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Tag: nord stream

IL SUICIDIO DELLA GERMANIA – Come 20 anni di neoliberismo hanno fatto più danni di due guerre mondiali

C’era una volta la Germania: patria della filosofia classica e del socialismo scientifico, la leggenda narra che nonostante le dimensioni tutto sommato ridotte, il peso demografico limitato e la relativa scarsezza di risorse naturali, fosse un paese così cazzuto che, per impedirgli di conquistare il resto del mondo, tutti gli altri si sono ritrovati costretti a mettere da parte le differenze e a coalizzarsi, due volte, e senza mai risolvere davvero il problema. Il trucco magico? Si chiama stato sviluppista: consiste nel fatto che lo stato interviene a gamba tesa per tenere a freno le tendenze naturali di quello che gli analfoliberali chiamano libero mercato – ma che non ha niente a che fare con il mercato – e l’unica forma di libertà che conosce è la libertà del più forte di appropriarsi del grosso della torta con ogni mezzo necessario. Questo fantomatico libero mercato ha l’innata capacità di rendere la società sempre più iniqua e disumana ma, allo stesso tempo, anche totalmente disfunzionale; ecco perché, narra la leggenda, non aveva mai conquistato il cuore dei tedeschi che, in quanto a ferocia, non avevano certo da invidiare nessuno ma almeno – pare – non si facevano infinocchiare dalle superstizioni strampalate che andavano così diffuse nel mondo anglosassone.
Lo stato sviluppista si fonda su un’idea piuttosto semplice, e cioè che lo stato è lo strumento più adatto per creare le precondizioni affinché l’economia sia davvero produttiva; si occupa di costruire tutte le infrastrutture necessarie, sia materiali che anche immateriali, a partire dall’istruzione di massa e la diffusione di tutte le competenze necessarie. Lo stato sviluppista, inoltre, si occupa di fornire alla popolazione quei servizi di base necessari per la riproduzione – a partire dalla salute -, ma anche tutti quei servizi di cura che altrimenti ricadrebbero sulla popolazione femminile che, quindi, non sarebbe nelle condizioni di contribuire in modo produttivo all’economia; pianificando e socializzando tutte queste attività, lo stato sviluppista ne riduce al massimo i costi complessivi e permette di concentrare il grosso della ricchezza prodotta negli investimenti produttivi e, quindi, nella crescita e nello sviluppo. E così, nel medio/lungo periodo, i paesi che si fondano su uno stato sviluppista diventano – necessariamente – economicamente molto più performanti di quelli dove prevale la superstizione arcaica del libero mercato e dove quei servizi sono forniti da delle oligarchie parassitarie che ci fanno la cresta sopra appropriandosi così, in modo predatorio, di un pezzo consistente della ricchezza prodotta dalla società; e l’efficacia tra questi due diversi sistemi è così macroscopica che anche se radi al suolo lo stato sviluppista per due volte, ecco che quello, nell’arco di qualche decennio, rialza la testa ed è di nuovo pronto ad asfaltarti. Fino a quando, un bel giorno, uno strano morbo non è riuscito a ottenere definitivamente quello che due guerre mondiali erano soltanto riuscite a rimandare temporaneamente: quel morbo si chiamava neoliberismo; un morbo devastante in grado di fare tabula rasa di ogni capacità di creare benessere e ricchezza per le popolazioni e che si diffondeva a macchia d’olio per tramite di un orribile insettino infestante chiamato finanziarizzazione. E questa, allora, è la storia di come vent’anni di neoliberismo hanno fatto più danni di due guerre mondiali.

