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Tag: presidenziali

Gli USA spaccati: Kamala vuole la guerra – ft. Giacomo Gabellini

Oggi i nostri Giuliano e Gabriele hanno intervistato il sempre preparato Giacomo Gabellini attorno alle strategie messe in campo dai due diversi candidati alle presidenziali USA di novembre. Mentre sembra ormai solo questione di formalità la conferma della candidatura di Kamala Harris, Trump solleva problemi di legittimità attorno la sua figura. Mentre i Democratici puntano allo scontro attorno al mondo, i Repubblicani sembrano prediligere una strategia pragmatica che, nell’immediato, scaricherebbe i costi della difesa sui singoli scenari ai partner europei e asiatici. Buona visione.

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Kabala Harris: se la propaganda liberale spaccia una sicaria del capitale per un’icona progressista

Tutti pazzi per Harris (Repubblica); Kamala sprint (La Stampa); Una candidata per ridare energia (Il Manifesto); “Quella ragazzaccia indipendente che punta su donne e minoranze” (La Stampa) e che ora “può vincere”. Oooh! Finalmente agli analfoliberali è tornata un po’ di verve, quel tipico sorriso ebete stampato sul volto di chi campa di wishful thinking e di aperitivi accompagnati da stuzzichini esotici sulle terrazze parioline della grande bellezza. Ci mancava, perché ultimamente li vedevo un po’ depressini, così depressi da bersi addirittura “la storia di Biden rimbambito” che, come sottolineava ancora una decina di giorni fa un sempre più profetico Jacopo Iacoboni, non è altro che “propaganda russa assecondata stolidamente in Occidente” e cominciare addirittura a pensare che dopo che era fallito una specie di semigolpe giudiziario e, addirittura, un vero e proprio attentato, per Sleepy Joe forse le chance cominciavano a diventare scarsine ed era arrivata l’ora di dedicarsi ad attività più consone; voi ci ridete, ma mica è un dramma da poco: il loro pimpantissimo leader maximo aveva annunciato con enfasi l’uscita di scena prima di Assad e poi – addirittura – di Putin e ora invece, mentre Assad e Putin sembrano più in forma che mai, toccava ingoiare l’idea che ad uscire di scena fosse proprio lui. Destino ingrato…

Sleepy Joe durante un’attività consona

Fortunatamente, però, si è trattato di uno psicodramma passeggero; fatto fuori un Papa del culto analfoliberale, se ne fa un altro: ed ecco così che è bastato passare il testimone alla vice che ecco che torna tutta la carica di entusiasmo ingiustificato dei tempi migliori, di quando si sognava Trump in galera, la Siria in mano alle fazioni democratiche e progressiste dell’ISIS e il battaglione Azov al Cremlino. E poco importa che la Harris, da procuratore generale della California, infangava le indagini contro i poliziotti razzisti che facevano il tiro al piccione contro le minoranze etniche o che dava una mano all’ex segretario al tesoro dell’amministrazione Trump Steven Mnuchin (che contraccambiava finanziando la sua campagna): erano gli anni della grande crisi immobiliare e, con l’aiuto del governo federale, il braccio destro di quello che poi diventerà il presidente del popolo, Donald fofata Trump, si era comprato OneWest, una piccola banca regionale che aveva in pancia una montagna di mutui elargiti alla membro di volatile a persone che non avevano i requisiti per riuscire a ripagarli. La Federal Deposit Insurance Corporation, allora, garantiva a queste banche lauti risarcimenti per le loro perdite, ma solo a condizione che seguissero determinate procedure di pignoramento; la OneWest invece, a quanto pare, usava metodi più vicini ad Al Capone che a una banca ricompensata con soldi pubblici. Gli assistenti della Harris le hanno più volte sottoposto il caso invitandola ad aprire un’indagine, ma la Harris se n’è felicemente sbattuta i coglioni e poi ha fatto di tutto per infangare la faccenda: aveva altro a cui pensare – o meglio, a cui fare in modo di non pensare, che era ancora più difficile.
