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Tag: neoliberismo

L’impero USA e la sua religione capitalista stanno per finire?

Il capitalismo non è solo un sistema di produzione sociale, ma è diventata una vera e propria religione che mira ad annientare qualunque altra visione del mondo e sistema politico per imporre le proprie logiche mercificanti ed oligarchiche in ogni angolo del pianeta. Il neoliberismo non è che il compimento assoluto di queste logiche in Occidente e solo dall’esterno, dal cosiddetto Sud globale, sembra oggi provenire una possibile salvezza. Di tutto questo abbiamo parlato con Alessandro Visalli.

Come l’arte può sfidare il neoliberismo – Ft. Malasuerte

Oggi con Diego Cossentino dei Malasuerte e Angelo Poli, il regista dell’ultimo video della band dall’evocativo titolo “Gaza”. La traccia verrà rilasciata oggi, 25 aprile 2024, sui profili e canali social dei Malasuerte. Nel corso dell’intervista, i nostri Alessandro e Gabriele parleranno del rapporto tra arte e neoliberismo, di qualità della produzione artistica e soddisfacimento dei criteri di mercato.

Buona visione!

L’antifascimo delle ZTL ha rotto il ca**o: ora e sempre resistenza!

Con l’occasione di farvi gli auguri di un buon 25 aprile, la nostra redazione vi racconta un po’ cosa pensa del fascismo, dell’antifascismo, dell’imperialismo e del colonialismo. Lo facciamo sempre a modo nostro, con un po’ di filosofia e di storia, non dimenticando le complessità del presente e del passato: non dimenticare da dove veniamo, per capire chi siamo. Buona visione!

#25aprile #antifascismo #neoliberismo #capitalismo #anticapitalismo

Il tramonto dell’imperialismo USA sarà la tomba del capitalismo?

Il mondo è già multipolare ed è, sempre più chiaramente, troppo vasto e complesso per la sete di egemonia dell’impero e gli unici che sembrano non averlo capito sono le classi dirigenti degli alleati di Washington – dall’Europa al Giappone – e di ogni colore politico, che si comportano sempre di più come cortigiani dissoluti e privi di dignità alla disperata ricerca delle ultime botte di vita e di lussuria prima di ritrovarsi, inevitabilmente, ad assistere alla decapitazione dell’imperatore al quale hanno giurato eterna fedeltà. Gli analisti di geopolitica organici alla propaganda suprematista finanziata dalle oligarchie rovesciano la realtà e a suon di fake news e di doppi standard e ci raccontano un universo parallelo, ma – purtroppo per loro – nonostante la potenza di fuoco della macchina propagandistica; e anche se negli ultimi 40 anni hanno impiegato ogni mezzo necessario per trasformarci tutti in una gigantesca massa di rincoglioniti, la verità ha la testa dura e venire sistematicamente smentiti dai fatti ne sta indebolendo, giorno dopo giorno, l’egemonia.
Gli analisti geopolitici un pochino più lucidi e indipendenti, invece, quelli che hanno un minimo di competenza e che hanno a cuore anche la loro credibilità, tentano di evitare di accumulare una gigantesca montagna di figure di merda e, di fronte a dei dati oggettivi e incontrovertibili, cercano di aggiustare il tiro, anche se quello che emerge non è esattamente in linea con gli interessi delle oligarchie dalle quali, comunque, dipendono; in entrambi i casi, però, manca completamente la capacità (e forse anche la volontà) di andare al nocciolo della questione e di chiamare le cose col loro nome e il dibattito, fondamentalmente, verte sulle scelte politiche effettuate, di volta in volta, da una forza politica piuttosto che un’altra. Le guerre – fredde o calde – e i loro esiti diventano così frutto del caso e dell’arbitrio, e il mondo potrebbe essere completamente diverso da quello che abbiamo di fronte se solo il leader di turno avesse letto il libro o il rapporto giusto o avesse ingaggiato, nella sua ristretta cerchia di consiglieri, un analista piuttosto che un altro.
Noi di Ottolina Tv abbiamo un’idea leggermente diversa; saremo eccentrici, ma siamo convinti che la storia non la fanno il gossip e la psicologia da bar, ma le strutture profonde che regolano il vivere comune, a partire dalla principale delle attività umane: l’attività economica e, da questo punto di vista, il declino dell’impero e la decadenza arraffona dei cortigiani non sono scherzi del libero arbitrio, ma sono conseguenza diretta della divisione del mondo in classi sociali e dell’eterna lotta tra loro. E quello a cui stiamo assistendo non è il declino di un impero al quale, eventualmente, se ne sostituirà un altro tutto sommato identico; quello a cui stiamo assistendo è la crisi terminale dell’imperialismo, che ricorda da vicino il termine impero e, per gli analisti amici delle oligarchie, probabilmente è del tutto sovrapponibile, ma non lo è affatto. L’imperialismo, infatti, è la forma concreta e storicamente determinata che ha assunto il capitalismo quando ha cercato di rinviare l’inesorabile collasso dovuto alle sue dinamiche intrinseche, sostituendo alle leggende metropolitane della mano invisibile e della concorrenza la creazione dei monopoli e il ricorso sistematico alla forza bruta per imporne gli interessi su scala globale, a discapito di quello delle masse popolari di tutto il pianeta, un ordine globale fondato sulla rapina e sulla violenza che, purtroppo per lui e le sue groupies, però non si limita esclusivamente a distruggere il pianeta e la comunità umana (che è qualcosa di deplorevole, ma che non significa necessariamente condannarsi da soli alla sconfitta) ma, appunto – come annunciava profeticamente, ormai oltre un secolo fa, un certo Vladimir Ilic Uljianov, in arte Lenin – fornisce alle forze sociali, che hanno tutto l’interesse a rovesciarlo direttamente, la corda con la quale lo impiccheranno.

