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Tag: pensione

Italiani rapinati: perché il governo Meloni ha deciso di regalare il nostro tfr alla finanza USA

Il Sole 24 Ore, 21 agosto: Panetta al meeting di Rimini: il problema cruciale rimane la riduzione del debito pubblico. La Verità, 23 agosto: Ai fondi pensione il 25% del tfr. Domani, 23 agosto: Stellantis scappa da Torino. Libero, 24 agosto: Giorgetti a Rimini: il PNRR mi ricorda i piani quinquennali dell’Unione Sovietica. Non c’è che dire: se eravate alla ricerca di indizi su quanto tutte le famiglie politiche della classe dirigente italiana siano impegnate giorno e notte nel rendere il declino economico del paese il più rapido e irreversibile possibile, l’ultima settimana dovrebbe avervi lautamente ricompensati; dal ritorno dell’austerity alla sottomissione forzata dei lavoratori italiani alle logiche della grande finanza, passando per l’incedere inesorabile della deindustrializzazione e il culto fuori tempo massimo delle magnifiche sorti e progressive del mercato che si autoregola, bisogna ammettere che non ci siamo fatti mancare assolutamente niente. Ad aprire le danze c’ha pensato, appunto, il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta con un intervento che sembrava arrivare direttamente dal 2009, quando tutto l’establishment economico dell’Occidente collettivo parlava di austerità espansiva prima di scoprire, conti alla mano, che l’austerità non solo distrugge l’economia, ma alla fine inevitabilmente fa anche aumentare il debito. Tutto rimosso: “Il debito elevato” afferma Panetta con un contorsionismo da psichiatria “sottrae risorse alle politiche anticicliche”; cioè Panetta stesso – che c’avrà sì anche lui i suoi limiti, ma non al livello di uno youtuber di Liberi Oltre o un giornalista de Il Foglio – riconosce ovviamente che quando l’economia va di merda, a intervenire dev’essere lo Stato per aumentare, facendo spesa in deficit, la domanda aggregata. Al che uno pensa che quindi ammetterà che ora c’è bisogno di allentare i cordoni della borsa; d’altronde, gli ultimi dati confermano che il valore della produzione industriale in un anno è diminuito di un altro 4% e che in 4 anni i salari reali degli italiani più fortunati (quelli che hanno un contratto regolare) hanno perso circa il 10% del loro potere d’acquisto, ad essere generosi: più crisi di così, cosa vuoi? Una carestia? Eppure – non si capisce bene in base a quale logica – Panetta sostiene che proprio ora i cordoni della borsa è il caso di stringerli il più possibile, così magari in futuro, quando arriverà un’altra crisi, avremo sufficienti margini di manovra per fare un po’ di spesa pubblica. Tipo il 32 agosto del duemilacredici o dopo che saremo tutti morti per un olocausto nucleare. Evidentemente c’è qualcosa che non torna e quello che non torna è che a brevissimo bisognerà cominciare a mettere mano alla manovra economica; e la direzione deve essere chiara: non cominciate a venir fuori con idee strampalate su come far ripartire produzione e consumi in Italia, che qui ancora questi zucconi conservatori tirchioni degli italiani non hanno capito che i loro risparmi devono essere dati in mano ai grandi gestori di patrimoni per gonfiare la principale fonte di rendita di chi i soldi ce li ha già, e cioè la bolla finanziaria.
