Italiani rapinati: perché il governo Meloni ha deciso di regalare il nostro tfr alla finanza USA
Il Sole 24 Ore, 21 agosto: Panetta al meeting di Rimini: il problema cruciale rimane la riduzione del debito pubblico. La Verità, 23 agosto: Ai fondi pensione il 25% del tfr. Domani, 23 agosto: Stellantis scappa da Torino. Libero, 24 agosto: Giorgetti a Rimini: il PNRR mi ricorda i piani quinquennali dell’Unione Sovietica. Non c’è che dire: se eravate alla ricerca di indizi su quanto tutte le famiglie politiche della classe dirigente italiana siano impegnate giorno e notte nel rendere il declino economico del paese il più rapido e irreversibile possibile, l’ultima settimana dovrebbe avervi lautamente ricompensati; dal ritorno dell’austerity alla sottomissione forzata dei lavoratori italiani alle logiche della grande finanza, passando per l’incedere inesorabile della deindustrializzazione e il culto fuori tempo massimo delle magnifiche sorti e progressive del mercato che si autoregola, bisogna ammettere che non ci siamo fatti mancare assolutamente niente. Ad aprire le danze c’ha pensato, appunto, il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta con un intervento che sembrava arrivare direttamente dal 2009, quando tutto l’establishment economico dell’Occidente collettivo parlava di austerità espansiva prima di scoprire, conti alla mano, che l’austerità non solo distrugge l’economia, ma alla fine inevitabilmente fa anche aumentare il debito. Tutto rimosso: “Il debito elevato” afferma Panetta con un contorsionismo da psichiatria “sottrae risorse alle politiche anticicliche”; cioè Panetta stesso – che c’avrà sì anche lui i suoi limiti, ma non al livello di uno youtuber di Liberi Oltre o un giornalista de Il Foglio – riconosce ovviamente che quando l’economia va di merda, a intervenire dev’essere lo Stato per aumentare, facendo spesa in deficit, la domanda aggregata. Al che uno pensa che quindi ammetterà che ora c’è bisogno di allentare i cordoni della borsa; d’altronde, gli ultimi dati confermano che il valore della produzione industriale in un anno è diminuito di un altro 4% e che in 4 anni i salari reali degli italiani più fortunati (quelli che hanno un contratto regolare) hanno perso circa il 10% del loro potere d’acquisto, ad essere generosi: più crisi di così, cosa vuoi? Una carestia? Eppure – non si capisce bene in base a quale logica – Panetta sostiene che proprio ora i cordoni della borsa è il caso di stringerli il più possibile, così magari in futuro, quando arriverà un’altra crisi, avremo sufficienti margini di manovra per fare un po’ di spesa pubblica. Tipo il 32 agosto del duemilacredici o dopo che saremo tutti morti per un olocausto nucleare. Evidentemente c’è qualcosa che non torna e quello che non torna è che a brevissimo bisognerà cominciare a mettere mano alla manovra economica; e la direzione deve essere chiara: non cominciate a venir fuori con idee strampalate su come far ripartire produzione e consumi in Italia, che qui ancora questi zucconi conservatori tirchioni degli italiani non hanno capito che i loro risparmi devono essere dati in mano ai grandi gestori di patrimoni per gonfiare la principale fonte di rendita di chi i soldi ce li ha già, e cioè la bolla finanziaria.
