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Tag: popolo fur

LA TRAGEDIA DEL CORNO D’AFRICA (parte2) Se il Genocidio in Sudan è tutta colpa del neoliberismo

In Sudan è in corso un altro genocidio, totalmente dimenticato; d’altronde non dovrebbe sorprendere. Il Corno d’Africa è, in assoluto, una delle aree più martoriate del pianeta: a partire dalla fine del dominio coloniale, non c’è stato anno in cui un paese a caso tra Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan e Sudan del nord non sia stato attraversato da qualche feroce conflitto e, molto spesso, più di uno. Secondo la propaganda suprematista le cause sono molteplici ma, sostanzialmente, hanno tutte la stessa matrice: non sono abbastanza evoluti. Le magnifiche sorti e progressive della modernità – che caratterizzano il quieto vivere del nostro giardino ordinato – non hanno ancora attraversato la regione, lasciandola in balia del tribalismo più arretrato condito da una corruzione endemica alla quale poi, per i più progressisti, si è andata ad aggiungere pure la siccità.

Mark Duffield

Meno male che, in mezzo a tanta fuffa, ogni tanto c’è anche qualcuno che prova ad azionare il cervello: si chiamano Mark Duffield e Nicholas Stockton; entrambi hanno lavorato a lungo nella regione ricoprendo ruoli apicali per Oxfam e si sono fatti un’idea un po’ diversa del perché per gli abitanti del Corno d’Africa non ci sia pace, e hanno deciso di provare a spiegarcela in questo strepitoso articolo pubblicato pochi giorni fa sulla prestigiosa Review of African Political Economy. Come il capitalismo sta distruggendo il Corno d’Africa” si intitola, un piccolo capolavoro di applicazione scientifica di un po’ di sano materialismo storico; “Anche se abbondano spiegazioni superficiali che incolpano il cambiamento climatico, l’avarizia del generale di turno o le tensioni etniche radicate” scrivono nell’abstract “sulla crisi sempre più profonda dell’economia agropastorale che colpisce direttamente milioni di lavoratori in tutta la regione c’è poco o niente”. E invece il nocciolo sta tutto lì: “Il neoliberismo” continuano i nostri due autori nell’abstract “producendo un’economia estrattiva e violenta ed espansiva, ha trasformato la reciprocità che un tempo teneva uniti “agricoltori” e “pastori” in una relazione di guerra permanente” e “questa modalità di appropriazione è la causa principale dell’attuale crisi”. Siete convinti che la causa profonda di tutti i conflitti che, da decenni, travolgono il Corno d’Africa sia il tribalismo, la povertà e il sottosviluppo? Sbagliato: la principale responsabilità della tragedia del Corno d’Africa, sostengono Duffield e Stockton, è – udite udite – delle PECORE. Per dimostrarlo, i nostri due prestigiosi ricercatori hanno messo assieme un po’ di dati pubblicati dalla FAO e hanno messo insieme questo grafico:

