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Bimbe di Bandera e coloni suprematisti impediscono a Rimbambiden di preparare la guerra alla Cina

Prima di passare alle cose serie che, purtroppo, anche oggi non mancano, un po’ di cabaret mattutino. Mirko Campochiari, l’analista fai da te più amato dalle bimbe di Bandera, alla fine ha deciso di farlo davvero; fino ad ora, infatti, l’aveva detto solo alla mamma (e, cioè, a Youtube) due volte: prima attaccandosi al copyright e facendo cancellare il video e poi, una volta che ho ripubblicato il video levando i 10 secondi ai quali il difensore del mondo libero s’era attaccato per incentivare il dibattito pubblico e la libera circolazione delle idee attraverso la censura, segnalandoci una seconda volta per violazione della privacy. Ora Mirko, però, ha deciso che lo dirà anche all’avvocato: “Quando ho smontato le bufale di Lilin” chiede il bomber delle mappe alla sua fanbase di bimbiminkia brufolosi su X, “lo ho fatto mettendo la sua faccia photoshoppata in copertina per dileggiarlo, o stavo sul merito? Si attacca la tesi, non il relatore. Il diritto di critica (cioè quello che lui ha cercato di annullare chiamando due volte la mamma) non consente di ledere la dignità altrui”; quella, diciamo, è una prerogativa che Parabellum vuole tenersi in esclusiva tutta per se. “Ottolina” conclude “ne risponderà in altre sedi”; gli avrà fatto un corso di formazione David Puente? In soldoni, nel mondo libero che Parabellum vuole difendere fino all’ultimo ucraino, i meme sono fuorilegge: caro Mirko, non vorrei scoraggiarti e tarparti troppo le ali, ma mentre giocavi ai soldatini, nel mio piccolissimo – in 25 anni da giornalista – ho affrontato una quantità spropositata di cause contro multinazionali gigantesche che mi chiedevano decine di milioni di risarcimento. Mai dire mai, ma non ne ho persa nemmeno mezza; forse faresti meglio a impiegare il tuo tempo, invece che a fare segnalazioni e a chiamare l’avvocato, a studiare per colmare qualche piccolissima incongruenza che, qua e là, sembra emergere dalla tua narrazione. Volendo ti possiamo anche girare qualche fonte autorevole in amicizia. E, con questo, terminiamo l’angolo del dissing e torniamo (purtroppo) a occuparci di cose serie.
E’ bello essere re diceva Mel Brooks ne La pazza storia del mondo; essere presidente di un impero in inesorabile declino, invece, un po’ meno: lo chiameranno pure Sleepy Joe, ma il povero Rimbambiden, in realtà, tempo per dormire mi sa che ultimamente ce n’ha pochino. Dopo oltre due anni di guerra per procura in Ucraina, non solo ha reso il suo nemico più forte e determinato che mai, ma ancora deve stare dietro a quei parolai degli europei che, a chiacchiere, si riarmano fino ai denti e rovesciano Putin, ma – nei fatti – per recuperare qualche munizione sono costretti a fare la colletta e fare il tour dei più malfamati bazaar di Istanbul e di Pretoria; risultato: come titolava ancora ieri BloombergGli attacchi russi all’Ucraina alimentano la paura che l’esercito sia vicino al punto di rottura”. Il fronte del Pacifico, poi, è un vero e proprio rompicapo; dopo 40 anni di finanziarizzazione, gli USA si sono accorti che, per contenere l’inarrestabile ascesa cinese, gli manca una deterrenza credibile: come fai a minacciare una potenza che ha una base industriale che è tre volte più grande ed efficiente della tua? L’unica possibilità è trasformare definitivamente gli alleati di tutta l’area – che, tra base industriale e posizione geografica, hanno tutto quello di cui hai disperatamente bisogno – nemmeno semplicemente in vassalli, ma proprio direttamente in una sorta di tua emanazione diretta; ed ecco, così, che parte il tour de force: martedì, infatti, è sbarcato a Washington il premier giapponese Fumio Kishida e, per quanto si tratti di un fedele servitore di Washington privo di qualsiasi personalità, è comunque stato un gran bell’impegno.