Ed ecco così che arriviamo al secondo indizio, che è il più succulento: la proposta di legge della Lega che introdurrebbe l’obbligo di destinare almeno il 25% dell’accantonamento del tfr ai fondi pensione; da anni, tutti – e quando dico tutti intendo letteralmente tutti, di sinistra, di destra, di sopra, di sotto – provano a convincere gli italiani ad aderire ai fondi integrativi, ma con risultati non esattamente del tutto soddisfacenti. Non rimane quindi che la via di imporlo con la forza anche se, come sostiene ad esempio Alberto Brambilla, già sottosegretario al lavoro e alle politiche sociali del secondo governo Berlusconi (e quindi non esattamente un pericoloso bolscevico), “Imporre ai lavoratori di impegnare parte della loro retribuzione in un fondo pensione non è costituzionale. L’adesione alla previdenza integrativa non può che essere volontaria”. D’altronde, però, a mali estremi, estremi rimedi e qui c’è bisogno di garantire ai nostri giovani pensioni dignitose per il futuro, soprattutto dal momento che ormai un lavoro vero, con un contratto vero full time a tempo indeterminato e con un salario superiore alla soglia di povertà, è un lusso per pochi. L’unica speranza, allora, è affidare quei pochi risparmi che mettiamo da parte – a partire dal tfr – a qualcuno che li investe in borsa e che li sa far fruttare come si deve: come ribadisce Gianluca Baldini, l’obiettivo della misura non può che essere “garantire soprattutto ai giovani lavoratori pensioni migliori” e “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre” (e sottolineo SEMPRE) “di più rispetto a lasciare il tfr in azienda”. Ma è proprio così?

A vedere da questo grafico pubblicato da Morningstar ormai oltre un anno fa, a dire il vero, tutto sommato, sembrerebbe di no: per quanto riguarda il 2022 ad esempio (secondo il grafico), mentre chi aveva i soldi in un fondo pensione si è visto svalutare il suo patrimonio del 9,8 o addirittura del 10,7% – a seconda che si trattasse di fondi riservati ai lavoratori di determinati settori o di fondi aperti a tutti – quei tirchioni cacasotto che li avevano lasciati fermi immobili nel tfr se li sono visti rivalutare dell’8,3%. Eh vabbeh, direte; stai a fa il solito cherry picking. Sei andato a scegliere proprio l’anno del tracollo dei titoli azionari legato alla crisi pandemica. E’ vero, solo che proprio quell’anno lì è bastato da solo a smontare, dati alla mano, l’idea che appunto “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre di più rispetto a lasciare il tfr in azienda” che quindi, molto banalmente, è una fake news bella e buona, una pubblicità ingannevole al servizio della grande finanza; a causa dell’annus horribilis 2022, infatti, chi ha lasciato i suoi soldi nel tfr ha guadagnato rispetto a chi li ha dati in affidamento ai fondi anche se allarghiamo la finestra temporale: nell’arco degli ultimi 3 anni, infatti, chi ha messo i soldi nei fondi ha perso dallo 0,7 allo 0,8%, mentre il tfr si rivalutava del 4,3%. E nell’arco degli ultimi 5 la differenza diminuisce un po’, ma il senso non cambia: il patrimonio messo nei fondi si è rivalutato dallo 0,2 allo 0,4%, mentre quello rimasto a dormire nel tfr del 3,3. E per quanto effettivamente il 2022 sia stato un anno anomalo per l’andamento dei titoli azionari, il punto è che questi anni anomali, nel tempo, sono diventati sempre più frequenti: per trovare un altro caso, infatti, non bisogna risalire al 1929, ma basta tornare al 2008, o al 2001, o al 1987.
Quindi – sostanzialmente – la politica economica del governo Meloni consisterebbe nel fatto di scommettere al Casino con i pochissimi quattrini che un’economia in declino da 40 anni ancora ci ha lasciato in tasca, ma c’è di più, perché almeno questa roba servisse a dare un po’ di risorse finanziarie alle nostre PMI messe in ginocchio dalla crisi economica e dai tassi di interesse da usura… Macché: in realtà, anche da questo punto di vista è una gigantesca fregatura; da un lato, infatti, dei soldi che affidiamo ai fondi solo il 16% rimane in Italia, mentre oltre il 60% viene trasferito direttamente oltreoceano senza passare dal via. Dall’altro, in questo modo colpiamo direttamente la liquidità proprio delle nostre PMI che – soprattutto in questa fase, dove le banche di finanziamenti ne concedono pochini e quelli che concedono se li fanno pagare a peso d’oro – hanno visto nel tfr accantonato in azienda una fondamentale ancora di salvezza; insomma: si tolgono con la forza soldi ai lavoratori e alle aziende italiane per darli alla grande finanza d’oltreoceano. Per un governo di patrioti – bisogna ammettere – niente male, e gli effetti si vedono eccome: Frena il mercato del lavoro titolava La Repubblichina martedì scorso: “Forte aumento a luglio delle richieste di cassa integrazione e dell’utilizzo dei fondi di solidarietà da parte delle aziende”; in totale, riporta l’ultimo Osservatorio dell’INPS, le ore di cassa integrazione autorizzate a luglio sono state 36,6 milioni, segnando un + 3,71%, ma soprattutto un insostenibile + 27,9% rispetto al luglio del 2023 . A fare ancora più impressione è il dato disaggregato relativo alla sola industria, dove le richieste di ore di cassa integrazione durante i primi 6 mesi del 2024 hanno visto un aumento di un incredibile 51,3% rispetto all’anno precedente.