Seymour Hersch

La disfatta totale dell’Occidente collettivo in Ucraina è anche la storia di uno dei più incredibili misteri dell’era moderna; fino ad allora, infatti – che io ricordi – non era mai successo che un governo venisse messo in ginocchio da un attacco militare devastante e, invece di incazzarsi, ringraziasse pure: eppure è esattamente quello che è successo con la vicenda del Nord stream. Come ci ha raccontato il buon vecchio Seymour Hersh, infatti, non solo dietro l’attentato c’è la mano di Washington, com’è abbastanza ovvio, ma i tedeschi lo hanno pure sempre saputo: eppure, muti. D’altronde le avvisaglie c’erano già: quasi ormai 10 anni fa scoppiava il caso delle intercettazioni USA nei confronti di Angelona Merkel; nel 2015, poi, wikileaks entrò in possesso di alcuni documenti che dimostravano come le intercettazioni USA andassero ben oltre quell’episodio, sia nello spazio che nel tempo. Le intercettazioni, infatti, risalivano a ben prima, ricoprendo tutta l’era del governo Schroeder e ancora oltre – a partire dall’amministrazione Kohl – e, in tutto, avrebbero riguardato qualcosa come oltre 125 utenze telefoniche di alti funzionari; ma la cosa ancora più inquietante è il sospetto piuttosto fondato che a collaborare con lo spionaggio USA ci si fosse messa direttamente anche la BND – l’intelligence tedesca – che quindi si confermerebbe essere poco più che uno strumento in mano agli USA per limitare l’autonomia e l’indipendenza delle cariche elettive tedesche. Il deep state tedesco, in soldoni, funzionerebbe a tutti gli effetti come una forza di occupazione che riferisce più a Washington che non a Berlino: sorvegliare una fetta consistente di classe dirigente è il prerequisito necessario per tenerla concretamente in pungo grazie all’arma del ricatto, perché tra le classi dirigenti dell’occidente globale in declino, rispettare pedissequamente la legge è più l’eccezione che la regola e – con la dovuta pazienza – chiunque, prima o poi, diventa vulnerabile.
Olaf Scholz, ad esempio, è invischiato in un losco affare di presunta corruzione che risale a quando era sindaco di Amburgo: è lo scandalo dei cum-ex, lo schema fraudolento che avrebbe permesso a una rete di banche e banchieri – legati a vario titolo a Scholz – di evadere qualcosa come 280 milioni di euro di tasse; “Lo scandalo cum-ex sottolinea il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism “è come una spada di Damocle che incombe sul cancelliere Scholz”. Il caso era tornato alla ribalta, infatti, nel gennaio scorso – e cioè nel periodo durante il quale Scholz si era dimostrato piuttosto titubante riguardo all’invio dei Leopard tedeschi in Ucraina; dopo poco Scholz cede, e anche la vicenda dei cum-ex sparisce dai radar fino ad agosto, quando – te guarda a volte il caso – Scholz di nuovo esprime qualche perplessità sull’idea di mandare nuovi armamenti. Ecco allora che sui giornali torna lo scandalo cum-ex e, nel giro di un paio di settimane, riecco Scholz che cambia idea. Questa volta, forse, una volta per tutte. Sosterremo l’Ucraina “per tutto il tempo necessario” aveva infine dichiarato il 28 agosto.

Conor Gallagher

Ma se le trame oscure dello spionaggio e della corruzione sicuramente rivestono sempre un ruolo significativo, la scelta deliberata delle élite tedesche – come dice ancora Gallagher su Naked Capitalism – “di imporre il declino economico alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini” è di una portata tale che sarebbe un po’ superficiale pensare non vi siano ragioni strutturali profonde. Per dare un quadro esaustivo e scientificamente solido ci vorrebbe un lavoro che va un po’ oltre un video di Ottolina; proveremo a farlo un po’ a pezzi nei prossimi mesi. Intanto proviamo a mettere insieme un po’ di elementi. Primo tassello: a partire dalla fine degli anni ‘90 la Germania, che era – e ancora oggi continua ad essere – di gran lunga la prima potenza industriale del vecchio continente, ha applicato politiche salariali ultra – restrittive; per quanto, vista dall’Italia, ci possa sembrare un’affermazione un po’ paradossale, i lavoratori tedeschi guadagnano poco. Sicuramente guadagnano poco rispetto alla produttività, che aveva raggiunto ottimi standard proprio grazie all’azione dello stato sviluppista dei decenni precedenti. Le aziende tedesche, però, non si sono limitate a pagare relativamente sempre meno i lavoratori tedeschi, ma hanno ridotto ulteriormente il costo del lavoro delocalizzando in giro, a partire dal resto dell’Europa che è diventato, in buona parte, un continente di subfornitori dell’industria tedesca; grazie alla ristrettezza salariale e alle delocalizzazioni, le aziende tedesche hanno aumentato i margini di profitto: un’ottima occasione per investire ancora di più e reggere così la competizione dei paesi emergenti che, nel frattempo, stavano crescendo come treni. Macché; mentre i salari stagnavano e i profitti aumentavano, gli investimenti, invece, crollavano, come certificava – già nel 2014 – una celebre ricerca della fondazione Friederich Ebert, il think tank del partito socialdemocratico: “A partire dal 2000 la percentuale di investimenti rispetto al PIL in Germania è crollata in fondo alla classifica dell’eurozona, passando dal 21% del 2000, al 17% del 2013”. Nel 1992 era al 24%, 5 punti sopra la media dell’eurozona; gli investimenti in macchinari pesavano per oltre il 10% del PIL nel 1991: nel 2013 erano scesi sotto il 6%. Che fine facevano questi profitti? Semplice: scappavano. Come ha sottolineato recentemente anche il centro studi dell’OCSE, “a partire dai primi anni 2000, la Germania ha sperimentato un forte deflusso di capitali privati” e, in buona parte, scappavano prima di essere tassati – via paradisi fiscali.
Le banche tedesche s’erano proprio specializzate: come denunciava, già nel 2013, un’inchiesta dell’International Consortium of Investigative Journalists “Deutsche Bank ha aiutato i clienti a mantenere centinaia di entità offshore”; “L’unità di Singapore della più grande banca tedesca” riportava l’articolo “ha contribuito alla nascita di società e trust nei paradisi fiscali”; tutti soldini che mica rimanevano lì a fare la muffa, e indovinate dove andavano a finire? Ma nelle bolle speculative USA, ovviamente; e la Germania si impoveriva: se nel 2010 la sua ricchezza era il 5,7% della ricchezza complessiva globale, nel 2022 la quota era scesa a un misero 3,8% mentre il paese cadeva a pezzi. Perché se da oltre 20 anni gli investimenti privati languono, quelli pubblici proprio sono letteralmente scomparsi, e hanno pure iniziato prima. In questo grafico viene riportato l’andamento del valore complessivo degli investimenti fissi fatti dal pubblico:

la Germania è di gran lunga il paese peggiore tra i principali paesi occidentali – Italia compresa – e, tra il 2004 e il 2013, il valore complessivo delle sue infrastrutture pubbliche non si è limitato a rimanere al palo, ma è addirittura diminuito: non solo non costruivano nuove strade, o nuovi porti, o nuove reti di trasporto urbano; manco riuscivano a mantenere quelle che avevano.
E il furto continua: secondo una recente ricerca della Confederazione dei sindacati europei, dal 2019 ad oggi la quota destinata ai profitti rispetto al PIL complessivo in Germania è cresciuta addirittura del 6%, ma la quota degli investimenti non è cresciuta nemmeno di un centesimo; le élite tedesche stanno rapinando quello che rimane della loro economia reale per portarlo a far fruttare nel grande casino delle speculazioni finanziarie in dollari e lo fanno attraverso i paradisi fiscali, in modo da non lasciare a casa manco la quota destinata alle tasse. E’ del tutto normale quindi che, mentre la stragrande maggioranza della popolazione tedesca tocca con mano il declino, le élite economiche – e quelle politiche che rispondono solo ed esclusivamente a loro, magari abbellendo questa ferocia classista con un po’ di puttanate woke stile Annalena Braebock – molto semplicemente non vedano il problema; lo dimostrano in modo eclatante i sondaggi di Eurobarometro riportati, sempre dal buon Gallagher, su Naked Capitalism: a livello europeo, sottolinea Gallagher, “il 66% della classe operaia ritiene che la propria qualità di vita stia peggiorando, ma solo il 38% degli appartenenti alle classi superiori la pensa allo stesso modo” e riguardo alla guerra in Ucraina e alle sanzioni che sono seguite, continua Gallagher, “il 71% della classe operaia ritiene che li danneggi, ma solo il 40% della classe sociale più alta condivide questa prospettiva”. E a questa differenza di condizioni materiali, ovviamente, consegue una divergenza radicale di visioni politiche: come ricorda sempre Gallagher “solo il 35% della classe operaia ha fiducia nella commissione europea. Tra le classi agiate la fiducia sale al 68%”; idem nei confronti della Banca Centrale Europea: 33% contro 67%. Perché? Presto detto: con la ristrettezza monetaria la BCE uccide l’economia reale europea ma mantiene un euro relativamente forte; chi vive, in toto o in parte, di esportazione di capitali – ad esempio attraverso l’adesione a qualche fondo che investe nei mercati azionari USA – la morte dell’economia reale è un prezzo congruo da sostenere se, in cambio, gli si garantisce che i propri investimenti in dollari continuano a crescere di valore.
Invertire la rotta dell’economia europea sarebbe ancora possibile ma, per farlo, servirebbe il ritorno dello stato sviluppista: investimenti, spesa pubblica e integrazione con i grandi mercati emergenti. Troppa fatica; molto più semplice prendere i pochi soldi che rimangono e fuggire, mentre si fomenta la carneficina dei ragazzini ucraini sul fronte e lo sterminio dei bambini arabi nelle loro case: basta che il tutto sia green e gender friendly.
Prima che ti finiscano di rubare tutto, allora, un piccolo consiglio per gli acquisti natalizi e se, dopo che vi siete rivestiti di tutto punto, vi avanzano due eurini dalla tredicesima, il migliore investimento possibile lo sai già: aiutaci a costruire il primo media che, invece che alle puttanate dell’élite rapinatrice e globalista, dà voce agli zoticoni che fanno parte del 99%. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Annalena Braebock

TAGLIARSI LE PA**E PER FAR DISPETTO ALLA MOGLIE – la politica energetica europea vista dalla Russia

Tagliarsi le palle per far dispetto alla moglie”: è così, in soldoni, che quello che probabilmente è in assoluto il principale esperto di energia di tutta la Russia descrive la politica energetica europea dopo l’adesione, senza se e senza ma, dell’intero continente alle sanzioni made in USA.

Konstantin Simonov

Si chiama Konstantin Simonov, è a capo del dipartimento di politologia dell’università finanziaria del governo della Federazione Russa e, da oltre 10 anni, dirige la NESF – che sta per National Energy Security Foundation – la fondazione per la sicurezza energetica nazionale, il più importante think tank specializzato sull’industria energetica del gigante eurasiatico. Una voce molto nota anche ai media mainstream dell’Occidente collettivo, almeno fino allo scoppio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina quando, oltre all’energia, abbiamo deciso di porre l’embargo anche sul buon senso; da allora, la voce di Simonov e della sua fondazione sono state gradualmente ma inesorabilmente espulse dal circo mediatico occidentale, dove il pluralismo – ormai – è ristretto esclusivamente alle diverse sfumature della propaganda suprematista, dalla più rozza alla più sofisticata. Meno male, però, che in mezzo a mille difficoltà c’è chi non si arrende e continua a remare controcorrente, come il professor Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Russia e fondatore del Forum Economico Eurasiatico di Verona che, dopo 14 anni di attività nel capoluogo veneto – durante i quali si sono alternati sul suo palco tutti i principali rappresentanti della politica e del mondo degli affari europeo -, da due anni si è trovato costretto a traslocare nell’Asia centrale: l’anno scorso a Baku e quest’anno a Samarcanda.
Ed è proprio a Samarcanda che abbiamo avuto l’opportunità e l’onore di intervistare in esclusiva, insieme alla nostra allegra brigata di agit prop, proprio Simonov; un grande motivo d’orgoglio e anche l’ennesima prova provata che se volete capire qualcosa del mondo nuovo che avanza, dovete spegnere i vecchi media e accendere Ottolina Tv.
Se la fantomatica controffensiva ucraina è ormai definitivamente scomparsa dai radar, figurarsi che fine ha fatto sui media mainstream l’annosa vicenda dell’attentato al Nord Stream, il caso più clamoroso di sempre di fuoco amico rivolto direttamente contro un’infrastruttura strategica, che più strategica non si può, di un fedele alleato:

Konstantin Simonov: “Dal mio punto di vista, la vicenda del Nord stream continua a mettere l’Unione Europea in forte imbarazzo. Per oltre un anno si è parlato di fantomatiche indagini ma senza nessun risultato, e questo è molto sospetto. Nel caso dei danni causati al gasdotto baltico che unisce Finlandia ed Estonia, le autorità si sono espresse nell’arco di pochi giorni; ora, in oltre un anno, nemmeno una parola. È decisamente molto sospetto, e io credo che il motivo sia che l’Unione Europea è molto cauta nel portare avanti le indagini perché teme che queste non possano che rivelare qualcosa che, dal mio punto di vista, è molto chiaro dal primo minuto, e cioè che esiste un unico beneficiario di tutta questa storia. E questo beneficiario, ovviamente, sono gli Stati Uniti d’America: basta vedere cosa sta succedendo al loro mercato del Gas Naturale Liquefatto, con decisioni molto importanti su nuovi massicci investimenti per aumentarne in modo importante produzione ed esportazione. Ovviamente tutto questo non ha niente a che vedere con la concorrenza e la competizione e, senza concorrenze e competizione, a pagare il prezzo più alto alla fine saranno i consumatori perché il gas, molto semplicemente, sarà più caro. Ora, se il tuo obiettivo è aumentare la spesa, benissimo. Ma, dal mio punto di vista, se l’Unione Europea tornasse a occuparsi dei suoi interessi, o l’Italia tornasse a occuparsi degli interessi economici degli italiani, beh, allora sicuramente la situazione potrebbe cambiare rapidamente. Vedete: l’Unione Europea, da un po’ di tempo, sta perseguendo questa idea della diversificazione delle forniture; ma la diversificazione è un servizio di lusso, e a pagare questo servizio di lusso sono tutti gli europei. E questo ancora non ha niente a che vedere con la competizione sul mercato del gas, anzi! La competizione è il meccanismo che permette di ridurre i costi che i consumatori sono tenuti a sostenere, mentre la diversificazione, al contrario, comporta che questi costi aumentino perché sei costretto a finanziare approvvigionamenti alternativi che non sono competitivi. Ad esempio, sei costretto a ricorrere – appunto – al gas naturale liquefatto, che è strutturalmente molto più costoso e così via. E, da questo punto di vista, è importante sottolineare come la Russia non sia mai stata contraria alla competizione con altre modalità alternative di approvvigionamento: ad esempio, quando è stato deciso di investire nel gasdotto Nabucco ci siamo limitati a sottolineare come non sarebbe mai stato profittevole e come mancassero le risorse sulle quali fondarlo, ma non abbiamo mai intimato o supplicato Bruxelles di fermarsi. Non abbiamo detto che se non avessero fermato il Nabucco noi avremmo interrotto le nostre forniture; è stata Bruxelles a capire che non era fattibile. Quindi noi abbiamo sempre desiderato semplicemente una competizione onesta, ma quello a cui abbiamo assistito ultimamente da parte dei paesi dell’unione è una continua violazione degli accordi. E lo vediamo un po’ ovunque: non è soltanto il caso eclatante della Polonia, ma anche la Germania – dove le autorità sono intervenute a gamba tesa in alcune raffinerie – e adesso lo stesso sta avvenendo in Bulgaria. La domanda quindi è: è così che sarà l’Europa nel futuro? Sarà un territorio dove vige un ordine medievale privo di regole e di leggi o torneremo, prima o poi, a una situazione più trasparente dove esistono dei contratti e degli accordi, e questi contratti vengono rispettati? Se l’Europa dovesse tornare a questo tipo di comportamento, allora certo sarebbe possibile per noi tornare ad avere un rapporto proficuo a partire proprio dal Nord Stream, perché il Nord Stream – ricordiamo – è ancora vivo perché, per entrambi i Nord Stream, parliamo di due condotte e una delle quattro condotte è rimasta integra, quindi tecnicamente sarebbe piuttosto semplice tornare a fornire gas attraverso la condotta del Nord Stream 2 rimasta intatta. Purtroppo, però, quello che tecnicamente è ancora possibile non lo è politicamente, e questo non solo per i rapporti con la Russia ma proprio perché prima l’Europa dovrebbe tornare ad essere la patria della legge e delle regole. La distruzione di questa credibilità, purtroppo, oggi è più devastante anche della situazione energetica in se perché rischia di compromettere la situazione per un periodo di tempo enormemente più lungo”.

La politica energetica suicida dell’Unione Europea parte da un assunto: il gas che, fino a ieri, ricevevamo via gasdotto dalla Russia può essere sostituito dal gas naturale liquefatto. Ovviamente, economicamente è un mezzo disastro non solo perché, strutturalmente, i costi sono molto maggiori, ma anche perché quei costi sono in balia totale delle ondate speculative. Non solo: con il passaggio dai gasdotti alle navi gasiere, facciamo anche ciao ciao con la manina a ogni retorica sulla transizione ecologica che, sulla carta, significherebbe decarbonizzazione totale entro il 2050, ma i nuovi contratti in essere e i tempi di ammortamento dei nuovi investimenti – necessari per cambiare font di approvvigionamento – ci costringono a prevedere di continuare a consumare gas ben oltre. In questo giochino, ovviamente, a guadagnarci sono gli USA, che il gas ce l’hanno e che stanno investendo una montagna di quattrini per vendercene sempre di più mentre la competitività del nostro sistema produttivo va a farsi benedire. Gli effetti sono già visibili, soprattutto in Germania che, sul gas a basso costo, aveva fondato l’intera sua politica industriale e che oggi, guarda caso, torna ad essere il grande malato d’Europa.
-1,4%”, titolava ancora mercoledì scorso Il Sole 24 Ore: è “il calo mensile della produzione industriale in Germania” sottolineava l’articolo, “il quarto consecutivo e molto peggiore delle attese, che avevano previsto un calo contenuto in una forbice tra il -0,1 e il -0,4%”. E il tracollo della produzione tedesca, ovviamente, equivale a un tracollo generale di una fetta consistente di tutto il continente che, in buona parte, alla Germania gli fa da terzista e da sub-fornitore: a partire dall’Italia dove, infatti, l’indice pmi manifatturiero a ottobre è ripiombato sotto quota 45 punti che – in soldoni – significa una bella nuova dose di deindustrializzazione. E il bello è che, tutto sommato, c’è andata anche parecchio di culo perché l’anno scorso, per lo meno, a farci concorrenza sui mercati internazionali per acquistare gas naturale liquefatto è mancata la Cina, alle prese con le politiche zero covid. La ripresa della produzione cinese – finito lo zero covid – è stata inferiore alle attese, ma questo inverno – comunque – si farà sentire eccome: quanto a lungo riusciremo a resistere?