La Harris, infatti, è stata prima procuratore distrettuale a San Francisco e poi procuratore generale della California esattamente negli anni d’oro della costruzione dei grandi monopoli tecnologici. Era appena passata la grande crisi finanziaria del 2008, BlackRock e Vanguard si dovevano ancora affermare e il cuore pulsante del capitalismo oligarchico made in USA si era trasferito baracca e burattini nella Silicon Valley, dove stava trasformando un nuovo immenso mercato in un nuovo sistema feudale: il tecnofeudalesimo di cui parla anche Varoufakis; e la Harris era lì, ad assistere impassibile, anche quando Facebook si comprava prima Instagram e poi Whatsapp, senza che le venisse mai in mente di usare il suo potere per ostacolare la creazione di uno degli oligopoli più distopici dell’intera storia del capitalismo. Anzi, “Siamo una famiglia” affermava nel 2013 rivolta ai massimi manager di Google; e la famiglia si vede nel momento del bisogno: da allora i principali oligarchi della Silicon Valley sono sempre stati tra i massimi sponsor dell’ascesa politica della Harris e – anche a questo giro – non hanno fatto mancare il loro sostegno. Nell’arco di poche ore dall’annuncio della mancata ricandidatura di Biden, i comitati elettorali della Harris si erano già visti recapitare milioni su milioni di dollari da personaggi come Reid Hoffman, tra i fondatori di Paypal, di Linkedin e anche di OpenAI, tutte operazioni che ha condotto fianco a fianco del suo socio e fraterno amico Peter Thiel, l’ideologo multimiliardario dell’anarco-capitalismo che ha ispirato e allevato il vice di Trump JD Vance. Riusciranno – anche a questo giro – i nostri enfant prodige della propaganda analfoliberale a spacciare per progressista e alternativa al trumpismo un personaggio come la Harris, che del trumpismo condivide il 99,9% delle cose che contano davvero e si distingue soltanto per la posizione su alcune armi di distrazione di massa e per i gruppi di interesse ai quali deve rendere immediatamente conto? Prima di inoltrarci oltre nella storia oscura del nuovo angelo salvatore dell’analfoliberismo globale, vi ricordo però di mettere un like a questo video per permetterci, anche oggi, di combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi e (se ancora non lo avete fatto) anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche: a voi costa soltanto pochi secondi del vostro tempo, ma per noi che non abbiamo né Peter Thiel né Reid Hoffman in paradiso, fa davvero la differenza.

Kabala Harris

“Da bambina, non ho mai venduto biscotti degli Scout. Piuttosto, andavo in giro con una scatola del Fondo Nazionale Ebraico, per piantare alberi in Israele” (Kamala Harris, 2017, conferenza politica dell’AIPAC); prima di giocare allo sbirro buono in occasione dello sterminio dei bambini palestinesi a Gaza, per cercare di ingraziarsi il sostegno delle minoranze indignate di fronte alla complicità USA nei confronti del primo genocidio in diretta streaming, Kabala Harris non si era mai sottratta dall’ostentare tutto il suo sostegno incondizionato al regime di apartheid israeliano: “La prima risoluzione che ho co-sponsorizzato come senatore degli Stati Uniti” sottolineava enfaticamente nel 2017 davanti ai membri della potente lobby sionista dell’AIPAC “è stata quella di combattere i pregiudizi anti-israeliani alle Nazioni Unite e riaffermare che gli Stati Uniti cercano una pace giusta, sicura e sostenibile”. Nel 2016, infatti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva adottato una risoluzione storica che (finalmente) ammetteva che gli insediamenti israeliani sono una violazione del diritto internazionale; l’anno dopo, la compagna Harris – appunto – sostenne una risoluzione proposta dall’ultra-reazionario Marco Rubio che mirava a rimettere in discussione quella scelta. Marjorie Cohn è l’ex presidente del National Lawyers Guild, la storica associazione di avvocati, studenti di giurisprudenza e assistenti legali progressisti statunitensi e, dalle pagine di Consortium News, non le manda a dire: “La Harris” scrive “descrive se stessa come un procuratore progressista. Ma il suo curriculum dice tutt’altro.”; la Cohn ricorda “il rifiuto della Harris di consentire il test del DNA per un condannato a morte probabilmente innocente e la sua ferrea opposizione alla legislazione che avrebbe imposto al procuratore generale di indagare in modo indipendente sulle sparatorie della polizia”. Ma è solo la punta dell’iceberg: Branki Marcetic su Jacobin