Ed ecco così che arriviamo al secondo indizio, che è il più succulento: la proposta di legge della Lega che introdurrebbe l’obbligo di destinare almeno il 25% dell’accantonamento del tfr ai fondi pensione; da anni, tutti – e quando dico tutti intendo letteralmente tutti, di sinistra, di destra, di sopra, di sotto – provano a convincere gli italiani ad aderire ai fondi integrativi, ma con risultati non esattamente del tutto soddisfacenti. Non rimane quindi che la via di imporlo con la forza anche se, come sostiene ad esempio Alberto Brambilla, già sottosegretario al lavoro e alle politiche sociali del secondo governo Berlusconi (e quindi non esattamente un pericoloso bolscevico), “Imporre ai lavoratori di impegnare parte della loro retribuzione in un fondo pensione non è costituzionale. L’adesione alla previdenza integrativa non può che essere volontaria”. D’altronde, però, a mali estremi, estremi rimedi e qui c’è bisogno di garantire ai nostri giovani pensioni dignitose per il futuro, soprattutto dal momento che ormai un lavoro vero, con un contratto vero full time a tempo indeterminato e con un salario superiore alla soglia di povertà, è un lusso per pochi. L’unica speranza, allora, è affidare quei pochi risparmi che mettiamo da parte – a partire dal tfr – a qualcuno che li investe in borsa e che li sa far fruttare come si deve: come ribadisce Gianluca Baldini, l’obiettivo della misura non può che essere “garantire soprattutto ai giovani lavoratori pensioni migliori” e “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre” (e sottolineo SEMPRE) “di più rispetto a lasciare il tfr in azienda”. Ma è proprio così?
A vedere da questo grafico pubblicato da Morningstar ormai oltre un anno fa, a dire il vero, tutto sommato, sembrerebbe di no: per quanto riguarda il 2022 ad esempio (secondo il grafico), mentre chi aveva i soldi in un fondo pensione si è visto svalutare il suo patrimonio del 9,8 o addirittura del 10,7% – a seconda che si trattasse di fondi riservati ai lavoratori di determinati settori o di fondi aperti a tutti – quei tirchioni cacasotto che li avevano lasciati fermi immobili nel tfr se li sono visti rivalutare dell’8,3%. Eh vabbeh, direte; stai a fa il solito cherry picking. Sei andato a scegliere proprio l’anno del tracollo dei titoli azionari legato alla crisi pandemica. E’ vero, solo che proprio quell’anno lì è bastato da solo a smontare, dati alla mano, l’idea che appunto “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre di più rispetto a lasciare il tfr in azienda” che quindi, molto banalmente, è una fake news bella e buona, una pubblicità ingannevole al servizio della grande finanza; a causa dell’annus horribilis 2022, infatti, chi ha lasciato i suoi soldi nel tfr ha guadagnato rispetto a chi li ha dati in affidamento ai fondi anche se allarghiamo la finestra temporale: nell’arco degli ultimi 3 anni, infatti, chi ha messo i soldi nei fondi ha perso dallo 0,7 allo 0,8%, mentre il tfr si rivalutava del 4,3%. E nell’arco degli ultimi 5 la differenza diminuisce un po’, ma il senso non cambia: il patrimonio messo nei fondi si è rivalutato dallo 0,2 allo 0,4%, mentre quello rimasto a dormire nel tfr del 3,3. E per quanto effettivamente il 2022 sia stato un anno anomalo per l’andamento dei titoli azionari, il punto è che questi anni anomali, nel tempo, sono diventati sempre più frequenti: per trovare un altro caso, infatti, non bisogna risalire al 1929, ma basta tornare al 2008, o al 2001, o al 1987.
Quindi – sostanzialmente – la politica economica del governo Meloni consisterebbe nel fatto di scommettere al Casino con i pochissimi quattrini che un’economia in declino da 40 anni ancora ci ha lasciato in tasca, ma c’è di più, perché almeno questa roba servisse a dare un po’ di risorse finanziarie alle nostre PMI messe in ginocchio dalla crisi economica e dai tassi di interesse da usura… Macché: in realtà, anche da questo punto di vista è una gigantesca fregatura; da un lato, infatti, dei soldi che affidiamo ai fondi solo il 16% rimane in Italia, mentre oltre il 60% viene trasferito direttamente oltreoceano senza passare dal via. Dall’altro, in questo modo colpiamo direttamente la liquidità proprio delle nostre PMI che – soprattutto in questa fase, dove le banche di finanziamenti ne concedono pochini e quelli che concedono se li fanno pagare a peso d’oro – hanno visto nel tfr accantonato in azienda una fondamentale ancora di salvezza; insomma: si tolgono con la forza soldi ai lavoratori e alle aziende italiane per darli alla grande finanza d’oltreoceano. Per un governo di patrioti – bisogna ammettere – niente male, e gli effetti si vedono eccome: Frena il mercato del lavoro titolava La Repubblichina martedì scorso: “Forte aumento a luglio delle richieste di cassa integrazione e dell’utilizzo dei fondi di solidarietà da parte delle aziende”; in totale, riporta l’ultimo Osservatorio dell’INPS, le ore di cassa integrazione autorizzate a luglio sono state 36,6 milioni, segnando un + 3,71%, ma soprattutto un insostenibile + 27,9% rispetto al luglio del 2023 . A fare ancora più impressione è il dato disaggregato relativo alla sola industria, dove le richieste di ore di cassa integrazione durante i primi 6 mesi del 2024 hanno visto un aumento di un incredibile 51,3% rispetto all’anno precedente.
