mantenendo comunque la loro posizione dominante nella regione. Non si vogliono più impegnare nei conflitti regionali, ma usano ancora la tattica di sostenere l’uno e colpire l’altro per consolidare piccoli circoli di interesse. Un simile approccio però” conclude il Global Times “non farà altro che intensificare, anziché calmare, le turbolenze nella regione”.

Guido “Big Jim” Crosetto

Circa un secolo fa, una classe dirigente di svendipatria di professione ha deciso di ridurre il nostro Paese in cenere per sostenere i deliri suprematisti del colonialismo occidentale più feroce; oggi i loro degni eredi si apprestano a gettare l’intero Paese in un drammatico remake di quell’orrendo filmaccio, campi di concentramento inclusi: l’ultima moda dell’esercito di occupazione a Gaza, infatti è spingere le persone nei campi profughi senza cibo, acqua, elettricità e servizi sanitari, e poi bombardarli. Sembra sia la soluzione più razionale: coi tempi che corrono, il caro vecchio gas ormai – probabilmente – costerebbe troppo. Io, ecco – anche solo per non essere sottoposti domani a una sacrosanta nuova Norimberga -, direi che forse è il caso di costruirci per lo meno un media dove sia possibile dichiarare che noi, molto educatamente, ci dissociamo e che non saremmo proprio intenzionati a collaborare a questa nuova Shoah alla rovescia (se è permesso, eh?); còmprati oggi la tua prova certificata per il processo contro i collaborazionisti di domani: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Guido Crosetto