Fumio Kishida

Il Giappone è, in assoluto, il più importante degli alleati per la guerra contro la Cina visto che, al contrario degli USA, ha ancora un’imponente base manifatturiera indispensabile anche solo per pensare di poter contrastare la strapotenza cinese, soprattutto in termini di produzione navale; il Giappone, però, da decenni è anche probabilmente in assoluto l’alleato che gli USA hanno bistrattato di più, radendolo al suolo con l’atomica prima (giusto per capire chi comandava) e imponendogli, poi, oramai quasi 40 anni di suicidio economico che, in confronto, Gentiloni e la Von Der Leyen sono dei difensori degli interessi dei loro cittadini. E ultimamente, dopo aver ridotto lo yen a carta straccia, per fare un favore alle oligarchie statunitensi hanno anche impedito senza motivo alla Nippon Steel di concludere l’acquisizione di US Steel, senza manco chiedere scusa.
Ora, per i leader del partito liberale poco male, che tanto sono vassalli devoti che mai si azzarderebbero a chiedere qualcosa in cambio; per i giapponesi comuni, però, un po’ meno, che – in fondo in fondo – un po’ nazionalisti, comunque, rimangono. Per fare finta di avere una qualche forma di rispetto per l’interlocutore zerbino, allora gli USA si son dovuti sforzare di apparecchiare un ricevimento in grandissimo stile con tutti gli onori di casa: hanno pure chiamato a suonare Paul Simon e prima gli hanno anche imposto di fare un corso di giapponese.
Ma il bilaterale Giappone – USA era solo l’antipasto: giovedì, infatti, li ha raggiunti pure Marcos junior,erede del sanguinario dittatore e attuale presidente delle Filippine, impegnato a mettere fine alla piccola parentesi sovranista e popolare dell’ex presidente Duterte per riportare lo strategico paese insulare al ruolo di portaerei del Pacifico dell’imperialismo USA; un summit storico, come è stato definito nel comunicato congiunto finale – il primo di sempre tra le tre potenze – e che rappresenta una tappa fondamentale per la costruzione di quell’accerchiamento totale della repubblica popolare cinese volto a danneggiarne l’economia abbastanza da permettere agli USA di recuperare il terreno perduto succhiando risorse a tutti i vari vassalli e, se non basta, a provocare la Cina fino a scatenare una nuova guerra per procura come quella ucraina, ma di magnitudo di ordini di grandezza superiore.
Nel frattempo, Rimbambiden è dovuto pure tornare a occuparsi di America Latina: a giugno, infatti, si vota in Messico e mettere fine all’esperienza sovranista di Lopez Obrador sarebbe fondamentale per assicurarsi di poter riportare vicino a casa un pezzo della base industriale – indispensabile anche solo a pensare di poter fare la guerra contro la Cina – senza che diventi un’arma a doppio taglio; peccato, però, che nonostante tutti i tentativi di destabilizzazione, la candidata di AMLO ancora oggi, nei sondaggi, sostanzialmente doppi gli avversari sostenuti da Washington. Gestire contemporaneamente questi tre fronti metterebbe ko chiunque e, invece, per Sleepy Joe è solo l’antipasto; nelle ultime due settimane aveva provato a scordarselo per un attimo: per evitare l’escalation nel Mar Rosso aveva addirittura mandato (anche in ginocchio) i suoi uomini da Ansar Allah per cercare una soluzione diplomatica dopo che 3 mesi di attacchi diretti in territorio yemenita non sembravano aver dato grossi risultati, quando, sabato scorso, a turbargli i sonni sono arrivati circa 300 tra droni e missili balistici che dall’Iran si sono riversati sul sempre più scomodo – ma ciononostante sempre indispensabile – alleato sionista. Nonostante le divergenze con regime fascista e razzista di Tel Aviv, Biden s’è ritrovato così a dover richiamare all’ordine tutte le sue casematte nella regione per minimizzare i danni e impedire a Tel Aviv di subire un’umiliazione troppo grande, perché lo svantaggio strutturale dell’impero è proprio questo: i suoi millemila nemici possono subire anche sconfitte importanti, eppure la necessità storica delle masse popolari di dotarsi di uno Stato sovrano capace di emanciparsi dal dominio dell’impero, rimane intatta; per il castello di carte che tiene in piedi il dominio globale dell’impero, invece, anche solo essere costretto a rinunciare al dominio in un’area del pianeta può essere esistenziale.
Ma prima di addentrarci nei dettagli di questo arzigogolato racconto sugli sforzi inenarrabili che il povero, anziano leader del mondo libero è costretto a sobbarcarsi per non passare alla storia come il presidente sotto il quale si mise fine a 5 secoli di feroce dominio coloniale dell’uomo bianco, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se non l’avete ancora fatto, di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare pure le notifiche, perché se c’è una cosa che abbiamo imparato lavorando a questo video è che l’impero non è mai stato così fragile e un’informazione corretta che non ricalchi a pappagallo la propaganda, oggi come non mai potrebbe davvero fare la differenza.
“Stati Uniti e Giappone annunciano l’aggiornamento più significativo di sempre della loro alleanza militare”: così, giovedì, il Financial Times riassumeva la conferenza stampa che, il giorno prima, Rimambiden e Fumio Kishida avevano tenuto a conclusione dello storico bilaterale di questi giorni: “Nel corso degli ultimi 3 anni” recita il comunicato congiunto, rilasciato poche ore prima “l’Alleanza USA – Giappone ha raggiunto livelli senza precedenti”; gli USA rinnovano, senza se e senza ma, l’”impegno degli Stati Uniti nella difesa del Giappone… utilizzando l’intera gamma delle sue capacità, comprese quelle nucleari” in cambio di un rafforzamento di quello che chiamano “coordinamento con gli USA” e che, come noi membri della NATO sappiamo bene, in soldoni significa totale subordinazione, a partire dalla messa a disposizione delle “isole sudoccidentali” delle forze armate USA “per rafforzare la deterrenza e la capacità di risposta”, nonostante l’opposizione decennale delle popolazioni locali e dei loro rappresentanti politici.

Denny Tamaki

