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Tag: privatizzazioni

Meloni privatizza tutto! Ferrovie, porti, rete, Poste: il piano suicida della Thatcher de’noantri

“Pronti alla privatizzazione dei porti”; ecco: ci mancava. Pochi giorni prima era stato il turno delle Ferrovie: “FS, l’ad Donnarumma: quotazione? Allo studio apertura capitale”; fresco fresco di nomina, Stefano Donnarumma, per il suo debutto in società, ha deciso di giocarsi subito il poker d’assi e di fronte alla crème crème delle oligarchie parassitarie, riunite nel salotto buono di Cernobbio, ha presentato in anteprima la cuccagna del prossimo monopolio naturale pronto per essere spolpato. Nei mesi precedenti la stessa sorte era toccata alla rete delle telecomunicazioni, il sistema nervoso dell’economia del presente e, soprattutto, del futuro; un po’ come la rete elettrica negli anni d’oro del boom economico che infatti, nel 1962, venne nazionalizzata e – una volta sottratta alla rendita parassitaria dei prenditori – rese possibile consolidare il periodo di maggior sviluppo produttivo della storia di questo paese: roba da maledetti comunisti avrà pensato Giorgiona che, infatti, ha adottato la strategia opposta e la rete l’ha regalata a un fondo speculativo americano, alla faccia del patriottismo. A fine luglio, poi, sempre lo stesso fondo USA KKR ha confermato l’acquisto di un altro pezzo di Paese: il 25% di Enilive, la controllata di ENI da 15 miliardi di fatturato l’anno che gestisce una trentina di impianti di produzione di biometano in tutto il mondo, oltre a cinquemila stazioni di servizio in tutta Europa che servono ogni giorno oltre 1,5 milioni di clienti. D’altronde, produce dividendi: perché mai dovrebbero andare nelle casse dello Stato invece che nelle tasche dei soliti noti? Cosa siete, eh? Comunisti? Per sancire il sacrosanto diritto delle oligarchie di mettersi in tasca il grosso della ricchezza prodotta dal resto della società, la Meloni – nonostante sia costretta a fare i salti mortali per far quadrare i conti – è disposta a rinunciare anche a un bel po’ di soldi sicuri; come nel caso delle Poste, che quest’anno hanno registrato un miliardo di utili: l’occasione giusta per passare dal 65% al 35% delle quote. Come dice il nostro Alessandro Volpi fare cassa perdendo soldi, una vera e propria moda che sta tornando a diffondersi in tutto il vecchio continente.