Vladimir Ilic Uljianov, in arte Lenin

E gli ultimi avvenimenti, da questo punto di vista, rappresentano una serie infinita di veri e propri esempi da manuale esattamente di questa dinamica suicida e autodistruttrice, sia dal punto di vista economico che da quello più prettamente geopolitico; mano a mano che il declino dell’impero si accentua, di pari passo aumenta la sua aggressività sia militare che economica che, paradossalmente, non sembra ottenere altro che accelerare ulteriormente il suo declino e rafforzare i suoi avversari. Ma prima di addentrarci nei dettagli tecnici su come è fatto questo cappio costruito con la corda che l’imperialismo sta fornendo ai suoi avversari, ricordati di mettere un like a questo video per permetterci di combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche: un piccolo gesto che a voi non costa niente, ma che per noi cambia molto e ci permette di provare a costruire un media veramente nuovo che, invece che parare il culo all’imperialismo in declino, contribuisca – giorno dopo giorno – a fornire gli strumenti necessari ai subalterni per bastonare il cane che affoga e liberarci, finalmente, delle nostre catene.
La svolta degli aiuti americani titolava ieri sul Corriere della serva Paolo Mieli: “Fortunatamente per i repubblicani statunitensi, e per tutti noi” sottolinea Mieli, Mike Johnson, “il cinquantaduenne legale di Donald Trump nei processi di impeachment del ‘19 e del ‘21, ultras cattolico, ostile al diritto di aborto e alle unione gay” ha stupito tutti, “si è messo in gioco” ed ha deciso di “tessere una tela tra democratici e repubblicani a vantaggio di Volodomyr Zelenski”; “Sto cercando di fare la cosa giusta” aveva affermato nei giorni scorsi Johnson per provare a giustificare il suo repentino cambio di rotta. “Sono convinto del fatto che Xi, Putin e l’Iran” ha dichiarato “costituiscano davvero l’asse del Male, e credo che si stiano coordinando. E credo che Putin, se glielo permettiamo, finita questa partita andrà sicuramente oltre, e che dopo l’ucraina verranno i paesi del Baltico, e anche la Polonia”. Mieli, che nella sua lunga e intensa vita è partito dalla militanza marxista – leninista nella sinistra extraparlamentare di Potere Operaio (simpatie per la lotta armata comprese) al comitato esecutivo dell’Aspen Institute, di giravolte se ne intende – e anche di artifici retorici per ammantarle di principi nobili; in questo caso, la giravolta opportunista di Johnson, tramite la sua penna sbarazzina, diventa la “sorpresa di un’autentica democrazia, come è, ancorché esposta a numerose ed evidenti insidie, quella degli Stati Uniti”: un discorso, dal punto di vista di una delle penne italiane in assoluto più amate dalle oligarchie, del tutto coerente. Per Paolo Mieli, come per tutta la propaganda neoliberista, democrazia – infatti – è sinonimo di potere politico saldamente in mano alle oligarchie, con la politica che deriva la sua legittimità dalla loro benedizione, invece che dal consenso popolare; e, in questo senso, gli Stati Uniti sono effettivamente ancora una democrazia, anche se cominciano ad arrivare segnali di lotta politica da parte dei subalterni – dalle mobilitazioni contro il genocidio alle battaglie sindacali – e la giravolta di Johnson, che ha rinnegato il suo mandato democratico proprio su pressione del partito unico della guerra e degli affari, è sicuramente una manifestazione di questo rapporto gerarchico, anche se tutt’altro che sorprendente.
Come sosteniamo da sempre, infatti, intorno all’approvazione degli aiuti s’è scatenata una negoziazione feroce da parte dei repubblicani per strappare qualche condizione di favore sia per gli affari personali dei loro sponsor, sia per il consenso (come nel caso della partita della lotta all’immigrazione), ma di fronte al fatto che gli aiuti diventavano sempre più indispensabili per evitare di concedere alla Russia una vittoria totale sul campo e il crollo definitivo di tutto il fronte, non ci sarebbe stata considerazione tattica possibile: l’impero sa esattamente come proteggere i suoi interessi vitali e non c’è incidente di percorso possibile che possa alterare radicalmente questo assunto; ciononostante, ce ne sono molti che lo possono alterare progressivamente. E prendere per due anni, giorno dopo giorno, una cespugliata di schiaffi nella guerra per procura contro la Russia è sicuramente uno di questi. Il pacchetto di aiuti in questione, infatti, sancisce definitivamente il gigantesco spostamento dei rapporti di forza determinato dal campo di battaglia; l’offensiva ucraina non è proprio più nemmeno un’ipotesi remota: le armi previste hanno esclusivamente carattere difensivo. Si tratta, molto banalmente, di ridare all’Ucraina i mezzi per tentare di evitare il totale controllo dello spazio aereo da parte russa e ostacolare così un’avanzata che, per quanto lenta, al momento sembra inesorabile. Come sottolinea il buon Andrew Korybko sul suo profilo Substack “Il tanto atteso pacchetto di aiuti USA all’Ucraina potrebbero impedirne il collasso, ma non respingeranno la Russia”; una condizione essenziale, sottolinea lo stesso Mieli, per provare a lavorare a un accordo tra – come li chiama lui – aggressore e aggredito e, cioè, esattamente quell’accordo che era possibile già nella primavera del ‘22, solo con qualche centinaio di migliaia di morti in più, un’economia europea completamente devastata e rapporti di forza molto più favorevoli alla Russia.
Lo spostamento dei rapporti di forza è altrettanto evidente in Medio Oriente, soprattutto dopo l’operazione True Promise da parte dell’Iran due sabati fa, all’insegna – come sottolinea The Cradle – della “precisione anziché della potenza” e, ancora di più, all’assenza di una risposta proporzionale da parte di Israele; un cambiamento radicale nella bilancia di potenza di tutta la regione dove, fino a due settimane fa, era del tutto impensabile poter attaccare direttamente Israele senza subire ritorsioni di diversi ordini di grandezza più devastanti. Una vera e propria rivoluzione resa possibile da diversi fattori; uno squisitamente militare: lo sviluppo tecnologico ha ridotto drasticamente il vantaggio che deriva da una sproporzione vistosa nei rispettivi budget militari. Con un budget limitatissimo, l’Iran, infatti, grazie all’impiego di droni low budget e di missili obsoleti (come li definisce lo stesso The Cradle) è riuscito facilmente a saturare la costosissima difesa aerea dell’alleanza messa in piedi in fretta e furia dagli USA a sostegno dello sterminio dei bambini palestinesi, permettendo così all’Iran di colpire in modo più o meno simbolico tutti gli obiettivi militari che aveva individuato e, cioè, le tre installazioni militari che avevano contribuito all’attacco criminale di Israele al consolato iraniano di Damasco; se vogliamo raccontarcela romanticamente è una classica vittoria di Davide contro Golia. Se, invece, abbiamo un bidone dell’immondizia al posto del cuore, si tratta della manifestazione di un’altra debolezza strutturale dell’imperialismo: ostaggio delle sue oligarchie, il sistema imperialista – infatti – vede il grosso di quello che spende in armamenti trasformarsi magicamente in extraprofitti per gli azionisti del comparto militare – industriale, che hanno imposto di dirottare il grosso della spesa in sedicenti sofisticatissimi sistemi d’arma che costano ordini di grandezza in più per ogni nuova generazione che arriva e che, alla prova dei fatti, possono essere agevolmente fottuti con qualche ferrovecchio.
Oltre al piano prettamente militare, però, l’imponente cambio della bilancia di potenze in Medio Oriente è anche il frutto di alcuni aspetti ancora più strutturali: il primo riguarda il difficile rapporto tra il centro imperialistico e i suoi avamposti regionali; la fase suprema dell’imperialismo prevede, infatti, il dominio totale del centro su tutto il pianeta, un pianeta che però, a causa dello sviluppo di molte periferie che esso stesso ha determinato a suon di globalizzazione e di delocalizzazioni, è sempre più grande e sempre più complesso. Per esercitare questo dominio, allora, diventano sempre più importanti – appunto – gli avamposti regionali, come è il caso di Israele nel Medio Oriente: in virtù del ruolo sempre più vitale che ricoprono all’interno del sistema imperialistico, questi avamposti acquisiscono, però, sempre maggiore potere, fino ad essere in grado di imporre scelte strategiche almeno in parte in contraddizione con il disegno strategico complessivo del centro imperialistico; che è proprio il caso di Israele, dove, sfortunatamente per gli USA, questo potere crescente si è ritrovato ad essere fortemente influenzato da delle fazioni di fondamentalisti guidati più dal fanatismo che dallo spietato calcolo razionale utilitaristico.
Completamente avulsi da una valutazione realistica dei rapporti di forza concreti, questi millenaristi invasati hanno condotto gli USA in una specie vicolo cieco, a partire dai rapporti con le petromonarchie del Golfo; nonostante le petromonarchie siano terrorizzate dal rafforzamento dell’egemonia regionale dell’Iran e delle forze popolari e antimperialiste dell’asse della resistenza, gli eccessi dell’imperialismo in declino le hanno spinte sempre di più alla ricerca di un difficile compromesso con gli avversari regionali come l’alternativa più realistica e razionale a un’egemonia USA sempre più compromessa e insostenibile. A spingere in questa direzione c’aveva già pensato l’irruzione della Cina come principale partner economico dell’area; un altro aiutino era poi arrivato dalla fine del mito dell’invincibilità dell’apparato militare USA sconfitto in Siria, incapace di permettere ai sauditi di chiudere a loro vantaggio la lunga battaglia per il controllo dello Yemen e, infine, pesantemente ridimensionato in Ucraina. Il sostegno incondizionato allo sterminio dei bambini palestinesi, che ha dimostrato l’incapacità degli USA di esercitare la loro egemonia su Israele, potrebbe essere la goccia che fa definitivamente traboccare il vaso: l’evidente precarietà di questo equilibrio è tra i fattori che hanno spinto USA e anche Israele a limitare al massimo la reazione all’attacco iraniano, al costo di certificare una sconfitta clamorosa dal punto di vista degli equilibri tra le opposte deterrenze.
L’egemonia dell’imperialismo su questi paesi è ogni giorno più fragile e ogni ulteriore passo falso potrebbe risultare essere fatale, dal Medio Oriente al Pacifico: l’imperialismo in declino, infatti, ha compreso che per poter pensare di fare la guerra alla Cina, dopo decenni di delocalizzazioni e finanziarizzazione, ha bisogno di ricostruire una base industriale comparabile e, per farlo, è tornato alle vecchie politiche protezionistiche; e a pagarne le conseguenze sono spesso proprio i paesi dove, invece, gli USA avrebbero bisogno di dimostrare tutta la loro magnanimità per convincerli che, ancora oggi, rappresentano un’alternativa migliore alla Cina esportatrice e mercantilista. Nel caso dei paesi dell’ASEAN, ad esempio, gli USA hanno girato le spalle all’accordo di libero scambio che avrebbe dovuto sostituire il vecchio trattato annullato dall’amministrazione Trump, lasciando alla Cina campo libero; ma non solo: con la politica del friendshoring, che punta a sostituire i legami economici e commerciali con i paesi considerati ostili – a partire proprio dalla Cina – con quelli con paesi considerati più amichevoli, gli USA hanno ottenuto, ad oggi, esattamente l’opposto di quanto sperato. Paesi come Vietnam o Indonesia, infatti, non hanno fatto che rinforzare i loro legami con la Cina, dalla quale importano la stragrande maggioranza dei semilavorati che impiegano nella loro industria, rendendole così sempre più dipendenti da Pechino. che viene spinta ogni giorno di più proprio dal panico diffuso nell’Occidente collettivo dal declino dell’imperialismo, a investire tutte le sue forze verso un’indipendenza tecnologica sempre più marcata.
Nonostante la Cina sia un paese che sta percorrendo la sua strada verso un’economia avanzata di tipo socialista e nonostante non abbia mai ceduto ai deliri più vistosi del misticismo neoliberista – a partire dalla volontà di mantenere una fetta consistente dei principali mezzi di produzione saldamente in mano alla Stato (a partire dal credito che, tra i mezzi di produzione, è in assoluto quello gerarchicamente più importante) – allo stesso tempo l’élite del partito, in buona parte formatasi nelle grandi università americane, è stata infatti a lungo fortemente influenzata dall’economia politica classica liberale; e nonostante sia diventata l’unica vera grande superpotenza manifatturiera del paese, in ossequio ai dictat della dottrina di Adam Smith ha sempre continuato a dipendere dall’estero per una bella fetta delle tecnologie che avrebbe dovuto spendere troppo per sviluppare in casa. Fino a che gli USA, giorno dopo giorno, sanzione dopo sanzione, non le hanno impedito di comprarle all’estero e l’hanno costretta a investire tutte le sue energie per svilupparsele da sola e accelerare in maniera esponenziale il lungo cammino che porta verso l’indipendenza tecnologica, come – ad esempio – sta succedendo nell’industria dei microchip, dove la Cina continua a scontare un ritardo significativo rispetto all’impero, ma è un gap che si è già ridotto sensibilmente negli ultimi 2 anni e non le ha impedito di costruire, con tecnologia autoctona, uno smartphone come il Mate 70 pro di Huawei che in Cina ha letteralmente asfaltato Apple. Risultato: Huawei nel 2023 è cresciuta del 10%; Apple è rimasta sostanzialmente al palo.