A partire dal governatore di Okinawa, Denny Tamaki che, nel 2018, stravinse le elezioni locali proprio sulla base della sua contrarietà alla presenza dei 30 mila militari USA, odiatissimi da sempre dalla popolazione locale e, ancora di più, da quando nel 1995 rapirono una ragazzina di 12 anni, la violentarono e la massacrarono di botte (ovviamente sempre, come cita il documento, “per realizzare un mondo indo – pacifico libero e aperto”). “A sostegno di questa visione” – continua il comunicato – “riaffermiamo il nostro obiettivo di approfondire la cooperazione in materia di intelligence, sorveglianza e ricognizione e le capacità di condivisione delle informazioni dell’Alleanza”, che è un modo gentile per dire che il Giappone rinuncia alla sua sovranità e indipendenza militare per mettere le sue forze armate e il suo apparato di intelligence a disposizione del comando USA. L’impero e il suo vassallo confermano, come ampiamente atteso, i lavori di modifica alle navi giapponesi (che, fino ad oggi, avevano funzioni meramente difensive) affinché “acquisiscano la capacità operativa del sistema Tomahawk Land Attack Missile (TLAM)” che, come dice il nome stesso, con la difesa non c’entra una seganiente e serve ad attaccare; “oggi” inoltre, continua il comunicato, “annunciamo la nostra intenzione di cooperare per un’architettura di difesa aerea in rete tra Stati Uniti, Giappone e Australia”, ai quali poi ci va aggiunta anche la Gran Bretagna nell’ambito dell’AUKUS, al quale poi si affianca anche la Corea del Sud, rispetto alla quale “accogliamo con favore i progressi nella creazione di un esercitazione annuale multidominio”. Insomma: Corea, Giappone e Australia saranno sostanzialmente dependence delle forze armate USA nell’area che potrà, così, eventualmente ingaggiare una guerra frontale contro la Cina – ma sempre per procura – evitando così lo scontro diretto tra potenze nucleari (che, diciamo, che è una cosa che ultimamente ho già rivisto). Queste forze, per essere veramente efficaci nell’opera di contenimento e provocazione nei confronti della Cina, hanno bisogno però di aumentare anche la loro area di pertinenza: ed ecco che entrano in gioco le Filippine, la portaerei nel Pacifico dell’impero che è sbarcata a Washington il giorno dopo per il primo trilaterale di sempre insieme a Usa e Giappone, un trilaterale per cementare i “valori fondamentali condivisi di libertà, democrazie, rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto” che, però, non sono proprio sicurissimo siano i valori fondamentali dell’attuale presidente filippino.
Baby Marcos, infatti – noto anche come Bongbong – non solo è il figlio di uno dei più feroci e cleptomani dittatori dell’Asia contemporanea, ma ha anche avuto direttamente ruoli di primissimo piano all’interno del suo regime diventando uno dei massimi dirigenti del partito del padre che ha imposto la legge marziale nel paese per ben 14 anni; a partire dal 1980, infatti, Bongbong è stato prima vice e poi governatore del distretto di Llocos Norte e, ancora oggi, deve la sua vita agiata a un pezzo della sconfinata ricchezza che suo padre e la leggendaria Imelda Marcos hanno sottratto al loro paese per decenni. Durante il suo governatorato, secondo l’associazione delle vittime della legge marziale, nel suo distretto si sono registrati come minimo due casi di omicidio extragiudiziale; nel 1985 era stato nominato dal padre anche presidente della Philcomsat, il monopolista delle comunicazioni satellitari delle Filippine che Marcos presidente si era auto-venduto al Marcos imprenditore per una manciata di spiccioli (in pieno stile Russia ai tempi di Yeltsin e del crollo dell’Unione Sovietica, un modello che gli Stati Uniti hanno replicato un po’ ovunque) e quando, nel 1986, finalmente scoppiarono le gigantesche proteste di piazza della People Power Revolution, fu proprio Bongbong a convincere il padre ad assaltare e dare fuoco al quartier generale delle forze di polizia che, nel frattempo, era stato circondato da centinaia di migliaia di manifestanti. Dopo che l’amministrazione Reagan aiutò gli amici dittatori e il loro entourage a scappare dalle Filippine per riparare alle Hawaii, Bongbong cercò di ritirare da un conto segreto della famiglia 200 milioni di dollari, ma fu bloccato (ovviamente dalla Svizzera, non dagli USA, e da allora non ha ancora smesso di provare a rimpossessarsi del bottino); insomma: l’interlocutore perfetto per i piani criminali dell’impero contro il nemico cinese che oggi si trova ad essere accolto con tutti gli onori per un vertice che “rappresenta il culmine di decenni di partenariato”. Non poteva andare altrimenti: Bongbong, infatti, aveva iniziato il suo mandato sulla scia dell’ultrapopolare Duterte, candidandone addirittura la figlia alla vicepresidenza; l’idea era quella di continuare a intensificare le relazioni economiche con la Cina, dando seguito agli accordi firmati dal predecessore nell’ambito della Belt and Road Initiative. Credergli, però, è stato un atto di ingenuità piuttosto eclatante: dotati della più grande rete di spionaggio e di intelligence della storia dell’umanità, che gli USA tenessero in pungo l’erede di uno dei più grandi imperi criminali del pianeta, infatti, era piuttosto prevedibile; e ora la potente mano della mafia di Washington si palesa in tutta la sua capacità persuasiva. Per le Filippine vuol dire rinunciare agli investimenti cinesi, proprio ora che, dopo due anni abbondanti di stallo dovuto alla crisi pandemica, la Cina torna ad aprire i borsoni lungo tutta la Belt and Road.
Per placare l’opinione pubblica affamata di introiti e di crescita economica, ecco allora che tutta la prima parte del trilaterale USA – Giappone – Filippine è stata dedicata proprio all’assistenza allo sviluppo, ma è tutta fuffa allo stato puro: al posto delle infrastrutture della nuova via della seta, promettono il fantomatico corridoio economico di Luzon, che cerca di scimmiottare i piani cinesi a suon di “ferrovie, modernizzazione dei porti, energia pulita” e, addirittura, un pezzo della supply chain dell’industria dei semiconduttori. Gli investimenti rientrerebbero nell’ambito della fantomatica Partnership for Global Infrastructure and Investment, la risposta imperialista alla Belt and Road che l’amministrazione Biden continua ad annunciare a ogni summit multilaterale – da ormai 2 anni a questa parte – senza aver, ad oggi, mai sganciato sostanzialmente manco un dollaro. L’elenco degli impegni concreti, invece, è da morire da ridere: 8 milioni per un ponte radio e altri 9 milioni per un altro progetto di telecomunicazioni; probabilmente meno di quanto abbiano pagato Paul Simon per cantare e imparare a dire buonasera in giapponese. Ma la chicca principale è che gli USA promettono anche 4 miliardi di investimenti diretti esteri privati, però coi soldi giapponesi. Geniali! D’altronde, il Giappone sono 40 anni che è abituato a pagare i conti dell’impero USA: il 75% delle spese militari USA in Giappone, infatti, li paga direttamente Tokyo che, ogni anno, sborsa poco meno di 5 miliardi; quando il cervello vi corre a quanti soldi le élite politiche europee ci rubano di tasca per fare contenta Washington, pensate a quanto sono geishe i giapponesi e vi tornerà il sorriso. Vi basti ricordare come, per sostenere lo yen sotto attacco del dollaro, la banca centrale giapponese sia stata costretta a rialzare, per la prima volta dopo 30 anni, i tassi di interesse mentre è nel bel mezzo di una recessione: fino a che punto i giapponesi saranno ancora disposti a tollerare di essere svenduti senza niente in cambio?