E – indovinate un po’ – tra i settori che soffrono di più, “incredibilmente” c’è l’automotive: “Stellantis dà il bentornato in fabbrica agli operai dello stabilimento di Pomigliano annunciando altri 5 giorni di cassa integrazione a settembre” riporta Il Fatto Quotidiano. E non è solo un problema degli operai: come ricordava venerdì scorso Maurizio Pagliassotti su Domani, il tramonto ormai è arrivato anche – ad esempio – per lo storico centro ricerche FIAT di Orbassano che a partire dagli anni ‘70 si era imposto come “uno dei cuori pulsanti della ricerca in campo automobilistico in tutto il vecchio continente”; nel tempo, ha sfornato la bellezza di oltre 3000 brevetti – dal motore turbodiesel multijet a iniezione diretta al common rail. Ancora nel 2002 impiegava oltre 1000 dipendenti super-specializzati, che poi sono diventati 770 nel 2012 e 500 nel 2021; oggi sono poco più di 150, troppo pochi per tenerlo ancora in vita. Ma FIAT a parte, la vera tragedia si sta abbattendo su scala ancora maggiore su tutto l’indotto che da FIAT dipendeva e, anche qui, paghiamo lo scotto della nostra sottomissione a Washington e della guerra che i suoi vassalli sono stati costretti a dichiarare alla Repubblica Popolare cinese: lo ha spiegato in modo sorprendentemente chiaro ed esplicito Federico Visentin, il presidente di Federmeccanica, in occasione del lungo viaggio della Meloni a Pechino a fine luglio scorso; in una breve (ma molto significativa) intervista al Corriere della Sera, Visentin spiega in maniera esemplare quello che sosteniamo continuamente da oltre un anno. Primo punto: per tenere in piedi la filiera dell’automotive italiano bisogna che vengano prodotti in Italia almeno 1 milione e mezzo di autoveicoli. Due: questi numeri non si possono sostenere producendo solo auto di alta gamma o costose; bisogna produrre utilitarie economicamente accessibili. Tre: “Gli unici in questo momento con le tecnologie adatte a produrre utilitarie elettriche a basso costo, dai 10 ai 12 mila euro, sono i cinesi”; altro che le vaccate della propaganda imperialista e guerrafondaia sulle politiche commerciali scorrette della Cina, tanto che anche l’intervistatore del Corriere deve essere rimasto un po spiazzato e chiede: “Ma allora davvero i cinesi sono più avanti sull’auto elettrica?”. “lo sono” risponde perentorio Visentin “e dovremmo avere l’umiltà di ammetterlo. Sulle batterie sono arrivati alla quinta generazione”.
Ma noi nel frattempo eravamo troppo impegnati a capire come far arrivare i nostri quattrini sui mercati finanziari d’oltreoceano dove, invece che alla quinta generazione di batterie, sono arrivate alla quindicesima di prodotti finanziari che non fanno altro che rendere più ricco l’1% e destinare alla miseria tutti gli altri. Cosa concretamente si potrebbe e si dovrebbe fare per tornare a creare ricchezza in questo paese non è un mistero: per farlo, però, ci dovremmo prima di tutto liberare dal partito unico degli zerbini di Washington e delle oligarchie finanziarie e dai loro organi di propaganda. Costruire un vero e proprio media che dia voce agli interessi del 99% è il primo indispensabile passo; aiutaci a portarlo a termine: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Fine lavoro mai: se la Meloni fa l’atlantista con le pensioni degli altri

Pensavate di esservi liberati della Fornero, eh? In realtà non aveva fatto altro che indossare una parrucca bionda, frequentare qualche corso di dizione in burinese per darsi un nuovo tono più popolare e rieccola lì ai posti di comando, pronta a condannarvi di nuovo, tra una lacrima e l’altra, ai lavori forzati a vita.