la riga nera rappresenta la crescita demografica nei paesi del Golfo che, dai 20 milioni di abitanti del 1990, sono passati ai 60 attuali; le colonne rosse, invece, rappresentano il valore in dollari del bestiame importato, che è passato da 600 milioni del 1990 ad un picco di quasi 1,8 miliardi nel 2015, per poi assestarsi verso quota 1,4 miliardi, e le colonne in giallo, infine, rappresentano la quota di quel bestiame che arriva direttamente da Sudan e Somalia che, tra tutti i paesi del Corno d’Africa, sono probabilmente – in assoluto – quelli che hanno vissuto le tragedie più feroci e devastanti e che, ciononostante, hanno moltiplicato per 6 il valore delle loro esportazioni di bestiame. Una crescita esponenziale che ha permesso ai due paesi di sostituire Australia ed Europa dal gradino più alto dei fornitori di bestiame dei paesi del Golfo – proprio mentre questi vivevano un gigantesco boom demografico – fino ad arrivare “nel 2017 alla cifra sbalorditiva di 9,5 milioni di capi esportati, che pesavano per l’80% delle importazioni” e il paradosso è, scrivono Duffield e Stockton, che “La grande maggioranza di questi animali non provenivano dalle zone relativamente tranquille dei rispettivi paesi, ma dalla prima linea delle guerre civili”; il tutto “in un momento in cui entrambi i paesi erano nel bel mezzo di operazioni di aiuto umanitario multimiliardarie organizzate, presumibilmente, per salvare milioni di vite minacciate dalle carestie indotte dalla guerra”.
Ma cosa c’entra tutto questo con le guerre? Per spiegarlo, i nostri due autori si concentrano sulla storia – in particolare – di due gruppi etnici: i Bantu, che vivono nel sud della Somalia, e i Fur che, invece, vivono nel nel sudovest del Sudan, nel Darfur (che significa, appunto, Casa dei Fur): “Durante il periodo coloniale” ricordano Duffield e Stockton “entrambi i gruppi vivevano di un’economia di sussistenza in gran parte sedentaria basata sulla produzione intensiva di raccolti di frutta e verdura alimentati dalla pioggia e parzialmente irrigati”. In entrambi i casi, a nord di queste due etnie – dove le precipitazioni erano meno affidabili e le risorse idriche superficiali più scarse – vivevano altri gruppi di agro – pastori semi – nomadi che, oltre a pecore e capre, avevano anche grandi mandrie di bovini e di cammelli: “La transumanza stagionale a lunga distanza delle mandrie miste del nord” spiegano i nostri due autori “veniva negoziata con gli agricoltori del sud per massimizzare l’uso dei residui colturali e consentire il baratto e la vendita di bestiame, latte, raccolti, artigianato e servizi tra questi gruppi”. “Sebbene si potessero sviluppare attriti quando, ad esempio, gli animali si allontanavano nei campi o il bestiame veniva rubato” sottolineano Duffield e Stockton “esistevano processi compensativi per mantenere un sistema di scambio reciprocamente vantaggioso tra comunità sedentarie e semi-nomadi. In effetti, anzi, possiamo dire che tale reciprocità è proprio alla base dell’autosufficienza rurale che si era consolidata”, fino a che non è arrivato il boom demografico dei paesi del Golfo e, con lui, la fame di bestiame da importare per fornire le proteine alla sua popolazione. Le prime vittime sono stati i Bantu somali: “Il principale impatto demografico della guerra civile somala degli anni ‘80” ricostruiscono Duffield e Stockton “fu proprio lo sfratto di questi agricoltori di sussistenza da parte di pastori armati”, ma il fenomeno era destinato ad ampliarsi. “Data la distruttività ecologica intrinseca dell’allevamento militarizzato” spiegano i nostri due autori “quando la produttività degli allevamenti di pecore in Somalia ha iniziato a diminuire, il capitale mercantile – militare è andato alla ricerca di nuove opportunità in Sudan”; ed ecco così che il ricorso alla chiave di lettura tribalistica – che tanto piace all’orientalismo suprematista de’ noantri finalmente trova una spiegazione materiale concreta: “Sebbene il conflitto nel Darfur sia solitamente descritto in termini etnici” sottolineano infatti Duffield e Stockton “i massacri e gli spostamenti su larga scala ai quali assistiamo non sono che sintomi di questo conflitto tra modi di produzione. Qualunque fosse la loro origine etnica, i rapporti di forza si erano spostati a vantaggio di chi invece che il sorgo, vendeva le pecore. E così i pastori e le milizie che li sponsorizzavano furono in grado di acquistare armi sempre migliori e di usarle per allontanare gli “intrusi” non arabi dai migliori pascoli piovosi del Sudan”.