USA ricorda infatti come la Harris abbia incentrato la sua campagna per l’elezione al posto di procuratore sull’opposizione alla risoluzione che avrebbe messo fine alla cosiddetta legge dei tre colpi, una specialità tutta della progressista California dove, unico Stato nel paese, al terzo reato di default ti becchi l’ergastolo anche se si tratta di un reato da niente, una legge talmente oscena che, in quell’occasione, a scavalcare la Harris da sinistra fu addirittura il suo contendente repubblicano, che ne proponeva una riforma radicale. Marcetic ricorda anche come – prima di diventare, inspiegabilmente, paladina dei diritti delle donne – sempre da procuratore, aveva sostenuto con successo una legge federale che prevedeva un anno di carcere per i genitori dei ragazzini che marinavano frequentemente la scuola; e come esempio dei successi di questa legge, in una conferenza pubblica raccontò soddisfatta di come avevano messo in carcere una madre single e senzatetto che si destreggiava tra due lavori diversi. In un altro articolo, sempre su Jacobin, di nuovo Marcetic ricorda anche “come la Harris abbia rischiato di essere condannata per oltraggio alla corte per aver resistito a un ordine del tribunale di rilasciare prigionieri non violenti, che un professore di diritto ha paragonato alla resistenza del Sud agli ordini di de-segregazione degli anni ’50”, ma “L’insensibilità di Harris verso i poveri e gli impotenti” continua Marcetic “è stata pari solo alla sua simpatia per i ricchi e i potenti”: “Nonostante lo status della California come epicentro delle truffe di pignoramento” ricorda infatti Marcetic “la Mortgage Fraud Strike Force di Harris ha perseguito meno casi di frode nei confronti dei consulenti per le pratiche di pignoramento rispetto a molti procuratori distrettuali di contea”; “Mettendo da parte le differenze superficiali” conclude Marcetic “Biden e Harris sono essenzialmente lo stesso politico. Entrambi sono stati cronicamente dalla parte sbagliata della storia; entrambi hanno perseguito obiettivi crudeli e reazionari per gran parte della loro carriera al fine di portare avanti le proprie ambizioni personali; ed entrambi hanno l’abitudine di travisare le proprie convinzioni e i propri precedenti”.
Spinta dall’onda del Black Lives Matter infatti, la Harris, a un certo punto, ha fatto di tutto per provare a ripulire il suo curriculum e ergersi paladina della lotta contro il razzismo che infesta le forze di polizia, ma è un po’ come quando il losco palazzinaro miliardario Donald fofata Trump prova a ergersi a paladino dei working poors: lo dimostra, ad esempio, una brillante inchiesta giornalistica del Daily Poster, che ha scoperto che quando la Harris era procuratore generale della California, ha evitato scientificamente di intestarsi l’indagine sull’assassinio di due uomini disarmati, nell’arco di pochissimo tempo, da parte dello stesso identico agente di polizia; ha preferito lasciare l’incarico al procuratore distrettuale di Orange County. Peccato che, come ricorda Walker Bragman sempre su Jacobin USA, fosse già stato “coinvolto in uno scandalo di cattiva condotta e fosse noto per aver sempre tenuto con ogni mezzo necessario gli agenti fuori dai guai”: “All’epoca” ricorda Bragman “la Harris dichiarò che il suo ufficio avrebbe esaminato i risultati dell’ufficio del procuratore distrettuale, ma il Daily Poster non trovò prove che una seria revisione del rapporto del procuratore distrettuale avesse mai avuto luogo. L’ufficiale di polizia di Anaheim, Nick Bennallack, rimase in servizio per anni e continuò a uccidere”. D’altronde non è un curriculum che è in grado di impensierire i grandi donatori, che sono abituati a digerire ben altri rospi, soprattutto dal momento che negli ultimi mesi la Harris, per garantire che la narrazione vagamente socialdemocratica adottata da Biden ultimamente era solo una mossa propagandistica e che loro rimangono al totale servizio delle oligarchie finanziarie USA, non ha lesinato gli sforzi; l’offensiva di fascino l’hanno ribattezzata gli addetti ai lavori di Wall Street e vale a dire la fittissima agenda di incontri testa a testa col gotha del capitalismo USA che ha impegnato la Harris giorno e notte da almeno un anno a questa parte, durante il quale non s’è fatta sfuggire niente, dal CEO di JP Morgan Jamie Dimon, che in passato aveva elogiato le politiche di Trump, agli amministratori delegati di Visa e American Express, dai boss di Big Pharma ai tycoon dei media.