Xi Jinping

Le sanzioni USA contro quelli che la propaganda suprematista definisce Stati canaglia e, cioè, tutti gli Stati che non obbediscono in silenzio a Washington, non li ha spinti solo a investire di più: li ha anche obbligati a superare le loro differenze, a cooperare sempre di più e a integrarsi economicamente, andando a costruire gradualmente una sorta di blocco che, in condizioni meno burrascose, nella migliore delle ipotesi avrebbero impiegato enormemente di più a consolidare; riassumendo, quindi, l’aggressività con la quale l’imperialismo ha deciso di reagire al suo progressivo declino ha spostato gli equilibri geopolitici di diverse aree del pianeta a favore del nuovo ordine multipolare, velocizzato l’indipendenza tecnologica degli avversari, favorito la creazione di un vero e proprio blocco ormai incompatibile con il vecchio ordine e spostato sempre più in direzione di questo blocco anche i paesi più neutrali e titubanti. Rimane, però, il golden billion, il mondo del miliardo dorato composto, in gran parte, dalle ex potenze coloniali più qualche aggiunta qua e là, che rappresentano i veri e propri alleati degli USA, un insieme di Paesi che, però, sta vedendo diminuire il suo peso specifico nell’economia mondo a vista d’occhio, col G7 che è passato, nell’arco di 30 anni, da pesare più del doppio dei BRICS ad esserne addirittura superato.
Ma come fanno gli USA, quindi, a continuare a coltivare il loro sogno unipolare se non sono altro che il leader di un blocco che ormai è tutt’altro che egemone? Semplice: fottendo gli alleati, tutti gli alleati; ma proprio a saltelli. L’ultimo esempio la Corea del Sud, che non solo vede nella Cina di gran lunga il più importante partner commerciale – come ormai succede alla stragrande maggioranza dei paesi del mondo – ma è anche uno dei rarissimi casi che vanta nei confronti della Cina un consistente surplus: insomma, buona parte del benessere coreano è dovuto al mercato cinese, in particolare proprio per quanto riguarda la componentistica elettronica a partire dai chip, un mercato che su pressioni statunitensi ha dovuto gradualmente abbandonare, spingendo i cinesi a produrseli da soli. Risultato? Un grande quesito esistenziale: come titolava ieri il Financial Times, Il miracolo economico sudcoreano è finito? E loro son quelli messi meglio perché, almeno, hanno ancora qualche dubbio; Giappone e Germania, ormai in piena recessione, il dubbio non ce l’hanno più; entrambi, ormai, sono in recessione piena e – a quanto pare – rischia di essere solo l’inizio.
Bloomberg: La Banca Centrale Europea non dovrebbe affrettare ulteriori tagli dei tassi dopo giugno; a dichiararlo sarebbe stato Madis Mueller, presidente della Banca Centrale Estone e membro del consiglio della BCE. La dichiarazione segue le recenti affermazioni di Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, che aveva recentemente congelato le aspettative per una nuova stagione della riduzione generalizzata dei tassi che, a partire dagli USA, avrebbe contagiato il grosso delle economie avanzate; il punto è che l’economia USA continua a correre e, con essa, l’inflazione: ma com’è possibile? Non era tutto in declino? Il punto, come sapete, è che proprio per reagire al declino dell’imperialismo gli USA hanno aperto i cordoni della borsa e stanno aumentando il deficit pubblico a dismisura per attrarre investimenti dai paesi alleati e questo, ovviamente, fa crescere il PIL e continua a mantenere alta anche la pressione inflazionistica (che è un’ottima scusa per dire ai bamboccioni che la FED deve continuare a mantenere i tassi alti); in realtà però, come sempre, mantenere i tassi alti a parole è una reazione dovuta, una scelta tecnica. In realtà è una precisa scelta politica: più alti sono i tassi, più i capitali più deboli crollano, a favore di quelli più forti. La rapina sistematica delle economie degli alleati per rafforzare l’egemonia USA sull’Occidente collettivo continua indisturbata e, anzi, rilancia; fino a quando i cortigiani si accontenteranno di poter banchettare alla corte dell’imperatore mentre i suoi uomini gli confiscano terre e gioielli di famiglia? Fino ad oggi, l’accettazione di questa subalternità era sostenuta anche dalla percezione dello strapotere militare USA, ma gli ultimi risultati dal campo, anche tra le groupies di Washington indeboliscono l’idea dell’invincibilità della patria di Capitan America.
Purtroppo, però, c’è un fattore ancora più profondo che continua a tenere legate le varie borghesie nazionali allo stradominio USA, nonostante – stringi stringi – le stia vistosamente penalizzando e questo fattore è lo stesso che, alla fin fine, continua a garantire la fedeltà all’imperatore anche dei cortigiani più bistrattati e, cioè, che l’imperatore è la garanzia che continui il dominio dell’aristocrazia come classe sociale, della quale (anche se in posizione subordinata) fanno comunque parte. Lì oltre una certa soglia il problema, comunque, si superava: morto un imperatore, tutto sommato, se ne fa un altro; il dubbio è che questa continuità valga anche oggi. A differenza del mondo a immagine e somiglianza del dominio delle aristocrazie, infatti, il capitalismo ha una sua peculiarità: se non cresce, muore; ma i limiti oggettivi di questo processo di crescita infinita si sono fatti sentire chiaramente già decenni fa. Per due volte è potuto ripartire solo in seguito a una devastante guerra mondiale, poi si è provato a tenerlo artificialmente in vita con il trentennio d’oro delle politiche keynesiane che, però, erano talmente aliene ai meccanismi fondamentali dell’accumulazione capitalistica da mettere le classi dominanti di fronte a un bivio: o superiamo il capitalismo o azzeriamo le politiche keynesiane. La scelta che, per le classi dominanti, è stata un scelta di sopravvivenza la conosciamo tutti: si chiama controrivoluzione neoliberale e il sistema che ne è derivato è, appunto, l’imperialismo, l’accanimento terapeutico delle oligarchie per tenere in vita un capitalismo che, nella realtà, non esiste già più.
Il meccanismo fondante del capitalismo infatti è, stringi stringi, tutto sommato piuttosto semplice: investo dei soldi, produco una merce, rivendo la merce e ottengo i soldi investiti più un profitto; questa cosa che, secondo la vulgata, sarebbe ancora oggi il meccanismo fondamentale dell’attività economica dell’uomo in ogni angolo del pianeta, molto banalmente non funziona più. Al suo posto, un gigantesco schema Ponzi, dove la ricchezza prodotta non aumenta di un centesimo e, invece, il valore fittizio delle bolle speculative si ingigantisce senza sosta: i grandi patrimoni di oggi sono, sostanzialmente, in gran parte azioni o prodotti finanziari di altro tipo che, se un giorno dovessero essere venduti, non esisterebbero abbastanza soldi in tutto il mondo per comprarseli; un castello di carte dove le oligarchie dell’Occidente collettivo vivono protette dall’impero militare e finanziario USA e sanno benissimo che, una volta venuta meno la difesa dei suoi F-35, delle sue portaerei e del suo dollaro, non potrebbe che crollare definitivamente mettendo così fine alla finzione.
Per quanto saremo ancora così coglioni da farci derubare di tutta la ricchezza che produciamo – e che saremo ancora di più in grado di produrre – perché non riusciamo a vedere che la roccaforte che dobbiamo abbattere, dietro la facciata, non è altro che un castello di carte? Contro il castello di carta dell’imperialismo e del capitalismo finanziario, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che non si faccia abbindolare dalle leggende metropolitane e che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bill Gates (ma povero, però)

Il SALARIO MINIMO non vi salverà – ft. Savino Balzano

Oggi presentiamo il libro “Il salario minimo non vi salverà” di Savino Balzano (sindacalista, scrittore e autore del La Fionda) edito da Fazi Editore. Nel testo, l’autore cerca di smontare il mito progressista del salario minimo analizzando la realtà economica italiana, il neoliberismo predominante in tutta Europa e possibili soluzioni alternative. Come venirne fuori? Con un grande movimento dei lavoratori che imponga le proprie condizioni e costringa partiti e sindacati a farsi carico delle proprie scelte.

Fardelli d’italia ep. 3 – L’onda alta DI Sanremo travolge il governo? – con PaeseReale 

Sono bastate un paio di parole dette sul palco di Sanremo per far crollare il castello di carte della narrazione atlantista sulla Palestina. Ghali e Dargen i pericolosi “sovversivi”… nel frattempo il governo Meloni risponde nell’unico modo che conosce: il manganello.