Nicholas Stockton

Insomma: seppur con caratteristiche locali, siamo di fronte al classico processo di espropriazione violenta e di privatizzazione di terreni – prima ad uso comune – che, dalle enclosure inglesi in poi, ha sempre caratterizzato il passaggio di una società da agricola a industriale; un processo ampiamente sostenuto dalla comunità internazionale che “a partire già dagli anni ‘70” ricordano Duffield e Stockton “ha facilitato la diffusione di filo spinato in gran quantità, soprattutto nella Somalia centrale e meridionale”. Il punto qui però è che, a differenza di quanto successo durante la fase dei disboscamenti proto – capitalisti in Europa, di borghesia in via di industrializzazione che non vedeva l’ora di impiegare queste masse di sfollati in giro non è che ce ne fosse molta; ed ecco, allora, che a metterci una pezza ci pensa il variegato universo delle ONG e degli aiuti umanitari che però, secondo Duffield e Stockton, non fanno altro che contribuire a “normalizzare” questo processo di spoliazione feroce spacciandolo come un “risultato inevitabile della scarsità, dell’ignoranza e dello stress ambientale”. Queste gigantesche masse di sfollati, infatti, vengono accolte in sterminati campi profughi che sono finanziati a livello internazionale ma sono poco controllati e “mal protetti”, e “come suggerisce l’esperienza della produzione di banane e di gomma arabica in Somalia e Sudan” svelano Duffield e Stockton “questi centri di concentrazione assomigliano in modo inquietante a veri e propri campi di lavoro forzato”. Ma il ciclo distruttivo non è ancora terminato perché “Il capitale mercantile incontrollato” sottolineano Duffield e Stockton “non è disposto a investire in una produzione sostenibile che erode i profitti”, ed ecco così che lo sfruttamento intensivo riduce rapidamente la redditività anche di questo nuovo modello di produzione: “La produzione di bestiame concentrata su ex terreni agricoli esaurisce presto la fertilità del suolo, soprattutto quando la produzione è fortemente concentrata attorno alle risorse idriche fornite da pozzi meccanizzati. Pertanto, la produzione di bestiame militarizzato è soggetta a un calo della redditività” e, con la redditività che diminuisce e la torta da spartire che si rimpicciolisce, ecco che lo scontro tra bande armate si intensifica e gli affari vanno in malora molto più rapidamente di quanto non ci si possa immaginare – appena “10-15 anni” sostengono i nostri due autori. Dopodiché “il capitale militare – mercantile è spinto inesorabilmente alla ricerca di guadagni più facili altrove”. “Considerando le esportazioni di bestiame nel lungo periodo” ricostruiscono Duffield e Stockton “l’epicentro della frontiera alimentare del Golfo si è spostato a sud attraverso la Somalia e l’Ogaden prima di migrare nel Darfur, nel Kordofan e ora, sembrerebbe, nel Nilo Azzurro meridionale” e – a giudicare dalla mole di investimenti dei paesi del Golfo nei porti del Kenya e della Tanzania – probabilmente nel prossimo futuro vedremo questa dinamica allargarsi sempre più verso sud e verso ovest: un’ondata che non mette a rischio soltanto la popolazione sedentaria che vive di agricoltura di sussistenza, ma l’esistenza stessa degli stati: “Per il capitale mercantile – militare” sottolineano Duffield e Stockton, infatti, “l’esistenza di uno stato unitario in grado di proteggere un sistema agricolo socialmente, ecologicamente ed economicamente sostenibile, rappresenta di per se un grosso ostacolo”. “Gli stati nazionali della Somalia e del Sudan”, ad esempio – continuano i due autori – per quanto in realtà molto spesso complici proprio di questo meccanismo di espropriazione “sono stati in realtà a lungo considerati dei freni a un’estrazione efficiente”.
Ed eccoci così tornati al punto di partenza, alla guerra che – ancora una volta – sta dilaniando il Sudan e che vede contrapposte le milizie dei “pastori”, da un lato, contro le forze armate regolari dall’altro, con il grosso della popolazione locale che – nonostante da quelle stesse forze armate regolari in passato sia stata violentemente repressa – si schiera col governo centrale proprio con l’idea che sia l’unico in grado di mettere un freno alla foga predatoria dei pastori sostenuti dalle milizie legate a doppio filo agli Emirati Arabi Uniti. “La guerra e la violenza bellica” tirano le somme i nostri due autori “sono intrinseche all’emergere storico dell’economia innaturale del capitalismo. Per il capitalismo, anziché essere contingente, la violenza è una relazione economica essenziale. Dagli anni ’70, il Corno d’Africa è stato attraversato da guerre civili e sociali senza fine. Il pensiero liberale presenta questa guerra permanente come una serie ininterrotta di disastri umanitari contingenti; in realtà, non sono altro che epifenomeni di un capitalismo mercantile estrattivo che opera attraverso la guerra permanente”.
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