A provare ad intercettare un po’ di sostegno popolare, invece, ci pensa la retorica analfoliberale che, come sempre accade sotto elezioni, riesce a rimettere insieme sotto l’insegna del pericolo democratico (rappresentato dalla destra) le fazioni più disparate, dal Foglio al Manifesto, che ieri ha dato il meglio di sé: “Poco più di 100 giorni e Kamala Devi Harris sarà la 47esima presidente degli Stati Uniti” annuncia euforico Guido Moltedo nell’editoriale in prima pagina; “Non solo una bella speranza” sottolinea, ma ormai “uno scenario più che possibile”. Ed è solo l’antipasto: all’interno del giornale, Giovanna Branca confeziona un’intervista alla direttrice editoriale “della storica testata della sinistra americana Mother Jones” che sembra, in tutto e per tutto, una caricatura del pensiero woke prodotta da qualche comico dell’alt right di terz’ordine; facendo tabula rasa del pessimo curriculum da procuratore della Harris, la Branca ricorda con entusiasmo come “nel suo articolo la Harris mette l’accento su quando da procuratrice distrettuale di San Francisco rifiutò di chiedere la pena di morte per l’assassinio di un poliziotto”. “Credo che questo indichi un filo rosso nella sua carriera” risponde l’intervistata “in cui si incontrano i suoi doveri nel law enforcement e il movimento per un giusto sistema penale”: gli analfoliberali son fatti così, si accontentano di poco e quando non c’è nemmeno quel poco, se lo inventano; e – così – danno il loro contributo quotidiano per tenere in piedi questo baraccone che ci presenta come alternativi tra loro un palazzinaro megalomane e uno sceriffo a libro paga dei tecno-feudatari.
L’unica cosa certa è che anche tutti questi colpi di scena, alla fine, hanno avuto un unico risultato: il baricentro politico del centro imperiale continua a spostarsi inesorabilmente, guardacaso, verso destra; invece che fare il tifo sulla base delle minchiate, sarebbe il caso di concentrarsi su cosa dobbiamo fare per non farci trascinare con loro nel baratro. Per farlo, prima di tutto abbiamo bisogno di un vero e proprio media che invece che rincorrere le loro narrazioni da film di Hollywood strampalato, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fabio Gramellini

L’imperialismo a guida USA sta obbligando l’Europa a inviare truppe in Ucraina?

La guerra totale dell’imperialismo contro il resto del mondo è in corso e non sarà un po’ di propaganda trumpiana acchiappacitrulli ad arrestarla; il consistente pacchetto di aiuti definitivamente approvato martedì scorso dal senato USA e, probabilmente, già reso esecutivo da Rimbambiden quando vedrete questo video, ha suscitato reazioni di sorpresa e di giubilo che sinceramente sono del tutto infondate. Come abbiamo sempre sostenuto da quando è iniziato questo patetico tira e molla nel congresso di uno dei paesi meno democratici del pianeta, che prima o poi gli aiuti sarebbero arrivati non è mai stato in discussione: quello che era in discussione, molto banalmente, era, al massimo, chi da questo tira e molla ci avrebbe guadagnato di più in termini di consenso in vista delle elezioni presidenziali del prossimo novembre e a cosa sarebbero concretamente serviti gli aiuti di fronte alla situazione concreta che, nel frattempo, si era andata determinando sul campo di battaglia; una situazione che, nelle ultime settimane, stava diventando così catastrofica da venire continuamente denunciata anche dai peggiori propagandisti filo – occidentali, pure troppo: nelle ultime settimane, infatti, è stato tutto un inseguirsi di titoli roboanti su un imminente crollo definitivo del fronte e di una debacle totale ucraina, un’eventualità che, come ha sottolineato Boris Johnson in persona (e, cioè, l’uomo che più di ogni altro si è speso per far naufragare i negoziati che avrebbero potuto congelare il conflitto già ormai due anni fa), rappresenterebbe “una vera e propria catastrofe: la fine dell’egemonia occidentale”.
Non è un’esagerazione: una vittoria totale della Russia nella guerra per procura in Ucraina, infatti, non metterebbe fine alla guerra dell’imperialismo contro il resto del mondo, ma a quel che rimane della speranza dell’Occidente collettivo che questa guerra possa avere come esito finale una sconfitta totale del nuovo ordine multipolare e la restaurazione dell’unipolarismo USA, sicuramente sì; e chi pensa davvero che, grazie alle elezioni cosiddette democratiche, i cittadini USA potrebbero davvero decidere di permettere che questo avvenga, a mio avviso rischia di vivere completamente fuori dalla realtà. E’ un po’ come la polemica che ogni 3 per 2 riemerge sul potenziale default americano perché nel congresso parte il solito tira e molla per approvare l’ennesimo innalzamento del debito: a partire, in particolar modo, dall’inizio della terza grande depressione innescata dalla crisi finanziaria del 2008, con un’economia USA totalmente dipendente dalle politiche espansive finanziate a debito dal governo, immancabilmente – almeno un paio di volte l’anno – va in scena la commedia della faida sull’innalzamento del tetto del debito e, immancabilmente, la propaganda analfoliberale ci bombarda per qualche settimana con sempre i soliti titoli sugli USA a rischio default. La tesi è che Trump è un attore politico completamente irrazionale che è pronto a far esplodere il paese per un pugno di consensi in più; e siccome viviamo nel mito della democrazia come libero arbitrio, avrebbe anche ovviamente tutto il potere di farlo: il più grande impero della storia dell’umanità che potrebbe crollare così, da un minuto all’altro, solo perché quella mattina il matto di turno s’è svegliato male e gli girano i coglioni.