La riforma delle pensioni partorita dal governo dei fintosovranisti svendipatrioti è un inno all’austerity che fa impallidire i tecnici neoliberisti più feroci: “Dopo anni di propaganda per abolire la legge Fornero” sottolinea con una certa nota di soddisfazione Luca Monticelli su La Stampa “il centrodestra è arrivato al governo e ha di fatto eliminato la flessibilità, creando un meccanismo che addirittura rafforza il sistema pensato dal governo Monti del 2011”. Difficile dargli torto; per andare in pensione, dal prossimo anno bisognerà mettere assieme 63 anni di età e 41 anni di contributi ma non solo, perché ormai i lavoratori che hanno iniziato a lavorare a tempo pieno a 22 anni e non hanno mai spesso per i 41 successivi sono una esigua minoranza. Per tutti gli altri, si arriverà in scioltezza a 67 e per quelli che non sono riusciti a mettere assieme nemmeno 20 anni di contributi – e sono tanti – direttamente a 71. In Francia, contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, centinaia di migliaia di persone hanno messo a ferro e fuoco il paese per mesi.
Ovviamente, l’informazione e le élite liberali gongolano e lasciano il palco alla Fornero original che, sempre dalle pagine de La Stampa, si prende la sua rivincita: “La manovra dimostra che quelle regole non erano dettate da insensibilità nei confronti dei desideri e delle aspettative dei lavoratori, ma dall’insostenibilità del sistema previdenziale. Alle condizioni date, nessuna contro-riforma delle pensioni è ragionevolmente possibile”. Non ha tutti i torti. Basta intendersi su cosa si intende per “condizioni date”: per lei – e i tecnocrati come lei – sarebbero le condizioni imposte dalle scienze economiche, dove con scienza intendono quell’insieme di superstizioni create ad hoc dalle oligarchie finanziarie e osservate religiosamente dalle nostre élite, nonostante siano state smentite millemila milioni di volte negli ultimi 20 anni. Per noi, molto più prosaicamente, consistono nel fatto che tra Monti, Draghi, Letta, Giorgetti e la Meloni non ci sono differenze se non di carattere cosmetico: stanno dove stanno per svendere il paese a Washington e alle sue oligarchie finanziarie.
Avevamo basse aspettative, ma di*c**e! Non c’è modo migliore per descrivere la nostra reazione quando abbiamo visto la bozza di disegno di legge di bilancio che è cominciata a circolare martedì scorso e che tutti sostengono sia più o meno definitiva. Nonostante le avvisaglie, abbiamo sperato fino alla fine che la Lega di Salvini non fosse disposta a sbracare in maniera ignobile di fronte alla macellazione di uno dei suoi cavalli di battaglia “ma non c’è stato nulla da fare” sottolinea il Corriere della Serva: “Palazzo Chigi ha avocato a sé la scrittura della manovra anche sulle pensioni, dove il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha concorso a stringere le norme per mandare un segnale di rigore alla commissione Ue e ai mercati, agenzie di rating comprese”.
La botta più feroce è per i millennial, che passeranno alla storia, probabilmente, come una delle generazioni più sfigate di tutti i tempi; per chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1996, cioè l’anno del passaggio criminale dal sistema retributivo a quello contributivo, la pensione sarà una cosa da ricchi. Per andare in pensione alla tenera età di 64 anni, infatti, dovranno aver raggiunto un assegno mensile da 1.700 euro che, in soldoni, significa aver avuto per 20 anni stipendi netti intorno ai 2.300/2.400 euri: una piccola minoranza. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, dovranno aspettare di spegnere 67 candeline. Nella peggiore 71, sempre che le aspettative di vita, nel frattempo, non aumentino; in tal caso si ricalcolerà tutto e l’età aumenterà automaticamente. Siamo arrivati al punto che ogni volta che un vecchietto muore prima degli 80 anni dovremo festeggiare, e forse non basterà: tutte le risorse della manovra, infatti, sono andate al taglio del cuneo fiscale che, in realtà, non è fiscale manco per niente. A venire messi direttamente in busta paga del lavoratore, infatti, sono soldi che fino ad oggi andavano all’INPS; per il prossimo anno quei soldi all’INPS li darà lo Stato. Poi chissà.