Ferdinand Bongbong Marcos jr

Ai cugini coreani, ad esempio, qualcuno ha già presentato il conto; la Corea del Sud è l’altro tassello fondamentale dell’imperialismo USA nel Pacifico: è il terzo produttore navale al mondo e solo mettendo assieme lei e Giappone la rete dei vassalli USA ha qualche chance di potersi confrontare ad armi pari coi cinesi sul mare. Sostanzialmente priva di sovranità quanto – se non di più – di Europa e Giappone, alla Corea quindi è stata imposta l’adesione a una struttura trilaterale con USA e Giappone; ma se finché si tratta di continuare a fare semplicemente da zerbino agli USA la Corea, ad oggi, ancora non ha niente da obiettare, questo matrimonio forzato col Giappone i coreani proprio non riescono a buttarlo giù: in Corea, infatti, il Giappone coloniale fino alla fine della seconda guerra mondiale s’è reso protagonista di una serie di crimini di una ferocia e di una portata inauditi e per i quali non ha mai chiesto scusa. Anzi, la destra fascionazionalista giapponese, che è una componente essenziale del blocco sociale che ha permesso al partito liberale di guidare il governo sostanzialmente sempre, da quando è stato fondato nel 1955, fonda tutta la sua popolarità proprio sull’egemonia nel web giapponese delle sue campagne razziste nei confronti degli eredi dei coreani deportati nel Giappone dell’impero fascista durante la seconda guerra mondiale. Il padrone di Washington, inoltre, ha imposto a Seul di svuotare mezzi arsenali per inviare armi nel tritacarne ucraino e, ovviamente, anche di alzare i toni contro la Cina fino a darsi la zappa sui piedi partecipando al boicottaggio tecnologico della Cina e perdendo, così, una bella fetta del principale mercato di sbocco della sua industria elettronica, con conseguenze devastanti per la tenuta economica. Risultato: mercoledì in Corea del Sud s’è votato per l’elezione del parlamento e il partito del presidente ha raccattato una figura di merda epica. Negli ultimi 2 anni, infatti, il presidente ha dato la colpa di tutto al fatto che il suo partito non aveva la maggioranza in parlamento e la campagna elettorale è stata tutta all’insegna della richiesta di un mandato pieno per completare il lavoro iniziato; non ha funzionato proprio benissimo, diciamo: il suo partito ha perso un’altra decina di seggi, l’opposizione ne ha guadagnati quasi 30 e “ciò significa” sottolinea Responsible Statecraft “che il partito al governo potrebbe abbandonare il Presidente su alcune delle sue iniziative di politica estera più controverse”.
E la propaganda suprematista è in allarme anche sul fronte tedesco “perché Scholz si inchina al dragone cinese” titola Politico, la testata del gruppo editoriale tedesco Springer di proprietà del fondo speculativo USA KKR, quello che si è comprato la rete di TIM e che ha tra i suoi principali dirigenti l’ex capo della CIA David Petraeus. L’edizione europea di Politico è stata inventata ad hoc per minacciare qualsiasi politico europeo si azzardi anche solo minimamente a discostarsi dai dictat del deep state neocon americano e venerdì scorso denunciava scandalizzata come “ignorando le pressioni di Washington, il cancelliere cerca l’appoggio di Pechino”: “Il cancelliere 65enne, considerato privo di senso dell’umorismo anche per gli standard tedeschi” scrive la testata “ha festeggiato il suo debutto suTikTok promettendo di non ballare”; “Arrivato giusto pochi giorni prima della sua visita in Cina, la patria del controverso social newtork” continua quello che appare, ogni riga di più, come un attacco mediatico in pieno stile coloniale “Scholz sembra alla disperata ricerca di convincere Pechino che può ancora essere considerato un buon amico”. Il motivo è semplice, denuncia Politico: “Scholz ha bisogno della Cina”; “Con le elezioni a poco più di un anno di distanza” continua l’articolo “il leader del motore economico europeo sta esaurendo il tempo per evocare un miracolo e invertire la disastrosa posizione del suo governo nei confronti della popolazione tedesca”. I passaggi successivi dell’articolo li ho dovuti rileggere attentamente svariate volte perché non riuscivo a capire se erano seri: sarà il mio inglese da medie inferiori ho pensato, ma temo di no; ma giudicate voi. “Ci si potrebbe aspettare che la Germania, tra tutti i paesi” scrivono “sia sensibile alla difficile situazione di una minoranza etnica costretta a vivere dietro il filo spinato sotto lo sguardo minaccioso delle guardie armate nelle torri di guardia. Beh, ripensateci”, che uno dice ma perché parlano delle vergognose posizioni tedesche su Gaza in un articolo sulla Cina? La Germania, infatti, ha così platealmente sostenuto sin dall’inizio il genocidio del regime sionista e lo sterminio dei bambini palestinesi da vietare ogni forma di solidarietà con Gaza a suon di randellate e arresti e trovarsi, alla fine, sul banco degli imputati alla Corte internazionale di giustizia e, negli ultimi giorni, ha platealmente superato ogni limite: prima ha impedito l’ingresso nel paese a Ghassan Abu Sittah, chirurgo palestinese naturalizzato britannico che avrebbe dovuto partecipare a una conferenza sulla Palestina a Berlino che, dopo il suo respingimento, è stata fatta chiudere con la forza dall’intervento di decine di membri delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno malamente evacuato le oltre 250 persone accorse fino a quel momento. E poi ha addirittura vietato il visto all’economista ed ex ministro greco Yannis Varoufakis proprio perché non ha sostenuto con sufficiente entusiasmo lo sterminio dei bambini palestinesi ed ha addirittura – pensate un po’- sollevato delle critiche.
Effettivamente, per accusare la Germania di essere complice entusiasta di un genocidio di spunti ce ne sono abbastanza, peccato però che la nostra cara testata di riferimento delle nuove SS, gli specializzati in stronzate, invece che del sostegno concreto dei genocidi reali che avvengono sotto gli occhi di tutti, preferisce concentrarsi nella denuncia del sostegno immaginario a un genocidio altrettanto immaginario, inventato tra un’invasione aliena e l’altra dai seguaci complottisti del Falun gong: “Sotto la presidenza Xi Jinping” specifica infatti l’articolo “la Cina ha preso una svolta autoritaria, reprimendo il movimento democratico di Hong Kong e costringendo la minoranza uigura in campi di concentramento” e Scholz c’ha pure il coraggio di andarci a parlare…
Io, sinceramente, pensavo che questi livelli fossero prerogativa de il Foglio, di Giulia Pompili e Radio genocidio Radicale; qui mancano solo giusto gli organi espiantati dai pazienti vivi a mani nude da Xi ed è solo l’inizio perché la Cina, oltre a espiantare gli organi dai prigionieri vivi, è ovviamente anche la patria di tutte le truffe e le pratiche commerciali più scorrette: prima ha attirato gli onesti imprenditori tedeschi promettendo sogni di gloria e poi li ha fottuti con politiche protezionistiche mettendoli fuori mercato con generosi sussidi, che oggi le permettono di esportare “veicoli elettrici cinesi a basso costo in Europa” che mettono in ginocchio gli onesti produttori europei (che è un po’ una sorta di record mondiale di fake news e di ribaltamenti della realtà mai visti in un singolo periodo di un giornale). L’economia tedesca, infatti, è sì vittima di una nuova spirale protezionistica e di una nuova guerra commerciale, solo che a dichiarargliela – com’è arcinoto – sono stati i padroni di Washington che, in quanto a politiche protezionistiche e generosi sussidi, hanno non solo doppiato, ma letteralmente triplato la repubblica popolare, ma pretendere che a ricordarcelo sia un pennivendolo a libro paga dell’ex direttore della CIA effettivamente sarebbe un po’ troppo. Il problema, semmai, è che – fino ad oggi – questo plateale ribaltamento della realtà è stato anche la linea politica delle élite tedesche: come fosse possibile, ce lo siamo chiesti per mesi, senza trovare una risposta chiara; sicuramente, però, un aspetto che ha pesato sempre parecchio è che la Germania, dal punto di vista della difesa e dell’intelligence, non può in nessun modo essere considerata un paese sovrano, ma (nella migliore delle ipotesi) un protettorato. Ma come tutti i servi che si rispettino, l’obbedienza totale e incondizionata al padrone è davvero garantita solo fino a quando a prevalere è la paura, una paura che, fino ad oggi, si fondava sul mito della supremazia militare totale degli USA (che, in parte, è anche un mito non privo di fondamento): grazie alla dittatura del dollaro, infatti, gli USA si sono fatti finanziare dai vassalli quello che è in assoluto il più grande apparato militare della storia dell’umanità che però – comincia a sospettare qualcuno – forse non basta più.
E per stamattina ci fermiamo qua; per la seconda, succulenta parte di questo video vi do appuntamento a fra poche ore e se, nel frattempo, vi piace il lavoro che facciamo e – come noi – siete convinti che in questo mondo nuovo che avanza serva come il pane una voce alternativa alla propaganda dei vecchi media, aiutateci a crescere e a rimanere indipendenti: aderite alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bongbong Marcos

CIA e Fondi Speculativi: l’assalto degli USA alle telecomunicazioni globali (a partire dall’Italia)

L’accelerazione della svendita degli asset strategici italiani ai padroni dell’impero è diventata la priorità assoluta del governo dei fintosovranisti che procedono a suon di blitz, e quello di lunedì scorso è stato letteralmente inquietante: senza passare dall’assemblea dei soci, con la piena collaborazione del governo, il Cda di TIM ha deciso di accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR per la vendita della sua rete fissa.