Ovviamente il mondo, a parte che nelle redazioni dei giornalacci mainstream, è leggermente più complicato di così; i grandi cambiamenti difficilmente avvengono così, quasi per caso, e l’ipotesi che un leader qualsiasi non tanto voglia, ma proprio concretamente possa starsene seduto lungo il fiume ad aspettare di vedere passare il cadavere della – per usare le parole di Johnson – egemonia occidentale puzza di becero complottismo d’accatto da mille miglia di distanza, che si presenti sotto forma di default dello Stato o di crollo del fronte. Ciononostante, anche se parlare di crollo definitivo del fronte sicuramente rappresenta un’esagerazione interessata, volta a spingere verso la tanto attesa risoluzione del teatrino che ha bloccato per mesi gli aiuti, la situazione sul campo è drammaticamente chiara: con l’antiaerea ormai alla canna del gas, i russi possono vantare un controllo dello spazio aereo quasi totale che gli permette di colpire le infrastrutture strategiche dove e come vogliono, senza svenarsi per saturare la difesa; a terra gli avanzamenti sono lenti e millimetrici, ma inesorabili e, sostanzialmente, lungo l’intera linea dello sconfinato fronte, cosa che aumenta esponenzialmente il depauperamento di uomini e mezzi avversari. Quanto riuscirà ad arginare questa deriva catastrofica il nuovo pacchetto di aiuti?
Prima di provare a capirlo nei dettagli, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra lunga guerra di logoramento contro la dittatura degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche; a voi non costa niente, ma per noi è fondamentale e ci aiuta nella nostra missione di fare per accelerare, come dice Johnson, il declino dell’egemonia occidentale.

Jens Stoltenberg

“Gli Stati Uniti” scrive sul suo blog l’ex diplomatico indiano M. K. Bhadrakumar “stanno raddoppiando i loro sforzi per frustrare i piani percepiti dalla Russia per una vittoria militare assoluta in Ucraina entro quest’anno”; prima del pacchetto di aiuti sbloccato martedì dal senato USA, a suonare la carica era stato Jens Stoltonenberg che, nella conferenza stampa al termine della riunione dei ministri della difesa dei protettorati della NATO, aveva annunciato che erano state mappate “le capacità esistenti in tutta l’Alleanza, e ci sono sistemi che possono essere messi a disposizione dell’Ucraina”: Stoltoneberg si era detto colpito favorevolmente dagli “sforzi della Germania, inclusa la recente decisione di fornire un ulteriore sistema Patriot all’Ucraina”. Aveva anche annunciato che “oltre ai Patriot, dovremmo essere in grado di fornire anche altre batterie di Samp-T”: “L’Ucraina” aveva sottolineato “sta usando le armi che le abbiamo fornito per distruggere le capacità di combattimento russe, e questo ci rende tutti più sicuri. Quindi il sostegno all’Ucraina non è beneficenza. E’ un investimento nella nostra sicurezza”. Con tutto questo sostegno si è subito precipitato ad affermare a Zelensky “L’Ucraina avrà una chance di vittoria” e, dalle pagine de La Stampa, un instancabile Alberto Simoni – uno dei tanti giornalisti che, dal febbraio 2022, hanno già invaso la Piazza Rossa al fianco dei battaglioni Azov decine e decine di volte – ci fa sapere che “Con le armi che arriveranno, l’Ucraina potrà pianificare una controffensiva e recuperare oltre metà del territorio perso”.