Una fregatura; il taglio del cuneo, infatti, è diventato indispensabile dopo che l’anno scorso le aziende, nonostante l’inflazione, hanno aumentato i profitti (e di parecchio) ma senza aumentare di un centesimo gli stipendi dei lavoratori che, così, hanno perso oltre il 7% del loro potere d’acquisto, come se gli avessero tagliato di botto la tredicesima. E questo nella migliore delle ipotesi: secondo una relazione di Mediobanca del mese scorso, infatti, la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori delle 2000 principali aziende italiane sarebbe stata addirittura del 20%. Oltre alla tredicesima gli hanno fregato pure un altro stipendio e mezzo. Con il taglio del cuneo, a colmare la lacuna non dovranno essere le aziende, redistribuendo una piccola parte dei profitti letteralmente fregati sia ai lavoratori che ai consumatori, ma ci penserà lo stato, ovviamente con i soldi dei lavoratori stessi, che sono sostanzialmente gli unici che pagano davvero tutte le tasse e per i quali, in futuro, ci saranno ancora meno soldi per pagare le pensioni.
E sapete lo Stato da dove prenderà i soldi per pagare gli aumenti salariali al posto delle aziende? L’ipotesi che va per la maggiore è il blocco del turn over: se ne sentiva proprio il bisogno. L’Italia infatti, al di là delle leggende metropolitane spacciate dalla propaganda e che fanno immediatamente presa sul popolo delle partite iva – che è incazzato nero e non senza ragioni – è uno dei paesi OCSE col numero più basso di lavoratori pubblici sia rispetto al totale della popolazione attiva, sia rispetto alla popolazione complessiva; per raggiungere gli standard medi del mondo sviluppato, avremmo bisogno domattina di assumere tra gli 1 e i 2 milioni di dipendenti pubblicicosì, de botto. In queste condizioni, fare cassa rinnovando il blocco del turn over significa solo una cosa, molto semplice: ridurre l’amministrazione pubblica una scatola vuota a partire dalla sanità, dove la carenza di personale è un vero e proprio dramma.
La soluzione della Fornero con la parrucca? Pagare di più gli straordinari ed evitare scientificamente di assumere, e quello che si risparmia regalarlo alla sanità privata. Ma attenzione: non sono errori. E’ una strategia deliberata; se a garantire pensioni adeguate e sanità dignitosa non è più il pubblico, infatti, ecco che non rimane altra alternativa che dare un po’ dei nostri quattrini a fondi e assicurazioni private, e cioè alle oligarchie finanziarie – in particolare d’oltreoceano – che ormai hanno più quattrini e potere degli stati nazionali stessi che, ormai, assolvono molto banalmente il ruolo di loro comitato d’affari. E, da questo punto di vista, accanirsi più di tanto con questo governo di fenomeni da baraccone lascia il tempo che trova; sono solo l’ennesima variante, magari leggermente più pittoresca e maldestra, del partito unico degli affari e della guerra che governa l’Italia dalla fine della prima repubblica, con differenze del tutto marginali.
E quindi non ce ne vogliate, ma qui tocca aprire l’ennesimo capitolo di educ8lina e, insieme al leggendario Alessandro Volpi, provare a raccontarvi un altro pezzetto oscuro del capitalismo ai tempi della globalizzazione finanziaria che sui media mainstream non troverete mai.