Sarah Bartlett

Probabilmente l’asset più strategico di tutti gli asset strategici e, probabilmente, il peggior acquirente possibile immaginabile: “The money machine”, la macchina da soldi, come aveva ribattezzato KKR Sarah Bartlett nel suo leggendario libro nell’ormai lontano 1991, aprendo gli occhi al mondo di fronte alle pratiche predatorie dei fondi che compravano a debito le aziende per spolparle e intascare plusvalenze stratosferiche. Ma non solo: KKR, infatti, è diventato un vero e proprio braccio armato delle mire egemoniche dell’impero e si sta ritagliando, acquisizione dopo acquisizione, un posto al sole nel mondo delle infrastrutture delle telecomunicazioni dall’India all’Olanda, passando per il Cile, Singapore, la Colombia. Roba che grande fratello scansate, soprattutto per la biografia di chi è al posto di regia: nientepopodimeno che un ex direttore generale della CIA. E’ il famigerato generale USA David Petraeus, già noto per il ruolo disastroso ricoperto nella carneficina irachena prima e in quella afghana poi; nel 2012, in seguito a uno scandalo a sfondo sessuale, lascia di punto in bianco la guida dell’intelligence USA ed eccolo approdare magicamente nella stanza dei bottoni di KKR che gli crea una nuova divisione ad hoc – il KKR Global Institute – specializzata nell’analisi macroeconomica e geopolitica. “Petraeus” sottolineava Il Sole 24 Ore nel 2013 “potrà aiutare KKR anzitutto ricorrendo alla sua rete di contatti con governi e autorità internazionali”. Direi che ha soddisfatto tutte le aspettative: consegnare infrastrutture strategiche – come le reti di telecomunicazioni – a un fondo speculativo che sa di CIA da mille miglia di distanza ovviamente è un’operazione che non ha niente a che vedere con il mercato, la concorrenza e l’interesse economico in genere. E’ una scelta politica di totale e palese sottomissione, è la ciliegina sulla torta della totale abdicazione a ogni minimo tentativo di ritagliarsi uno spazio, se pur minimo, di indipendenza e di sovranità e completare il processo che in 30 anni ha trasformato l’Italia nel 51esimo stato guidato da Washington.
La domanda è: ma perché? Perché una classe dirigente che è salita al governo grazie alla retorica della patria e del sovranismo sta facendo di tutto per passare alla storia come l’artefice più spregiudicata della morte definitiva dell’Italia come paese sovrano?
Quella che vi racconteremo oggi, con il prezioso contributo del mitico prof. Alessandro Volpi, è la grande storia di come le oligarchie finanziarie USA hanno trasformato, con la complicità delle oligarchie locali, tutti i paesi che definivano alleati in appendici dell’impero a stelle e strisce. E lo faremo a partire dall’ultimo sconcertante capitolo di questa lunga saga, l’incredibile blitz che lunedì ha portato il consiglio di amministrazione di TIM, col benestare del governo e senza manco passare da un’assemblea degli azionisti, ad accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR – che annovera nel suo top management nientepopodimeno che l’ex direttore della CIA David Petraeus -per l’acquisto di quello che è probabilmente in assoluto l’asset più strategico della compagnia e, in generale, del nostro paese: la rete fissa delle telecomunicazioni.

Prof. Alessandro Volpi: ““Perché l’operazione consiste, appunto, nella cessione di operazione della rete. Quindi, secondo me, c’è un primo elemento singolare in questa vicenda, che è la decisione del consiglio d’amministrazione che non passa all’assemblea dei soci, ritiene che il socio pubblico sia sostanzialmente irrilevante e affida a KKR la proprietà della rete. Ora, è vero che TIM aveva già una quota significativa di azionisti internazionali, il 44%, però è altrettanto vero che qui si passa dal 44%, più o meno frammentato di azionisti internazionali ad un unico soggetto che è KKR che diventa il riferimento. Perché, appunto, il fatto che il consiglio d’amministrazione abbia deliberato soltanto a vantaggio di KKR, accettando l’offerta di KKR, considerandola un’offerta che non ha parti correlate, vuol dire che c’è un unico compratore che si chiama KKR.”[…]E poi aggiungerei a questo il fatto che comprerà Sparkle, quindi le reti sottomarine. Quindi in Italia avremo un unico proprietario dei sistemi delle infrastrutture strategiche.”

Alessandro Volpi

Lo shopping, in realtà, era già iniziato oltre due anni fa, nell’aprile del 2021, quando KKR entra a gamba tesa nell’azionariato di Fibercop – la nuova società fondata da TIM – e alla quale ha consegnato le chiavi della rete in fibra ottica sviluppata dalla controllata Flash fiber. Un assaggino, diciamo; Fibercop, infatti, non è certo il monopolista dei nuovi cavi in fibra ottica che attraversano il paese. Anzi, il pezzo grosso di questo fondamentale asset strategico del paese in realtà è un’altra società: Openfiber, dove KKR non c’è. C’è Macquarie, il fondo speculativo protagonista assoluto del banchetto che gli svendipatria britannici hanno apparecchiato a favore delle oligarchie finanziarie cedendogli il controllo dell’acqua pubblica con gestori che, dopo le privatizzazioni, sono diventati enormemente più indebitati senza aver mai investito il becco di un quattrino, ma avendo distribuito dividendi in quantità. L’ultimo scampolo di concorrenza tutta giocata tra fondi speculativi della stessa identica natura e che a breve avrà finalmente fine: una volta conclusa l’acquisizione della rete TIM da parte di KKR, infatti, l’obiettivo è quello di fondere Openfiber con Fibercop creando, anche nel mondo della connessione in fibra, l’ennesimo monopolio privato. Ma non solo: al banchetto, infatti, al momento manca ancora una portata. Si chiama Sparkle ed è la controllata di TIM che gestisce i cavi sottomarini che collegano la rete italiana al resto del mondo: un altro asset strategico fondamentale, e non solo per l’Italia. Attraverso il nodo di Palermo, infatti, Sparkle è la porta d’ingresso in Europa via Mediterraneo sia per il sud-est asiatico che per il Medio Oriente; anche lei è in svendita e KKR aveva fatto la sua offerta. Fortunatamente, al momento è stata respinta: anche il governo dei fintisovranisti ha qualche limite? Macché. E’ solo un problema di quattrini: Sparkle è a disposizione. Basterà aggiungere qualche spicciolo in più ai miseri 600 milioni offerti in prima istanza.

Prof. Alessandro Volpi: “Perché il dato vero è che non è episodica questa cosa, non è che arriva KKR, vede un’opportunità in Italia e dice “mi butto su quella” secondo la logica dei fondi hedge. Qui non è così: qui c’è, probabilmente, un disegno per cui i grandi fondi si impossessano delle infrastrutture e delle telecomunicazioni e quindi anche in quell’ambito, che è un ambito fondamentale, fanno il monopolio. Cioè, la sostanza è la ricerca del monopolio e, in nome della favoletta del mercato, si giustifica la costruzione dei monopoli. Questo è ciò che veramente è inammissibile: se uno legge una dichiarazione dei ministri di fronte a questa vicenda, tratta anche con un certo silenzio, devo dire, di buona parte della sinistra perché – insomma – non mi sembra ci sia stata una sollevazione di scudi nei confronti di questo tipo di operazione. Alla fine, in nome della necessità – appunto – di garantire il mercato, poi alla fine si costruiscono dei monopoli che sono sempre più pesanti, sono sempre più pesanti e significativi.”[…] “Senza nessuna capacità – torno a dire – del potere politico, della politica, di interagire. Io ho letto le dichiarazioni del governo italiano rispetto all’acquisizione di KKR e sono sostanzialmente entusiaste. All’obiezione che gli ha fatto Vivendi, cioè la Francia, dicendogli “ma scusate, vi comprano la rete e fate decidere il Consiglio di amministrazione senza nessuna interlocuzione” loro hanno detto “vabbè, ma questa è un’operazione” usando questo termine, questa favoletta di mercato, e quindi bisogna lasciarla andare. In realtà, qui di mercato mi sembra che ci sia veramente poco: c’è ormai un monopolio di fatto che è evidentissimo nel meccanismo delle telecomunicazioni.”