Ferrovie dello Stato

Venerdì scorso, infatti, in Germania si è conclusa la vendita ai danesi di DVS da parte di Deutsche Bahn di Schenker, la controllata specializzata nella logistica: secondo Bloomberg si tratta “di una delle più grandi vendite di un’azienda statale in Germania da anni”; ovviamente, come sottolinea La Verità, Schenker “era l’unica società del gruppo in grado di portare un utile significativo: un miliardo l’anno”, come Poste. E, come in Poste, oltre al buco nelle entrate dello Stato ecco che si affaccia una bella ristrutturazione: “Nell’ambito dell’integrazione” riporta sempre Bloomberg “l’azienda danese prevede di tagliare tra 1.600 e 1.900 posti di lavoro in Germania”. Ed è solo l’antipasto: nonostante l’economia del vecchio continente stia andando completamente a scatafascio – tanto da far rivedere, anche a questo giro, al ribasso le previsioni sulla già più che striminzita crescita futura – la BCE ha deciso (di nuovo) di tirare il freno a mano sulla riduzione dei tassi d’interesse, che è l’occasione d’oro per i governi nazionali al servizio delle oligarchie di fare appello all’insostenibile costo degli interessi sul debito per riprendere a svendere in grande stile i gioielli di famiglia e aggravare, così, ulteriormente la crisi. Privatizzazione, infatti, è sinonimo di ristrutturazione e di tagli e, quindi, di perdita di quei pochi posti di lavoro retribuiti dignitosamente che rimangono, ma è anche sinonimo di rendita parassitaria, con le oligarchie che approfittano delle posizioni di monopolio per imporre al sistema produttivo una gigantesca tassa che, invece che a finanziare investimenti e servizi, finisce direttamente nelle loro tasche; e i risultati si vedono. Il Sole 24 Ore: Metalmeccanica, frenata più forte. Rischio stop per quattro imprese su 10. La Verità: Boom di fallimenti. La Germania sprofonda nel baratro. Repubblichina: La crisi tedesca rallenta l’industria italiana. Senza investimenti l’Italia non cresce. Ma prima di entrare nei dettagli di questo piano diabolico per trasferire quel pochissimo di ricchezza che ci rimane nelle tasche delle oligarchie e finire di devastare l’economia del vecchio continente, vi ricordo di mettere un like a questo video e consentirci così (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Giancazzo Giorgetti per regalare a Vanguard e a BlackRock un’altra infrastruttura strategica del Paese, ma per noi fa davvero la differenza.
Re Carlo inaugura il nuovo parlamento promettendo una legge per la ri-nazionalizzazione delle Ferrovie e l’istituzione della Great British Railway: il governo laburista di Keir Starmer, che si è insediato a Downing Street lo scorso 4 luglio dopo le elezioni più antidemocratiche della storia del Regno Unito, rappresenta gli ultimi mohicani della religione ultra-liberista. Eppure la realtà gli ha imposto di fare una cosa di sinistra: ri-nazionalizzare le Ferrovie . La storia recente delle Ferrovie britanniche, infatti, è forse in assoluto l’esempio più eclatante di come le privatizzazioni non mantengano mai nessuna delle promesse propagandate per imporle all’opinione pubblica: nonostante l’accetta che, inevitabilmente, si abbatte sulla forza lavoro – sia in termini di numeri che di diritti – il servizio non fa che peggiorare, mentre i costi per gli utenti aumentano e, paradossalmente, aumenta pure la spesa pubblica; gli unici che ci guadagnano sono una manciata di parassiti. E, infatti, tutti gli altri non vedevano l’ora di tornare indietro: secondo un sondaggio del 2018 condotto da BMG, soltanto il 19% dei cittadini britannici si sarebbe dichiarato contrario alla ri-nazionalizzazione. L’egemonia neoliberale, per quanto in declino, grazie alla macchina propagandistica è ancora in piedi, ma solo fino a quando le persone non sbattono il muso contro le sue conseguenze concrete: c’era arrivato, addirittura, anche Boris Neurone Solitario Johnson che, già due anni fa, aveva annunciato la ri-nazionalizzazione almeno di alcuni pezzetti. Ora ad opporsi è rimasto soltanto il Financial Times: La ri-nazionalizzazione delle Ferrovie non stimolerà la crescita del Regno Unito titola, ma si rende talmente conto di quanto sia impopolare questa posizione da appaltare l’articolo a un esterno a caso; Andy Bagnall, il direttore di Rail Partners, l’associazione di categoria degli operatori ferroviari privati del Regno Unito. Un caso paradigmatico del conflitto tra il 99% e l’1%.
Non è un caso, quindi, che anche da noi, quando s’è trattato di lanciare la bomba a mano di una possibile privatizzazione delle Ferrovie, si sia scelto di farlo davanti alla crème crème dell’1%: il Forum Ambrosetti di Cernobbio, l’annuale rappresentazione teatrale della subordinazione totale della nostra classe politica agli interessi di una manciata di oligarchi. La faccenda è talmente delicata che, per affrontarla, il neo-nominato Roberto Donnarumma ha fatto un rigirìo di parole che nei corridoi dell’Accademia della Crusca ha causato almeno una decina di trombosi cerebrali: “Apro a un’ipotesi di valutazione di una possibile apertura del capitale laddove possa essere vantaggiosa da un punto di vista finanziario per lo sviluppo degli investimenti dell’azienda”. Ora me la segno ‘sta formula, da riusare tutte le volte che non so che granchi prendere: apro a un’ipotesi di valutazione di una possibile apertura. Per quanto l’italiano sia raccapricciante, comunque, rispetto al contenuto è pura poesia: tradotto, infatti, significa (molto banalmente) cari amici oligarchi, la greppia dell’Italia in svendita arriverà presto anche ai binari. Ovviamente la scusa è sempre la solita: aumentare gli investimenti; è un meccanismo ultra-rodato, lo stesso identico adottato nel Regno Unito e, in generale, ogni volta che si vuole privatizzare qualcosa per arricchire l’1% sulla pelle del 99. Prima si tagliano scientemente gli investimenti pubblici, si trasforma il servizio pubblico in uno schifo intollerabile e, a quel punto, si tira fuori la carta della necessità di ricorrere a un po’ di capitali privati che purtroppo, però – come dimostra il caso britannico – non arrivano mai. Ora, siccome ormai i casi sono talmente tanti (e sempre identici a se stessi) che la gente, nonostante la potenza di fuoco della propaganda, se n’è abbastanza ammoscata, tocca prenderla un po’ larghina; e, quindi, l’idea è di procedere per step: invece di andare subito in borsa, intanto ci si limita ad “aprire a un’ipotesi di valutazione di una possibile apertura” ai capitali privati e poi il resto, piano piano, verrà da se. La quotazione, all’inizio, sempre col pubblico con quote di maggioranza e, poi, la vendita della maggioranza ai privati con la scusa del golden power che manterrebbe in mano pubblica il controllo sulle cose principali anche in assenza della maggioranza delle quote; peccato che poi quel golden power non venga esercitato mai, a meno che non si tratti di impedire a quei barbari dei cinesi di fare la stessa identica cosa che fanno gli oligarchi di tutti gli altri paesi.
Insomma: esattamente quello che, ad esempio, è successo con la rete autostradale o, appunto, a quello che sta succedendo con Poste. La prima parte da aprire al capitale privato sarebbe, ovviamente, quella più redditizia e, cioè, la gestione del servizio dell’alta velocità, un’operazione che, a onor del vero, non è tutta farina dell’ultima governo di svendi-patria e di Donnarumma; a mettere nero su bianco una prima roadmap verso la svendita delle Ferrovie italiane c’aveva pensato, infatti, l’ex amministratore delegato: si chiama Luigi Ferraris e indovinate cosa fa di mestiere oggi? Il fondo USA KKR l’ha chiamato alla guida di FiberCop, il gestore privato della rete in fibra dismessa da TIM col benestare del governo. I registi della svendita del Paese sono una combriccola che passa di poltrona in poltrona e fanno tutti capo a un unico centro di potere che, in particolare, si dipana attraverso l’oligopolio dei quattro colossi della consulenza: Price Waterhouse Coopers, Deloitte, Ernst & Young e KPMG, un esercito di oltre un milione e duecentomila consulenti sparsi su tutto il globo che passano con nonchalance dalle big corporation private alle istituzioni pubbliche, cercando di incastrare sempre i tasselli a favore delle oligarchie; la vera tecnocrazia transnazionale al servizio dell’1%. Ferraris, ad esempio, ha mosso i suoi primi passi in PriceWaterhouseCoopers che, tra le quattro, da un po’ di tempo a questa parte è la più chiacchierata in assoluto. Prima, infatti, è stata travolta dallo scandalo tasse in