“PATRIA O MUERTE” – L’amore per la patria come antidoto alla dittatura globale delle oligarchie

Si avvicinano le elezioni europee e, come ormai accade inevitabilmente da anni, uno spettro si aggira per il vecchio continente: lo spettro dell’affermazione elettorale dell’estrema destra nazionalista. Che strano… I cantori delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista, infatti, avevano dato il tema dell’identità nazionale per morto già diversi lustri fa: sostenevano, in soldoni, che sarebbe stato – inevitabilmente e definitivamente – relegato in un angoletto buio della soffitta dei ricordi un po’ scomodi dall’ascesa incontrastata di un’economia sempre più mondializzata e interconnessa, dal superamento delle frontiere della governance globale e da identità sempre più fluide; gli stati nazionali, secondo questa ottica un po’ messianica, non erano altro che un rimasuglio arcaico che si ostinava a tentare di ostacolare con scarsissimo successo il pieno dispiegamento di una società sempre più aperta e il definitivo trionfo a livello globale dell’unico modello possibile immaginabile: la democrazia liberale. Come mai anche a questo giro non c’avevano capito assolutamente una cippa?
“Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere, né confini”: così si esprimeva il 12 aprile del 1961 il primo essere umano ad avere la possibilità di guardare il nostro pianeta dallo spazio; non a caso, era un cosmonauta sovietico. L’aspirazione alla costruzione di un mondo senza frontiere e alla costruzione di un essere umano nuovo cittadino del mondo è da sempre parte integrante del movimento operaio e dell’identità politica di ogni sincero progressista; oggettivamente, però, con scarsissimi risultati fino a quando qualcuno non ebbe una incredibile intuizione: quello che non erano riusciti a ottenere i subalterni di tutti i paesi attraverso la lotta politica, lo si poteva raggiungere attraverso il mercato. Altro che internazionale dei lavoratori! A garantire un futuro di pace e di progresso c’avrebbe pensato direttamente la globalizzazione. Purtroppo si è rivelata essere un’intuizione non particolarmente brillante, diciamo: a fregare i nostri amici idealisti, l’assenza dell’aggettivo che deve sempre accompagnare il termine globalizzazione – e senza il quale si rischia sempre di prendere cazzi per mazzi – e cioè neoliberista. Quella che stavano sostenendo i nostri amici alla disperata ricerca di una nuova forma di internazionalismo non era genericamente la globalizzazione, ma specificatamente la globalizzazione neoliberista; e la differenza non potrebbe essere maggiore: lungi dall’essere un progetto post – nazionale, la globalizzazione neoliberista, infatti, mirava a consolidare un ordine economico internazionale fondato su una gerarchia precisa, con alcuni stati nazionali e i loro imperi al centro e gli altri alla periferia, che potevano accompagnare solo. In particolare, accompagnare la logica feroce dell’accumulazione capitalistica che, con il sostegno dell’impero, ha operato per mettere gli stati della periferia gli uni contro gli altri in una competizione senza fine a chi si accaparra più capitali dalle oligarchie finanziarie a suon di privatizzazioni, incentivi e guerra senza frontiere ai diritti di chi lavora. E così alla fine, paradossalmente, l’identità nazionale più che cedere il passo si è potenziata: la crescita di una governance internazionale sempre più oligarchica e meno democratica ha rafforzato vecchi e nuovi nazionalismi, e la comunità nazionale si è confermata la comunità di riferimento principale per miliardi di cittadini e cittadine in tutto il mondo.
Nel suo L’insicurezza sociale, cosa significa essere protetti? Robert Castel ci ricorda come gli individui, per sentirsi sicuri, sentano la necessità di sentirsi parte di una comunità; nel novecento, però, esistevano due tipi di comunità non necessariamente antitetiche, e cioè quelle nazionali e quella, senza confini fisici, del lavoro: la sconfitta del movimento operaio, dei suoi attori e delle sue istituzioni, quindi, non poteva che lasciare il posto al primato incontrastato della comunità nazionale. Davanti all’insicurezza della globalizzazione, la nazione non poteva che venire sempre più percepita come l’unico rifugio sicuro rimasto; di fronte a questo fenomeno, una fetta maggioritaria della sinistra ha reagito con uno schematismo un po’ superficiale e non particolarmente lungimirante: nel tentativo di tenere fede in modo completamente astratto al dogma internazionalista, non solo si è allineata totalmente all’ostilità del grande capitale nei confronti del concetto di nazione, ma ha rilanciato scagliandosi come un solo uomo contro l’idea stessa di stato. “Nel mondo globalizzato” sintetizzava il maître à penser per eccellenza di questa deriva, Toni Negri, “ogni reminiscenza statalista è destinata a piegarsi al sovranismo e all’identitarismo, e rinnova derive fasciste”.

Wolfgang Streeck

A tentare di riportare il dibattito sul piano del materialismo dialettico, sottraendolo a queste derive semplicistiche, c’ha pensato fortunatamente Wolfgang Streeck , direttore emerito dell’Istituto Max Planck per lo studio delle Società di Colonia: Streeck, infatti, sottolinea proprio come quel Leviatano repressivo che è lo stato – e, in particolare, proprio nella sua forma nazionale – sia stato storicamente la forma più efficace a disposizione delle classi popolari per controllare e socializzare l’economia e come, ancora oggi, rappresenti l’ultimo argine al dominio incontrastato delle forze del capitale. Anche per questo – anche se in modo spesso confuso o ambiguo – in assenza della comunità del lavoro organizzata, oggi le forme di opposizione prevalente al regime neoliberista globalizzato si presentano come rivendicazioni di sovranità nazionale o substatale, siano esse di sinistra o di destra, escludenti o inclusive.
Ma cos’è la nazione? Davvero questo concetto è necessariamente strumento della reazione? Oppure, al contrario, può essere anche uno strumento di emancipazione egualitaria e popolare? Un quesito fondamentale che, finalmente, oggi possiamo affrontare con due strumenti in più: il primo si chiama Un’idea di paese. La nazione nel pensiero della sinistra ed è l’ultima fatica del giovane Jacopo Custodi, ricercatore in comunicazione politica alla Scuola Normale; l’altro invece si chiama Nazioni in cerca di stato ed è opera di un altro giovane ricercatore, lo storico Paolo Perri. Due libri che da prospettive diverse e complementari ci parlano, appunto della nazione, di come questo concetto non vada necessariamente declinato su base etnicocentrica ed escludente e di come un approccio diverso a questa questione possa rappresentare finalmente una base per una sinistra egemonica, nazionalpopolare e in grado di sfidare sia l’egemonia della globalizzazione neoliberista sia il suo alter ego complementare, rappresentato dal nazionalismo xenofobo e finto sovranista. I due autori condividono la definizione di Benedict Anderson di nazione come comunità immaginata: le ideologie, sostengono, non sono mistificazioni fuorvianti da sfatare rivelando una presunta verità, ma sono invenzioni concettuali che creano un ordine ideale che produce effetti materiali concreti: identità, affetti, passioni. Il fatto che, per secoli, lo sviluppo dello stato si sia accompagnato a quello della nazione e che miliardi di uomini e donne in tutto il pianeta crescano e vivano in un contesto culturale, istituzionale e comunitario in cui la nazione è la principale comunità d’appartenenza, rende la nazione un concetto materialmente vivo ed estremamente potente, che ci piaccia o no; il problema, allora, più che disquisire su quanto ci piace o meno un dato di realtà incontrovertibile, consiste più prosaicamente nel comprendere concretamente il tipo di nazione evocato: escludente e rivolto al passato, o includente e rivolto al futuro? A incidere, continuano i nostri due autori, sarebbero in particolare due variabili: da un lato la storia e, dall’altro, il progetto politico inteso come l’insieme di interessi e di gruppi sociali che ci si propone di rappresentare; un concetto escludente di nazione è, ad esempio, per eccellenza, quello che si fonda sull’appartenenza etnica che, contro ogni minima parvenza di rigore storico, viene spacciata come chiusa, statica e naturale. La nazione fondata su una purezza etnica necessariamente posticcia non può che essere funzionale esclusivamente a vedersi eternamente come un fortino minacciato da tutti gli altri popoli – culturalmente ancora più che politicamente; è una nazione che teme ogni mutamento sociale, sogna il ritorno a un eden passato totalmente artefatto e, nel farlo proprio mentre magari legittimamente contesta le oligarchie transnazionali, punta al rafforzamento di gerarchie sociali che vedono le oligarchie locali al centro e tutti gli altri intorno, che possono accompagnare solo: insomma, l’esatto opposto di una nazione che si fonda sulla condivisione di principi e orizzonti democratici, aperta a chiunque voglia condividere un progetto sociale fondato sull’uguaglianza e necessariamente in eterno divenire. Questa idea includente di nazione rifiuta l’artificio dell’omogeneità etnica e culturale, e più che essere interessata al pedigree e da dove vieni, è interessata a dove vorresti andare e al contributo che sei disposto a dare per arrivarci, insieme; in quanto fondata su un progetto politico condiviso e democratico, la nazione includente è un’arma straordinaria di contrasto allo strapotere delle oligarchie e, paradossalmente, è per sua natura intrinseca molto più concretamente internazionalista di quanto non lo siano le utopie astratte, perché già solo per il fatto di esistere – e di resistere – contribuisce concretamente alla costruzione di un sistema di relazioni internazionali più equo e democratico.

Jacopo Custodi

Jacopo Custodi si sofferma principalmente sull’idea di nazione nella sinistra radicale e nella sua tradizione teorica, in particolare nel contesto italiano, e lo fa a partire da una semplice ma fondamentale riflessione: pensate se io oggi mi svegliassi e su un qualsiasi social mi azzardassi ad affermare una cosa tipo “O la patria, o la morte”. Immaginate? Razzista! Rossobruna!
Ebbene sì: sono razzista e rossobruna, come Che Guevara: Patria o muerte infatti, com’è ben noto, è stato a lungo il più celebre dei suoi slogan. A lungo, appunto, ma da una trentina di anni, un po’ meno, diciamo. Il Che, ovviamente, si riferiva in particolare alla funzione fondamentale che l’idea di comunità nazionale rivestiva nelle lotte di decolonizzazione, ma la centralità della questione nazionale nelle riflessioni di un militante rivoluzionario non era certo una sua invenzione: da Lenin a Rosa Luxembourg, in tutta la storia del movimento operaio la questione nazionale è sempre stata centrale; durante la rivoluzione d’Ottobre, la lotta per l’autodeterminazione nazionale di quelle che diventeranno poi le repubbliche sovietiche è stato uno degli assi fondamentali, e per Antonio Gramsci la partita principale consisteva nella definizione di un un progetto nazionalpopolare di unità del proletariato del Nord con i contadini del Sud per un blocco storico nazionale capace di costruire un’Italia socialista. Amare il proprio paese, scrive Jacopo Custodi, “vuol dire attivarsi per cambiarlo, e allo stesso tempo identificarsi con esso e rappresentarlo”, ed “è questo” continua l’autore “il senso profondo di quell’espressione, costituirsi in nazione, che compare nel Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels e che porta con sé l’eco della Rivoluzione Francese”; “Ciò che è nell’interesse della nazione” continua Custodi “dipende da cos’è la nazione, e da dove viene messa la sua frontiera immaginata”. Il punto, insiste, è la lotta per l’egemonia e la rivendicazione del fatto che le battaglie per l’uguaglianza e l’emancipazione dei subalterni non solo coincidono con l’interesse nazionale, ma SONO l’interesse nazionale; lasciare alle forze della reazione la costruzione dell’idea di nazione significa, molto semplicemente, rinunciare a lottare per l’egemonia e nascondersi mentalmente in qualche paradiso perduto, tra qualche battuta snob sulla necessità di abolire il suffragio universale e qualche piagnisteo vittimista su quanto il volgo non sia in grado di comprenderci.

Paolo Perri

Paolo Perri inquadra invece la questione nazionale da un altro punto di vista, ripercorrendo la storia dei movimenti e partiti politici che rappresentano quelle nazioni senza stato in cerca di maggiore autonomia o indipendenza; l’autore ripercorre la storia dei principali indipendentistmi, dalla Spagna all’Irlanda passando per Scozia, Galles, Fiandre e chi più ne ha più ne metta, e in questo modo ci permette di toccare con mano, in qualche modo, quello che Custodi ha provato a descrivere teoricamente. Come Custodi, Perri condivide l’idea della nazione come un prodotto dell’immaginazione politica che mette insieme elementi sociali, religiosi, economici e storici per un concetto di nazione sempre mutevole; questi nazionalismi diventano spesso il catalizzatore politico di una domanda di trasformazione più ampia il cui maggiore o minore successo è determinato da un lato dal grado di repressione dello stato nazionale in cui si sviluppano e, dall’altro, dalla loro capacità di rappresentare un progetto sociale ed economico alternativo : “Le mobilitazioni autonomiste e indipendentiste nell’Europa di questi ultimi anni” scrive Perri “si possono e si devono ricondurre a una molteplicità di fenomeni, quasi sempre espressione della crisi della democrazia rappresentativa. I movimenti nazionalisti, allora, possono proporsi da un lato come canali di radicalizzazione democratica, avanzando soluzioni antiliberiste e redistribuzioniste, come nei casi irlandese, basco, catalano e scozzese; oppure possono agire come forze autoritarie e conservatrici, che declinano il nazionalismo in forme di chiusura neo – comunitarista e xenofoba, come nel caso fiammingo.” L’idea nazionale, in questo caso, diviene il perno centrale di un immaginario antisistemico che catalizza il dissenso sociale: durante le crisi, sottolinea Perri, “Partiti spesso marginali, o addirittura organizzazioni clandestine e/o paramilitari, si sono trasformati in veri protagonisti della scena politica, sostituendosi in molti casi ai partiti tradizionali di destra, di centro e di sinistra. In tutti i casi qui presi in considerazione, il nazionalismo, da semplice espressione della frattura centro – periferia, ha finito quindi per interagire con diverse ideologie politiche, sposandone sempre più convintamente alcuni aspetti e producendo una sintesi liquida, che gli ha permesso di rispondere a un numero molto più ampio di istanze e richieste provenienti dalla società”; non è un caso che molti di questi movimenti abbiano rappresentato una delle risposte politiche alla globalizzazione neoliberista e che il loro sostegno elettorale sia cresciuto nelle fasi successive alla crisi del 2008. Paolo Perri ci costringe a prendere atto dell’ineludibile centralità del concetto di nazione nei momenti di crisi mostrandoci, ancora una volta, come la lotta per una declinazione diversa di nazione sia non solo possibile ma, probabilmente, l’unica possibilità che ci rimane per provare davvero a tornare a combattere per l’egemonia e non rassegnarci in eterno a rimanere ad abbaiare alla luna da un angolino.
Per riflettere insieme su come uscire concretamente dall’angolino l’appuntamento è per mercoledì 31 gennaio a partire dalle ore 21 in diretta su Ottolina Tv insieme a Paolo Perri e a Jacopo Custodi per una nuova puntata di Ottosofia .Noi comunque, nel frattempo, un’ideina ce la siamo fatta: servirebbe un vero e proprio media che faccia i conti con la realtà – a partire dall’esistenza di stati e nazioni – e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tony Blair

PER UN FEMMINISMO POPULISTA

Femminismo populista: è questa la formula che potrebbe forse sancire una fondamentale alleanza tra le battaglie femministe e quelle popolari per l’emancipazione del 99 per cento. E questo nuovo movimento rivoluzionario potrebbe partire proprio dal Sud America, dove il femminismo liberal occidentale non ha mai veramente attecchito e dove il popolo ha da sempre subìto – con ancora più violenza che da noi – l’imperialismo militare e culturale nordamericano e le rapine delle sue oligarchie finanziarie.

Luciana Cadahia

O almeno questo è quello che si augura Luciana Cadahia, filosofa femminista argentina che nel suo libro Per un femminismo populista si augura un cambio di paradigma politico nel campo popolare e nel campo femminista che porti ad unire battaglie sociali e civili e a creare un nuovo soggetto politico comune; una proposta ambiziosa che vede come ostacoli tanto l’eurocentrismo e il liberismo delle correnti femministe occidentali, tanto una tradizione socialista e populista che ha finora sempre rifiutato valori storicamente femminili come la cura, l’empatia e l’intelligenza affettiva. Una proposta che farebbe contenta anche Nancy Fraser – la più importante femminista americana contemporanea – che da anni si lamenta della deriva di alcuni movimenti femministi che invece di combattere il sistema neoliberale fondato sullo sfruttamento e la discriminazione di tutti, hanno alle volte dato l’idea di voler ridurre l’emancipazione della donna ad una mera competizione di genere per le migliori poltrone e posti di comando.
Un femminismo efficace – ci avvertiva infatti Fraser nel suo celebre libro Un femminismo per il 99 per cento – ha il dovere di “coordinare i suoi reclami e le sue proposte con il resto dei movimenti, i quali dovrebbero anche essi andare nella direzione del 99 per cento. Non dobbiamo considerare il movimento femminista, forzatamente, come la posizione privilegiata per l’azione politica, né come il nuovo soggetto storico di emancipazione. Il femminismo è essenziale, ma deve essere parte di qualcosa di più grande, di un progetto politico ancora più ampio”; e un populismo efficace, aggiungiamo noi, ha il dovere di liberarsi dai propri residui maschilisti e patriarcali e interiorizzare le battaglie e le visioni del mondo femminile per creare un grande campo politico comune.
Nel nostro dibattito pubblico sembrerebbe esistere solo il femminismo liberista alla Elly Schlein o alla Von Der Leyen, ma le cose non stanno affatto così: diffusosi a partire dalla Rivoluzione Francese ed essendo ormai presente quasi in tutto il mondo, questo straordinario fenomeno di emancipazione politica ha infatti assunto, in questi secoli, tante forme diverse e spesso anche in conflitto tra loro. A dominare però il nostro immaginario politico, soprattutto quello giovanile, è esclusivamente il cosiddetto femminismo liberal, diffusosi prima in America e poi Europa in concomitanza con la controrivoluzione neoliberista e che, come ci aveva già spiegato Letizia Lindi in un video di Ottosofia dedicato a Nancy Fraser, è fortemente criticato da altre correnti femministe. Nel loro libro/manifesto del 2019 Un Femminismo per il 99%, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser ci spiegavano, ad esempio, come il femminismo liberal oggi dominante in Occidente, tradendo le sue ambizioni originarie, fosse diventato sostanzialmente un’ancella culturale del capitalismo: “Come femminista” scrive Fraser “ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. Ultimamente ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi”; “Una volta” specifica Fraser “il movimento delle donne aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi” conclude amaramente “festeggia le imprenditrici”. Se prima si valorizzavano “la cura e l’interdipendenza umana”, oggi ci siamo ridotti a incoraggiare il mero “successo individuale”.
A partire dagli anni ’80, da componente essenziale della battaglia universale per l’uguaglianza, il femminismo europeo si sarebbe trasformato, secondo le autrici del manifesto, in semplice battaglia per le “pari opportunità di dominio” e concentrandosi solo sulla discriminazione di genere avrebbe, di fatto, taciuto e favorito forme ancora più universali e feroci di discriminazione economica. Per superare questa contraddizione, ci avverte ora Luciana Cadahia nella sua nuova opera, il femminismo europeo non dovrà arrovellarsi in nuovi convegni accademici da cui tirare fuori qualche astratta formula magica, ma contaminarsi con altre tradizioni femministe provenienti da tutto il Sud globale, a partire da quella sudamericana; in quanto militante femminista, ma in una prospettiva dichiaratamente popolare, la filosofa argentina Cadahia si pone quindi l’obiettivo di coniugare populismo e femminismo, due tradizioni politiche di contestazione sociale che giocano un ruolo preminente in quell’area geografica. Piccola parentesi: come si sarà già capito, per Cadahia il termine populismo non ha affatto quella accezione dispregiativa che ha assunto nella maggior parte dei nostri salotti televisivi: la filosofa argentina, in compagnia di sempre più intellettuali e forze politiche in ogni parte del mondo, non usa populismo per delegittimare tutte le forze realmente critiche nei confronti dello status quo, ma anzi per indicare quei movimenti ancora caotici e disordinati – ma potenzialmente emancipativi – che si pongono l’obiettivo di sostenere la lotta popolare contro le élites.
Ma perché, fino a questo momento, il campo populista e quello femminista hanno quasi sempre colliso senza dare vita a un soggetto politico comune e, quindi, molto più capace di incidere nella vita politica? Per due motivi fondamentali: per prima cosa, risponde Cadahia, la cultura patriarcale ha posto delle barriere culturali alla femminilizzazione del campo popolare, mettendo in secondo piano le rivendicazioni femministe o, comunque, non accogliendo e non interiorizzando molte delle sue riflessioni; riflessioni che non hanno a che fare solo con l’emancipazione femminile, ma con nuovi modelli politici tout court, ossia nuove visioni complessive e strutturali della società e del potere. La seconda ragione è che c’è stata una tendenza, da parte del femminismo, a separare la propria battaglia dagli altri conflitti che attraversano la società, come se esistesse solamente la discriminazione di genere e come se i nemici sociali delle donne discriminate e sfruttate fossero maschi economicamente altrettanto discriminati e sfruttati: “Non c’è qualcosa di narcisista” si chiede Cadahia “nel tentativo di svincolarsi simbolicamente dalle altre lotte contro l’oppressione? Partendo dallo slogan che il patriarcato permea tutto, finiscono per promuovere narrative che creano conflitti all’interno degli stessi settori popolari”; secondo Cadahia, in soldoni, il femminismo liberal europeo – autore di questo distaccamento – non vuole affatto emancipare le donne, ma piuttosto strumentalizzare le battaglie femministe per poi gettarle meglio tra le logiche dello sfruttamento capitalista, delle logiche disumane per maschi e femmine che vogliono ridurre l’uomo ad un indifferenziato atomo consumatore e che solo dosi da cavallo di propaganda e pubblicità fanno apparire come desiderabili. “Spesso il femminismo” riflette Cadahia “interiorizzando la mentalità patriarcale e rifiutando i propri valori ha pensato di emanciparsi adottando l’approccio competitivo ed individualistico dello spazio pubblico neoliberale”; il punto di forza dei movimenti femministi sudamericani invece, secondo Cadahia, sta in buona parte proprio nel voler valorizzare capacità e valori storicamente femminili per trasformare radicalmente la politica e il potere – e cioè spazi, ahinoi, storicamente maschili. Invece che demonizzare e disconoscere in toto la tradizione domestica della donna, il femminismo sudamericano, secondo Cadahia, vuole mettere al centro il riconoscimento pubblico di doti umane come l’empatia o di fattori politico – sociali come la cura, da sempre relegati in secondo piano dalla società patriarcale. Ed è proprio quindi sul tema della cura che Cadahia insiste, in alcuni dei passaggi più densi del libro, chiedendosi in che modo queste dimensioni tradizionalmente femminili possano uscire dallo spazio domestico e promuovere una trasformazione materiale della res publica; la funzione di cura, sostiene ad esempio Cadahia, non può più essere pensata come disgiunta a quella della vita politica, ma anzi ne deve plasmare le logiche fino a addirittura a trasformare lo Stato liberista in uno Stato, appunto, della cura.

Nancy Fraser

È dunque solo attraverso questa futura alleanza tra populismo e femminismo, capace di arricchire entrambe le lotte in una sintesi comune, che le battaglie popolari per l’emancipazione collettiva possono tornare ad avere successo; fino a quel momento, infatti, ha ragione la filosofa argentina a dire che si dovrebbe più giustamente parlare di plebe che non di popolo, mancando completamene una consapevolezza politica comune. Le èlite – e i media a loro servizio – cercano di ridurre il femminismo a una mera guerra di genere per le poltrone più comode e le posizioni di dominio migliori nel sistema neoliberale: l’audacia di Fraser, Cadahia e tante altre sta nel riconoscere che il femminismo è un fondamentale tassello della battaglia a tutto campo che dobbiamo condurre contro la cultura neoliberista e le ristrettissime oligarchie del nord globale. Un femminismo, appunto, per il 99 per cento, come il media di cui abbiamo bisogno se davvero vogliamo dare il nostro contributo affinché finalmente la plebe diventi popolo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Hillary Clinton

Karl Polanyi, la grande trasformazione e la leggenda del libero mercato

Il mito fondativo dell’era del trionfo del neoliberismo in cui siamo immersi più o meno suona così: il mercato è il frutto spontaneo della natura umana; lo Stato con le sue regole, invece, è un artificio. Poi – vabbé – al limite ci si divide un po’ tra quelli che sostengono che sia un artificio che ha fatto anche cose buone e altri che, invece, sono convinti che abbia fatto solo ed esclusivamente danni, e meno c’è meglio è, ma sul mito fondativo il consenso è abbastanza trasversale.

Karl Polianyi

La storia dell’economia è la storia della lotta tra il mercato e lo Stato, ma non per Karl Polanyi; storico, antropologo ed economista ungherese, nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale se ne venne fuori con una tesi che di primo acchito venne considerata piuttosto strampalata e che, in estrema sintesi, suona così: il libero mercato è tutt’altro che un fenomeno naturale, ma è un artificio e a renderlo possibile è Stato proprio lo Stato. Fa un po’ strano, no? A meno di situazioni straordinarie, lasciato in balìa di se stesso il mercato, alla fine, si regola da solo. Storpiando completamente l’idea di Adam Smith, nel tempo questo affermazione è diventata parte integrante del nostro senso comune; eppure, dice Polanyi – che oltre che economista era pure storico e antropologo – questa fede in un mercato in grado autoregolarsi non è insita nell’uomo. Anzi, è piuttosto recente e a promuoverla è Stato proprio quello che viene spesso considerato il suo più acerrimo nemico: lo Stato. “Il libero mercato” scrive infatti Polanyi “è frutto di scelte politiche. Il mercato come agente regolatore dell’economia non è derivato dal libero sviluppo del mercato arcaico, ma è Stato frutto dell’assalto della controrivoluzione capitalista, che ha distrutto le vecchie consuetudini per creare una società basata sul mercato”; uno di questi interventi statali è, ad esempio, l’abolizione del sistema di sussidi ad inizio Ottocento in Inghilterra. “La strada verso il libero mercato era aperta ed era tenuta aperta da un enorme aumento in continuo interventismo centralmente organizzato e controllato. Rendere la semplice e naturale libertà di Adam Smith compatibile con la necessità di una società umana era una questione estremamente complicata”; il quadro dipinto da Polanyi mette in luce una contraddizione fondamentale: “Lungi dall’eliminare la necessità di controllo, regolamentazione ed intervento” scrive l’economista ungherese “l’introduzione di mercati liberi ne avevano accresciuto la portata. Gli amministratori dovevano essere costantemente all’erta per assicurare il libero funzionamento del sistema” e – guarda un po’ – “anche coloro che più ardentemente desideravano liberare lo Stato da tutti gli obblighi non necessari, e tutta la filosofia dei quali richiedeva la limitazione delle attività dello Stato, non potevano far altro che affidare allo Stato stesso i suoi poteri organi e strumenti richiesti per l’applicazione del laissez-faire”: per usare un francesismo, laissez-faire un par di palle. L’affermazione del mercato ha consistito, per Polanyi, nella creazione di un mercato autoregolato per il lavoro prima, per la terra poi e, infine, per la moneta, ma l’illusione è durata poco perché l’autoregolazione di questi tre mercati – e cioè l’assunto fideistico che le semplici forze della domanda e dell’offerta avrebbero potuto, sempre e in qualsiasi luogo, condurre la società a trovare un equilibrio ottimale – era destinata a scontrarsi subito con la dura realtà della vita economica concreta. Dalla libertà del mercato del lavoro emergevano povertà, disoccupazione e degrado; dalla libertà della terra scaturiva una concorrenza agguerrita nei mercati delle materie prime che minava gli interessi agrari e minerari e dalla libertà del mercato della moneta scaturivano crisi finanziarie, inflazione e pure deflazione, che mangiavano i profitti, rendevano gli investimenti rischiosi e distruggevano il commercio internazionale. E così lo Stato dovette tornare a intervenire per mettere un po’ di toppe in qua e in là per evitare che la nave affondasse; paradossalmente quindi, “Mentre l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da parte dello Stato” riassume Polanyi “le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo spontaneo. Il laissez-faire era pianificato, la pianificazione non lo era”.
Altro che Stato contro mercato quindi: quando lo Stato ha pianificato scientemente qualcosa, quel qualcosa era, appunto, un mitologico libero mercato fondato sulla libertà dei più ricchi di arricchirsi a dismisura a scapito della salute dell’economia stessa; e quando, per salvare capra e cavoli, lo Stato è dovuto intervenire per mettere qualche paletto, non ha seguito un piano strutturato per ridimensionare lo strapotere delle oligarchie, ma si è limitato a mettere qualche toppa dove poteva. Per Polanyi doveva essere solo l’antipasto: “La società industriale”, scrive, potrà tornare ad esistere solo “quando l’esperimento utopistico di un mercato autoregolato non sarà altro che un ricordo orribile”.
Nei decenni successivi, le democrazie costituzionali moderne a quell’esperimento utopistico gli hanno dato una discreta mazzata, senza però riuscire a mettere definitivamente in soffitta quell’assurdo mito fondativo che, dopo una piccola parentesi di ragionevolezza, è tornato a imporsi con la grande controrivoluzione neoliberista: ancora una volta un esempio da manuale di fantomatici mercati autoregolamentati creati con la forza dallo Stato attraverso una meticolosa pianificazione fatta di delocalizzazioni, privatizzazioni, finanziarizzazione e demolizione delle istituzioni democratiche. Immancabilmente, però, anche a questo giro l’esperimento utopistico del mercato autoregolato è tornato nell’arco di pochi anni a presentare il conto, dopo aver raso al suolo la nostra società industriale; solo che, a questo giro, per ora di interventi pezzi e bocconi dello Stato per mettere qualche paletto qua e là in realtà non è che se ne vedano molti. Eppure la grande crisi ormai è in corso da 15 anni abbondanti, almeno da quando Lehman Brother fu obbligata a chiudere baracca; lo stimolo finale, l’altra volta, venne dalla guerra, che costrinse anche gli ultraliberisti britannici a convertirsi dal giorno alla notte a una specie di economia pianificata per non venire definitivamente rasa al suolo. Ecco: noi, sinceramente, per riportare un po’ di ragionevolezza nella politica mainstream vorremmo evitare di dover aspettare la terza guerra mondiale; chiediamo troppo?

Marco Bertilorenzi

Per rispondere, seguiteci domani sera, mercoledì 17 gennaio, a partire dalle 21 in diretta con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica: ospite d’onore il nostro caro Marco Bertilorenzi, che è un po’ il nostro cicerone quando cerchiamo di addentrarci nella storia del pensiero economico. E, nel frattempo, se come noi pensi che ci sarebbe bisogno come il pane di un media che invece che fare da ripetitore alla propaganda delle oligarchie provi a darci gli strumenti per capire che un’alternativa c’è – e magari anche in cosa dovrebbe consistere – aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Donald Reagan

SCOOP DEL CORRIERE: gli USA hanno fregato Berlino che ha fregato l’Italia

Fermi tutti! Fermi tutti che qui c’abbiamo lo scooppone: il Corriere della serva s’è accorto che gli USA si sono mangiati l’economia europea e che il resto dell’Europa s’è mangiato quella italiana. “Redditi” – titola – “così l’America ha doppiato l’Italia: i trent’anni di declino e i silenzi della politica”: eh, invece il Corriere della serva in questi 30 anni ha fatto proprio una guerra senza frontiere al declino, di sicuro. In particolare, poi, l’autore dell’articolo in prima persona, Federico Fubini: proprio un’avanguardia patriottica che, negli anni, si è immolato contro il furto delle burocrazie di Bruxelles e delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce, non c’è che dire. I numeri che riporta Fubini – che evidentemente ha cominciato a seguire Ottolina Tv – sono una piccola selezione dalla mole di dati che, da oltre un anno, vi riproponiamo fino all’orchite e che da sempre ci chiediamo come sia possibile che non campeggino un giorno sì e l’altro pure sulle prime pagine dei giornali di tutto il vecchio continente, e ci siamo pure dati una risposta: quei giornali sono di proprietà delle stesse identiche persone, famiglie e gruppi di potere responsabili di quei numeri; che non siano disposte a pagare di tasca loro per pubblicizzarli mi sembra proprio il minimo sindacale. Che, con qualche anno di ritardo, finalmente Fubini ne parli quindi è un po’ un mezzo avvenimento storico; peccato che la questione sia relegata alla sua newsletter e non sia stata ritenuta abbastanza rilevante da essere promossa alla carta stampata, ma accontentiamoci.

Federico Fubini

Ma cosa dicono esattamente questi dati riportati da Fubini? Primo dato: in dollari correnti, nel 1996 il prodotto interno lordo dei paesi che costituiscono l’Europa a 27 e quello degli USA “erano di dimensioni uguali: entrambe a circa ottomila miliardi di prodotto lordo. E adesso? Malgrado la forte crescita dei Paesi emergenti dell’Europa centro-orientale, nel 2022 l’economia americana era del 52% più grande di quella dell’Unione europea, uno scarto di quasi diecimila miliardi di dollari che nel 2023 non ha fatto che allargarsi ancora”; una roba gigantesca, da far ribaltare i tavoli, eppure nessuno ribalta niente. Sarà perché ‘sto PIL è un po’ una misura astratta: che vorrà dì? Boh. E allora ecco il secondo numero, più immediato: “All’inizio della globalizzazione, nel 1980” riporta Fubini “il prodotto interno lordo per abitante negli Stati Uniti era paragonabile a quello medio dell’Unione europea a 27 Paesi”; l’anno scorso, “il reddito medio per abitante negli Stati Uniti è stato di 76.300 dollari correnti, quello medio nell’Unione europea di 37.400 dollari correnti: meno della metà”, ma non è ancora finita perché c’è Europa ed Europa – o almeno c’era – e “la quota dell’economia italiana in quella dei 27 Paesi dell’attuale Unione europea è crollata del 26% fra il 1995 e il 2023: dal 17,2% al 12,7%”.
Sono le due dinamiche fondamentali che abbiamo già descritto millemila volte: gli USA che consolidano il loro primato come centro di accumulazione capitalistica del Nord globale, e nella periferia europea i capitali più forti dell’Europa settentrionale che si pappano quelli della periferia della periferia, a partire dal nostro; il tutto con la complicità delle nostre élite economiche, che accettano di buon cuore di vedersi devastare l’economia nazionale davanti agli occhi in cambio della possibilità di esportare i profitti che continuano a estorcere a lavoratori, sempre più ipersfruttati, per andarli a impiegare nello schema Ponzi delle bolle speculative USA dopo averli sottratti al fisco attraverso i paradisi fiscali. Risultato? Come sottolinea Fubini “l’Italia dallo status di Paese avanzato” è passata “al rango di un Paese a reddito medio”; niente di cervellotico e di astratto quindi, ma un declassamento molto concreto non solo del nostro posto nel mondo, ma proprio molto direttamente del nostro tenore di vita, mentre una manciata di oligarchi continuava ad arricchirsi e, con quei soldi, ci si comprava pure i giornali e i mezzi di produzione del consenso che ancora oggi garantiscono buoni stipendi ai Fubini di turno in cambio dell’omertà. Lo ha ammesso qualche anno fa Fubini stesso: “Faccio una confessione” dichiarava ai microfoni di TV2000 nell’ormai lontano 2019: “c’è un articolo che non ho voluto scrivere. Guardando i dati della mortalità infantile in Grecia” continuava Fubini “mi sono accorto che con la crisi sono morti 700 bambini in più di quanti ne sarebbero morti se la mortalità fosse rimasta quella di prima della crisi”; ciononostante, argomentava Fubini, “ho deciso di non scrivere perché il dibattito in Italia è avvelenato da antieruopei pronti a usare qualsiasi materiale come una clava contro l’Europa e quello che rappresenta, cioè la democrazia fondata sulle istituzioni e sulle regole” che, tra l’altro, conferma esattamente la definizione che dà il nostro guru Michael Hudson su cosa intenda davvero la propaganda suprematista quando parla di democrazia vs autoritarismo, dove autoritario sarebbe qualsiasi stato abbastanza forte da impedire alle oligarchie di dettare legge e democratico, invece, qualsiasi stato dove le oligarchie fanno allegramente quel cazzo che gli pare.