Dopo aver abbandonato i monopoli pubblici in nome della concorrenza ecco così che, con la complicità della politica, l’industria delle telecomunicazioni torna più monopolistica di prima solo che, a questo giro, è tutto in mano ai privati e neanche ai gruppi industriali, ma ai fondi speculativi che puntano direttamente al dominio globale. Anche se l’Italia ha voluto conquistare il primo gradino del podio dei paesi in svendita, infatti, la campagna acquisti di KKR nel mondo delle telecomunicazioni non si limita certo a noi: nel giugno del 2020 KKR, insieme a un altro fondo USA e a uno britannico, annuncia l’acquisizione di Masmovil, il quarto operatore delle telecomunicazioni spagnolo; nel febbraio del 2021 KKR annuncia un accordo con Telefonica per l’acquisto al costo di 1 miliardo di dollari delle quote di maggioranza della controllata che si occupa di fibra ottica in Cile; 3 mesi dopo è stato il turno degli olandesi con un accordo tra KKR e T-Mobile per fondare insieme una nuova società dal nome Open Dutch Fiber, sempre appunto per la gestione della rete in fibra ottica; ancora, 3 mesi dopo, un altro accordo con Telefonica, questa volta per l’acquisizione della maggioranza della società che gestisce la fibra ottica in Colombia. E così via, acquisizione dopo acquisizione, per arrivare nel 2022 alla partnership con Vodafone per l’acquisizione di Vantage Towers, il colosso tedesco delle telecomunicazioni wireless, e finire giusto questo autunno con un’altra ondata di acquisizioni che va da Singapore alle Filippine, passando per i cavi sottomarini della Malesia. E KKR è solo la punta dell’iceberg.

Prof. Alessandro Volpi: Lo sta facendo in alcuni paesi dell’est europeo, cioè sta specializzandosi nell’acquisizione dei sistemi di telecomunicazione. Metterei questo fenomeno dentro un fenomeno più grande perché il fenomeno più grande è il fatto che gli azionisti, come sappiamo, di KKR sono i grandi fondi: Vanguard, Black rock, State street e una serie di altri quattro o cinque soggetti, che sono i proprietari della rete infrastrutturale e delle infrastrutture delle telecomunicazioni, a partire dagli Stati Uniti in giro per il mondo. Perché se noi prendiamo le principali società di telecomunicazioni – nel caso degli Stati Uniti la più importante di tutti che è T-Mobile, ma prendiamo poi Verizon, poi prendiamo Comcast e prendiamo AT&T, che sono i cinque colossi mondiali se ci togli casi cinesi (se ci togli China Mobile), questi sono i cinque più grandi possessori di telecomunicazioni, non negli Stati Uniti ma in giro per il mondo. Cioè, in queste società, Black rock, Vanguard, State street e 3 o 4 fondi minori che, in genere, vanno a strascico dei primi tre, hanno il 25%. Quindi noi stiamo assistendo a un processo di cui il caso Telecom, il caso TIM, è soltanto un pezzetto, cioè il processo di ri-articolazione del controllo delle telecomunicazioni in giro per il mondo nelle mani dei fondi finanziari. Ora questa non è la vicenda della vecchia privatizzazione; l’Italia ha scelto questa sciagurata strada della privatizzazione nel ‘97, con il governo Prodi.”

La prima conseguenza, palese e tangibile, di questo processo di appropriazione dell’industria delle telecomunicazioni nelle mani di un manipolo di fondi speculativi è la riduzione dei posti di lavoro e il trasferimento di una quota consistente di ricchezza dai salari ai profitti.

Prof. Alessandro Volpi: Infatti, l’altro dato interessante – e io mi sono andato a vedere questi numeri- è che, nel corso degli ultimi dieci anni, tutte le grandi compagnie di telecomunicazioni hanno ridotto il numero dei loro occupati dal 20 al 35%. Cioè da dove arrivano, ovviamente, i fondi, l’operazione diventa quella di garantire un rendimento azionario. Naturalmente tutte queste realtà che vengono comprate dai fondi sono quotate in Borsa, perché hanno interesse a seguire il dividendo azionario e, contestualmente a questo – come sta accadendo del resto nel settore tecnologico e hi tech – a fronte di dividendi significativi, di fatturati molto alti e di ricavi molto alti, si assiste a un licenziamento più o meno sistematico. Perché, appunto, anche nel caso delle telecomunicazioni come nel caso dell’hi tech, c’è stata una perdita del 20, 25, in alcuni casi del 30% della forza lavoro. Quindi la finanziarizzazione porta a una concentrazione che riduce gli spazi della sovranità – mi sembra abbastanza evidente – di natura strategica e, al tempo stesso, determina una distruzione del lavoro. Cioè, c’è evidentemente un meccanismo “finanza versus occupazione” che è marcatissimo.”

Nel caso delle telecomunicazioni, però, rispetto alla solita storia infinita di quotidiana ingordigia c’è un aggravante piuttosto consistente, grossa come una casa.

Prof. Alessandro Volpi: Mah, io penso che il sistema delle telecomunicazioni sia, evidentemente, un sistema di natura politica e anche di natura militare. Allora, io non sono un esperto di questi risvolti e quindi non mi voglio cimentare con analisi che non sono cose che conosco profondamente, però è chiaro che il controllo delle reti sottomarine, il controllo – appunto – delle strutture fisse attraverso cui passano i segnali telefonici, i segnali delle telecomunicazioni, la rete, sia quanto di più strategico – anche in termini di difesa o aggressione militare – sia possibile. Tra l’altro, si diceva prima, se uno prende le prime dieci compagnie di telecomunicazioni al mondo, le uniche che sono ancora di proprietà dello Stato sono quelle cinesi; cioè – appunto – China Mobile ha come azionista di riferimento lo Stato cinese ed è proprietario delle infrastrutture cinesi. Evidentemente in India l’assalto alle telecomunicazioni da parte delle grandi compagnie – e da parte dei fondi che sono dietro le grandi compagnie – è già partito, perché è evidente che in un modo nel quale il sistema delle telecomunicazioni è controllato – per quanto riguarda le strutture fisse e per quanto riguarda i cavi, per intenderci – da soggetti che sono soggetti di natura privata e finanziaria, vogliamo immaginare che questo non sia un elemento di pressione, di condizionamento delle politiche monetarie, delle scelte – anche strategiche – rispetto all’innalzamento dei prezzi dei prodotti? Cioè io voglio dire – sarà perché a frequentare Giuliano Marucci divento un po’ complottista – che però mi sembra abbastanza evidente che se io possiedo le telecomunicazioni, possiedo le agenzie di rating e possiedo i sistemi informativi, beh, alla fine poi posso anche veicolare le impennate di prezzo che scateno attraverso la vendita degli strumenti derivati. Cioè, è evidente che qui c’è un legame, e questo poi produce una conseguenza – come tu dicevi – geopolitica, perché se ci sono determinate aree di tensione in giro per il mondo, probabilmente questo sistema funziona decisamente meglio e avere il controllo strategico delle reti vuol dire anche, in qualche modo, condizionare gli equilibri di forza tra i vari paesi e quindi far immaginare determinati scenari. Io penso che anche qui – è quello che dicevo in apertura – cioè, si sottovaluti la delicatezza della concentrazione della proprietà, cioè qui non è che stiamo parlando di un mercato dove ci sono dei soggetti che si fanno concorrenza: in Italia, torno a dire, la rete – forse non è chiaro – non è nelle mani dei 44% di investitori che prima componevano, insieme al 20% di Vivendi, il grosso dell’azionariato di TIM; ora ce n’è uno solo che si chiama KKR il quale – torno a dire – è un pezzo di un sistema globale di controllo delle telecomunicazioni attraverso i fondi finanziari. Cioè questa roba mi sembra che abbia molto a che fare con la democrazia, con la sicurezza degli Stati, con le dinamiche conflittuali; cioè, in altri tempi, io faccio fatica a immaginare uno Stato che cedesse le proprie infrastrutture strategiche come la rete fissa o i cablaggi o i controlli di sottomarini a un soggetto finanziario che, peraltro, risponde a logiche di altri paesi e in particolar modo, ovviamente, ha a che fare con il governo degli Stati Uniti. Cioè mi sembra che siamo di fronte a un processo di finanziarizzazione esasperato che partorisce una concentrazione che toglie spazio evidentissimo alla politica, che toglie spazio alla sovranità, ma direi anche la stessa democrazia.”