Konstantin Simonov: Ora, l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha da poco pubblicato questo report dove si prevede che, già a partire dal 2026, nel mondo ci sarà addirittura un eccesso di offerta di gas naturale liquefatto, e va bene. Ma io vorrei sottolineare un paio di cose: prima di tutto devo sottolineare che, da 25 anni, leggo ogni rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia e devo segnalare che, molto spesso, si tratta di previsioni completamente sballate; quindi valutate voi se è davvero il caso di continuare ad affidarsi a queste previsioni. Ma, soprattutto, c’è un secondo punto che forse è ancora più importante perché, effettivamente, noi abbiamo assistito a questa nuova grande ondata di investimenti negli Stati Uniti, poi abbiamo visto i paesi europei firmare contratti a lungo termine con la Scozia e quindi magari – non dico certo nel 2025 ma, diciamo, a partire dal 2026 – 2027 – vedremo davvero questa nuova grande ondata di gas naturale liquefatto in arrivo, in particolare dagli USA e dal Qatar. Ma rimane un dubbio, perché qui parliamo, appunto, del 2026 e noi adesso siamo nel 2023: quindi – come minimo – ci saranno altri 3 inverni da affrontare prima che questo scenario, nella migliore delle ipotesi, si concretizzi davvero. E allora mi chiedo: “quali saranno gli effetti di altri due o tre inverni senza una fornitura sufficiente di gas naturale liquefatto?”, perché lo scorso inverno, ad esempio, la Cina ha aiutato parecchio l’Europa. Il consumo di gas in Cina l’anno scorso è stato estremamente ridotto a causa delle politiche zero covid e, quindi, il grosso del gas liquefatto è stato venduto ai paesi europei, ma già quest’anno il popolo cinese non ci farà più questo enorme regalo; ciò nonostante, certamente alla fine l’Europa troverà il gas da fornire a tutte le abitazioni e per garantire i servizi delle municipalità ma, come ho già detto, un calo dei consumi del 20% è qualcosa di enorme, una cifra molto pericolosa per le economie europee, e altri due o tre anni così potrebbero significare la totale distruzione delle economie europee. Per carità, se volete continuare con la distruzione sistematica della vostra economia, ovviamente potete continuare con questo esperimento. Magari ci ritroviamo tra tre anni e commentiamo com’è diventata l’Europa.”

Sempre che, fra tre anni, l’Europa ci sia ancora: oltre a tutto quello che abbiamo elencato, infatti, oggi a rompere i coglioni ci si è messa pure l’ennesima crisi in Medio Oriente, che dal genocidio di Gaza rischia di allargarsi a tutta la regione, e se si allargherà a tutta la regione anche a questo giro potremo ringraziare sempre Washington che, da caro vecchio arsenale della democrazia qual è, ha deciso di coprire la guerra di Israele contro i bambini arabi con le sue portaerei.

La Giorgiona nazionale

Un altro attentato bello e buono alla sicurezza e alla sostenibilità economica del vecchio continente, tant’è che qualcuno in Europa s’è pure incazzato; i belgi, ad esempio, dove la vice premier ha dichiarato ufficialmente l’intenzione di chiedere sanzioni economiche contro Israele, ma non l’Italia. Non sia mai, nonostante sia quella che, probabilmente, ha di più da rimetterci e che qualcosina c’ha rimesso già: sostenendo acriticamente la carneficina dei clerico-fascisti di Tel Aviv, infatti, è naufragata definitivamente ogni minima possibilità di trasformare quella gran vaccata del nuovo piano Mattei – escogitato dalla Giorgiona nazionale – in qualcosa di diverso da una favoletta buona per la propaganda dei media.

Konstantin Simonov: Ovviamente se questo conflitto dovesse allargarsi fino a coinvolgere una fetta consistente del Medio Oriente, diventerebbe molto difficile anche solo prevedere il livello reale dei prezzi. In questo scenario credo che anche 150 dollari al barile sarebbe da considerare un buon prezzo, ma io spero che non si arrivi a tanto e, al momento, anche i mercati sembrano non credere in uno scenario del genere e questo è il motivo per il quale i prezzi, al momento, tutto sommato non sono ancora così alti rispetto al gigantesco rischio che stiamo correndo. Vedete: pensare che la Russia sia in attesa di una gigantesca crisi in grado di spingere verso l’alto i prezzi di gas e petrolio è una gigantesca mistificazione, e questo perché siamo convinti che una grossa crisi porrebbe dei problemi enormi al consumo di gas su scala globale. Il nostro obiettivo è vendere petrolio e gas come commodities sul lungo termine; non è nel nostro interesse distruggere interi mercati con prezzi insostenibili; questo è il motivo per cui ci stiamo adoperando per evitare l’allargamento del conflitto in Medio Oriente, perché – vedi – prezzi che oscillano tra gli 80 e i 90 dollari al barile per noi sono più che sufficienti. Abbiamo venduto gas per anni all’Europa a 250/300 dollari per 1000 metri cubi: per noi era sufficiente. Non siamo così ingordi come ci dipingete.”

Ora il prezzo del gas è stabilmente 2 – 3 volte superiore – quando va bene – e la nostra bolletta energetica complessiva, rispetto al 2019, è più che raddoppiata portandoci via qualcosa come 4 punti di PIL: un’enormità. Ma c’è anche una buona notizia perché, nonostante tutte le scelte folli fatte dalla politica europea per compiacere il padrone di Washington, potrebbe non essere ancora troppo tardi per invertire la rotta perché il matrimonio di convenienza tra paesi dell’Unione Europea e Russia – fondato sul commercio del gas – non conveniva, appunto, solo a noi, ma pure a loro che, come sottolinea Simonov, “puntano a vendere gas come commodity sul lungo termine” e che erano felicissimi di vendercela in gran quantità a noi a 250/300 euro per mille metri cubi e che una vera alternativa, tranquilla, liscia e serena al ricco mercato europeo, tutto sommato non l’hanno ancora trovata:

Konstantin Simonov: E’ inutile negare che trovare un sostituto immediato al mercato europeo non è possibile. Nel 2021, la Russia ha fornito all’Europa la bellezza di 146 miliardi di metri cubi di gas; quest’anno la quantità totale sarà inferiore a 30 miliardi di metri cubi. Quindi parliamo di un crollo di poco meno di 120 miliardi di metri cubi, che è una cifra gigantesca; trovare rapidamente un mercato sostitutivo per una quantità del genere è letteralmente impossibile. Ovviamente, per quanto riguarda il petrolio, trovare un sostituto per noi non è stato particolarmente difficile, e quando parliamo di petrolio – come d’altronde anche dei vari prodotti di raffinazione – siamo sugli stessi livelli di esportazione che registravamo all’inizio del 2022 perché ovviamente, grazie al trasporto via mare, abbiamo avuto la possibilità di espanderci in altri mercati a partire dall’India, la Cina e altri paesi asiatici. Ma per il gas, ovviamente, la questione è enormemente più complicata. Qualcosa è stato fatto: ad esempio, oggi esportiamo in Uzebkistan 3 miliardi di metri cubi, ma crediamo che potremo raggiungere i 10 miliardi molto presto; abbiamo firmato un nuovo contratto con l’Azerbaijan e dovremmo firmarne di nuovi a breve anche con Kazakhstan e Kyrghizistan, ma non saranno mai sufficienti a rimpiazzare una tale quantità di domanda. È per questo che, ovviamente, la nostra principale speranza rimane la Cina e il Siberia 2 che, da solo, garantirebbe forniture per 50 miliardi di metri cubi. Ovviamente anche i cinesi sono tentati di approfittare della situazione per strappare condizioni di favore: sono convinti che questo contratto sia più importante per Gazprom che non per i consumatori cinesi. Ma io credo che, in realtà, la Cina abbia bisogno di gas a buon mercato, e la Russia è in grado di fornirglielo. Anche qua è questione di competizione, e il nostro gas sarà sicuramente più conveniente del gas naturale liquefatto ma anche del gas che arriva dall’Asia centrale; per questo sono fiducioso che il prossimo anno riusciremo a firmare finalmente il contratto. Ma ciò nonostante, non è un segreto per nessuno che, anche siglato questo accordo, per la Russia trovare in Asia una domanda tale da sostituire il mercato europeo rimarrà comunque molto complicato. Da questo punto di vista, un altro fattore su cui stiamo puntando è il consumo interno: prevediamo di aumentare il consumo interno di gas di circa 30 miliardi di metri cubi l’anno entro la fine del 2030, e questo è dovuto al fatto che in buona parte della regioni orientali ancora oggi manca un sistema unificato di distribuzione del gas. Prendi ad esempio una città come Krasnoyarsk: è un grande città con oltre 1 milione di abitanti e, al momento, la principale fonte di energia è ancora il carbone. Ovviamente, anche dal punto di vista ambientale è una situazione molto complicata, ma anche con questa aggiunta non riusciremo ancora a sostituire pienamente la domanda europea. È impossibile. Ma, d’altronde, se per l’Europa questa situazione è ok, se siete contenti di veder diminuire il consumo di gas – non dico di gas russo ma di gas in generale – di oltre il 20%, noi cosa possiamo farci? Se siete convinti di proseguire verso la deindustrializzazione allora sì, bisogna ammettere che la Russia avrà perso per sempre una fetta di mercato. Va bene, ma dal mio punto di vista questo è un problema reciproco. Fino a poco tempo fa, noi avevamo il gas e vendevamo il gas all’Europa, eravamo una fonte affidabile di gas a buon prezzo per l’Europa. Ora avete deciso di distruggere questo business e ora vi ritrovate in grosse difficoltà economiche. Se questo vi fa piacere, cosa vi posiamo dire? E io sottolineerei anche un’altra cosa: la Russia ha cominciato a fornire gas all’Europa occidentale a partire dal 1968. Sono oltre 50 anni ininterrotti di forniture. Ora vi invito a trovare un singolo caso di interruzione di fornitura del gas da parte della Russia, e per favore non mi citate la storia dell’Ucraina nel 2009 perché, come sapete tutti, in quel caso fu l’Ucraina a stoppare il trasporto. Ecco perché è importante sottolineare che la leggenda secondo la quale la Russia avrebbe usato politicamente il gas come strumento di pressione è una gigantesca mistificazione: non abbiamo mai fatto pressioni politiche sull’Europa utilizzando la leva del gas. Come sapete, da decenni ormai abbiamo relazioni molto complicate con gli stati del Baltico e ciò nonostante non abbiamo mai interrotto la fornitura di gas, mai. Quindi gli europei hanno distrutto un ottimo affare e l’unica cosa che avranno in cambio è che anche la Russia avrà qualche conseguenza negativa. Non credo sia un approccio molto lungimirante.”

Contro ogni forma di disfattismo, sarebbe il caso di ripartire da qui. La prova di forza della guerra per procura in Ucraina è stata, e purtroppo ancora è, una vera e propria catastrofe che non è servita ad altro che sottomettere ancora di più l’Europa al dominio di Washington e che, ormai, sembra procedere a passo spedito verso una debacle totale. Di fronte alla totale irrazionalità suprematista delle élite europee che ci hanno infilato in questo tunnel non ci sarebbe nessun motivo, per qualsiasi interlocutore sano di mente, di voler avere di nuovo a che fare col vecchio continente guidato da questo manipolo di inaffidabili cialtroni svendi-patria. Fortunatamente, però, al di là della antipatie gli interessi economici rimangono e l’integrazione di due economie complementari – come quella russa e quelle europee – non è la velleità di qualche sognatore pacifista, ma una necessità storica che non può essere cancellata con un tratto di penna dalla nostra classe dirigente, per quanto ci si applichi. Ed è proprio per questo che iniziative come quelle del Forum Economico Eurasiatico, per quanto osteggiato, non sono passerelle velleitarie, ma hanno un’importanza strategica.

Gli agit-prop a Samarcanda

Chi ha gambe e testa, mai come oggi le dovrebbe utilizzare per continuare, in mezzo a mille ostacoli, a tenere aperti i pochi ponti che ancora non abbiamo fatto saltare in aria: certo, abbiamo contro quello che, ancora oggi, è il centro dell’impero e la sua gigantesca macchina propagandistica, ma proprio oggi – di fronte alla loro evidente crisi egemonica – pensare che abbiano partita facile nell’invertire il corso naturale della storia sarebbe un errore imperdonabile. A quasi due anni dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’esigenza storica dell’integrazione del super -continente eurasiatico non solo non è stata derubricata ma, a ben vedere, appare più chiara ed evidente che mai. Altro che disfattismo! Altro che partita chiusa! Qui la partita non è mai stata così aperta e ora tocca a noi riprenderci il nostro malandato continente, estirpare il tumore del partito unico degli affari e della guerra al servizio di Washington e restituire a tutti la possibilità di un futuro di lavoro e di pace. Per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un media capace di rovesciare come un calzino sia il trionfalismo dei suprematisti che il piagnisteo dei disfattisti.
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E chi non aderisce è Ursula von der Leyen