Skip to main content

Tag: partito comunista

C’era una volta la democrazia italiana

Premierato, presidenzialismo, semipresidenzialismo: anche tu ti sei accorto che nella nostra democrazia c’è qualcosa che non funziona? Nessun problema: come accade immancabilmente con ogni nuovo governo, anche la Meloni ha la sua bacchetta magica a forma di riforma costituzionale. Obiettivo (come sempre): garantire la governabilità. Ma sono davvero l’eccessivo potere del parlamento e la nostra Costituzione ad aver mandato in crisi la democrazia in Italia?
A ben vedere, queste discussioni sulla nostra Costituzione formale sembrano solo utili a distrarci dai veri problemi, molto più sostanziali, che hanno progressivamente distrutto la nostra socialdemocrazia e ci hanno privato di qualsiasi sovranità. Dopo il trentennio d’oro che va dall’immediato dopoguerra all’assassinio di Aldo Moro nel 1978, durante il quale l’Italia era stabilmente tra le prime sei potenze economiche mondiali e in cui il 99 per cento ha visto un incredibile miglioramento delle proprie condizioni di vita, è infatti cominciata quella controrivoluzione neoliberista e quella politica del vincolo esterno che ci hanno, anno dopo anno, messo in ginocchio. E allora, invece che continuare ad illudersi che modificando la Costituzione del ‘48 l’Italia ricomincerà a correre, forse sarebbe il caso di mettere finalmente in questione le vere cause di questo disastro, dal fallimento dell’integrazione europea al nostro rapporto con gli Stati Uniti, alla nostra cultura sempre meno imperniata da valori comunitari e solidaristici. In questa puntata cercheremo di capire come fece l’Italia, negli anni dopo la seconda guerra mondiale, a diventare una delle nazioni più sviluppate al mondo e ripercorreremo quei passaggi politici decisivi negli anni tra la prima e la seconda Repubblica che hanno stravolto per sempre il volto della nostra ex democrazia perché, come scrive il professore di filosofia del diritto Alfredo D’Attorre “Ogni superamento della condizione attuale di crisi e svuotamento della rappresentanza democratica dovrà fare i conti con una ricostruzione realistica delle origini e delle implicazioni del passaggio tra la prima e la seconda repubblica ben oltre le caricature propagandistiche che hanno dominato negli ultimi anni”.
Vincenzo Russo, patriota e martire della repubblica partenopea, già nel 1799 dichiarava:

Vincenzo Russo

La democrazia non consiste nelle favole della Costituzione democratica! Questa soltanto accenna a quello che si debba fare per avere democrazia, ma da sé stessa nol fa. La democrazia convien piantarla negli animi”, ma a più di 200 anni di distanza sembra che questo messaggio non lo abbiamo ancora capito. Una Repubblica, scrive il giurista Umberto Vincenti su La Fionda, non è semplicemente una struttura normativa, e cioè una forma di stato o di governo specifica; il termine Repubblica si riferisce invece a qualcosa di molto più profondo e strutturale: la partecipazione al potere dei cittadini ed implica, come primo dovere, il rispetto del legame sociale e il primato dell’interesse comune. In astratto, quindi, non ci sarebbe alcun problema a modificare – anche in profondità – la Costituzione del ‘48, ma nella realtà dovrebbero essere gli attuali rapporti di forza a dover essere cambiati: come sappiamo ormai tutti, nell’Italia del 2024 i rapporti di forza sono tutti a favore di una ristrettissima oligarchia che, con il sostegno di Bruxelles e di Washington, vorrebbe portare a termine la devastazione sociale del nostro paese senza ostacolo in parlamento e nella Costituzione, ma non è sempre stato così.
Nel 1948, ad esempio, i rapporti di forza erano molto diversi e quella Costituzione ne fu la perfetta espressione; l’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale e fondata sulla resistenza antifascista è un’Italia dove le masse popolari e le loro organizzazioni hanno un potere enorme e sono in grado di imporre al capitale e alle élite al suo servizio un equilibrio politico e sociale di cui l’intero paese beneficerà per i successivi 30 anni. Nel trentennio successivo, infatti, la tanto bistrattata Prima Repubblica riesce a sprigionare gran parte delle potenzialità della nostra Nazione: sul piano economico l’Italia diventa una delle prime 6 economie del pianeta, con una crescita media annua della produttività che si mantenne su livelli superiori a Germania e Francia; per la prima e unica volta nell’intera nostra storia unitaria gli indici economici segnalano anche una riduzione del divario Nord-Sud a partire dal dato del PIL pro capite, un risultato reso possibile anche da una relativa autonomia sia della politica economica che anche di quella monetaria, in grado da un lato di assicurare il legame tra politica fiscale e monetaria e dall’altro di mantenere un elevato livello di controllo sul movimento dei capitali. “Questo impianto” scrive Alfredo D’Attorre “ha consentito il mantenimento di una lunga stagione di cambi sostanzialmente fissi, che in quel contesto hanno fatto della lira una della valute più stabili del pianeta”.
Sul piano politico, grazie ad una forma istituzionale parlamentare imperniata sul sistema dei partiti e, in particolare, grazie alla presenza del più grande partito comunista d’Occidente, l’Italia conobbe una stagione riformatrice senza precedenti che la trasformò in un paese ricco, piuttosto democratico e con una chiara inclinazione socialista; è la stagione delle grandi conquiste nel campo dei diritti sociali e di una straordinaria partecipazione dei cittadini alla politica: ancora a metà degli anni Settanta gli iscritti ai partiti di massa superavano i quattro milioni e la partecipazione al voto si attestava in media sopra il 90 per cento. Sul piano geopolitico, la collocazione dell’Italia come paese di frontiera è un fattore che garantisce una notevole rendita di posizione politica ed economica – sia rispetto all’occupante americano sia rispetto ai paesi del Mediterraneo – e che la nostra classe dirigente riesce a sfruttare sapientemente; insomma, un equilibro retto da un certo tintinnar di sciabole, secondo l’espressione usata da Pietro Nenni, e in apparenza fragile per il continuo alternarsi di governi di durata media inferiore ai 12 mesi ma, in realtà, forte e stabile nei suoi indirizzi politici di fondo, che permise anche un grande fermento culturale e artistico e, soprattutto, di resistere a un’offensiva terroristica su più fronti evitando derive di tipo greco e cileno.
Tutti questi elementi essenziali vennero però progressivamente meno con il vento neoliberista proveniente dal Nord America e poi con la drammatica caduta del blocco socialista; in particolare, le cose cominciarono a cambiare nella seconda metà degli anni ‘70, in coincidenza con il mutamento di contesto economico internazionale legato al superamento dell’assetto di Bretton Woods e alla crisi del keynesismo: in una parola, con l’inizio della grande controrivoluzione neoliberista. Questo mutare di contesto, i cui effetti vennero accelerati dalla crisi petrolifera, convinsero parte rilevante del capitalismo italiano e dei ceti dirigenti ad esso collegato che il vecchio equilibrio economico sociale doveva cambiare: comincia così quello che è stato definito lo sciopero degli investimenti di consistenti settori del mondo finanziario e industriale, che accentua la spinta verso la progressiva liberalizzazione dei movimenti del capitale; è, questa, la svolta decisiva che rese di fatto insostenibile una politica economica e monetaria autonoma sul piano nazionale. “Guido Carli e Tommaso Padoa Schioppa” scrive Alfredo D’Attorre “hanno parlato a riguardo di un quartetto inconciliabile; le 4 variabili che, secondo Carli e Padoa Schioppa, non possono mai coesistere sarebbero:
1- la piena libertà degli scambi commerciali
2- la completa libertà di movimento dei capitali
3- l’esistenza di cambi fissi o governati e
4- una politica monetaria autonoma a livello nazionale

Alfredo D’Attorre

La rinuncia all’ultimo elemento viene così presentata come una necessità inderogabile per evitare una ricaduta e il conseguente continuo riaccendersi di una dinamica inflazionistica”. Parte così un percorso che si snoda dall’adesione al Sistema Monetario Europeo nel 1979, al divorzio Tesoro –Bankitalia del 1981, fino poi all’Atto Unico Europeo del 1986, al Trattato di Maastricht del 1992 e all’ingresso nella moneta unica nel 1999: un successone che, tra i vari entusiasmanti risultati, tra gli anni ‘80 e ‘90 fa anche crescere il debito pubblico italiano dal 58 al 120 per cento del PIL; sul piano politico, poi, l’attacco alla partitocrazia con la scusa di “restituire il potere ai cittadini” si è concretizzata in una lunga fase di egemonia dell’antipolitica che, alla fine, ha favorito solamente le oligarchie economiche e i nostri cosiddetti alleati europei e americani pronti a banchettare sulle nostre debolezze. Il sistema maggioritario, che avrebbe dovuto restituire “lo scettro all’elettore”, si accompagnerà invece a una costante diminuzione della partecipazione al voto, con un astensionismo che ormai sfiora il 50 per cento alle elezioni amministrative e il 40 per cento alle politiche; in questo contesto la stessa dialettica politica – anche in virtù di un irrigidimento dei vincoli esterni – è stata ridotta a mera competizione di potere tra partiti ideologicamente sempre più indistinguibili. “La combinazione di sistema maggioritario e forte irrigidimento del vincolo economico esterno” conclude il Prof. D’Attorre “è il vero DNA della seconda Repubblica”, un DNA che ha sostituito la sovranità popolare, che si esprimeva attraverso il continuum partiti – parlamento – governo, con la sovranità finanziaria e tecnocratica americana e comunitaria.
Per tornare alle riforme costituzionali, sembra quasi di sentirlo il rumore della mente dei costituzionalisti che si ingegnano nel cercare qualche formula che garantisca al tempo stesso rappresentanza e governabilità. Un falso problema: come scrive la professoressa di diritto pubblico Fiammetta Salmoni sempre su La fionda, infatti “l’integrazione europea, i Trattati, il mercato aperto e in libera concorrenza, la stabilità finanziaria, la stabilità dei prezzi e così via hanno già trasformato radicalmente sia la nostra forma di Stato sostituendo i principi fondamentali costituzionali come la garanzia dei diritti sociali, l’eguaglianza sostanziale, la finanza redistributiva, sia la forma di governo”, e non sarà certo qualche formuletta magica a restituirci ciò che ci è stato tolto.
Insomma, se anche tu credi che, in queste condizioni strutturali, modificare o non modificare la Costituzione sia un problema del tutto falso e strumentale, e se anche tu vorresti che l’Italia tornasse ad essere una Repubblica democratica, abbiamo bisogno di un media veramente libero che non si faccia prendere in giro da queste campagne di distrazione di massa. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi

Giorgio Napolitano: il “comunista preferito” di Washington che odiava la democrazia

1975, tre tra le più prestigiose università degli USA decidono di invitare un importante dirigente del Partito Comunista Italiano per un ciclo di conferenze.

Apriti cielo: in quegli anni, infatti, il Partito Comunista Italiano stava attraversando una fase di espansione incredibile, che alle elezioni politiche dell’anno successivo lo portò a conquistare oltre il 34% dei consensi, con una crescita rispetto alle elezioni precedenti di quasi 10 punti percentuali.

Ma non solo: dopo il tragico esito dell’incredibile avventura dell’Unione Popolare in Cile sotto la guida di Salvador Allende, il PCI di Berlinguer da un paio di anni aveva sposato la strategia del così detto “compromesso storico” e l’eventualità dell’ingresso del PCI in un Governo di unità popolare si faceva giorno dopo giorno più verosimile.

L’avanzata del PCI in Italia”, dichiarerà trent’anni dopo in un intervista a La Stampa l’ambasciatore USA in Italia dal 1977 al 1981 Richard Gardner, “era la questione più grave che ci trovavamo ad affrontare in Europa”. Ed ecco così che un altro ambasciatore, quel John Volpe che si era già contraddistinto per aver nominato quel criminale “uomo dell’anno” nel 1973, il banchiere mafioso e piduista Michele Sindona, taglia la testa al toro e decide di non concedere il visto al dirigente comunista. Ma era solo il primo capitolo di una storia lunga e tortuosa.

Tre anni dopo, marzo 1978

Aldo Moro, il principale alleato di Berlinguer nell’attuazione della strategia del “compromesso storico” , viene rapito in modo rocambolesco dalle Brigate Rosse. Nel frattempo all’ambasciata USA, Gardner era subentrato a Volpe e appena un mese dopo il rapimento, il visto che a quel dirigente comunista tre anni prima era stato solennemente negato, magicamente viene concesso. Era la prima volta per un comunista dal 1952.

Quel dirigente comunista si chiamava Giorgio Napolitano, “il mio comunista preferito”, come lo definiva il compagno Henry Kissinger, dall’alto dei suoi 100 e passa anni di crimini di guerra di ogni specie.

Miglioristi”, li chiamavano: erano quella corrente del PCI che aveva rinunciato all’idea di distruggere il capitalismo e tutto sommato anche a riformarlo. Che comunque riformarlo, quando ancora la sinistra non si era completamente bevuta il cervello, significava sempre volerlo trasformare alla radice, solo più gradualmente, e senza ricorrere alla violenza. I miglioristi invece facevano un passo oltre: il capitalismo volevano solo “migliorarlo”.

Ma il punto ovviamente è: migliorarlo per chi? Un indizio significativo risale al 1976, al Governo c’era Giulio Andreotti. Un “Governo di solidarietà nazionale”, veniva definito. Ma Napolitano aveva un modo di intendere la solidarietà tutto suo. Secondo la sua tesi, bisognava si tutelare l’ “interesse generale”, ma a pagare il conto dovevano essere solo gli operai. Per superare la crisi, era la proposta del Peggiore, non c’è niente di meglio che abbassare lo stipendio di chi lavora.

Avvocato agnelli, la scongiuro, non sia timido, la vedo in difficoltà, mi trattenga un pezzo di stipendio. poi se le avanza del tempo gradirei anche mi infilasse una bella scopa su per il culo così le dò una bella ramazzatina alla stanza”. così si sarebbe dovuto esprimere il militante comunista ideale secondo Re Giorgio. Nel tempo “migliorista” diventò poi sostanzialmente sinonimo di moderato e realista. Ma forse è solo un grosso equivoco, di quelli in cui cade spesso quell’ “estremismo, malattia infantile del comunismo” che già Lenin ebbe modo di redarguire ferocemente. Moderazione e realismo infatti non sono altro che attitudini necessarie per chiunque veda nella politica, nella lotta per la conquista del potere e nel suo esercizio strumenti per cambiare concretamente in profondità l’esistente, senza cedere alla tentazione infruttuosa se non addirittura del tutto controproducente dello slancio ideale fine a se stesso. Ma nell’azione di Napolitano non c’è mai stato assolutamente niente di moderato. Il suo disprezzo per ogni forma di democrazia fu sempre contrassegnato da un fervore ideologico vicino al messianesimo. Da questo punto di vista, la militanza comunista di Napolitano non fu che un gigantesco equivoco. Acriticamente fedele ai dictat sovietici quando l’influenza sovietica nel pianeta era in rapida ascesa, nella formula dittatura del proletariato, si riconosceva solo in uno dei due termini…e non era proletariato.

Ed ecco così che quando l’Unione Sovietica alla fine crollò, per Giorgio fu una vera e propria liberazione. Ora il mondo aveva un unico padrone chiaro, le oligarchie statunitensi e il governo di Washington forgiato a loro immagine e somiglianza. Finalmente Napolitano poteva mettersi al servizio di una vera dittatura globale, che però non si ponesse l’obiettivo, per quanto contraddittorio, dell’emancipazione dei subalterni. Interpretò questa era di neodispotismo con malcelata ferocia. superando a destra qualsiasi forza politica nazionale, che anche quando interpretava un’agenda reazionaria, doveva perlomeno sempre fare un po’ di conti con il consenso e con l’interesse Nazionale. Come quando Berlusconi tentò timidamente per la prima volta nella storia della seconda Repubblica di mantenere le distanze da Washington, cercando di rimanere ai margini dell’intervento in Libia. La cronaca racconta che Napolitano lo dissuase, ma è decisamente un eufemismo. Ed è proprio il rapporto ambivalente con Berlusconi e il Berlusconismo a gettare luce sull’idea perversa del potere che permeava l’azione di Napolitano che, infatti, a lungo assecondò in ogni modo tutte le peggiori nefandezze del Governo Berlusconi. Fino a quando un bel giorno non decise di rendersi complice di un vero e proprie golpe bianco per escluderlo dai giochi per sempre.

IV Governo Berlusconi – Attribuzione: Quirinale.it

Schizofrenia? Assolutamente no.

Semplicemente, nel frattempo, era intervenuto un potere di ordine superiore. Da questo punto di vista Re Giorgio, in realtà, Re non lo è mai stato più di tanto. Intendiamoci, il modo autoritario con il quale ha interpretato il suo doppio mandato da Presidente [della Repubblica, ndr] profuma di eversione da mille miglia di distanza, come d’altronde il tentativo di riforma costituzionale dettato da Napolitano e poi naufragato grazie all’antipatia viscerale che suscitava Matteo Shish Renzi.

Ma il punto è un altro.

Totalmente insensibile a ogni istanza popolare e anche ai timidi tentativi da parte del nostro Paese di ritagliarsi una qualche forma di autonomia, più che un Re, Napolitano ricordava un amministratore delegato, pronto a ricorrere ai tatticismi più subdoli pur di assecondare i desiderata di un potere superiore. Quando quel potere superiore non era incarnato fisicamente da qualcuno, subentrava la subalternità fideistica a un principio ordinatore di carattere sostanzialmente religioso: il vincolo esterno.

Se fosse stata una ragazzina delle medie, Napolitano con le immagini del vincolo esterno ritratto in pose ammiccanti c’avrebbe tappezzato la cameretta.

Il contenuto di quel vincolo esterno tutto sommato era abbastanza secondario. Era l’esistenza del vincolo esterno in se, come principio astratto, ad affascinare Napolitano. Un Vincolo Esterno da assumere sempre e comunque come dato naturale, che permette di mettere un freno a ogni istanza di democratizzazione, e impedire così l’irruzione nelle sfere del potere del volgo e dei suoi inaffidabili leader politici a digiuno di galateo.

Un pensiero elitario”, sintetizza efficacemente Salvatore Cannavò su “il fatto quotidiano”, “degno del miglior liberal-conservatorismo europeo a cui, nel suo cuore, Napolitano è sempre appartenuto nonostante la lunga militanza nel PCI che, agli occhi del suo ruolo storico, sembra aver rappresentato solo un accidente della storia”. Un pensiero elitario che ancora più che nella repulsione epidermica per ogni forma di movimento quando era ancora tra le fila del PCI, si palesò in tutta la sua portata con l’emergere dei 5 stelle. Dopo averci consegnato via golpe bianco alla macelleria sociale del governo Monti, in assoluto il peggior della seconda repubblica, Napolitano è stato costretto controvoglia a concederci il voto. Gli italiani hanno votato chiaramente per un ruolo di primo piano dei 5 stelle, che da niente hanno raccolto oltre il 25% dei consensi, ma Napolitano c’ha consegnato a due Governi a guida PD, Letta prima e Renzi poi. In questo modo comunque, ha definitivamente distrutto il peggior partito della fintasinistra neoliberista del continente. Insomma, ha fatto anche cose buone, ma solo quando non erano volute. Ma ancor più che al “miglior liberal-conservatorismo europeo”, l’avversione atavica di Napolitano all’irruzione del volgo nelle stanze del potere e a ogni forma di democratizzazione dell’ordine sia Nazionale che ancor più di quello internazionale, spiega la profonda affinità manifestata in più di un’occasione da Henry Kissinger. Come quando, nel 2015, volle consegnarli personalmente il premio che porta il suo nome e che è destinato alle “personalità della politica europea che si sono distinte nei rapporti transatlantici”. Kissinger infatti è stato per eccellenza l’uomo delle trame segrete e dei cambi di regime manu militari per imporre su scala globale la controrivoluzione neoliberista nella sua accezione più estrema e feroce, come con Pinochet in Cile. Una controrivoluzione che ha significato molte cose, ma più di ogni altra, l’utilizzo dell’idea di un fantomatico vincolo esterno imposto da mercati immaginari per reagire alla crescita del potere dei subalterni e distruggere così l’idea stessa di democrazia moderna, com’era stata sancita nelle Costituzioni post seconda guerra mondiale. Non a caso Napolitano fu a lungo il più acerrimo dei nemici di Enrico Berlinguer, il leader politico italiano che probabilmente più di ogni altro comprese l’essenza dell’Unione Popolare di Allende e fece sua quella profonda riflessione sul nesso tra democrazia, sovranità popolare e nuovo ordine multipolare che sola avrebbe potuto rappresentare una risposta adeguata alla controrivoluzione neoliberista incombente.

Una cosa sola va riconosciuta a Napolitano: uomo del novecento, e persona colta e raffinatissima, proprio come Kissinger, è stato un più che degno rappresentante di un lungo periodo storico durante il quale ancora anche nel nord globale chi puntava alle gestione del potere, per il potere, dedicava tutta la sua vita alla politica. Da questo punto di vista, e solo a questo, bene hanno fatto i politici e i pennivendoli di oggi a scriverne all’unisono e senza eccezioni una ridondante e stucchevole apologia. Se Napolitano è stato l’amministratore delegato della controrivoluzione neoliberista e tra l’altro anche negli anni della sua inarrestabile e trionfale avanzata, loro ne sono al massimo il personale delle pulizie, nella fase del suo plateale e catastrofico declino. Se al posto dei media di regime che di lavoro ramazzano le macerie lasciate dal disastro del neoliberismo credi anche tu ci sia bisogno del primo media che sta dalla parte del volgo che vuole entrare nella stanza dei bottoni, aiutaci a costruirlo:

aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal ( https://shorturl.at/knrCU )

e chi non aderisce è Giorgio Napolitano








Fate fuori Berlinguer: La guerra dell’impero contro un patriota che sognava il multipolarismo

Giugno 1976

Puerto Rico

Le sette principali economie del Nord Globale si incontrano per il secondo vertice del G7. Tra loro, un osservato speciale: l’Italia.

Appena una settimana prima, infatti, in Italia si erano tenute le elezioni politiche, e il Partito Comunista aveva ottenuto la bellezza di oltre il 34% dei consensi, l’8% in più delle elezioni precedenti, avvicinando così il tanto temuto sorpasso sulla democrazia cristiana.

I presunti alleati sono terrorizzati. 

Fortunatamente per loro però l’Italia versava nel frattempo anche in condizioni economiche decisamente complesse.

Ed ecco allora la soluzione: USA, Gran Bretagna, Francia e Repubblica Federale Tedesca sottoscrivono un accordo segreto. Avrebbero concesso aiuti economici all’Italia, ma a tre condizioni: l’esclusione dei comunisti dal futuro governo, l’introduzione di alcune riforme di carattere neoliberale e il ricambio radicale della leadership democristiana.

Così, giusto se qualcuno ancora si chiedesse chi sono i mandanti dell’omicidio Moro.

Non ho esperienza o conoscenza di una politica di tale ingerenza nel passato nei confronti di un paese altamente sviluppato e stretto alleato”, avrebbe dichiarato poco dopo un funzionario inglese presente al vertice.

D’altronde, tutto sommato, le loro preoccupazioni erano più che giustificate.

Nell’Aprile del 1974 in Portogallo le forze popolari guidate dalla fazione progressista delle Forze Armate avevano messo fine ai 40 anni dell’Estado Novo di ispirazione clericofascista del dittatore Antonio de Oliveira Salazar.

Pochi mesi dopo, nel Luglio del ‘74, in Grecia cadeva il governo dittatoriale instaurato sette anni prima con il golpe dei colonnelli e nel novembre del ‘75, in Spagna, a rimandare definitivamente a marcire nelle fogne dalle quali era arrivato quell’essere vomitevole di Francisco Franco ci aveva pensato Madre Natura.

Questi eventi”, scrive lo storico Antonio Varsori, “parvero per qualche tempo far ritenere possibile uno spostamento a sinistra degli equilibri politici nell’intera Europa meridionale, nonché il collasso del blocco occidentale in questa parte del continente”.

La clamorosa avanzata elettorale del PCI avrebbe accelerato in modo probabilmente irreversibile proprio questo processo.

Il terrore del Nord Globale di fronte a questa evenienza fino ad oggi è sempre stato letto con la lente, tutto sommato comprensibile, della contrapposizione tra democrazie liberali e modello sovietico.

Preferivi vivere in Russia?”, è la domanda standard che viene rivolta ogni volta che si affronta questa incredibile storia di ingerenza e di limitazione della sovranità.

Che poi, è la stessa che ci sentiamo rivolgere ancora oggi ogni volta che parliamo di multipolarismo: “Se ti piace tanto la Cina, perchè non ci vai?”

Peccato però si tratti in realtà di una narrazione totalmente farlocca, nella quale è caduta appieno anche la stragrande maggioranza di quella che una volta era la sinistra.

Perché la realtà purtroppo è molto peggiore: la guerra senza frontiere del Nord Globale contro Berlinguer e l’idea stessa del compromesso storico infatti, ovviamente, non ha niente a che vedere con la lotta tra le democrazie e dittature.

Piuttosto, al contrario, è un esempio eclatante della guerra senza frontiere che il capitalismo oligarchico del Nord Globale ha ingaggiato da quasi 50 anni contro la democrazia stessa.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno Storia e Filosofia nelle scuole superiori, e questo è il primo episodio della nuova stagione di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo di un grande eroe popolare: Enrico Berlinguer.

Al centro della nostra attenzione va posta la crisi che attraversano le società capitalistiche su scala mondiale in Europa e in Italia. Una crisi profonda e di tipo nuovo, dovuta al concorso di grandi processi di portata storica: l’ingresso e il peso crescente nell’arena mondiale di popoli e Stati prima soggetti al dominio coloniale; e l’esplodere delle contraddizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo dei paesi capitalistici più progrediti.

Nell’ultimo anno, siamo giunti a tassi di aumento dell’inflazione che, per i principali paesi capitalistici, raggiungono cifre elevatissime […]. E gli Usa stanno cercando di riguadagnare con tutti i mezzi parte del terreno perduto […] con le manovre speculative, con una crescente invadenza di capitali, e con il ricatto tecnologico”.

Sembra l’ennesimo pippone del nostro Giulianino. E invece siamo nel 1974.

E la penna è nientepopodimeno che quella di Enrico Berlinguer: comunista, democratico e patriota.

Le relazioni speciali con gli Stati Uniti”, continua Berlinguer, “sono diventate un vero e proprio anacronismo […] e costituiscono una inaccettabile limitazione del diritto sovrano del nostro popolo di decidere in piena libertà le vie per risolvere i nostri problemi nazionali e le corrispondenti soluzioni di governo”.

Ma quella di Berlinguer non è semplicemente l’ennesima lamentela inconcludente. Al contrario, perché secondo Berlinguer, in realtà, una via italiana per emanciparsi dall’egemonia a stelle e strisce c’è.

Oggi”, scrive infatti, “è possibile una politica estera italiana che non sia più fattore di divisione del nostro popolo ma sia invece fattore di unità, ed in cui si possono riconoscere tutte le forze politiche e democratiche e le grandi correnti ideali del nostro paese”.

Secondo Berlinguer, in sostanza, la lotta per un ordine internazionale più democratico che garantisca all’Italia il pieno esercizio della sua sovranità non è appannaggio di una minoranza ideologizzata, per quanto vasta, che guarda con favore al modello sovietico, ma è un obiettivo molto più generale, in grado di tenere insieme famiglie politiche anche molto diverse tra loro, in nome dell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione.

Come diciamo sempre a Ottolina, insomma, anche per Berlinguer sovranità e multipolarismo sono le parole d’ordine del 99%.

Ma Berlinguer va anche oltre: perché la conquista da parte dell’Italia di una vera sovranità non riguarda solo gli italiani, ma in generale la comunità umana, che vede minacciata la sua stessa sopravvivenza dalla reazione potenzialmente devastante del Nord Globale al tentativo di emancipazione dalle ingiustizie dell’ordine neocolonialista da parte dei paesi che allora definivano del Terzo Mondo.

Una politica estera che abbia a proprio fondamento la difesa della nostra autonomia da interferenze e condizionamenti stranieri”, scrive infatti Berlinguer, è la condizione per “un attivo contributo dell’Italia alla distensione, e alla cooperazione con tutti i paesi del Terzo mondo”.

Ma se la proposta politica di Berlinguer non ha niente a che vedere con la rivoluzione bolscevica e l’ingresso dell’Italia nella sfera di influenza sovietica, ed anzi è tutta volta al rafforzamento della democrazia italiana e alla sua indipendenza, perchè fa così paura agli alleati occidentali?

Per capirlo, bisogna forse intenderci un po’ meglio su cosa intendiamo davvero per democrazia.

Una riflessione che nel Partito Comunista Italiano era nata parecchio tempo prima.

Già nel 1964 Togliatti nel suo memoriale di Yalta notava infatti come “oggi sorge nei paesi più grandi la questione di una centralizzazione della direzione economica, che si cerca di realizzare con una programmazione dall’alto, nell’interesse dei grandi monopoli e attraverso l’intervento dello Stato. Questa questione”, osserva lucidamente Togliatti, non solo è all’ordine del giorno a livello interno in tutti i paesi dell’Occidente, ma “già si parla di una programmazione internazionale”.

Questa “programmazione capitalistica”, avverte Togliatti, “è sempre collegata a tendenze antidemocratiche e autoritarie”, contro le quali diventa assolutamente urgente e indispensabile “opporre l’adozione di un metodo democratico anche nella direzione della vita economica”.

Contro il formalismo democratico dei paesi imperialisti, Togliatti introduce un’idea di democrazia sostanziale come strumento per ribaltare i rapporti di forza tra dominanti e subalterni. È sostanzialmente il programma da contrapporre alla controrivoluzione neoliberista che travolgerà il pianeta a partire da una decina di anni dopo, ma che Togliatti con incredibile lungimiranza aveva cominciato ad avvertire già allora.

Contro la svolta autoritaria del neoliberismo che delega la programmazione economica dall’alto alle oligarchie, la soluzione non può che essere introdurre sempre più elementi di democrazia all’interno del sistema economico stesso.

Come affermava lucidamente Luigi Longo durante l’XI congresso del PCI del 1966, “si tratta di battersi per la conquista di nuove forme di partecipazione diretta, e di nuove forme di controllo, dal basso, delle molteplici attività che costituiscono la fitta rete del potere”.

Mentre le socialdemocrazie e il tradunionismo europei erano tutti concentrati esclusivamente verso l’estensione del sistema di welfare, il PCI puntava dritto al cuore del potere capitalistico, elaborando una strategia complessiva volta a spostare strutturalmente i rapporti di forza all’interno del sistema produttivo a favore dei lavoratori. Ed è proprio in questa ottica che va letta l’idea del compromesso storico che è al centro dell’elaborazione di Berlinguer. Contro la traduzione in potere politico delle grandi concentrazioni oligarchiche di potere economico, la ricetta di Berlinguer è quella di una grande alleanza popolare in grado di trasformare in profondità le istituzioni repubblicane in senso realmente democratico. A partire dalla centralità del parlamento, dove la sovranità popolare si traduce nel potere effettivo dei rappresentanti dei cittadini produttori di controllare il sistema produttivo, ponendo così un argine alle derive tecnocratiche al servizio degli interessi delle oligarchie.

Da questo punto di vista, appunto, il piano nazionale e quello internazionale appaiono inscindibili: non si dà democrazia al di fuori della possibilità di esercitare pienamente la sovranità e non si dà sovranità al di fuori di un nuovo ordine multipolare.

La Pace al primo posto, come ha deciso di intitolare la sua raccolta di scritti e discorsi di Enrico Berlinguer sulla politica internazionale una delle punte di diamante di questa famiglia allargata che è Ottosofia, il mitico Alexander Hobel, probabilmente il più profondo conoscitore e analista di quella incredibile avventura popolare che è stata la storia del Partito Comunista Italiano. Una pace che appunto è da ottenere e difendere proprio attraverso l’ampliamento continuo degli spazi di democrazia sia a livello nazionale che internazionale. Perché “una pace non precaria, ma solida e duratura, per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia”.

Per riflettere insieme sull’incredibile attualità del pensiero di Berlinguer in questa nuova fase di contrapposizione tra la volontà di emancipazione del Sud Globale e la reazione potenzialmente devastante delle vecchie potenze imperialistiche, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 20 Settembre a partire dalle 21 con una nuova imperdibile puntata di Ottosofia.

Ospite d’onore, ça va sans dire, il nostro amato Alexander Hobel.

E nel frattempo, se anche tu credi sia arrivato il momento di costruire un nuovo media che come Berlinguer metta LA PACE AL PRIMO POSTO, cosa fare probabilmente lo sai già.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Francesco Cossiga.

Fonti:

Logo Gazzetta Filosofica: https://www.gazzettafilosofica.net/

Copertina libro: https://www.ibs.it/pace-al-primo-posto-scritti-ebook-enrico-berlinguer/e/9788855225168?gclid=CjwKCAjwjaWoBhAmEiwAXz8DBWgVYNzVbxBxTlEjlaIOylt54reg_LgWLZS5h6xh57sj9WQ6VJW9YRoC92UQAvD_BwE

Le immagini di pubblico dominio sono:

Simbolo PCI: https://it.wikipedia.org/wiki/Partito_Comunista_Italiano

Antonio de Oliveira Salazar: https://it.wikipedia.org/wiki/Ant%C3%B3nio_de_Oliveira_Salazar

Foto di Enrico Berlinguer: https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Berlinguer