E quindi qua si ritorna alla domanda di partenza: ma perché mai la nostra classe dirigente, sia politica che economica, si mette a disposizione di questo processo distopico di concentrazione del potere economico e politico nelle mani di una ristrettissima oligarchia che li considera, nella migliore delle ipotesi, camerieri servizievoli? Ovviamente una risposta sta nello strapotere militare e a livello di intelligence di Washington, in grado ancora di tenere sotto scacco mezzo pianeta, ma una risposta fondata solo sui bruti rapporti di forza rischia di essere solo parziale. Una macchina così ben funzionante non si può fondare esclusivamente sul puro dominio e sul monopolio della forza fisica; perché funzioni a dovere, qualche contropartita ci deve essere. Insomma: come al solito, tocca seguire i soldi.
Come fanno oggi le élite economiche a fare profitto? Concretamente, intendo. Passo numero 1: come sempre devi avere un’azienda che produce qualcosa e che, quando la rivende, ci ripaga i costi e ci fa un piccolo margine. A questo punto già c’è la prima biforcazione perché, nel capitalismo tradizionale, una buona fetta di quel profitto lo reinvesti per allargare la tua produzione e fare ancora più profitto; quindi, quando in un anno le aziende hanno registrato tanti profitti, dovresti vedere anche tanti investimenti. E però c’è qualcosa che non torna perché l’anno scorso, ad esempio, le aziende italiane i profitti li hanno fatti eccome, eppure tutta questa ondata di investimenti sinceramente io non l’ho vista (e non solo io).

Prof. Alessandro Volpi: […] perché, ovviamente, i grandi fondi non avrebbero subito grandi difetti, grandi danni da quella riduzione di liquidità, perché ce l’hanno. Quindi, per effetto di questo percorso per cui mettere i soldi nella finanza era vincente, ebbene questo meccanismo ha partorito una progressiva riduzione degli investimenti perché – e i numeri lo dicono con chiarezza anche pensando al nostro Paese – il volume complessivo degli investimenti, a cominciare dagli investimenti lordi fissi – parlando degli investimenti privati – si è significativamente ridotto, quindi perché, quando ci sono i margini favorevoli e ci sono gli utili, si decide di destinarli subito alla remunerazione del capitale, e magari si fanno dei ri-acquisti di titoli azionari, quindi senza nessun effetto sull’andamento reale dell’economia, per far salire il valore di quei titoli. Quindi, praticamente, è come se si comprasse carta su carta, per citare un’espressione sommaria dei grandi economisti.”[…] “Quindi vuol dire, evidentemente, che anche la partecipazione, là dove c’era un capitale pubblico disponibile, dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale – non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale – pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto diversificare, come si dice, il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce certamente.”

Capito eh, i furbacchioni… Ci raccontano che i profitti sono importanti, sennò poi come si fa a investire in innovazione, in ricerca, in marketing e chi più ne ha più ne metta, ma poi – in realtà – quando quei profitti arrivano, invece di reinvestirli li usano per speculare. Però, però, tendenzialmente qui c’è un problemino, perché investire in azioni o in prodotti finanziari – a regola – potrebbe essere abbastanza rischioso: e come faccio, allora, a convincere i miei cari imprenditori ad avventurarsi nel casino delle scommesse finanziarie invece che continuare a investire nel caro vecchio business di famiglia, che tanta fortuna gli ha portato fino ad oggi? Semplice: devo eliminare i rischi. Oddio, semplice… tanto semplice non è, però ecco, l’obiettivo è quello: eliminare i rischi, che – in termini finanziari – si dice anche ridurre la volatilità. E come si fa a ridurre questa benedetta volatilità? Bisogna trovare un modo affinché le bolle speculative non si sgonfino mai; si devono continuare a gonfiare gradualmente, sempre di più. Per farlo, c’è bisogno di una quantità di quattrini sostanzialmente illimitata, una quantità tale che permetta continuamente di iniettare nuovi soldi nelle vecchie bolle. E dove si trovano tutti questi soldi? Semplice: concentrando tutti i soldi che ci sono sempre di più nelle mani di pochi soggetti, che è esattamente quello che è successo.

Logo di BlackRock

Quei soggetti si chiamano asset manager e, in particolare, i tre giganti dell’industria della gestione patrimoniale: Blackrock, Vanguard e State street: la massima concentrazione di ricchezza mai vista nella storia dell’umanità. Con un patrimonio gestito che supera di diverse volte i prodotti interni lordi di interi paesi avanzati, i giganti dell’asset management garantiscono che le bolle continuino a gonfiarsi all’infinito a prescindere da cosa succede all’economia reale, ed ecco allora fatto il giochino: grazie ai monopolisti dei mercati finanziari, i camerieri servizievoli, quando ricevono i profitti delle loro aziende che ancora producono e vendono qualcosa, invece di rischiare reinvestendoli nell’economia reale non devono fare altro che buttarli nelle bolle speculative, sostenute dai monopolisti stessi, e fare soldi dai soldi. Da questo punto di vista non è difficile capire perché a questi camerieri ben remunerati, della sovranità che sarebbe necessaria per far ripartire l’economia non gliene può fregare di meno e sono ben felici di svenderla ai monopolisti della finanza, che soli gli possono garantire delle belle mance cospicue.