Capitolo primo: come l’efficientissimo ordine economico neoliberale si è trasformato in una gigantesca trappola del debito

Alessandro Volpi: “Io voglio provare a fare un ragionamento che è sostanzialmente legato a 2 o 3 questioni fondamentali: la prima, che mi sembra una questione di natura generale che a mio modo di vedere merita una riflessione, sono i dati che sono emersi in questi giorni sul livello di indebitamento globale. Abbiamo visto che in questi giorni sono usciti questi rapporti di varia natura. Sono più rapporti che mettono in luce come il debito complessivo e il debito pubblico e privato abbiano superato ampiamente i 300.000 miliardi di dollari, quindi ormai è un livello stabilizzato. Sembrava che questa forte impennata dipendesse dalle spese per il covid e quant’altro, anche a livello globale; in realtà ormai viaggiamo su un indebitamento complessivo che è superiore ai 300.000 miliardi, quindi vuol dire grossomodo il 300% del prodotto interno lordo mondiale. Dentro questo numero ce n’è un altro, cioè il gigantesco indebitamento pubblico, perché siamo ormai stabilmente sopra i 100.000 miliardi: oscilliamo fra i 100 e i 98 mila miliardi, quindi il 100% del prodotto interno lordo globale. Ma il dato più rilevante rispetto a questi numeri è rappresentato dal fatto che, secondo le stime di questi istituti di varia origine e provenienza (quindi è certamente un dato oggettivo o almeno presumibilmente oggettivo) la percentuale di interessi maturati sul debito e sul prodotto interno lordo tende a oscillare fra il 15 e il 20%, che è veramente un’esagerazione. Pensare che noi abbiamo una massa di interessi da pagare – intendo il sistema globale degli stati in giro per il mondo – che è grossomodo intorno al 15% del prodotto interno lordo mondiale, vuol dire veramente una montagna di soldi. Da questa fotografia, secondo me, emergono due considerazioni di rilievo. La prima, ce lo dobbiamo mettere in testa (e spero che questo messaggio riusciremo a trasmetterlo), è che è difficile immaginare qualsiasi ipotesi di mantenimento in vita di una parvenza di stati sociali – ma a questo punto direi anche dello stesso sistema delle imprese e delle famiglie – senza il debito. Cioè l’idea che il debito sia in qualche modo, soprattutto nel caso del confronto dei debiti pubblici, un dato patologico per cui bisogna riavviare politiche di austerity, ridurre il debito, riportare i parametri – come vuole fare l’Europa con il patto di stabilità in qualche modo, sia pur gradatamente – a una riduzione, mi sembra che cozzi contro questo dato di fatto. Cioè se noi prendiamo i dati, banalmente, del 2000, i dati del 2000 ci fanno vedere che il rapporto fra il debito complessivo e il prodotto interno lordo mondiale era intorno, grossomodo, al 20 – 25%; oggi siamo al 300%. Come si può pensare che noi manteniamo in vita dei parametri, peraltro pensati a metà degli anni ‘90, quindi in condizioni dove i rapporti debito – PIL pubblico (e in parte privato) facevano dire “Beh, ma il debito è il male e quindi mettiamo tutta una serie di misure che devono far rientrare in direzione della riduzione dell’indebitamento”?

Oggi è abbastanza palese che immaginare una contrazione del debito vuol dire strangolare le economie dei paesi sia dal punto di vista privato sia dal punto di vista pubblico. È evidente che al debito si somma debito e si strangola ancora, in maniera marcata, l’economia pubblica. Quindi bisognerebbe cominciare a pensare che il debito pubblico è un dato sostanzialmente fisiologico, che va rapportato alla capacità di mantenere i Paesi in condizioni di vita che siano dignitose dal punto di vista dei servizi, e servono le politiche delle banche centrali – laddove necessario – per il finanziamento del debito. Ce lo dicono i numeri: a volte veramente è come se noi non volessimo vedere i numeri (e poi su questa arriverò a cascata sulle considerazioni anche legate allo specifico), ma i numeri ci dicono che il debito è indispensabile. Se noi non facciamo debito non siamo in grado di mantenere in vita il nostro sistema economico. I debiti pubblici hanno un ruolo decisivo.

Fortunatamente, però, un modo per sopravvivere e rendere tutto questo gigantesco debito sostenibile c’è, si chiama monetizzazione: in soldoni, significa che quando uno Stato cerca di finanziare il suo debito attraverso l’emissione di titoli di Stato ma sul mercato non trova abbastanza acquirenti, o per trovarli gli deve garantire interessi troppo alti, ecco che a intervenire è la Banca Centrale, che stampa moneta e a comprare il debito ci pensa direttamente lei. Non è una tecnica particolarmente innovativa; quando il capitalismo era ancora capitalismo industriale e per fare quattrini si puntava alla crescita economica – invece che al furto di una fetta sempre più grande di ricchezza in un’economia che si rimpicciolisce sempre di più – era la norma: in Italia, ad esempio, fino al 1981, quando la religione neoliberista ci impose di rendere la Banca Centrale indipendente e al servizio – invece che del governo – delle oligarchie finanziarie. Ma ancora oggi, in piena era di dominio delle oligarchie, c’è chi lo fa ancora, e non sono soltanto gli stati sovrani del sud globale che, anzi, da questo punto di vista qualche difficoltà in più ce l’hanno. No, no. E’ proprio il centro dell’impero.Negli USA la Fed, infatti, fa esattamente questo: dà carta bianca al governo per aumentare il debito sostanzialmente all’infinito. Questo infatti è l’andamento del debito pubblico USA dal 1970 ad oggi: ancora nel 2008 era paragonabile a quello dell’area euro,appena poco sopra il 60%. Oggi è poco meno del 125% e continua ad aumentare di brutto, e la Fed continua a comprare tutti i titoli che servono. Da noi invece, dopo la parentesi del whatever it takes di Draghi, la BCE non solo i titoli ha smesso di comprarli, ma ha anche iniziato a vendere quelli che c’aveva già, nonostante il debito complessivo dell’eurozona sia enormemente inferiore a quello USA: appena appena sopra il 90%. Secondo la leggenda metropolitana degli economisti mainstream, l’eurozona sarebbe quella virtuosa: la teoria magica, infatti, prevede che se aumenti il debito e poi lo monetizzi fai esplodere l’inflazione. Peccato, però, che l’inflazione nell’eurozona sia stabilmente superiore a quella USA: maledetta realtà, che continua a contraddire i tecnocrati neoliberisti. Senza rispetto proprio.
Ma il masochismo dell’eurozona non finisce qui, perché se non hai una Banca Centrale che monetizza il tuo debito, il tuo debito – appunto – lo devi vendere ai privati. Ma come fanno i privati a decidere quanti interessi gli devi riconoscere perché si prendano il rischio di comprare il tuo debito?
Ed ecco che qui entrano in gioco le agenzie di rating, tre aziende private che danno le pagelle al debito di tutti i paesi del mondo, e gli investitori istituzionali – come i fondi pensione – se le agenzie di rating ti hanno dato un brutto voto, il tuo debito molto banalmente non lo comprano. Insomma, delle prof esigenti e influentissime che, però, spesso non agiscono in modo esattamente disinteressato, diciamo. Le tre agenzie di rating che decidono le sorti delle finanze pubbliche di tutto il mondo sono Fitch, Moody’s e Standard & Poor; i primi tre azionisti di Standard & Poor sono Vanguard, State Street e Blackrock ,che sono anche tre dei principali cinque azionisti di Moody’s insieme a Bearkshire Hathaway, il fondo di investimento di Warren Buffet. Un conflitto di interessi gigantesco, che va ben oltre semplicemente assecondare le scommesse al ribasso dell’azionista di riferimento. Il problema è molto più generale; il voto delle agenzie di rating è per forza di cose influenzato dagli interessi generali dei grandi fondi speculativi e il modello è molto chiaro: più svendi il tuo paese ai fondi speculativi e più alti saranno i tuoi voti. Ecco perché, al di là delle polemiche da talk show, essere disposti a svendere la patria non è un’opzione politica tra le tante, ma è proprio il prerequisito per salire al governo di un paese, che tu ti chiami Monti, Fornero, Giancazzo Giorgetti o Giorgia famigliatradizionale Meloni. E sui media mainstream tutto questo noncielodikono.
Per cominciare a guardare la luna invece del dito, l’unica possibilità è che un media tutto nostro – che non faccia da megafono alle oligarchie finanziarie – ce lo si costruisca da no. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti