IL SUICIDIO DELLA GERMANIA – Come 20 anni di neoliberismo hanno fatto più danni di due guerre mondiali
C’era una volta la Germania: patria della filosofia classica e del socialismo scientifico, la leggenda narra che nonostante le dimensioni tutto sommato ridotte, il peso demografico limitato e la relativa scarsezza di risorse naturali, fosse un paese così cazzuto che, per impedirgli di conquistare il resto del mondo, tutti gli altri si sono ritrovati costretti a mettere da parte le differenze e a coalizzarsi, due volte, e senza mai risolvere davvero il problema. Il trucco magico? Si chiama stato sviluppista: consiste nel fatto che lo stato interviene a gamba tesa per tenere a freno le tendenze naturali di quello che gli analfoliberali chiamano libero mercato – ma che non ha niente a che fare con il mercato – e l’unica forma di libertà che conosce è la libertà del più forte di appropriarsi del grosso della torta con ogni mezzo necessario. Questo fantomatico libero mercato ha l’innata capacità di rendere la società sempre più iniqua e disumana ma, allo stesso tempo, anche totalmente disfunzionale; ecco perché, narra la leggenda, non aveva mai conquistato il cuore dei tedeschi che, in quanto a ferocia, non avevano certo da invidiare nessuno ma almeno – pare – non si facevano infinocchiare dalle superstizioni strampalate che andavano così diffuse nel mondo anglosassone.
Lo stato sviluppista si fonda su un’idea piuttosto semplice, e cioè che lo stato è lo strumento più adatto per creare le precondizioni affinché l’economia sia davvero produttiva; si occupa di costruire tutte le infrastrutture necessarie, sia materiali che anche immateriali, a partire dall’istruzione di massa e la diffusione di tutte le competenze necessarie. Lo stato sviluppista, inoltre, si occupa di fornire alla popolazione quei servizi di base necessari per la riproduzione – a partire dalla salute -, ma anche tutti quei servizi di cura che altrimenti ricadrebbero sulla popolazione femminile che, quindi, non sarebbe nelle condizioni di contribuire in modo produttivo all’economia; pianificando e socializzando tutte queste attività, lo stato sviluppista ne riduce al massimo i costi complessivi e permette di concentrare il grosso della ricchezza prodotta negli investimenti produttivi e, quindi, nella crescita e nello sviluppo. E così, nel medio/lungo periodo, i paesi che si fondano su uno stato sviluppista diventano – necessariamente – economicamente molto più performanti di quelli dove prevale la superstizione arcaica del libero mercato e dove quei servizi sono forniti da delle oligarchie parassitarie che ci fanno la cresta sopra appropriandosi così, in modo predatorio, di un pezzo consistente della ricchezza prodotta dalla società; e l’efficacia tra questi due diversi sistemi è così macroscopica che anche se radi al suolo lo stato sviluppista per due volte, ecco che quello, nell’arco di qualche decennio, rialza la testa ed è di nuovo pronto ad asfaltarti. Fino a quando, un bel giorno, uno strano morbo non è riuscito a ottenere definitivamente quello che due guerre mondiali erano soltanto riuscite a rimandare temporaneamente: quel morbo si chiamava neoliberismo; un morbo devastante in grado di fare tabula rasa di ogni capacità di creare benessere e ricchezza per le popolazioni e che si diffondeva a macchia d’olio per tramite di un orribile insettino infestante chiamato finanziarizzazione. E questa, allora, è la storia di come vent’anni di neoliberismo hanno fatto più danni di due guerre mondiali.
La disfatta totale dell’Occidente collettivo in Ucraina è anche la storia di uno dei più incredibili misteri dell’era moderna; fino ad allora, infatti – che io ricordi – non era mai successo che un governo venisse messo in ginocchio da un attacco militare devastante e, invece di incazzarsi, ringraziasse pure: eppure è esattamente quello che è successo con la vicenda del Nord stream. Come ci ha raccontato il buon vecchio Seymour Hersh, infatti, non solo dietro l’attentato c’è la mano di Washington, com’è abbastanza ovvio, ma i tedeschi lo hanno pure sempre saputo: eppure, muti. D’altronde le avvisaglie c’erano già: quasi ormai 10 anni fa scoppiava il caso delle intercettazioni USA nei confronti di Angelona Merkel; nel 2015, poi, wikileaks entrò in possesso di alcuni documenti che dimostravano come le intercettazioni USA andassero ben oltre quell’episodio, sia nello spazio che nel tempo. Le intercettazioni, infatti, risalivano a ben prima, ricoprendo tutta l’era del governo Schroeder e ancora oltre – a partire dall’amministrazione Kohl – e, in tutto, avrebbero riguardato qualcosa come oltre 125 utenze telefoniche di alti funzionari; ma la cosa ancora più inquietante è il sospetto piuttosto fondato che a collaborare con lo spionaggio USA ci si fosse messa direttamente anche la BND – l’intelligence tedesca – che quindi si confermerebbe essere poco più che uno strumento in mano agli USA per limitare l’autonomia e l’indipendenza delle cariche elettive tedesche. Il deep state tedesco, in soldoni, funzionerebbe a tutti gli effetti come una forza di occupazione che riferisce più a Washington che non a Berlino: sorvegliare una fetta consistente di classe dirigente è il prerequisito necessario per tenerla concretamente in pungo grazie all’arma del ricatto, perché tra le classi dirigenti dell’occidente globale in declino, rispettare pedissequamente la legge è più l’eccezione che la regola e – con la dovuta pazienza – chiunque, prima o poi, diventa vulnerabile.
Olaf Scholz, ad esempio, è invischiato in un losco affare di presunta corruzione che risale a quando era sindaco di Amburgo: è lo scandalo dei cum-ex, lo schema fraudolento che avrebbe permesso a una rete di banche e banchieri – legati a vario titolo a Scholz – di evadere qualcosa come 280 milioni di euro di tasse; “Lo scandalo cum-ex sottolinea il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism “è come una spada di Damocle che incombe sul cancelliere Scholz”. Il caso era tornato alla ribalta, infatti, nel gennaio scorso – e cioè nel periodo durante il quale Scholz si era dimostrato piuttosto titubante riguardo all’invio dei Leopard tedeschi in Ucraina; dopo poco Scholz cede, e anche la vicenda dei cum-ex sparisce dai radar fino ad agosto, quando – te guarda a volte il caso – Scholz di nuovo esprime qualche perplessità sull’idea di mandare nuovi armamenti. Ecco allora che sui giornali torna lo scandalo cum-ex e, nel giro di un paio di settimane, riecco Scholz che cambia idea. Questa volta, forse, una volta per tutte. Sosterremo l’Ucraina “per tutto il tempo necessario” aveva infine dichiarato il 28 agosto.
Ma se le trame oscure dello spionaggio e della corruzione sicuramente rivestono sempre un ruolo significativo, la scelta deliberata delle élite tedesche – come dice ancora Gallagher su Naked Capitalism – “di imporre il declino economico alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini” è di una portata tale che sarebbe un po’ superficiale pensare non vi siano ragioni strutturali profonde. Per dare un quadro esaustivo e scientificamente solido ci vorrebbe un lavoro che va un po’ oltre un video di Ottolina; proveremo a farlo un po’ a pezzi nei prossimi mesi. Intanto proviamo a mettere insieme un po’ di elementi. Primo tassello: a partire dalla fine degli anni ‘90 la Germania, che era – e ancora oggi continua ad essere – di gran lunga la prima potenza industriale del vecchio continente, ha applicato politiche salariali ultra – restrittive; per quanto, vista dall’Italia, ci possa sembrare un’affermazione un po’ paradossale, i lavoratori tedeschi guadagnano poco. Sicuramente guadagnano poco rispetto alla produttività, che aveva raggiunto ottimi standard proprio grazie all’azione dello stato sviluppista dei decenni precedenti. Le aziende tedesche, però, non si sono limitate a pagare relativamente sempre meno i lavoratori tedeschi, ma hanno ridotto ulteriormente il costo del lavoro delocalizzando in giro, a partire dal resto dell’Europa che è diventato, in buona parte, un continente di subfornitori dell’industria tedesca; grazie alla ristrettezza salariale e alle delocalizzazioni, le aziende tedesche hanno aumentato i margini di profitto: un’ottima occasione per investire ancora di più e reggere così la competizione dei paesi emergenti che, nel frattempo, stavano crescendo come treni. Macché; mentre i salari stagnavano e i profitti aumentavano, gli investimenti, invece, crollavano, come certificava – già nel 2014 – una celebre ricerca della fondazione Friederich Ebert, il think tank del partito socialdemocratico: “A partire dal 2000 la percentuale di investimenti rispetto al PIL in Germania è crollata in fondo alla classifica dell’eurozona, passando dal 21% del 2000, al 17% del 2013”. Nel 1992 era al 24%, 5 punti sopra la media dell’eurozona; gli investimenti in macchinari pesavano per oltre il 10% del PIL nel 1991: nel 2013 erano scesi sotto il 6%. Che fine facevano questi profitti? Semplice: scappavano. Come ha sottolineato recentemente anche il centro studi dell’OCSE, “a partire dai primi anni 2000, la Germania ha sperimentato un forte deflusso di capitali privati” e, in buona parte, scappavano prima di essere tassati – via paradisi fiscali.
Le banche tedesche s’erano proprio specializzate: come denunciava, già nel 2013, un’inchiesta dell’International Consortium of Investigative Journalists “Deutsche Bank ha aiutato i clienti a mantenere centinaia di entità offshore”; “L’unità di Singapore della più grande banca tedesca” riportava l’articolo “ha contribuito alla nascita di società e trust nei paradisi fiscali”; tutti soldini che mica rimanevano lì a fare la muffa, e indovinate dove andavano a finire? Ma nelle bolle speculative USA, ovviamente; e la Germania si impoveriva: se nel 2010 la sua ricchezza era il 5,7% della ricchezza complessiva globale, nel 2022 la quota era scesa a un misero 3,8% mentre il paese cadeva a pezzi. Perché se da oltre 20 anni gli investimenti privati languono, quelli pubblici proprio sono letteralmente scomparsi, e hanno pure iniziato prima. In questo grafico viene riportato l’andamento del valore complessivo degli investimenti fissi fatti dal pubblico:
la Germania è di gran lunga il paese peggiore tra i principali paesi occidentali – Italia compresa – e, tra il 2004 e il 2013, il valore complessivo delle sue infrastrutture pubbliche non si è limitato a rimanere al palo, ma è addirittura diminuito: non solo non costruivano nuove strade, o nuovi porti, o nuove reti di trasporto urbano; manco riuscivano a mantenere quelle che avevano.
E il furto continua: secondo una recente ricerca della Confederazione dei sindacati europei, dal 2019 ad oggi la quota destinata ai profitti rispetto al PIL complessivo in Germania è cresciuta addirittura del 6%, ma la quota degli investimenti non è cresciuta nemmeno di un centesimo; le élite tedesche stanno rapinando quello che rimane della loro economia reale per portarlo a far fruttare nel grande casino delle speculazioni finanziarie in dollari e lo fanno attraverso i paradisi fiscali, in modo da non lasciare a casa manco la quota destinata alle tasse. E’ del tutto normale quindi che, mentre la stragrande maggioranza della popolazione tedesca tocca con mano il declino, le élite economiche – e quelle politiche che rispondono solo ed esclusivamente a loro, magari abbellendo questa ferocia classista con un po’ di puttanate woke stile Annalena Braebock – molto semplicemente non vedano il problema; lo dimostrano in modo eclatante i sondaggi di Eurobarometro riportati, sempre dal buon Gallagher, su Naked Capitalism: a livello europeo, sottolinea Gallagher, “il 66% della classe operaia ritiene che la propria qualità di vita stia peggiorando, ma solo il 38% degli appartenenti alle classi superiori la pensa allo stesso modo” e riguardo alla guerra in Ucraina e alle sanzioni che sono seguite, continua Gallagher, “il 71% della classe operaia ritiene che li danneggi, ma solo il 40% della classe sociale più alta condivide questa prospettiva”. E a questa differenza di condizioni materiali, ovviamente, consegue una divergenza radicale di visioni politiche: come ricorda sempre Gallagher “solo il 35% della classe operaia ha fiducia nella commissione europea. Tra le classi agiate la fiducia sale al 68%”; idem nei confronti della Banca Centrale Europea: 33% contro 67%. Perché? Presto detto: con la ristrettezza monetaria la BCE uccide l’economia reale europea ma mantiene un euro relativamente forte; chi vive, in toto o in parte, di esportazione di capitali – ad esempio attraverso l’adesione a qualche fondo che investe nei mercati azionari USA – la morte dell’economia reale è un prezzo congruo da sostenere se, in cambio, gli si garantisce che i propri investimenti in dollari continuano a crescere di valore.
Invertire la rotta dell’economia europea sarebbe ancora possibile ma, per farlo, servirebbe il ritorno dello stato sviluppista: investimenti, spesa pubblica e integrazione con i grandi mercati emergenti. Troppa fatica; molto più semplice prendere i pochi soldi che rimangono e fuggire, mentre si fomenta la carneficina dei ragazzini ucraini sul fronte e lo sterminio dei bambini arabi nelle loro case: basta che il tutto sia green e gender friendly.
Prima che ti finiscano di rubare tutto, allora, un piccolo consiglio per gli acquisti natalizi e se, dopo che vi siete rivestiti di tutto punto, vi avanzano due eurini dalla tredicesima, il migliore investimento possibile lo sai già: aiutaci a costruire il primo media che, invece che alle puttanate dell’élite rapinatrice e globalista, dà voce agli zoticoni che fanno parte del 99%. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Annalena Braebock