Prof. Alessandro Volpi: […] la produttività non cresce, non cresce certamente. Il problema è che l’attrattività e, paradossalmente, la riduzione del rischio che il monopolio finanziario sta generando, produce come effetto inevitabile la contrazione dei processi produttivi; cioè una volta, fino a 10-15 anni fa – ma del resto è, come dire, la crisi del 2008 avrebbe dovuto insegnare qualcosa – in realtà la percezione che si è maturata dopo il 2008 è che la concentrazione vera della ricchezza finanziaria nelle mani di pochissimi – che diventano anche i proprietari di un vastissimo spettro di attività – è lo strumento per ridurre la volatilità dei mercati, perché la volatilità la si affida totalmente alle decisioni di questi gruppi che, alla fine, la regolano come una sorta di rubinetto per comunque provare a garantire rendimenti finanziari a tutte quelle società che sono da loro partecipate. E quindi è ovvio che le imprese cercano di entrare dentro quel sistema di partecipazioni e di investimento, e il sistema produttivo e il modello industriale e manifatturiero di servizi – come noi ce lo immaginavamo in passato – viene meno, perché la differenza di rischio fra affidarsi al sistema finanziario e fare impresa è enorme. E quindi noi avremo sempre meno attività manifatturiera e sempre meno attività di impresa nei paesi dove prevale la struttura di natura finanziarizzata e questo mi sembra che i numeri ormai ce lo dicano con grande evidenza, ma perché è tornata la riduzione del rischio. E non è solo la riduzione del rischio perché, per una certa fase, le banche centrali hanno fornito talmente tanta liquidità che – alla fine – la finanza viaggiava agevolmente perché era facilmente liquida, ma anche e soprattutto perché c’è una regia di un monopolio che è in grado di determinare la volatilità e di farla più o meno oscillare […]”.

L’aspetto geniale di tutto questo meccanismo – più distopico della peggiore distopia hollywoodiana e che permette di guadagnarsi la collaborazione delle élite economiche dei paesi che vengono depredati – è che a fornire ai giganti della gestione patrimoniale una potenza di fuoco sufficiente per portare avanti il loro progetto di dominio globale sono, in buona parte, anche le vittime stesse di questo meccanismo che, alla fine, a volte ringraziano pure; buona parte dei quattrini gestiti da questi asset manager, infatti, sono proprio nostri, della gente comune come noi che campa sempre peggio del suo lavoro.
E’ il frutto delle scelte politiche del partito unico della guerra e degli affari che governa i paesi dell’Occidente collettivo da almeno 30 anni a questa parte, 30 anni durante i quali è stato smantellato sistematicamente lo stato sociale universalista che costituiva la spina dorsale delle democrazie moderne e che ci ha costretto a buttare sempre più quattrini in fondi previdenziali integrativi e assicurazioni mediche di ogni genere. Tutti quattrini che diventano armi di distruzione di massa che le oligarchie usano per devastare scientificamente l’economia reale che ci permette di sopravvivere, dandoci in cambio un contentino perché, se le bolle speculative continuano ad auto-alimentarsi e i quattrini della nostra pensione sono stati investiti in quelle bolle, qualche spicciolo in cambio ci torna pure a noi. Che culo. E’ un po’ lo stesso contentino che ci hanno garantito con le delocalizzazioni e le liberalizzazioni: hanno devastato la nostra qualità della vita a suon di precarietà e stagnazione dei salari, però ci hanno permesso di comprare a due lire un sacco di orrende t-shirt di plastica che prendono fuoco solo a vederle e, addirittura, di far finta di andarci a divertire nel weekend in qualche capitale europea grazie a un viaggio a due lire in un carro bestiame low cost e al soggiorno in qualche aribnb quasi esentasse grazie alla cedolare secca. Grazie, davvero. Non ce n’era bisogno. Stavo bene anche a casina mia col maglione fatto a mano da mia nonna, ma con qualche ora di tempo libero da dedicare alle cose che mi interessano e senza il patema di non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena dall’oggi al domani.

Carlo Bonomi

Ma come in tutte le storie distopiche, al danno – alla fine – si deve aggiungere sempre anche qualche beffa: l’ultima ce l’ha regalata il buon vecchio Carlo Bonomi, patron di Confindustria. Lo spunto gli è arrivato dai dati sull’inflazione della scorsa settimana: 1,8%, sotto il target della BCE. Un dato che ha fatto immediatamente gridare tutta la stampa di regime al miracolo. Una gigantesca presa per il culo: il dato, infatti, si riferisce all’inflazione di ottobre anno su anno, e cioè a quanto sono aumentati nell’ottobre 2023 i prezzi rispetto all’ottobre precedente; peccato, però, che nell’ottobre 2022 – causa la speculazione criminale sui prezzi dell’energia – i prezzi fossero letteralmente esplosi. E’ quello che, in gergo tecnico, viene definito un outlier – un valore anomalo – ma tanto è bastato a Bonomi per lanciare la sua ultima crociata; secondo Bonomi, infatti, di fronte a questi dati sull’inflazione bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno: i salari dei lavoratori italiani sono cresciuti troppo, soprattutto perché – nel frattempo – non è cresciuta la produttività. Ricchi e sfaticati: ecco come Bonomi vede i lavoratori italiani.

Prof. Alessandro Volpi: […] “quindi quel modello ha funzionato, si sono ridotti gli investimenti. Io trovo particolarmente singolare che il presidente di Confindustria dica “va beh, ma allora, visto che siamo in queste condizioni e, quindi, la produttività italiana è bassa, bisogna ridurre i salari” perché – appunto – il buon Bonomi sembra dimenticarsi che la produttività dipende in primo luogo dagli investimenti e dalla qualità degli investimenti; cioè senza che ci sia un investimento reale nel processo produttivo, senza che ci sia uno sforzo di migliorare la qualità del processo produttivo, è difficile che la produttività cresca. Se io destino gli utili che ho accumulato tramite operazioni finanziarie ad altre operazioni finanziarie e riduco il volume degli investimenti, poi non è che mi devo stupire che la produttività non cresca perché, evidentemente, la produttività avrebbe avuto bisogno – in determinati settori in particolare – di una maggiore mole di investimenti privati e una minore attenzione al rendimento finanziario: magari destinare gli utiliqualche anno al 70 – 80% al reinvestimento produttivo. In realtà questo non è avvenuto; è stato finanziarizzato, e la narrazione di Bonomi che veramente, da questo punto di vista, è un personaggio anche abbastanza singolare, è quella di dire “siccome non c’è produttività, i salari sono cresciuti troppo e ora li dobbiamo contrarre ulteriormente, e magari riduciamo ulteriormente il numero degli occupati” a meno che, dice Bonomi, “lo Stato non ci dia dei soldi” lamentandosi del fatto che c’èsolo 8% della legge di bilancio che è destinata agli incentivi alle imprese, senza appunto poi andare a verificare che nel nostro Paese – pur in presenzadelle tranches dei Pnr e quindi di un incentivo pubblico – gli investimenti privati si sono ridotti. Quindi vuol dire, evidentemente, che anche là dove c’era un capitale pubblico disponibile la partecipazione dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale (non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale) pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari, o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto, diversificare – come si dice – il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce”.

Ci pisciano addosso e i media mainstream all’unisono ci dicono che piove.
Mi sa che abbiamo bisogno di un media tutto nostro che, invece che alle barzellette di questi svendipatria, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Bonomi