E – indovinate un po’ – tra i settori che soffrono di più, “incredibilmente” c’è l’automotive: “Stellantis dà il bentornato in fabbrica agli operai dello stabilimento di Pomigliano annunciando altri 5 giorni di cassa integrazione a settembre” riporta Il Fatto Quotidiano. E non è solo un problema degli operai: come ricordava venerdì scorso Maurizio Pagliassotti su Domani, il tramonto ormai è arrivato anche – ad esempio – per lo storico centro ricerche FIAT di Orbassano che a partire dagli anni ‘70 si era imposto come “uno dei cuori pulsanti della ricerca in campo automobilistico in tutto il vecchio continente”; nel tempo, ha sfornato la bellezza di oltre 3000 brevetti – dal motore turbodiesel multijet a iniezione diretta al common rail. Ancora nel 2002 impiegava oltre 1000 dipendenti super-specializzati, che poi sono diventati 770 nel 2012 e 500 nel 2021; oggi sono poco più di 150, troppo pochi per tenerlo ancora in vita. Ma FIAT a parte, la vera tragedia si sta abbattendo su scala ancora maggiore su tutto l’indotto che da FIAT dipendeva e, anche qui, paghiamo lo scotto della nostra sottomissione a Washington e della guerra che i suoi vassalli sono stati costretti a dichiarare alla Repubblica Popolare cinese: lo ha spiegato in modo sorprendentemente chiaro ed esplicito Federico Visentin, il presidente di Federmeccanica, in occasione del lungo viaggio della Meloni a Pechino a fine luglio scorso; in una breve (ma molto significativa) intervista al Corriere della Sera, Visentin spiega in maniera esemplare quello che sosteniamo continuamente da oltre un anno. Primo punto: per tenere in piedi la filiera dell’automotive italiano bisogna che vengano prodotti in Italia almeno 1 milione e mezzo di autoveicoli. Due: questi numeri non si possono sostenere producendo solo auto di alta gamma o costose; bisogna produrre utilitarie economicamente accessibili. Tre: “Gli unici in questo momento con le tecnologie adatte a produrre utilitarie elettriche a basso costo, dai 10 ai 12 mila euro, sono i cinesi”; altro che le vaccate della propaganda imperialista e guerrafondaia sulle politiche commerciali scorrette della Cina, tanto che anche l’intervistatore del Corriere deve essere rimasto un po spiazzato e chiede: “Ma allora davvero i cinesi sono più avanti sull’auto elettrica?”. “lo sono” risponde perentorio Visentin “e dovremmo avere l’umiltà di ammetterlo. Sulle batterie sono arrivati alla quinta generazione”.
Ma noi nel frattempo eravamo troppo impegnati a capire come far arrivare i nostri quattrini sui mercati finanziari d’oltreoceano dove, invece che alla quinta generazione di batterie, sono arrivate alla quindicesima di prodotti finanziari che non fanno altro che rendere più ricco l’1% e destinare alla miseria tutti gli altri. Cosa concretamente si potrebbe e si dovrebbe fare per tornare a creare ricchezza in questo paese non è un mistero: per farlo, però, ci dovremmo prima di tutto liberare dal partito unico degli zerbini di Washington e delle oligarchie finanziarie e dai loro organi di propaganda. Costruire un vero e proprio media che dia voce agli interessi del 99% è il primo indispensabile passo; aiutaci a portarlo a termine: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Federico Rampini