Australia; giocava su due tavoli: aiutava il governo a scrivere la riforma fiscale e poi passava le informazioni alle big corporation per aiutarle a eludere le tasse. La cosa divertente è che il ruolo di PWC come consulente di primo piano per il governo era stato il risultato di un altro processo di privatizzazione: l’Australia, infatti, a inizio anni ‘10 ha introdotto un tetto massimo al numero di dipendenti pubblici; da allora, le consulenze esternalizzate alle quattro grandi – e, in particolare, a PWC – è cresciuto nell’arco di 10 anni del 400%, fino a pesare sulle casse dello Stato per qualcosa come 20 miliardi l’anno. In questi anni i consulenti hanno gestito un’altra bella dose di privatizzazioni, a partire da quella dell’energia; e così PWC aiutava a svendere un pezzetto di infrastrutture strategiche e, poi, diceva alla nuova società privata cosa fare per eludere le tasse che avrebbe dovuto pagare sulla rendita garantita dalla gestione di un monopolio. Poi, ti serve altro? Una fettina di culo? Una fettina di culo è probabilmente l’unica cosa che, seguendo le indicazioni di Ferraris, forse (e dico forse) non dovremo garantire ai privati che ci fanno la grazia di mettere qualche soldino nella privatizzazione delle Ferrovie; il piano messo a punto da Ferraris, ricorda infatti La Repubblichina, “suggeriva al governo di confezionare un’esca per incoraggiare i privati a entrare nel capitale di Ferrovie. L’esca si chiama Rab, che sta per Regulatory asset base e che, in sostanza, fornisce un’assicurazione sulla vita ai privati disposti a travasare capitali propri in un’azienda pubblica come FS. Grazie al Rab, viene messo a punto un tasso di rendimento certo e i soci possono così contare su una remunerazione in linea con quella che avrebbero ottenuto per investimenti in settori con un profilo di rischio simile”. Siamo all’apoteosi del derisking: compito del governo è svendere le infrastrutture strategiche del Paese e garantire una rendita predeterminata a chi se le compra, una dittatura dei rentier pre-capitalistica vera e propria che, ribadiamo, non solo trasferisce ricchezza dal basso verso l’alto, ma – alla fine – impone anche all’intero sistema economico un pizzo che gli impedisce di investire nelle attività produttive e di crescere. E poi quando perdono la guerra si lamentano… Belle mi’ labbrate, maremmampestataladra. Fortunatamente, però, l’Italia è stretta e lunga e circondata dal mare; e quindi anche se svendiamo le Ferrovie, perlomeno potremo sempre fare affidamento sui porti, fino a che non privatizzano pure quelli: “Siamo a buon punto” ha affermato giovedì scorso, durante un incontro nella sede di Fincantieri di Genova, il viceministro delle infrastrutture Edoardo Rixi. “Appena il governo ci darà il via libera, procederemo”; anche qui il copione è sempre il solito: prima si è tirata la cinghia per decenni – ovviamente solo per gli investimenti produttivi. Per la greppia delle clientele le risorse non mancano mai; anzi, sono fondamentali: è solo grazie alla prebende che tieni tutti più o meno buoni mentre gli devasti l’attività economica che gli dovrebbe dare da vivere davanti agli occhi. Dopo decenni di sotto-investimenti, il servizio è una zozzeria tale che tutti chiedono a gran voce una bella riforma; la riforma, ovviamente, va sempre in senso aziendalista e privatistico perché – si sa – solo il mercato crea valore: quella riforma è arrivata nel 2015 per mano di Delrio, il ministro alle infrastrutture dei pessimi governi Renzi, prima, e Gentiloni, poi, che aveva come obiettivo introdurre intanto un paio di precondizioni necessarie per un’eventuale futura privatizzazione. La prima era abolire quell’organo (di odore quasi sovietico) che erano i comitati portuali, dove – orrore degli orrori – al fianco dei dirigenti e delle aziende sedevano addirittura i sindacati; la seconda era dotare queste nuove autorità portuali riformate di sempre maggiore autonomia che però, incredibile ma vero, non sempre hanno usato proprio al meglio: delle quindici autorità portuali rimaste dalle ventiquattro iniziali, ben quattro sono state commissariate. Nel 2021, poi, ecco un’altra chicchina: viene eliminato il cosiddetto divieto di cumulo e, cioè, quella regola pensata per evitare che un singolo operatore avesse a disposizione spazi eccessivamente ampi all’interno dello stesso scalo portuale e stabilisse, così, una condizione di monopolio (o almeno di semi-monopolio). “La cancellazione di questo divieto” scrive Roberto Bobbio sul Faro di Roma “ha favorito i grandi armatori e ha danneggiato le piccole imprese e anche la posizione dei lavoratori. In una situazione di concentrazione delle concessioni in mano di pochi, tutelare i diritti diventa ancora più difficile”. Fatto 30, ora si trattava di fare 31.
Ed ecco, così, che arriva la proposta shock della premiata ditta Rixi/Salvini: fondiamo una grande Megaporti SPA; inizialmente ci teniamo la maggioranza (sennò la gente si stranisce) e poi, alla prima manovra che arriva dove ci tocca raschiare un po’ il fondo del barile (e cioè, d’ora in avanti, letteralmente ogni anno) ne vendiamo un altro pezzo per volta. Come con l’ENAV, l’Ente Nazionale per l’Assistenza al Volo, che gestisce in regime di monopolio tutti i servizi alla navigazione aerea civile nello spazio aereo di competenza italiana, anche qui prima c’era un commissariato, quindi un pezzo dello Stato. Poi è diventato un’azienda autonoma, che però era sempre un ente pubblico non economico; poi è diventata un ente pubblico economico e, infine, una società per azioni. Anche qui, inizialmente, tutte le azioni erano del ministero dell’economia e delle finanze fino a quando, nel 2014, il governo Letta la quota in borsa, ma ne mantiene comunque il 51%; fino ad oggi che, per raschiare il barile, l’ipotesi è cederne un altro 20% e incassare qualche spicciolo, con la differenza che ENAV – alla fine – comunque è un giocattolino da quattromila dipendenti e un miliardo scarso di fatturato, e con un mandato piuttosto circoscritto: garantire la sicurezza dei voli. L’entità dei porti è un ordine di grandezza superiore; già oggi, nonostante gli scarsi investimenti e la gestione spesso più che discutibile, generano poco meno di 10 miliardi e hanno una quantità di funzioni infinita, tutte strategiche: dai porti italiani, ricordiamo, passa infatti il 60% dei seicento miliardi del nostro export e, come scrive la rivista di settore Logistica News, “La privatizzazione potrebbe comportare l’ascesa di operatori portuali dominanti che, una volta consolidati, potrebbero imporre tariffe e condizioni” mettendo a repentaglio “la competitività globale del sistema portuale italiano”. D’altronde, come ci viene spiegato continuamente ovunque dagli analfoliberali, sempre meglio questo che gli insostenibili sprechi che si registrano ovunque ci sia anche solo l’odore della gestione pubblica; e il viceministro Edoardo Rixi è uno che a combattere gli sprechi ci tiene sul serio, soprattutto da quando, nel 2019, il tribunale di Genova l’ha condannato a tre anni e cinque mesi per aver distribuito, in veste di capogruppo al consiglio regionale ligure, “diverse centinaia di migliaia di euro” ai colleghi per rimborsare “cene, viaggi, gite al luna park, gratta e vinci, ostriche e fiori”, tutte certificate con ricevute “con importi modificati a mano”: “Le pezze giustificative” continua l’ANSA “si riferivano a periodi festivi come Natale, Capodanno, Pasqua e Pasquetta, 25 aprile e primo Maggio, giorni per l’accusa sospetti per svolgere attività istituzionale”. Tre anni dopo Rixi verrà assolto in via definitiva perché “il fatto non sussiste”.
Fintanto che i politici garantiscono di combattere gli sprechi regalando le infrastrutture agli oligarchi, a Capodanno si possono ingozzare coi soldi nostri di tutte le ostriche che vogliono; ed ecco, così, che la svendita di quel poco che ci rimane procede a grandi passi, spinta all’unisono da una lunga serie di scelte prettamente politiche: dalla reintroduzione del Patto di stabilità alle politiche monetarie restrittive della Banca Centrale. Il tutto rigorosamente spacciato dalla propaganda come inevitabile e ineluttabile buonsenso; peccato che, casualmente, sia sempre e solo il buonsenso dell’1% che detiene anche gli stessi mezzi di informazione. Per organizzare la resistenza a questa ennesima rapina organizzata, abbiamo bisogno di un mezzo di informazione tutto nostro che, invece che agli interessi delle oligarchie, dia voce a quelli del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Gentiloni

8ORE – Sanità’ tra privatizzazioni, tagli ed esternalizzazione: dove finisce il diritto alla salute?

Oggi per la rubrica 8ORE, i nostri Francesca e Gabriele intervistano Margherita e Daniela, due dipendenti dell’ospedale San Raffaele di Milano esponenti del sindacato CUB che ci parlano delle storture nella loro realtà specifica, che sono però ormai specchio di problematiche più generali inerenti la sanità lombarda e, più in grande, quella nazionale. Tra tagli, precarizzazione, esternalizzazione e privatizzazioni, che fine ha fatto il diritto alla salute dei cittadini? In che condizioni si trova il nostro servizio pubblico? I dipendenti ospedalieri sono realmente messi nelle condizioni di lavorare dignitosamente ed efficacemente per i propri pazienti? Cerchiamo di farci un’idea insieme. Buona visione

#Sanità #malasanità #DirittoAllaSalute

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

L’AMORE DI DAVOS PER BITCOIN: se truffare i pensionati è l’ultima speranza del capitalismo

Ricostruire la fiducia”: questo è il titolo – e l’obiettivo – dell’edizione 2024 del World Economic Forum di Davos che è iniziata ieri, ma potrebbe essere più complicato del previsto; sul tavolo, in particolare, 3 temi piuttosto complicatini.
Il primo è l’intelligenza artificiale: un’indagine annuale sui rischi pubblicata mercoledì dal WEF, infatti, indica la disinformazione guidata dall’intelligenza artificiale come il pericolo più grande nei prossimi due anni; si parte malino, diciamo. Il tema della disinformazione legata all’intelligenza artificiale, infatti, puzza di arma di distrazione di massa da mille miglia di distanza; d’altronde, non dovrebbe sorprenderci: affrontare le vere criticità dell’intelligenza artificiale – invece che questa fuffa da editoriale de La Repubblichina e da inchiesta de l’Internazionale – infatti potrebbe non essere esattamente nell’interesse delle oligarchie che il forum vuole rappresentare. Come ogni grande rivoluzione tecnologica, infatti, l’intelligenza artificiale può rappresentare davvero un’opportunità gigantesca, ma solo a patto che venga governata e gli vengano messi una lunga serie di paletti che vanno contro l’interesse economico immediato di chi detiene il mezzo di produzione; in caso contrario, non si può tradurre in nient’altro che un’altra gigantesca opportunità per chi ha più quattrini di concentrare ulteriormente nelle sue mani sia il potere economico che quello politico, a discapito degli interessi del 99%, e più è potente e dirompente la rivoluzione tecnologica e più il rischio è grande. Qui si tratta solo di capire se tutte le speculazioni sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale sono hype per gonfiare la bolla speculativa dei titoli delle aziende del settore o se sono reali e, una volta tanto, la bolla speculativa potrebbe essere il male minore.
Il secondo tema sul tavolo è quello del gigantesco debito che negli ultimi anni hanno accumulato i paesi in via di sviluppo: “Oggi” ricorda Deutsche Welle, infatti “3,3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono di più in interessi sul debito che in educazione e sanità”. Ho come l’impressione che a Davos abbiano la soluzione magica: privatizzare tutto; d’altronde, c’è chi s’è portato avanti. Venerdì scorso, infatti, è stata ufficializzata un’acquisizione che rischia di cambiare per sempre il mondo dell’asset manager capitalism, il capitalismo contemporaneo dove i giganti della gestione patrimoniale si comprano tutto il pianeta con i nostri quattrini: per la modica cifra di 12,5 miliardi, infatti, BlackRock si è comprata Global Infrastructure Partner; “L’accordo” titola enfaticamente il Financial Times “creerebbe la seconda più grande azienda infrastrutturale del mondo e scuoterebbe gli investimenti del mercato privato”. “Con oltre 100 miliardi di dollari di patrimonio gestito” infatti, Global Infrastructure Partner “è il più grande gestore infrastrutturale indipendente in termini di asset gestiti a livello globale”. Avete presente quando parliamo di privatizzazione degli asset strategici dei paesi a favore di fondi privati? Ecco: Global Infrastructure Partner è il falco numero 1 al mondo; s’è comprato l’aeroporto di Gatwick, quello di Edimburgo, il porto di Melbourne e pure la nostra Italo e ora si è posizionata in pole position per la grande cuccagna della transizione ecologica, dove l’occasione d’oro della crisi climatica mischiata al mito del primato dei privati ha creato quel mostro distopico che Daniela Gabor definisce l’era del de-risking: gli Stati ci mettono i soldi dei contribuenti e i privati incassano, senza rischio.

Daniela Gabor

Ma il più importante di tutti è il terzo punto: il rallentamento della crescita economica globale; la Banca Mondiale, infatti, ha recentemente dichiarato che con il 2024 si chiuderà il quinquennio con la crescita più bassa degli ultimi 30 anni. Le concause sono tante – a partire dalla crisi pandemica – ma ce n’è una che domina incontrastata: siamo nel bel mezzo di quella che Vijay Prashad definisce la Terza Grande Depressione del capitalismo Globale, e qui la dialettica tra le oligarchie sul che fare si fa già più interessante. L’incredibile concentrazione di ricchezza nelle mani di pochissimi attori alla quale abbiamo assistito negli ultimi 30 anni, infatti, poggia su due gambe: da un lato c’è l’economia reale; con la globalizzazione neoliberista i capitali hanno avuto la possibilità di andare in giro per il mondo alla ricerca delle delocalizzazioni che gli garantissero i margini di profitto migliori e, siccome le merci che produci poi le devi pure vendere, la precondizione era che le rotte commerciali fossero sicure, e a tenerle sicure ci pensavano gli USA, l’unica superpotenza globale rimasta dopo il crollo del mondo sovietico. Ora, come dimostra la crisi del Mar Rosso – dove l’azione dell’esercito di uno dei paesi più poveri del mondo è bastata a scatenare il panico sul traffico commerciale – gli USA, in declino relativo, quella sicurezza non sono in grado di garantirla più; la pax americana, infatti, non era gratis: presupponeva un ordine internazionale dove gli USA dominano e gli altri possono accompagnare solo. E di accompagnare solo ormai il resto del mondo si sarebbe anche un po’ strarotto i coglioni.
L’altra gamba del dominio globale delle oligarchie, invece, è più in salute che mai: è lo schema Ponzi della speculazione finanziaria, un mondo di bolle. Ora, le due cose a lungo hanno viaggiato a braccetto: grazie alle delocalizzazioni e alla sicurezza del commercio globale, le oligarchie incassavano il loro taglieggio sull’economia reale e sulla produzione, e una bella fetta la reinvestivano nelle bolle speculative; una pacchia fino a che economia reale e bolle speculative non hanno cominciato a entrare un po’ in conflitto tra loro. Per continuare a sostenere le bolle speculative, infatti, c’era bisogno che il capitalismo finanziario USA consolidasse il suo dominio su tutto il resto del globo; gli investimenti nell’economia reale invece – contro le aspettative delle oligarchie stesse, che sono più brave a fare quattrini che non a capire cosa succede davvero al di fuori delle loro conventicole – spingevano esattamente in direzione opposta. Passo dopo passo, in mezzo a mille contraddizioni, ponevano le basi materiali di quel nuovo ordine multipolare che ora chiede a gran voce di essere riconosciuto, mettendo a repentaglio proprio quel dominio incontrastato USA necessario per garantire che le bolle continuino a gonfiarsi a dismisura e non esplodano.
Ecco allora che all’interno del grande capitale maturano strategie e posizioni molto diverse, anche opposte: da un lato, appunto, l’interesse a mantenere in vita la globalizzazione delle catene del valore e delle rotte commerciali, scendendo a compromessi con i paesi sovrani del Sud globale che rivendicano il posto che gli spetta nel nuovo mondo multipolare, dall’altro l’interesse del capitale completamente finanziarizzato, che della produzione e delle rotte commerciali se ne sbatte allegramente il cazzo; ovviamente queste due tendenze non vanno viste tipo tifo calcistico – Musk e Buffett da una parte e Larry Fink e Jamie Dimon dall’altra, per dire. Sono due tendenze presenti entrambe, in qualche misura, in ogni grande concentrazione di capitale, che mescola sempre interessi legati all’economia reale e al commercio e interessi legati alla speculazione finanziaria; questa commistione nel capitalismo contemporaneo è sempre esistita, a partire dalla fine dell’800 e cioè dall’era – appunto – dell’affermazione dei grandi monopoli e del capitalismo finanziario anticipato già da Marx e poi descritto magistralmente da Hilferding. Allora però, alla resa dei conti, il rapporto gerarchico tra le due sfere era preciso; la finanza, tutto sommato, era uno strumento della produzione e questo implicava una cosa precisa e fondamentale: anche le oligarchie, per arricchirsi, avevano bisogno della crescita economica, che poi è il motivo per il quale quando arrivava la Grande Depressione – come a fine ‘800 e negli anni 30 del secolo scorso – la via di uscita dalla crisi si cerca proprio nel rilancio dell’economia reale attraverso gli investimenti produttivi e l’innovazione industriale e tecnologica, anche a costo di riconoscere al mondo del lavoro qualche diritto in più.

Documento sulla bolla dei tulipani

Ora quel rapporto gerarchico sembra essere completamente saltato per aria; accumulazione di ricchezza finanziaria e crescita economica sembrano essere completamente disaccoppiate, spesso addirittura in contrapposizione: meno cresce l’economia reale, più le oligarchie si arricchiscono. Le bolle speculative non sono più semplicemente un’amplificazione, per quanto ingiustificata nelle sue dimensioni, di qualcosa che avviene realmente nell’economia reale, non sono più i tulipani olandesi che nel ‘700 avevano raggiunto quotazioni folli. Vivono di vita propria: sono giganteschi schemi Ponzi. Ma c’è un problemino: gli schemi Ponzi, prima o poi, esplodono e dietro lasciano solo cenere, a parte per quelli che – nel frattempo – sono usciti dallo schema in anticipo con il malloppo. La dialettica, tutta interna alle oligarchie globali, tra team finanziarizzazione e team globalizzazione commerciale quindi può essere vista anche in questi termini: uno scontro tra chi vuole lucrare sull’economia globale ancora a lungo (e quindi auspica che l’economia globale non collassi) e chi invece, diciamo, ha una prospettiva temporale un pochino più limitata e punta molto più semplicemente ad arraffare tutto l’arraffabile mentre tutto gli crolla attorno proprio grazie a lui. Chi avrà la meglio? A giudicare da questa notizia, la partita potrebbe essere decisa a tavolino in partenza: “La SEC approva i primi ETF spot su bitcoin per dare una spinta ai sostenitori delle criptovalute”; sembra una supercazzola, purtroppo invece ha perfettamente senso ed è un disastro. Dopo circa 10 anni di resistenza, infatti, la Securities and Exchange Commission americana – l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza delle borse valori – ha autorizzato l’emissione di Exchange Traded Fund, di fondi scambiati in borsa, legati al valore del bitcoin.
Gli Exchange Traded Fund sono fondi di investimento il cui andamento ricalca l’andamento del valore di un altro bene – in questo caso, appunto, i bitcoin: sostanzialmente, comprando le azioni di uno di questi fondi il valore del tuo investimento avrà lo stesso identico andamento del bene o dell’indice di riferimento; insomma, è esattamente come se ti comprassi bitcoin ma senza tutte le menate legate a comprarsi bitcoin, poi custodirli da qualche parte, e poi eventualmente rivenderli – una serie di complicazioni che non solo hanno tenuto alla larga molti investitori un po’ agé e scettici ma, soprattutto, hanno tenuto alla larga gli investitori istituzionali, come ad esempio il tuo fondo per la pensione integrativa o il tuo fondo sanitario.
Ma perché è così devastante questa notizia? Per i più moderati, appunto, semplicemente perché i bitcoin sono uno schema Ponzi: è quello che, ad esempio, sostengono da sempre Nouriel Roubini ma, soprattutto, William Quinn, storico dell’economia all’università di Belfast e uno dei principali esperti al mondo di storia delle bolle finanziarie, che ricorda come “Tutte le bolle passate che ho studiato, coinvolgevano comunque un qualche asset con una qualche utilità e al quale era associato un flusso di denaro”; “Storicamente” continua Quinn “un asset finanziario senza queste caratteristiche e fondato esclusivamente sul marketing sarebbe stato considerato una frode” e in particolare, appunto, una frode alla Ponzi che funziona così: io ti convinco a darmi i tuoi quattrini promettendoti profitti da capogiro – ma in realtà questi investimenti che generano questi profitti da capogiro non esistono – e quando mi chiedi di restituirti capitale e interessi io li vado a prendere dai soldi che, nel frattempo, mi hanno dato altri investitori, fino a che a chiedermi di restituire capitale e interessi maturati non siete in troppi e i capitali dei nuovi investitori non bastano più, e tutto salta per aria. Che – secondo il famoso scienziato informatico brasiliano Jorge Stolfi – è esattamente come funziona il bitcoin, dove:
1 – gli investitori acquistano aspettandosi profitti;
2 – questa aspettativa è sostenuta dai profitti di coloro che nel frattempo hanno già rivenduto incassando buoni profitti;
3 – per sostenere questi profitti, non esiste nessuna fonte esterna: i soldi provengono tutti solo da nuovi investitori;
4 – gli operatori si portano via gran parte dei soldi.
“Tutto questo è senz’altro vero” scrive Robert McCauley della Oxford University sul Financial Times “ma nel definire bitcoin uno schema Ponzi, i critici sono probabilmente troppo gentili”; secondo McCauley, infatti, in uno schema Ponzi il grosso del capitale viene investito in asset che un valore ce l’hanno. Ovviamente, quando il meccanismo scoppia gli investitori devono rinunciare ai profitti che erano stati garantiti, e anche una fetta del capitale, nel frattempo, solitamente è stato fregato da chi lo gestiva. Ma un po’ di quegli asset comunque esistono sempre e, quindi, possono essere venduti e un po’ di quattrini si possono recuperare: nel caso del più grande schema Ponzi di sempre ad esempio – quello di Bernie Madoff – dei 20 miliardi investiti ne sono stati comunque recuperati 14; nel caso di bitcoin, invece, di asset che hanno un qualche valore oltre al bitcoin stesso non ce n’è e quindi, nel caso un bel giorno qualcuno per qualsiasi motivo perdesse la fiducia nel bitcoin e il suo valore crollasse, non ci sarebbe niente da vendere per recuperare un po’ di quattrini.

Bernie Madoff

Ora, ovviamente, fare tanto i moralisti su queste cose lascia un po’ il tempo che trova: si gioca ai cavalli, si comprano i gratta e vinci, si potrà pur scommettere in qualche frazione di bitcoin, no? Io poi, personalmente, ne posso parlare solo bene: una volta, per fare un’inchiesta per Report, sulle criptovalute ci ho investito 500 euro per vedere in prima persona l’effetto che fa; devo dire, tutto sommato, discreto: quando li ho rivenduti l’anno dopo il valore era più che raddoppiato, e se avessi avuto giusto un anno e mezzo di pazienza in più avrei guadagnate 6 volte tanto. Se è uno schema Ponzi, o anche peggio, bisogna ammettere che ad oggi ha funzionato benino ed è diventato un giochino da poco meno di mille miliardi di capitalizzazione – più di Tesla e quasi il doppio di TMSC, il più grande produttore di chip al mondo – ma senza macchine e senza chip. Ma pensare che dei fondi istituzionali usino i soldi delle pensioni per comprare ETF bitcoin è oltre la peggiore delle distopie; eppure, come ripete continuamente il nostro caro Alessandro Volpi, il massacro del welfare e l’impoverimento generalizzato di chi campa del suo lavoro costringerà i fondi istituzionali a provare a tenere in piedi il potere d’acquisto delle pensioni puntando sugli investimenti che, apparentemente, garantiscono i dividendi più succulenti, nascondendo i rischi.
Fino a che non salterà per aria tutto. E a noi di fare per accelerare il declino ogni tanto viene pure da essere felici del fatto che possano fare tutto questo con la complicità di media e politici da passeggio vari; poi, però, ci torna un piccolo rigurgito di dignità e pensiamo che, di fronte a tutto questo, come minimo serve un vero e proprio media che non si faccia abbindolare dagli schemi Ponzi delle oligarchie votate al declino e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Larry Fink

Come la Germania è diventata l’emissaria di Wall Street – ft S. FassinaFassina provvisorio

L’ennesimo governo di amministratori coloniali, del tutto indistinguibile da quelli che l’hanno preceduto, ha deciso di farci un bellissimo regalo di Natale e coronare così, in modo esemplare, un lungo anno passato a fare per accelerare il declino; l’ok definitivo alla reintroduzione del patto di stabilità riformato a chiacchiere ma del tutto identico a quello vecchio nella sostanza, è l’ennesima prova di coraggio di una maggioranza di governo tutta chiacchiere e distintivo: feroce e determinata contro i più deboli – dai percettori del reddito di cittadinanza ai bambini di Gaza – e docile come una Fornero qualsiasi con i più forti anche quando, tutto sommato, questi forti – da Washington a Bruxelles – così forti non sembrano esserlo ormai nemmeno più di tanto, e chiunque abbia quel minimo di schiena dritta da spingerlo a provare a dire la sua, alla fine si fa beatamente li cazzi sua senza pagare dazio – dall’Ungheria di Orban alla Turchia di Erdogan, passando dall’Arabia di Bin Salman.
Ecco. Tra le altre cose, il 2023 per noi italiani passerà alla storia esattamente per questo: l’anno in cui si ufficializzò il fatto che, rispetto all’Italia, la Turchia, l’Ungheria, l’Arabia Saudita (ma anche il Niger o il Burkina Faso e chi più ne ha più ne metta) tutto sommato sono più indipendenti e sovrani e, quindi, anche democratici. La firma italiana al nuovo patto di stabilità, ovviamente, era ampiamente scontata, tant’è che per scontata l’abbiamo sempre data anche noi di Ottolina e tutti i nostri ospiti, nessuno escluso. Come d’altronde era ampiamente scontata l’altra pagliacciata suprema: la bocciatura del MES che, ovviamente, è del tutto sacrosanta – intendiamoci – ma che, altrettanto ovviamente, di fronte all’enormità del ritorno del patto di stabilità si riduce a poco più di un’arma di distrazione di massa scientificamente preparata dalla propaganda fintamente antisistema dell’alt right che, per mesi e mesi, ha parlato del dito e non della luna (molto banalmente perché è quello il motivo per cui è stata inventata): come dice sempre il Nencio, politicizzare le puttanate e gettare nel dimenticatoio tutto quello che, invece, pesa eccome.
E un bell’aiutino, come sempre, è arrivato dai maestri della svendita della patria all’invasore straniero: gli analfoliberali, che hanno fatto di tutto per trasformare agli occhi dell’opinione pubblica questo governo di patetici chiacchieroni inconcludenti in coraggiosi difensori degli interessi nazionali. L’Italia del 2023 ci lascia così l’immagine di questo potente 4 3 3 di zemaniana memoria, con il trittico d’attacco che vede – appunto – al centro gli attuali amministratori coloniali, e sulle due fasce l’alt right da un lato e gli analfoliberali dall’altro a fornire assist su assist. Una micidiale macchina da gol, solo che invece che mirare alla porta dell’avversario, mirano direttamente alla nostra.
Il livello imbarazzante del dibattito politico, tutto interno a fazioni sovrapponibili del partito unico degli affari e della guerra, rischia di distrarci dalla reale portata di quanto avvenuto in questi ultimi giorni del 2023; il ritorno dell’austerity nell’Unione Europea è un fatto di portata gigantesca, in grado di spiegarci quanto profondamente siano cambiati i rapporti di forza all’interno dell’Occidente collettivo dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. Se la prima ondata di austerity, infatti, era di matrice tedesca e aveva come finalità il consolidamento delle gerarchie all’interno dell’Unione Europea – con la Germania al centro e tutti gli altri intorno che potevano accompagnare solo e fare da sub – fornitori a basso costo per permetterle di continuare a macinare profitti senza mai investire manco mezzo euro – l’austerity che ci aspetta, con il beneplacito dei sovranisti de noantri, è un’austerity nuova di zecca, targata direttamente Wall Street. Obiettivo: obbligare i governi a privatizzare quello che rimane ancora da privatizzare e che, fino a poco tempo fa, rappresentava la caratteristica fondamentale del modello europeo. Se nel mondo anglosassone, infatti, negli ultimi 15 anni è stato definitivamente portato a termine il più grande processo di concentrazione dei capitali nelle mani di una ristrettissima oligarchia mai visto nella storia – a partire dalla triplice dell’asset management composta da BlackRock, Vanguard e State Street – l’Unione Europea aveva bisogno di mettersi in pari rapidamente e, da vera patria dell’ipocrisia qual è, non poteva che farlo reintroducendo la solita vecchia ingegneria istituzionale spacciata come tecnica e che, invece, è pura lotta di classe dall’alto contro il basso; un processo che rende strutturale la sottomissione dell’Europa agli USA non più solo dal punto di vista politico e militare, ma anche economico e finanziario.
Insomma: mentre in tutti gli angoli del mondo le ex colonie alzano la testa e mettono fine al Washington consensus, all’interno dell’Occidente globale le vecchie potenze coloniale vogliono provare l’ebbrezza di trasformarsi definitivamente in protettorati, e utilizzano l’arma dell’austerity per imporci di aderire a quello che Daniela Gabor chiama il Wall Street Consensus e, in tutto questo, l’Italia – grazie alla dimensione complessiva della sua economia e con la scusa del livello del suo debito – diventa la preda per eccellenza, il vero laboratorio della nuova svolta autoritaria e neofeudale del capitalismo occidentale che prova a serrare le fila per opporsi alla storia, a partire dalla svendita di Poste Italiane. Buon Natale […contenuto non disponibile].

Durante tutto questo lunghissimo e intensissimo anno, noi di Ottolina Tv, le decine e decine di volontari che ci gravitano attorno, le centinaia di ospiti che hanno contribuito al nostro lavoro e le centinaia di migliaia di persone che hanno guardato, condiviso, discusso e anche criticato i nostri contenuti, abbiamo lavorato per mettere a punto gli strumenti che ci permettono di capire quali sono gli interessi concreti in ballo e in che direzione vanno al di là delle vaccate della propaganda, delle false illusioni delle anime belle e del vocìo inconcludente dei vomitatori d’odio di professione; anticipando gli eventi e sforzandoci continuamente di inserirli in un contesto più complessivo, abbiamo dimostrato, giorno dopo giorno, fatto dopo fatto, come il grosso degli eventi più significativi che la propaganda ci vorrebbe rivendere come un fiume in piena di elementi tutti scollegati tra loro non sono frutto del caso o dell’arbitrio, ma seguono tutti una logica piuttosto coerente e razionale: il tentativo estremo di una ristrettissima classe sociale di ultraprivilegiati di impedire al resto dell’umanità di riprendere in mano il suo destino e partecipare attivamente alla costruzione di un Mondo Nuovo.
Dal profondo del nostro cuore, un ringraziamento enorme a tutti quelli che hanno reso possibile questa bellissima avventura e un auspicio: che questa avventura non sia che un primissimo passo e che, con l’aiuto di tutti, Ottolina Tv, giorno dopo giorno, riesca davvero a diventare il primo media che dà al 99% una voce abbastanza grossa da farsi sentire in tutti gli angoli del paese, e oltre.

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

Il delirio degli svendipatria: se il Governo dei Finto-Sovranisti Svende l’Italia agli Oligarchi

Cosa si può vendere per tornare a crescere”

No, giuro. Non è la provocazione di qualche mattacchione. E’ proprio la citazione testuale di un titolo vero di giornale, e non su un giornaletto della parrocchia ma su Libero, che magari vi farà pure ridere ma non dovrebbe: per quanto sia imbarazzante, rimane comunque una delle testate di riferimento della maggioranza di governo che, mentre voi ridete, ha messo il turbo per l’ennesima ondata di svendite a tutto tondo dei gioielli di famiglia alle solite vecchie oligarchie finanziarie che, negli ultimi decenni, ci hanno ridotto in miseria.

La guerra senza frontiere che gli USA, con la complicità delle istituzioni europee al servizio delle sue oligarchie, hanno ingaggiato contro l’economia del vecchio continente, sta dando i suoi frutti: recessione, corsa al rialzo dei tassi di interesse e politiche monetarie ultra-restrittive delle banche centrali, indipendenti dai Governi, ma succubi delle oligarchie finanziarie, stanno facendo saltare tutti i conti. A breve l’Italia dovrà rifinanziare qualcosa come poco meno di centocinquanta miliardi di debito e a comprarlo non ci sarà più la BCE; gli acquirenti ce li dovremmo andare a trovare sul mercato, che è il nome di fantasia che la propaganda neoliberista ha dato a quel manipolo di oligarchi che determinano da soli e senza che nessuno abbia la volontà di mettergli dei paletti, l’andamento dell’intera economia del nord globale.

Per convincerli, li dovremo riempire di quattrini: circa il 5% di interessi, se tutto va bene. Dieci volte quello che pagavamo alla BCE. Le oligarchie, così, si intascheranno tutto quello che abbiamo risparmiato, smantellando senza ritegno lo stato sociale che però – almeno questo è quello che cercano di spacciarci – non è abbastanza e quindi, per far finta di provare a tenere i conti in ordine, dovremmo accollarci un’altra bella overdose di sacrifici che toccheranno soltanto a noi.

I multimiliardari, infatti, è meglio lasciarli perdere, visto che abbiamo passato gli ultimi 30 anni a cucirgli addosso leggi ad hoc che gli permettono, appena anche solo si comincia a parlare di tasse e di redistribuzione, di portare i capitali dove meglio credono senza mai pagare dazio. Ed ecco quindi che per fare cassa, la maggioranza che è andata al governo grazie alla retorica sulla patria e il sovranismo, la patria si prepara a svenderla a prezzi di saldo, quasi fosse un Giuliano Amato qualsiasi, e per giustificarsi ha avviato una campagna ideologica a suon di pensiero magico e fake news che in confronto il maccartismo era un onesto e genuino tentativo di ricercare la verità.

Davvero vogliamo permettergli di svendere quel poco che ci rimane senza battere ciglio?

In tempi di vacche magre, per far quadrare i conti, bisogna tagliare le spese e mettere mano ai risparmi. lo sanno bene padri e madri di famiglia”. Fortunatamente, adesso, lo ha imparato anche il governo, che finalmente si è posto l’obiettivo “di portare in cassa la bellezza di una ventina di miliardi per puntellare i conti pubblici, cominciare ad abbattere il debito e iniettare liquidità”.

Sembra il temino di un alunno un po’ zuccone per la prima verifica di economia della terza superiore verso metà degli anni ‘90, quando la nuova moda della religione neoliberista dominava incontrastata e in Italia ancora si faceva fatica a prevedere i disastri epocali che avrebbe causato, e invece è l’incipit di un articolone a tutta pagina di Libero di ieri; lo firma un tale Antonio Castro, che fortunatamente non avevo mai sentito nominare. Googlando, si trova questo: “Antonio Castro, cantante intrattenitore per eventi musicali”, il che giustificherebbe tutto.

E invece no: spulciando più a fondo, si scopre che è solo un omonimo, e che il nostro Castro invece non solo è un giornalista, ma addirittura il capo servizio economia di tutto il giornale.

E’ come se il direttore del centro Nazionale di metereologia e climatologia dell’aeronautica militare iniziasse un suo paper scrivendo che “non ci sono più le mezze stagioni”, o un direttore di un prestigioso dipartimento di antropologia scrivesse che “come tutti sanno, i neri hanno la musica nel sangue”.

L’equiparazione della politica economica di un Governo alla gestione di un bilancio familiare è la frontiera più estrema dell’analfabetismo economico che si è diffuso tra i ceti “intellettuali” in Italia, in particolare appunto a partire da fine anni ‘80; fino ad allora, nei paesi che hanno sconfitto da tempo l’analfabetismo di massa, nessuno si sarebbe azzardato ad affermare simili puttanate, e nei quarant’anni successivi, ovviamente, la realtà ha sistematicamente presentato il conto, smentendo in maniera plateale ogni singolo assunto derivante da queste leggende metropolitane inventate dagli oligarchi e diffuse dall’esercito dei loro utili idioti.

Come ormai sappiamo tutti benissimo, privatizzare e tirare la cinghia non aiuta in nessun modo a mettere in ordine i conti, ma finisce di devastarli; per mettere in ordine i conti, l’unico modo è far ripartire l’economia, e per far ripartire l’economia l’unico modo è aumentare quella che Keynes chiamava la domanda aggregata, e in particolare gli investimenti pubblici e i salari.

Ma allora perché è ripartita fuori tempo massimo questa campagna ideologica completamente campata in aria?

Semplice: come vi ripetiamo da mesi, costringere i paesi come il nostro, alla periferia dell’Europa e con i conti sempre in bilico, a svendere i gioielli di famiglia era la finalità ultima di buona parte delle assolutamente insensate scelte di politica economica perseguite negli ultimi anni senza distinzione da tutte le forze politiche, finti patrioti in testa. Ora è arrivato il momento di passare all’incasso: tra i gioielli di famiglia da svendere agli oligarchi, quei fini intellettuali di Libero in particolare ne hanno individuati due: la RAI e le Ferrovie. Non fa una piega. La privatizzazione delle ferrovie nel Regno Unito da decenni è il caso scuola probabilmente in assoluto più eclatante di come la privatizzazione dei monopoli naturali sia sempre, immancabilmente, una vera e propria rapina effettuata dalle oligarchie contro tutto il resto della popolazione. “La RAI”, invece, sottolinea Libero, “può oggi ingolosire le grandi società dei media internazionali affamate di contenuti”; e giustamente, se le grandi società internazionali sono golose e vogliono concentrare ancora di più i mezzi di produzione del consenso nelle mani di una manciata di oligarchi, chi siamo noi per impedirglielo?

Ma le aziende pubbliche strategiche sono solo una parte del pacchetto regalo che il governo degli svendipatria ha in serbo per le oligarchie finanziarie globali; c’è tutto un mondo di piccole e medie imprese da offrire in palio e anche qua ci siamo già portati un bel pezzo avanti.

Comprate e chiuse”, titola La Verità, “le aziende italiane in mano straniera. Negli ultimi 5 anni”, sottolinea l’articolo, “1000 imprese sono passate sotto controllo estero. Di queste, una su due è stata spolpata della propria tecnologia e poi lasciata morire o convertita in semplice filiale”. Le cifre ricordate dall’articolo, fanno letteralmente paura: negli ultimi 5 anni infatti, le aziende con sede in Italia ma con soci di maggioranza stranieri, sono aumentate di oltre il 25%, e oggi sono la maggioranza assoluta di quelle con oltre 250 dipendenti.

Per molte di queste”, sottolinea l’articolo, “il destino non è il rilancio, ma il saccheggio e poi la chiusura”; in particolare, dal momento che a fare shopping nella maggioranza dei casi non sono altri gruppi industriali, che cercano di raggiungere una maggiore efficienza attraverso l’integrazione e il raggiungimento di economie di scala. Afare shopping, il più delle volte, sono fondi speculativi e “la finanza”, sottolinea giustamente l’articolo, “è focalizzata sui risultati di brevissimo termine, ragiona in termini di trimestrali e spesso spinge le aziende a destinare i guadagni in primo luogo alla distribuzione dei dividendi o al riacquisto di azioni proprie per arricchire i soci, a dispetto degli investimenti in ricerca e sviluppo o ai miglioramenti di strutture e condizioni di lavoro”.

Gli esempi si sprecano: il più celebre, grazie alla cazzimma dei lavoratori coinvolti, è senz’altro quello della GKN di Campi Bisenzio, chiusa dal giorno alla notte dal fondo inglese Melrose, nonostante i conti in ordine e l’alto livello di competenza della manodopera. Stessa sorte per la Gianetti Ruote di Monza, caduta nella rete del fondo speculativo tedesco Quantum Capital Partner, che è salito alla ribalta delle cronache per aver licenziato in tronco tutti i dipendenti poche ore dopo la decisione del governo di togliere il blocco dei licenziamenti introdotto durante la fase pandemica.

A febbraio scorso”, ricorda l’articolo de La Verità, “il tribunale di Monza ha condannato Gianetti Ruote a pagare un risarcimento di 280 mila euro agli ormai ex suoi lavoratori, per non avere rispettato i tempi fissati dalla legge per la procedura di licenziamento”. Negli ultimi giorni invece è scoppiato il caso della Magneti Marelli di Crevalcore: era stata venduta a un fondo dagli Agnelli nel 2018, ovviamente a seguito della solita buffonata della garanzia del mantenimento dei posti di lavoro in Italia. Per acquistare l’azienda, il fondo, come accade sostanzialmente sempre, si era indebitato e poi aveva scaricato questo debito sui conti dell’azienda, azzerando gli investimenti proprio quando la transizione ai motori elettrici li avrebbe resi più necessari. Ora ovviamente il fondo piange miseria a causa del calo di affari dovuto alla imprevedibile transizione energetica dai motori a combustione a quelli elettrici, e a pagare il prezzo sono i 229 lavoratori e l’economia italiana tutta. Quel fondo si chiama KKR, “la macchina dei soldi” come lo definiva già nel 1991 in un bellissimo libro la giornalista investigativa americana Sarah Bartlett.

Negli anni, KKR è diventato sinonimo in tutto il mondo di spregiudicate operazioni di acquisto a debito, o leverage buyout, in grado di riempire le tasche degli azionisti sulla pelle dei lavoratori e dei territori che vengono sistematicamente depredati della loro ricchezza; ora, a breve KKR potrebbe diventare proprietario della rete di telecomunicazioni di TIM, con il pieno sostegno del governo.

Cosa mai potrebbe andare storto?

Ma l’aspetto ancora più paradossale è che, nel tempo, i governi che si sono succeduti su queste acquisizioni hanno cominciato a mettere il becco, ostacolandone alcune attraverso il famoso strumento del golden power. Peccato, l’abbiano fatto totalmente a sproposito: invece che opporsi agli acquisti predatori da parte dei fondi speculativi, infatti, si sono opposti ai pochi acquisti di natura veramente industriale, che invece che depredare il nostro tessuto produttivo, avrebbero potuto arricchirlo. Il motivo? A comprare, in quel caso, erano gruppi industriali cinesi, mentre i fondi speculativi battono tutti bandiere occidentali; amiamo così tanto i nostri alleati democratici che, pur di accordargli qualche privilegio, siamo disposti a sacrificare fino all’ultimo operaio.

Contro la ferocia predatoria dei prenditori della finanza, e contro le politiche suicide degli svendipatria, abbiamo bisogno di un media che sta dalla parte di chi la ricchezza la produce, e non di chi se ne appropria e la distrugge.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti.