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Tag: privatizzazioni

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

Il delirio degli svendipatria: se il Governo dei Finto-Sovranisti Svende l’Italia agli Oligarchi

Cosa si può vendere per tornare a crescere”

No, giuro. Non è la provocazione di qualche mattacchione. E’ proprio la citazione testuale di un titolo vero di giornale, e non su un giornaletto della parrocchia ma su Libero, che magari vi farà pure ridere ma non dovrebbe: per quanto sia imbarazzante, rimane comunque una delle testate di riferimento della maggioranza di governo che, mentre voi ridete, ha messo il turbo per l’ennesima ondata di svendite a tutto tondo dei gioielli di famiglia alle solite vecchie oligarchie finanziarie che, negli ultimi decenni, ci hanno ridotto in miseria.

La guerra senza frontiere che gli USA, con la complicità delle istituzioni europee al servizio delle sue oligarchie, hanno ingaggiato contro l’economia del vecchio continente, sta dando i suoi frutti: recessione, corsa al rialzo dei tassi di interesse e politiche monetarie ultra-restrittive delle banche centrali, indipendenti dai Governi, ma succubi delle oligarchie finanziarie, stanno facendo saltare tutti i conti. A breve l’Italia dovrà rifinanziare qualcosa come poco meno di centocinquanta miliardi di debito e a comprarlo non ci sarà più la BCE; gli acquirenti ce li dovremmo andare a trovare sul mercato, che è il nome di fantasia che la propaganda neoliberista ha dato a quel manipolo di oligarchi che determinano da soli e senza che nessuno abbia la volontà di mettergli dei paletti, l’andamento dell’intera economia del nord globale.

Per convincerli, li dovremo riempire di quattrini: circa il 5% di interessi, se tutto va bene. Dieci volte quello che pagavamo alla BCE. Le oligarchie, così, si intascheranno tutto quello che abbiamo risparmiato, smantellando senza ritegno lo stato sociale che però – almeno questo è quello che cercano di spacciarci – non è abbastanza e quindi, per far finta di provare a tenere i conti in ordine, dovremmo accollarci un’altra bella overdose di sacrifici che toccheranno soltanto a noi.

I multimiliardari, infatti, è meglio lasciarli perdere, visto che abbiamo passato gli ultimi 30 anni a cucirgli addosso leggi ad hoc che gli permettono, appena anche solo si comincia a parlare di tasse e di redistribuzione, di portare i capitali dove meglio credono senza mai pagare dazio. Ed ecco quindi che per fare cassa, la maggioranza che è andata al governo grazie alla retorica sulla patria e il sovranismo, la patria si prepara a svenderla a prezzi di saldo, quasi fosse un Giuliano Amato qualsiasi, e per giustificarsi ha avviato una campagna ideologica a suon di pensiero magico e fake news che in confronto il maccartismo era un onesto e genuino tentativo di ricercare la verità.

Davvero vogliamo permettergli di svendere quel poco che ci rimane senza battere ciglio?

In tempi di vacche magre, per far quadrare i conti, bisogna tagliare le spese e mettere mano ai risparmi. lo sanno bene padri e madri di famiglia”. Fortunatamente, adesso, lo ha imparato anche il governo, che finalmente si è posto l’obiettivo “di portare in cassa la bellezza di una ventina di miliardi per puntellare i conti pubblici, cominciare ad abbattere il debito e iniettare liquidità”.

Sembra il temino di un alunno un po’ zuccone per la prima verifica di economia della terza superiore verso metà degli anni ‘90, quando la nuova moda della religione neoliberista dominava incontrastata e in Italia ancora si faceva fatica a prevedere i disastri epocali che avrebbe causato, e invece è l’incipit di un articolone a tutta pagina di Libero di ieri; lo firma un tale Antonio Castro, che fortunatamente non avevo mai sentito nominare. Googlando, si trova questo: “Antonio Castro, cantante intrattenitore per eventi musicali”, il che giustificherebbe tutto.

E invece no: spulciando più a fondo, si scopre che è solo un omonimo, e che il nostro Castro invece non solo è un giornalista, ma addirittura il capo servizio economia di tutto il giornale.

E’ come se il direttore del centro Nazionale di metereologia e climatologia dell’aeronautica militare iniziasse un suo paper scrivendo che “non ci sono più le mezze stagioni”, o un direttore di un prestigioso dipartimento di antropologia scrivesse che “come tutti sanno, i neri hanno la musica nel sangue”.

L’equiparazione della politica economica di un Governo alla gestione di un bilancio familiare è la frontiera più estrema dell’analfabetismo economico che si è diffuso tra i ceti “intellettuali” in Italia, in particolare appunto a partire da fine anni ‘80; fino ad allora, nei paesi che hanno sconfitto da tempo l’analfabetismo di massa, nessuno si sarebbe azzardato ad affermare simili puttanate, e nei quarant’anni successivi, ovviamente, la realtà ha sistematicamente presentato il conto, smentendo in maniera plateale ogni singolo assunto derivante da queste leggende metropolitane inventate dagli oligarchi e diffuse dall’esercito dei loro utili idioti.

Come ormai sappiamo tutti benissimo, privatizzare e tirare la cinghia non aiuta in nessun modo a mettere in ordine i conti, ma finisce di devastarli; per mettere in ordine i conti, l’unico modo è far ripartire l’economia, e per far ripartire l’economia l’unico modo è aumentare quella che Keynes chiamava la domanda aggregata, e in particolare gli investimenti pubblici e i salari.

Ma allora perché è ripartita fuori tempo massimo questa campagna ideologica completamente campata in aria?

Semplice: come vi ripetiamo da mesi, costringere i paesi come il nostro, alla periferia dell’Europa e con i conti sempre in bilico, a svendere i gioielli di famiglia era la finalità ultima di buona parte delle assolutamente insensate scelte di politica economica perseguite negli ultimi anni senza distinzione da tutte le forze politiche, finti patrioti in testa. Ora è arrivato il momento di passare all’incasso: tra i gioielli di famiglia da svendere agli oligarchi, quei fini intellettuali di Libero in particolare ne hanno individuati due: la RAI e le Ferrovie. Non fa una piega. La privatizzazione delle ferrovie nel Regno Unito da decenni è il caso scuola probabilmente in assoluto più eclatante di come la privatizzazione dei monopoli naturali sia sempre, immancabilmente, una vera e propria rapina effettuata dalle oligarchie contro tutto il resto della popolazione. “La RAI”, invece, sottolinea Libero, “può oggi ingolosire le grandi società dei media internazionali affamate di contenuti”; e giustamente, se le grandi società internazionali sono golose e vogliono concentrare ancora di più i mezzi di produzione del consenso nelle mani di una manciata di oligarchi, chi siamo noi per impedirglielo?

Ma le aziende pubbliche strategiche sono solo una parte del pacchetto regalo che il governo degli svendipatria ha in serbo per le oligarchie finanziarie globali; c’è tutto un mondo di piccole e medie imprese da offrire in palio e anche qua ci siamo già portati un bel pezzo avanti.

Comprate e chiuse”, titola La Verità, “le aziende italiane in mano straniera. Negli ultimi 5 anni”, sottolinea l’articolo, “1000 imprese sono passate sotto controllo estero. Di queste, una su due è stata spolpata della propria tecnologia e poi lasciata morire o convertita in semplice filiale”. Le cifre ricordate dall’articolo, fanno letteralmente paura: negli ultimi 5 anni infatti, le aziende con sede in Italia ma con soci di maggioranza stranieri, sono aumentate di oltre il 25%, e oggi sono la maggioranza assoluta di quelle con oltre 250 dipendenti.

Per molte di queste”, sottolinea l’articolo, “il destino non è il rilancio, ma il saccheggio e poi la chiusura”; in particolare, dal momento che a fare shopping nella maggioranza dei casi non sono altri gruppi industriali, che cercano di raggiungere una maggiore efficienza attraverso l’integrazione e il raggiungimento di economie di scala. Afare shopping, il più delle volte, sono fondi speculativi e “la finanza”, sottolinea giustamente l’articolo, “è focalizzata sui risultati di brevissimo termine, ragiona in termini di trimestrali e spesso spinge le aziende a destinare i guadagni in primo luogo alla distribuzione dei dividendi o al riacquisto di azioni proprie per arricchire i soci, a dispetto degli investimenti in ricerca e sviluppo o ai miglioramenti di strutture e condizioni di lavoro”.

Gli esempi si sprecano: il più celebre, grazie alla cazzimma dei lavoratori coinvolti, è senz’altro quello della GKN di Campi Bisenzio, chiusa dal giorno alla notte dal fondo inglese Melrose, nonostante i conti in ordine e l’alto livello di competenza della manodopera. Stessa sorte per la Gianetti Ruote di Monza, caduta nella rete del fondo speculativo tedesco Quantum Capital Partner, che è salito alla ribalta delle cronache per aver licenziato in tronco tutti i dipendenti poche ore dopo la decisione del governo di togliere il blocco dei licenziamenti introdotto durante la fase pandemica.

A febbraio scorso”, ricorda l’articolo de La Verità, “il tribunale di Monza ha condannato Gianetti Ruote a pagare un risarcimento di 280 mila euro agli ormai ex suoi lavoratori, per non avere rispettato i tempi fissati dalla legge per la procedura di licenziamento”. Negli ultimi giorni invece è scoppiato il caso della Magneti Marelli di Crevalcore: era stata venduta a un fondo dagli Agnelli nel 2018, ovviamente a seguito della solita buffonata della garanzia del mantenimento dei posti di lavoro in Italia. Per acquistare l’azienda, il fondo, come accade sostanzialmente sempre, si era indebitato e poi aveva scaricato questo debito sui conti dell’azienda, azzerando gli investimenti proprio quando la transizione ai motori elettrici li avrebbe resi più necessari. Ora ovviamente il fondo piange miseria a causa del calo di affari dovuto alla imprevedibile transizione energetica dai motori a combustione a quelli elettrici, e a pagare il prezzo sono i 229 lavoratori e l’economia italiana tutta. Quel fondo si chiama KKR, “la macchina dei soldi” come lo definiva già nel 1991 in un bellissimo libro la giornalista investigativa americana Sarah Bartlett.

Negli anni, KKR è diventato sinonimo in tutto il mondo di spregiudicate operazioni di acquisto a debito, o leverage buyout, in grado di riempire le tasche degli azionisti sulla pelle dei lavoratori e dei territori che vengono sistematicamente depredati della loro ricchezza; ora, a breve KKR potrebbe diventare proprietario della rete di telecomunicazioni di TIM, con il pieno sostegno del governo.

Cosa mai potrebbe andare storto?

Ma l’aspetto ancora più paradossale è che, nel tempo, i governi che si sono succeduti su queste acquisizioni hanno cominciato a mettere il becco, ostacolandone alcune attraverso il famoso strumento del golden power. Peccato, l’abbiano fatto totalmente a sproposito: invece che opporsi agli acquisti predatori da parte dei fondi speculativi, infatti, si sono opposti ai pochi acquisti di natura veramente industriale, che invece che depredare il nostro tessuto produttivo, avrebbero potuto arricchirlo. Il motivo? A comprare, in quel caso, erano gruppi industriali cinesi, mentre i fondi speculativi battono tutti bandiere occidentali; amiamo così tanto i nostri alleati democratici che, pur di accordargli qualche privilegio, siamo disposti a sacrificare fino all’ultimo operaio.

Contro la ferocia predatoria dei prenditori della finanza, e contro le politiche suicide degli svendipatria, abbiamo bisogno di un media che sta dalla parte di chi la ricchezza la produce, e non di chi se ne appropria e la distrugge.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti.