Skip to main content

Tag: pasolini

Che cosa è l’ideologia Woke?

In questi mesi sentiamo sempre più spesso parlare di ideologia o cultura Woke. C’è chi la demonizza, descrivendola come una sorta di perversione, e c’è chi invece la considera una forma di progresso morale e spirituale dell’umanità. Ma che cosa significa Woke? E in che cosa consiste questa nuova ideologia che sembra diventata egemone in molti ambienti della sinistra occidentale?In questo video ripercorreremo le sue origini, vedremo i suoi indirizzi politici di fondo e cercheremo di capire se oltre alle solite critiche della destra bigotta e conservatrice ve ne sono anche altre, più sensate, che ne mettono a nudo le ipocrisie e fanno luce sui suoi legami con il potere neoliberale.
Woke, e cioè – letteralmente – “sveglio”, almeno abbastanza per individuare e denunciare le ingiustizie sociali, a partire da quelle razziali: il termine Woke, infatti, entra ufficialmente nei dizionari dell’anglosfera a partire dal 2017 dopo essere stato adottato dal movimento Black Lives Matter. Non si tratta di una visione politica complessiva e organica, ma di un insieme – spesso anche un po’ caotico – di teorie e di rivendicazioni diverse ma che, secondo autori importanti come Chomsky o Zizek, hanno comunque un senso storico preciso e coerente: un vero e proprio cambio di paradigma nelle teorie e nelle pratiche politiche della sinistra occidentale. L’ideologia Woke spazia dai classici temi connessi ai diritti civili ad alcune nuove battaglie culturali che vanno dalla distruzione di monumenti del passato alla politicizzazione degli orientamenti sessuali visti come atti di autoaffermazione, alla legalizzazione della gravidanza surrogata, alla censura del linguaggio ritenuto scorretto: meriterebbero un video ciascuno, e ci ripromettiamo di farlo; qua invece ci limiteremo a provare a capire se sia rintracciabile un indirizzo di fondo comune e, soprattutto, le ragioni dell’uso in parte strumentale che di questa ideologia viene fatto oggi.
Questo nuovo orientamento politico ha origine in quella corrente culturale nota come postmodernismo emersa negli anni ’70 nelle università francesi e poi diffusasi in alcuni ambienti della sinistra liberal americana; un nuovo approccio che prenderà anche il nome di New Left e che si caratterizza per una cesura piuttosto netta con la tradizione socialista e marxiana e si fonda su nuove teorie dello sfruttamento e dell’emancipazione più compatibili con le strutture capitaliste. Ed è infatti soprattutto a partire dagli anni ‘80, con la crisi dell’Urss e l’affermarsi delle strutture economiche neoliberiste, che questa ideologia comincia a diffondersi e ad affermarsi. Per quanto quasi nessuno si definirebbe Woke, oggi nel nostro paese gran parte di queste idee sono entrate a far parte dell’immaginario politico delle nuove generazioni, e questo anche grazie all’adesione ad alcune delle sue teorie da parte attori, influencer e di buona parte dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento; dall’altro lato della barricata, ad avere risonanza sono purtroppo quasi solo le critiche mosse dalla destra bigotta e reazionaria che, in nome di una tradizione da loro arbitrariamente inventata, si erge ad eroica guardiana dei sacri valori del patriarcato, della distinzione di genere e, in generale, di come si facevano le cose una volta.

Vincenzo Costa

Ma al di là del generale Vannacci e compagnia bella, in questi anni anche tanti intellettuali di ben altro spessore hanno preso posizione contro alcune delle tesi antropologiche e politiche Woke più superficiali e antiscientifiche e contro l’atteggiamento aristocratico e antidemocratico di alcuni suoi esponenti: nel suo libro Categorie della politica, Vincenzo Costa sottolinea, ad esempio, anche l’atteggiamento spesso elitario e classista di questa nuova cultura; maturata all’interno delle università, l’ideologia Woke ha infatti fatto presa soprattutto negli ambienti di lavoro intellettuale e negli strati più agiati della popolazione. Nonostante il bombardamento mediatico, le classi popolari ne sono rimaste sostanzialmente estranee e, anzi, spesso guardano ad essa con ostilità e sospetto: come scrive la giornalista Florinda Ambrogio “La correlazione tra redditi alti dei genitori e comportamenti Woke dei figli salta agli occhi. […] In Francia, solo il 40 per cento degli operai ha sentito parlare della scrittura inclusiva e solo il 18 per cento sa di che cosa si tratta, contro il 73 per cento nelle categorie superiori.”
Ma questa diffidenza e ostilità non è casuale e ha ragioni politiche profonde; nella New Left postmoderna vengono infatti ridefinite le nozioni di dominio e di emancipazione: il soggetto da emancipare smette di essere identificato nei ceti subalterni e nelle classi lavoratrici – ossia le persone vittime della miseria e della precarietà – per diventare le minoranze etniche e sessuali e di coloro che, indipendentemente dal reddito, sono considerati o si sentono “diversi”. Diventando questi ultimi i soggetti sociali da emancipare, gli operai, contadini, impiegati e, in generale, le classi popolari, a causa della loro cultura – che viene considerata dallo wokismo retrograda, ignorante e prevaricatrice – diventano magicamente espressione del nuovo potere da abbattere; dalla lotta politica allo sfruttamento e per l’emancipazione del 99 per cento, quindi, con l’ideologia Woke si passa alla lotta culturale contro il costume e le tradizioni popolari, ritenute – senza appello – verminaio di sessismo, razzismo, omofobia. Per questo, scrive Costa, “anche l’atto rivoluzionario non consiste più nello spezzare i legami di potere e dipendenza tra le classi e gli uomini, ma nel distruggere la cultura popolare come emblema di oppressione delle minoranze”: diventa quindi chiaro perché, dalla prospettiva degli ultimi, la nuova sinistra alla moda politicamente corretta appaia spesso come una tribù di sedicenti illuminati con il culo parato che, demonizzandone lo stile di vita e i legami comunitari, vorrebbe imporre loro una rieducazione dall’alto in base alle proprie idee e valori di nicchia; ma, come nota Zizek, questo progetto è probabilmente destinato a fallire. È evidente come nelle rivendicazioni della classe operaia in Inghilterra, ad esempio, le classi popolari non chiedevano di essere rieducate da un’aristocrazia morale e intellettuale perlopiù estranea alle loro condizioni di vita, ma giustizia sociale e diritto alle proprie forme di legame; “Sceneggiatori, registi, attrici e attori” scrive il filosofo sloveno in un articolo chiamato Wokeness is here to stay “cadono sempre di più nella tentazione di impartire lezioncine moraleggianti. Una forzatura che non ha riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone”. Differentemente dalle grandi figure della tradizione socialista, insomma, questi nuovi intellettuali di sinistra non sembrano interessati ad ascoltare e a dare voce agli interessi della maggioranza delle persone, ma solo a biasimarne gli stili di vita accusandoli di ignoranza e discriminazione: “Quella che in origine era una sacrosanta volontà di uguaglianza di diritti” continua Costa in Le categorie della politica “rischia di diventare una vera e propria guerra culturale dei primi contro gli ultimi”.
Un esempio emblematico, in questo senso, è il caso del cosiddetto linguaggio inclusivo: in maniera del tutto arbitraria e in barba ai secolari processi storici di formazione linguistica, alcune nicchie di intellettuali americani e europei hanno deciso di voler modificare alcune desinenze e pronomi, accusando di discriminazione e prevaricazione tutti coloro che non si adeguano. Il filosofo Andrea Zhok, nel suo libro La profana inquisizione e il regno dell’Anomia, commenta così questo curioso caso di ingegneria linguistica: “Contro ogni evidenza è stata gabellata l’idea che gli usi tradizionalmente al maschile di certe parole creino l’aspettativa che a rivestirle sia un maschio, operando perciò come ostacolo all’emancipazione femminile. L’evidenza linguistica primaria che il significato sia determinato dall’uso è stata rimossa. Si è preferito pensare che i rapporti sociali effettivi (da cui dipendono gli usi linguistici), possano essere mutati riformando le desinenze. […] che nessuno chiamando una “guardia giurata” si aspetti un’apparizione muliebre con rossetto e tacchi a spillo è ritenuto accidentale. Che nessuno si stupisca se la “maschera” a teatro sia un giovanotto nerboruto è ritenuto trascurabile. Che fino all’altro ieri quando si parlava di “valutazione degli studenti” tutti avessero in mente l’insieme del corpo studentesco, a prescindere da questioni di genere, è invece certamente segno della rimozione di un inconscio segno di superiorità maschile”. Alla luce di questa trasformazione nei concetti di discriminazione ed emancipazione appare ora molto più chiaro il nesso tra cultura Woke e neoliberismo e la ragione per la quale i grandi poteri di questo mondo si siano spesso fatti portavoce di questa nuova ideologia.
Partiamo intanto dal presupposto che è ampiamente dimostrato come, nelle società capitaliste, il principale motore di diseguaglianza e discriminazione sociale sia il “capitale pregresso”, ossia la disponibilità economica familiare e individuale; questa disparità di capitale si ripercuote su tutti i livelli: sulla formazione, sul riconoscimento pubblico, sull’accesso a posizioni di potere politico ecc. ecc. Anche tutte le differenze di genere, etnia, colore, ecc. diventano praticamente impalpabili e irrilevanti per chi possiede significative disponibilità economiche e, più in generale, più in alto si sale nella scala sociale; questo dato conclamato viene però sistematicamente rimosso dal tavolo facendo finta che non esistano variabili economiche e creando una guerra tra poveri su questioni di genere, etnia, orientamento sessuale o altro. Insomma: mentre si bersagliano i plurali linguistici, a non essere mai toccate dalle critiche Woke sembrano essere proprio le principali cause della riproduzione della diseguaglianza e della discriminazione, ossia i meccanismi di mercato e di distribuzione della ricchezza – e già la cosa comincia un po’ a puzzare; per dirla con una battuta “Ci si emancipa con successo dall’oppressione di grammatica e sintassi, mente ci si prosterna accoglienti verso i consigli per gli acquisti degli influencer” scrive Zhok. Si spiega così come sia stato possibile che un movimento culturale minoritario legato alla mancata rivoluzione del ’68 sia potuto diventare una componente egemonica della società contemporanea, e la ragione sta nella sua compatibilità con le funzionalità al regime neoliberale: per prima cosa, la funzionalità dello wokismo sta nel fatto che, nella gerarchia dei temi da trattare, le questioni socioeconomiche, i rapporti tra lavoro e capitale, lo strapotere della finanza internazionale, la perdita di sovranità democratica vengono surclassate, nella presentazione e nell’agenda pubblica, dallo scandalo di cronaca su questo o quell’abuso patriarcale e discriminatorio e può pertanto ben funzionare da distrazione di massa; in secondo luogo, l’impianto Woke promuove una politica dell’individualismo e della frammentazione in cui ogni fronte comune che si fondi sull’interesse nazionale, sull’interesse di classe, sull’interesse di una comunità locale ecc. viene infiacchito da conflitti privati di autoaffermazione. Si parla spesso, per questa tendenza, di Identity politics – politiche dell’identità -, ma sarebbe più giusto parlare di politica di rigetto dell’identità, visto che ogni identità collettiva viene percepita con disagio da individui abituati a pensare che la libertà sia totale assenza di vincoli e legami e che il processo di liberazione sia sempre un processo non con, ma contro ogni comunità di appartenenza: per citare Sartre, per i rappresentati più fanatici della nuova sinistra Woke “l’altro è l’inferno.”

Carl Rhodes

Ma la soluzione a queste contraddizioni non sarebbe il tanto ripetuto argomento per il quale bisogna portare avanti sia i diritti civili che quelli sociali? Sicuramente, ma dovremmo anche fingere di non vedere che, da mezzo secolo, il dibattito pubblico verte solo sui primi, mentre sono solo i secondi ad andare a picco; a questo proposito, una menzione merita l’ultimo libro di Carl Rhodes – Capitalismo Woke – dedicato ad un fenomeno in espansione, quello del Wokewashing, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente, le cause LGBT, l’antirazzismo, i diritti delle donne e simili: dal ricco CEO di BlackRock che tuona contro le discriminazioni allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette che fustiga la mascolinità tossica al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “Fra le imprese, soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a diventare woke” scrive Rhodes, tanto che “Secondo il New York Times il capitalismo woke è stato il leitmotiv di Davos 2020”; l’autore – che non è certo un conservatore di destra – ha, nei confronti di questo fenomeno, una posizione piuttosto negativa e ne sottolinea l’aspetto ipocrita e strumentale volto a sviare l’attenzione dalle pratiche oligarchiche e antisociali dei grandi gruppi economici. E’ infatti facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa selezione determinata dai propri interessi: non si è ancora visto, ad esempio, le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, dato che sono i primi a praticarla. L’ideologia Woke, secondo Rhodes, sta diventando il corrispettivo di ciò che era il cristianesimo per la borghesia dell’800 e 900: un modo per vendersi come difensori della morale e del bene, sviando l’attenzione dalle forme sistemiche di sfruttamento che portano avanti.
Per concludere vorrei infine citare Pier Paolo Pasolini, uno dei primi critici dell’ideologia Woke ante-litteram; nel 1975, pochi mesi prima di essere ammazzato, avendo capito che sotto la copertura delle giuste rivendicazioni politiche delle minoranze si stava sviluppando una nichilistica distruzione di tutte le forme di vita difformi alla norma del consumismo individualistico, così scriveva sul Corriere della Sera: “Tale rivoluzione capitalistica dal punto di vista antropologico pretende degli uomini privi di legami con il passato, cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche. […] tale nuova realtà ha tratti facilmente individuabili; borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica ansia democratica, correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza”.
I diritti civili e la lotta contro ogni forma di discriminazione sono una parte fondamentale del processo di emancipazione dei subalterni: serve come il pane un vero e proprio media che ci aiuti a sottrarle dalle strumentalizzazioni operate dalle oligarchie, per riportarle ad essere strumenti di lotta a favore del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il Generale Vannacci

Perché in Italia non c’è mai stata una rivoluzione?

Rivoluzioni mancate, una lunga tradizione italiana. Ce ne fosse mai riuscita una: dalla rivoluzione scientifica alla riforma religiosa, dalle rivoluzioni di fine ‘700 al  risorgimento, dal biennio rosso fino alla guerra partigiana: la storia del nostro paese è in buona parte storia del fallimento sistematico di ogni tentativo di rivoluzionare alla radice i rapporti sociali, morali e politici.  Perché?
Io sono Valentina Morotti, e questa è la nuova puntata di “Ottosofia” e oggi parliamo di una delle più importanti e durature tradizioni italiane: le rivoluzioni mancate.
Biennio rosso (1919-1920): mai come allora l’Italia è stata davvero sull’orlo di una rivoluzione. Duemila scioperi, oltre 3 milioni di lavoratori mobilitati dal sindacato – per la stragrande maggioranza di fede socialista – e con il Partito Socialista che alle elezioni del novembre del 1919 raggiunge la quota astronomica del 32% e triplica in un balzo i propri seggi in Parlamento. Sull’onda lunga della Rivoluzione d’Ottobre, tra gli operai europei era emerso il bisogno di organizzare in modo nuovo la lotta per “fare dappertutto come in Russia”. Nelle industrie torinesi spuntano come funghi i consigli di fabbrica, guidati da uno degli intellettuali più importanti della storia del nostro paese: Antonio Gramsci. E’ lui a investire l’avanguardia operaia di un ruolo rivoluzionario fondamentale: quello di costituire la base di una nuova “democrazia proletaria” che si opponga alla democrazia parlamentare borghese, scossa alle fondamenta e terrorizzata dal contagio della “febbre bolscevica” dalle pianure dell’est. Tutto sembra pronto a un cambiamento esplosivo, il tritolo è ben posizionato, ma proprio sul più bello ecco che qualcosa si inceppa nell’innesco; il Partito Socialista, infatti, incapace di porsi alla testa delle masse, non riesce a dare alle occupazioni e alle esperienze dei consigli di fabbrica una degna traduzione politica. Un’incapacità strategica e addirittura, potremmo dire, filosofica che finisce per disinnescare il Biennio Rosso, trasformandolo in un’altra delle tante rivoluzioni mancate del nostro paese.

in foto: Antonio Gramsci

Ma com’è potuto accadere? Dove si nasconde l’anello debole nella guida politica del PSI che ha impedito la creazione di un laboratorio rivoluzionario? E’ a partire da queste dolorose domande che si snoda la riflessione di Gramsci sull’incapacità del suo partito di organizzare politicamente le sollevazioni operaie. Nei “Quaderni dal carcere” Gramsci giunge all’apice della sua ricerca sul fallimento delle rivoluzioni in Italia, ampliando il discorso alla storia italiana passata e ricollegandosi all’elefante nella stanza del Risorgimento: la mancata rivoluzione agraria. Laddove il Risorgimento avrebbe potuto prendere una direzione popolare e rivoluzionaria, camminando sulle gambe della classe contadina per riscattarla socialmente ed economicamente, quella maledetta riforma agraria non arrivò; anche e soprattutto, sottolinea Gramsci, per l’ostilità culturale più o meno esplicita delle élites liberali del tempo. Nella classe politica borghese e cittadina, sottolinea il filosofo, “c’è l’odio e il disprezzo contro il “villano”, un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della campagna”. (Gramsci, “Quaderni dal carcere”, p. 2035).
E ovviamente, come in ogni contro-rivoluzione che si rispetti, quel “fronte unico” implicito diventa esplicito, riesumando le forze sociali uscite bastonate e frastornate dai cambiamenti in corso nel tentativo di stabilizzare lo status quo. Nasce così la forza reazionaria post-risorgimentale, fondata sull’alleanza eclettica tra borghesi del Nord e grandi latifondisti del Sud, con uno scopo ben preciso, divenuto fatto storico: il soffocamento dei contadini del meridione, delle loro rivendicazioni e della loro forza organizzativa. Per Gramsci, dunque, il problema del Mezzogiorno esplode nella pancia dello Stato unitario come una lacerante contraddizione: non solo l’organizzazione dello stato unitario privilegiava una piccola fetta della società, trascurando le classi popolari e i loro bisogni, ma era anche incapace di percepirle e interpretarle come un soggetto di trasformazione storica. La soluzione, per la minoranza di latifondisti e borghesi, non poteva essere che schiacciare – non solo fisicamente ma anche ideologicamente – la grande maggioranza contadina. E’ questo mix di condizioni socio-economiche e mancato riconoscimento culturale che, nella riflessione di Gramsci, unisce la possibilità di rivoluzione nel presente con i mancati cambiamenti nel passato, poiché per lui “il passato non era solo ciò che doveva essere, bensì anche, se non soprattutto, ciò che avrebbe potuto essere e non era stato; ciò che è rimasto irrealizzato e che però ancora chiede di svolgersi, di attuarsi”. (Brugnolo, p. 266).
Con i Quaderni si lancia così uno spunto di riflessione sulle condizioni economiche, sociali e culturali che permettono a una rivoluzione di passare dall’utopia alla realtà, ed è il filo rosso al quale prova a ricollegarsi Stefano Brugnolo, professore di teoria della letteratura all’università di Pisa, e autore di “Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo”.

in foto: Stefano Brugnolo

Nella sua riflessione, Brugnolo individua proprio nei “Quaderni dal carcere” “il testo fondamentale per chiunque voglia indagare il rapporto che gli italiani hanno avuto con quel grande non-evento che è stata la rivoluzione mancata”. Il libro parla del modo in cui gli intellettuali italiani hanno interpretato quella lunga tradizione di rivoluzioni mancate in Italia, perché “qui da noi la rivoluzione si è rivelata un disperante appuntamento mancato, costringendo gli scrittori e gli intellettuali a ritornare tante e tante volte su quel nodo irrisolto, a ripensarlo e elaborarlo”. Un j’accuse, quello di Brugnolo, che mette sulla graticola tutte le figure di spicco del panorama intellettuale italiano storicamente associate alle grandi rivoluzioni, come quella scientifica contro il sistema tolemaico. Mettendo a fuoco la figura storica di Galileo Galilei, ad esempio, Brugnolo tratteggia il profilo di un intellettuale che non c’entra nulla col rivoluzionario protagonista dell’opera di Brecht “Vita di Galileo”: i testi di Galileo, piuttosto, ci raccontano di un’altra straordinaria rivoluzione culturale mancata che affonda le sue radici nell’incapacità dello scienziato toscano di comunicare al popolo la sua innovativa visione del mondo. Per Galilei, infatti, la verità semplicemente non è adatta per il popolo, ma solo “per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe”. Le sue opere in volgare sono rivolte a loro e di certo non alla massa.
Sospetto e diffidenza, ecco ciò che Galileo prova verso il popolo: non desidera coinvolgerlo nella sua rivoluzione culturale e, a differenza della sua controparte immaginata da Brecht, non cerca di intaccare con le sue teorie le fondamenta del sistema politico-culturale in cui vive. “Uno dei primi grandi esponenti della ragione moderna”, scrive Brugnolo, proprio “nel mentre lancia il suo progetto, esprime la sfiducia nella possibilità di socializzare quel nuovo modo di pensare, trasformandolo in una forza sociale capace di cambiare il mondo”. Un’occasione mancata.
La stessa sfiducia nelle masse si rintraccia in un peso massimo del Risorgimento, Alessandro Manzoni. Anche lui, sia nei “Promessi sposi” che nel “Saggio sulla rivoluzione francese”, dà voce a tutta la sua diffidenza verso i cambiamenti rivoluzionari democratici. Ad esempio, nel capitolo XXVIII dei “Promessi Sposi” sulla rivolta dei forni, Manzoni spara a zero sulla rivoluzione giacobina: riprendendo i saccheggi compiuti durante le rivolte popolari, lo scrittore paragona le politiche economiche di Ferrer e Robespierre affermando che la colpa per entrambe è della pressione esercitata dalle masse incolte: scrive Manzoni che in Francia “si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti ad onta de’ tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa […] e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge”.

in foto: Alessandro Manzoni

Per Manzoni è il popolo bestia che forza – con la violenza e senza avere alcuna cognizione di politica economica – la mano al decisore politico, che arriva ad adottare misure sciagurate per compiacere demagogicamente il vulgus profanum. Del resto, si parla di quello stesso “volgo disperso” che circa vent’anni prima, nelle pagine di “Adelchi”, aveva sollevato il capo e in maniera miope, secondo il demofobico Manzoni, si era illuso di liberarsi dal giogo longobardo confidando nel ‘disinteressato’ liberatore franco. Sono solo due esempi, ma sono sufficienti se pensiamo a quanto Manzoni sia importante per la letteratura e la cultura italiana. Non è difficile intuire, perciò, l’influenza che ha avuto Manzoni sul nostro dibattito intellettuale e a quanto questi giudizi hanno contribuito a formare la nostra cultura. Il romanzo italiano nasce così – attraverso la penna del suo più illustre pioniere – nel segno del realismo inteso come giudizio negativo sulla rivoluzione democratica. Quando la nostra classe intellettuale si è trovata di fronte la rivoluzione, o ne è stata terrorizzata o è stata incapace di comprenderne la portata; diventa chiaro come il sole che la paura del potere delle masse per le sue manifestazioni estreme (Manzoni e Verga) e la paura di “sporcare” il progresso culturale tramite la sua divulgazione (Galilei), sono due facce della stessa medaglia ideologica. E’ questa cappa culturale controrivoluzionaria che, nei termini gramsciani, si è tradotta in un’ideologia egemone nel corso dei secoli, schiacciando e delegittimando ogni pretesa di cambiamento. La soluzione, per il pensatore sardo, non può che essere una: costruire una classe intellettuale che sia al contempo parte della classe popolare e capace di porsi come sua avanguardia e rappresentante. Un partito parte della classe quindi, che sappia condurre una battaglia essenzialmente culturale per ribaltare i rapporti di forza ed esercitare una nuova egemonia. In sostanza: tutto ciò che è mancato e manca in Italia per dare il giusto peso e rappresentanza alle classi lavoratrici subalterne.
Nel libro, Brugnolo osserva che il pensiero della rivoluzione è “un pensiero capace di concepire il mondo come radicalmente “altro” da quel che è attualmente” e la forza della letteratura è quella di poter immaginare i possibili, quello che non è o non è stato, il negativo dell’esistente attuale, come il mondo dopo la rivoluzione. Se la rivoluzione è stata il grande represso della letteratura moderna, di una letteratura che provava a dare voce a come le cose non sono e potrebbero essere, questo provare a immaginare la rivoluzione nella letteratura di oggi è scomparso: oggi non c’è nemmeno più la capacità di immaginare la rivoluzione. Riusciamo a pensare la fine del mondo ma non il suo cambiamento, la catastrofe di questo pianeta piuttosto che la fine del capitalismo. Il capitalismo ci ha privato dei sogni: lo diceva già Pasolini, che vedeva in quei ragazzi di vita che erano ancora fuori da certe logiche consumistiche i semi del futuro conformismo, di un’omologazione che avrebbe spento le loro energie vitali. L’ultimo Pasolini parla dei giovani sottoproletari che sono stati conquistati dagli ideali borghesi perché la borghesia è ancora la classe dominante e egemone, mentre gli operai erano già da anni stati conquistati dagli ideali piccolo-borghesi del benessere economico. Anche il potenziale rivoluzionario del sottoproletariato urbano viene conquistato dai valori consumistici della classe borghese, che è sempre la classe egemone che impone non solo il proprio sistema di produzione ma anche i propri valori, il proprio immaginario, il proprio sistema di immaginare il mondo.
La conclusione del libro è che il tardo capitalismo, dopo la fine delle utopie novecentesche e il trionfo del neoliberismo, avrebbe atrofizzato la capacità di immaginare la rivoluzione. “Il sogno si è rattrappito”, come diceva Gaber.
Per farlo rifiorire dobbiamo discuterne senza troppi giri di parole, e se anche tu sei stufo degli intellettuali che amano i salotti e disprezzano il 99%, aiutaci a costruire il vero primo media che al 99% invece vuole dargli voce. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Ernesto Galli della Loggia