Ma, probabilmente, è una visione leggerissimamente troppo ottimistica: dei 60 miliardi di aiuti militari sbloccati, infatti, il grosso servirà a riempire gli arsenali degli USA e a pagare le spese di tutto quanto di americano è direttamente coinvolto nell’area del conflitto a vario titolo. Di soldi veri per comprare armi vere da mandare in Ucraina, in realtà, ne rimangono meno di 14 miliardi; una fetta importante andrà in munizioni per le quali, però, ad oggi il problema non è mai stato la mancanza di soldi, ma la mancanza di cose che con quei soldi era possibile comprare concretamente: come ricorda anche Jack Detsch su Foreign Policy (che è altrettanto filoatlantista di Alberto Simoni, ma con un senso del pudore un pochino più accentuato) infatti, “Anche con l’approvazione del pacchetto di aiuti, la maggior parte dell’artiglieria di cui l’Ucraina ha bisogno non arriverà al fronte fino al prossimo anno”. “Il problema” avrebbe ribadito, sempre a Foreign Policy, la parlamentare ucraina Oleksandra Ustinova “è che c’è un’enorme carenza, a livello mondiale, di proiettili di artiglieria. Gli europei” avrebbe affermato “hanno detto che ci avrebbero fornito un milione di proiettili, ma ad oggi siamo a meno del 30%. Gli americani da parte loro invece hanno prosciugato le loro scorte e stanno effettuando consegne anche a Israele”; con l’approvazione del pacchetto di aiuti, commenta Detsch, “l’obiettivo dell’amministrazione Biden è ricostruire le scorte di munizioni del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di cui gli Stati Uniti potrebbero aver bisogno un giorno per combattere una propria guerra, consentendo così alla Casa Bianca margine di manovra sufficiente per iniziare a inviare artiglieria agli ucraini dai magazzini in Europa senza danneggiare la prontezza militare degli Stati Uniti”. “Ma l’aspettativa” continua Detsch “è che l’amministrazione trascorrerà gran parte dell’anno a ricostruire le scorte statunitensi ai livelli prebellici, mentre l’esercito americano punta ad aumentare la produzione di artiglieria a 100.000 colpi al mese entro la fine del 2025”.
Tutto sommato, secondo Franz-Stefan Gady dell’International Institute for Strategic Studies di Londra, nella migliore delle ipotesi l’Ucraina potrebbe arrivare ad avere a disposizione non più di 2.500 colpi al giorno mentre nel frattempo, sottolinea Detsch, “la Russia è sulla buona strada per produrre 3,5 milioni di proiettili nel 2024 e potrebbe riuscire a produrre 4,5 milioni di proiettili entro la fine dell’anno”; in queste condizioni (al contrario dei sogni bagnati delle bimbe di Bandera come Alberto Simoni) il massimo a cui si può realisticamente ambire, appunto, è non capitolare e, appunto, ridimensionare le ambizioni russe di chiudere la partita da vincitori entro l’anno e, magari, prendersi pure Karkiv e Odessa.
Per fare questo ovviamente, oltre a non finire totalmente i proiettili, quello che serve è fortificare il più possibile e, nel frattempo, ricostruire un minimo di antiaerea che impedisca ai russi di sfruttare il dominio dello spazio aereo per tirare giù tutto quello che ostacola l’avanzata delle sue truppe con le bombe plananti teleguidate; il problema, però, è che per costruire le fortificazioni ti servono o grandi mezzi meccanici o tanti uomini belli carichi: i grandi mezzi meccanici, però, o non ci sono o – anche quando ci sono – ci si va abbastanza coi piedi di piombo, perché se manca l’antiaerea per difendere le centrali elettriche, figurati se c’è per difendere i bulldozer e il rischio che il tutto diventi un micidiale tiro al piccione è piuttosto elevato. E sui tanti uomini è meglio stendere un velo pietoso; che siano addirittura belli carichi e in forze peggio che mai: per far finta di poter ambire alle 500 mila nuove reclute che già Zaluzhny, prima di essere defenestrato, aveva chiaramente dichiarato fossero il minimo indispensabile per tenere botta, Zelensky, dopo tanto tribolare, ha finito con l’abbassare l’età minima per il reclutamento da 27 a 25 anni. Il problema è che, in tutto, di cittadini ucraini in quella fascia d’età in tutto il paese ne sono rimasti circa 300 mila; a mantenere qualche parametro minimo per l’idoneità, la cifra si dimezza rapidamente: ed ecco, quindi, che al fronte ci va letteralmente di tutto – compresi, a quanto pare, i disabili, come dimostrerebbe un video virale dal fronte girato negli scorsi giorni che io, sinceramente, mi voglio augurare sia fake perché, altrimenti, dire che siamo messi male è un eufemismo.
Visto che fortificare per bene le linee difensive potrebbe essere una mission impossible, allora l’unica alternativa è dotarsi di missili terra – terra che possano spingere i russi a mantenere le retrovie il più lontano possibile dal fronte; ed ecco così che, finalmente, si parla dell’arrivo dei tanto agognati ATACMS con i loro circa 300 chilometri di gittata, una decisione che, fino ad oggi, gli USA avevano cercato di rinviare perché darebbe la possibilità agli ucraini di intensificare gli attacchi contro le raffinerie direttamente in territorio russo, una tattica che gli USA non sembrano gradire particolarmente visto che rischia di scatenare una corsa al rialzo del prezzo del petrolio che, alla fine, danneggerebbe più Rimbambiden e la sua corsa per la rielezione che non il bilancio russo. Ma ormai la situazione è troppo compromessa e anche questa piccola escalation è inevitabile, anche perché gli ATACMS – come riportavano le fonti anonime ucraine riportate da Politico un paio di settimane fa nel famoso articolo sull’imminente crollo del fronte ucraino – sarebbero indispensabili per pensare, un domani, di poter utilizzare gli F-16 senza vederli venir giù come mongolfiere bucate: secondo l’articolo, infatti, l’antiaerea russa aveva approfittato del ritardo nella scesa in campo del superjet americano per prendere le misure e l’unica possibilità, ora, era poter prendere di mira le installazioni antiaeree russe con missili a lunga gittata; il problema, però, è che gli ATACMS, nonostante costino una fraccata di soldi, non è che siano poi chissà che portento. Anzi, sono un po’ lentini; e che quindi siano in grado di colpire una postazione antiaerea ben protetta potrebbe essere l’ennesima speranza vana.

Maria Zakharova

Non sorprendono, quindi, le parole un po’ sprezzanti e altezzose spese dalla portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova alla vigilia dell’approvazione del pacchetto: “Non abbiamo alcun interesse per le voci che provengono dalla Camera dei Rappresentanti sull’approvazione degli aiuti all’Ucraina” avrebbe affermato; “È interessante notare che, in mezzo a questi litigi interni” continua la Zakharova “la Casa Bianca non punta più su una vittoria effimera del regime di Kiev sotto il suo controllo. Tutto ciò che vuole è che le forze armate ucraine resistano almeno fino al voto di novembre senza danneggiare l’immagine di Biden”. “Il motivo per cui l’agonia di Zelensky e della sua cerchia ristretta si prolunga, non è altro che questo, e gli ucraini comuni vengono costretti con la forza al massacro come carne da cannone”; “In ogni caso” ha concluso “i tentativi frenetici di salvare il regime neonazista di Zelensky sono destinati a fallire. Gli scopi e gli obiettivi dell’operazione militare speciale saranno raggiunti pienamente”. Oltre alla solita propaganda trionfalistica, la Zakharova ha però sottolineato anche un paio di questioni piuttosto spinose: la prima è che ha sottolineato come la convergenza dei repubblicani su questo pacchetto, alla fine, era scontata, perché “I repubblicani difendono gli interessi dell’industria della difesa americana, che riceverà la maggior parte degli stanziamenti per l’Ucraina”.
Sul ruolo specifico della lobby dell’industria militare, Jacobin USA ha recentemente pubblicato un’inchiesta decisamente interessante: rivela come, dal 1995 al 2021, nell’ambito di un programma denominato SDEF (che sta per Secretary of Defense Executive Fellows) “Più di 315 ufficiali militari con gradi d’élite fino a colonnello e contrammiraglio sono stati distaccati direttamente presso i principali produttori di armi come Boeing, Raytheon e Lockheed Martin. E l’accordo ha coinciso con un drammatico aumento della spesa del Dipartimento della Difesa per appaltatori privati valutata in trilioni di dollari”; secondo Jacobin si tratta di un potente strumento di lobbying, dal momento che “Oltre il 40% dei borsisti ad un certo punto della loro carriera post militare sono tornati a lavorare per gli appaltatori governativi”, mentre “Per decenni le raccomandazioni dello SDEF si sono costantemente concentrate su riforme che avvantaggerebbero le aziende e rafforzerebbero la loro influenza sul [Dipartimento della Difesa]”: quindi il dipartimento della difesa ti manda a lavorare per un anno in un’azienda privata, poi torni al dipartimento della difesa e, se sei abbastanza bravo da convincerli a fare qualcosa in favore di quell’azienda, quando hai finito il tuo incarico ecco che ti ritrovi un contratto dorato con quell’azienda. Cosa mai potrebbe andare storto?
Beh, che alla fine ci decidiamo davvero a mandarci i nostri uomini, in Ucraina; anche qui siamo di fronte alla solita tattica della rana bollita: i nostri uomini in Ucraina ci sono già e, mano a mano che i pochi ucraini addestrati decentemente che sono rimasti vengono fatti fuori, toccherà mandarne sempre di più (soprattutto mano a mano che mandiamo sistemi d’arma sempre più complicati che gli ucraini non hanno mai visto) anche se, come sottolinea sempre giustamente il nostro dall’Aglio, se pensiamo di andare lì a insegnarli a fare la guerra perché tanto, stringi stringi, pure loro sono slavi come i russi e cosa voi che ne sappiano, rischiamo di fare anche qualche figuretta, dal momento che noi abbiamo qualche competenza nello sterminare qualche esercito più o meno disarmato, ma di come si fa la guerra non dico a un pari o più che pari tecnologico, ma anche a un quasi pari, molto banalmente non abbiamo la più pallida idea. Comunque, la questione è semplicemente quanti ne mandiamo, a fare cosa: come rivelava ancora Politico, sabato scorso, infatti “Gli Stati Uniti stanno valutando la possibilità di inviare ulteriori consiglieri militari all’ambasciata a Kiev”; “I consiglieri, secondo quanto affermato dal portavoce del Pentagono, Pat Ryder, non avrebbero un ruolo di combattimento, ma piuttosto consiglierebbero e sosterrebbero il governo e l’esercito ucraino”.
Ma oltre ai consiglieri, ormai, si sta gradualmente sdoganando il tabù di mandare anche delle truppe, solo che – come sottolinea Foreign Affairs – non è la NATO, ma l’Europa che “dovrebbe inviare truppe in Ucraina”: la rivista del principale think tank neocon statunitense ricorda come, da quando il 26 febbraio Macron ha osato dire ad alta voce quello che tutti pensavano, piano piano gli si sono accodati in diversi, “dal ministro degli esteri finlandese, a quello polacco” per non parlare del sostegno scontato dei paesi baltici; “Minacciando di inviare truppe” sostiene l’articolo, gli europei stanno cercando di convincere Putin a tirare il freno a mano nella sua avanzata, ma “Per cambiare davvero la situazione in Ucraina, tuttavia, i paesi europei devono fare di più che limitarsi a minacciare”. D’altronde, sottolineano, “L’invio di truppe europee sarebbe una risposta normale a un conflitto di questo tipo. L’invasione della Russia ha sconvolto l’equilibrio di potere regionale, e l’Europa ha un interesse vitale nel vedere corretto lo squilibrio”. Gli europei, insiste “Devono prendere seriamente in considerazione lo schieramento di truppe in Ucraina per fornire supporto logistico e addestramento, per proteggere i confini e le infrastrutture critiche dell’Ucraina, o anche per difendere le città ucraine. Devono chiarire alla Russia che l’Europa è disposta a proteggere la sovranità territoriale dell’Ucraina”. Come commenta il nostro amato Billmon su Moon of Alabama “Ciò che vogliono veramente gli americani è che l’Europa combatta la Russia per conto loro, permettendogli di tenersi fuori dai guai”, che è esattamente quello che, come Ottolina, sosteniamo dal 23 febbraio.
Il fatto che, dopo oltre due anni, la situazione determinata dal campo sia molto ma molto peggiore di quanto avessero previsto quelli che sostenevano che le armi russe fossero dei ferrivecchi, che l’esercito russo fosse un’ammucchiata disfunzionale di ubriaconi privi di ogni disciplina e senso tattico e che la Russia di Putin in quanto stazione di benzina con la bomba atomica fosse economicamente già sull’orlo della bancarotta, non cambia le fondamenta della strategia dell’imperialismo USA che ha dichiarato guerra al resto del mondo e cerca di farla combattere, in gran parte, ai suoi vassalli; ha solo reso gli strumenti, ai quali è necessario ricorrere per poter sperare che tutto questo sia sufficiente per non implodere definitivamente, molto più pericolosi e distruttivi, a partire dalla difesa sistematica del primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità.
Contro la guerra totale architettata dall’impero in declino e contro la succube complicità dell’Europa degli svendipatria, abbiamo bisogno di un media che smonti le puttanate seriali della propaganda e dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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