Michael Hudson

Ma la domanda allora è: perché Fubini, dopo 30 anni passati a cantare le lodi delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista a guida USA da un lato e dell’austerity ordoliberista di Bruxelles dall’altro, fuori tempo massimo si decide oggi a suonare questo campanellino d’allarme? Una prima risposta è molto simile a quella del 2019, e ce la dà lo stesso Fubini: è tutto merito della Meloni. Fubini, infatti, è indignato perché in 190 minuti di conferenza stampa di inizio anno la nostra Giorgia lamadrecristiana non ha trovato il tempo di snocciolare nessuno di questi numeri, “come se gli italiani non avessero bisogno di una scossa, di un incoraggiamento, di sentire che a Roma c’è qualcuno che cerca di ridare energia al paese”. Non è uno scherzo, eh? Dopo 30 anni, la principale firma sui temi economici del più autorevole quotidiano della borghesia italiana si accorge di come l’Italia sia stata ridotta scientificamente a un paese del secondo mondo, e la ricetta che propone è “ridare energia al paese”; un po’ come la senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni che contro la crisi demografica ha detto che la soluzione è far diventare la maternità cool again.
Ora, al di là della imperdibile occasione per perculare un po’ Fubini – che sembra stato creato da madre natura apposta – e anche per metterci al petto la medaglietta di avervi bombardato con numeri che il mainstream ha realizzato con anni di ritardo, visto che è appena iniziato il nuovo anno io in questo episodio voglio provare a vederci anche una piccola luce in fondo al tunnel: oltre 15 anni fa scoppiava quella che la propaganda ci ha voluto spacciare come una crisi finanziaria e che invece, per citare Vijay Prashad, era nientepopodimeno che la Terza Grande Depressione del capitalismo globale; la risposta è stata un furto sistematico dall’alto verso il basso, con le borghesie nazionali più forti che si pappavano le più deboli e tutte insieme che si ingroppavano felicemente chi campa del suo lavoro. Purtroppo – e non a caso – tutto questo è avvenuto all’apice dell’egemonia culturale e ideologica del neoliberismo: avete presente, no? “There is no alternative”, non c’è alternativa. E’ inutile proprio anche porsele certe domande, anche perché, al di là delle chiacchiere, a sostenere questo processo – armi alla mano – c’è la più grande superpotenza militare della storia dell’umanità. Meglio non fare troppo i furbetti, e poi – certo – questa ristrutturazione capitalistica sarà dolorosa, ma una volta somministrata la cura vedrete che l’economia tornerà a crescere.
Certo, come no: negli ultimi anni è diventato palese che la superpotenza militare USA proprio super non è, e che di tornare a crescita dopo la cura lacrime e sangue non c’è verso; anzi, gli USA tentano di scaricarci sul groppone i costi delle loro avventure imperiali e, nel frattempo, mettono in campo politiche protezionistiche come non se ne erano mai viste e ci fregano pure quel poco che rimane attirando negli USA, a suon di incentivi fiscali, quel poco che le nostre borghesie erano ancora disposte ad investire. Non è che, magari, anche tra le oligarchie compradore europee e, a cascata, anche tra i loro mezzi di produzione del consenso comincia a fare breccia una qualche forma di ripensamento? E non è quindi arrivato il tempo di mettere in campo una proposta politica seria, realistica, di massa, in grado di approfittare di queste crepe che si stanno creando nel fronte che tiene unito imperialismo USA e élite cooptate attraverso l’opportunità di fare parte del loro schema Ponzi? Non è che quella profezia che si autoavvera del “There is no alternative” sta arrivando al capolinea?
E’ arrivata l’ora di tornare a giocare le partite che contano: per farlo, prima di tutto abbiamo bisogno di un vero e proprio media che sia in grado di farci uscire dalle conventicole e di ridare voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Fubini

UN MONDO MALATO – Come BigPharma e le Oligarchie ci fanno sbroccare di testa, e ci danno pure la colpa

Insieme alla catastrofe ecologica, oggi stiamo assistendo ad una vera e propria catastrofe psicologica dei popoli occidentali. I dati sono inquietanti: sia l’Istat che il recentissimo studio Headway – Mental Health Index realizzato da The European House, ci dicono che il 20% degli italiani soffre di almeno un disturbo psichico, e questo senza contare i tantissimi casi di disagio sommerso che non appaiono nei numeri; ansia, depressione, stress, solitudine, paura i disturbi più diffusi. E il problema non è solo italiano, ma riguarda tutti i paesi occidentali più sviluppati.

Mark Fisher

Le contromisure prese dagli Stati e dalla Commissione Europea, come i corsi di prevenzione per bambini e adolescenti e i fondi destinati all’aumento di ambulatori specializzati, si stanno dimostrando un fallimento e sviano l’attenzione dalle cause profonde e strutturali di questa crisi. Come sostenevano i grandi sociologi e filosofi Mark Fisher e Oliver James – oggi in compagnia di sempre più numerosi psicologi e psichiatri – la così ampia diffusione di certe malattie mentali non può essere spiegata come un fatto puramente privato e medico, ma come un fatto politico, legato a un sistema culturale e produttivo – quello neoliberale – che stritola l’individuo e lo riduce ad una vita sempre più esigente, solitaria e disperata. Nel saggio Why Mental Health Is A Political Issue Fisher scrive che invece di affrontare il problema politico della questione, si assiste a un processo di continua privatizzazione dello stress in cui le cause strutturali e politiche di questo disagio vengono rimosse e taciute; nel frattempo, i profitti delle case farmaceutiche nell’industria degli psicofarmaci non fanno che aumentare, e sono passati dai 16 miliardi del 2018 ai 21 miliardi del 2022. Lo psichiatra Paolo Migone, direttore della rivista Psichiatria e scienza umane, scrive: “Le grandi multinazionali farmaceutiche penetrano ogni aspetto della medicina, condizionandone la cultura alla luce dei propri interessi che, come è naturale, non mirano proprio alla salute delle persone ma all’aumento dei loro guadagni. Per le case farmaceutiche, al limite, più malati ci sono meglio è, perché questo permette maggiori profitti. Nei Paesi in cui non vi è un servizio sanitario nazionale ma in cui la medicina è privatizzata la situazione è ancora peggiore”. Fisher e James individuano le cause della crescente diffusione dell’ansia, dello stress e della depressione negli elementi alienanti e patogeni della nostra cultura e del nostro sistema produttivo, e si augurano che contro la privatizzazione dello stress si assisterà, in futuro, a un processo di ri -politicizzazione delle malattie mentali, che permetta alla lotta politica di riappropriarsi di questa fondamentale dimensione sociale.
“Esistono i singoli uomini e le singole donne, ed esistono le famiglie, non esiste nulla che possa definirsi società” ha detto una volta Margaret Thatcher dando voce ad una delle convinzioni profonde della cultura neoliberale. Il 13 gennaio del 2017 l’intellettuale inglese Mark Fisher, che aveva dedicato gran parte suo lavoro a confutare questa affermazione della Thatcher, morì suicida a causa di una profonda depressione che lo aveva accompagnato tutta la vita; Fisher accusava la Thatcher di essere uno dei massimi rappresentanti del cosiddetto Realismo capitalista, ossia di quell’atmosfera culturale oggi dominante per la quale il capitalismo neoliberale, nonostante tutti i suoi difetti, sarebbe comunque la miglior forma di società possibile, e che il tentativo di pensare un modello politico alternativo sarebbe ingenuo, ideologico, e in fondo incapace di fare i conti con la natura umana.
Ma che cosa hanno a che fare la depressione, l’ansia, l’angoscia e i sempre più diffusi burnout con il realismo capitalista e l’idea che non esista nessuna comunità, ma solo un agglomerato di individui? Il punto è che, contrariamente a quanto sosteneva la Thatcher, la società esiste eccome e molti dei nostri problemi individuali hanno – non di rado – cause politiche ed economiche collettive. Secondo Fisher e James individualizzare i problemi, come fa la cultura neoliberista, serve ad aumentare i profitti delle industrie private e rendere più difficili soluzioni di natura sociale ed economica che prevederebbero quasi sicuramente una maggiore spesa pubblica, un aumento del ruolo dello Stato e, quindi, una redistribuzione della ricchezza delle élite capitaliste. Quello delle malattie mentali è, quindi, un esempio paradigmatico: il capitalismo neoliberale insiste sempre di più nel trattare forme come l’ansia e la depressione come se fossero fatti naturali alla stregua di un evento geologico o meteorologico e, quindi, da curare per via puramente individuale – e spesso farmacologica; se le malattie mentali sono solo il risultato di un’anomalia chimica nel cervello o di qualche trauma infantile e non hanno nulla a che vedere con fattori esterni come la precarietà finanziaria, l’emarginazione sociale o gli eccessivi stimoli nervosi prodotti dai mezzi tecnologici, allora nessuno si porrà la domanda se non sia la nostra stessa società a essere malata. Le spiegazioni puramente mediche e psicologiche, scrivono invece Fisher e James, possono sì spiegare le radici delle problematiche dei singoli casi, ma sono del tutto incapaci di spiegare le cause della loro quantità e diffusione in un determinato contesto.

Perché – dovremmo chiederci – un così grande numero di disturbi psichici dello stesso tipo si presentano tutti nel contesto della società tecnocapitalista contemporanea? In Realismo capitalista, Fisher scrive: “L’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico – biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico – biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di un’individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci)”. “Che qualsiasi malattia mentale” conclude Fisher “possa essere rappresentata come un fatto neurologico è chiaro a tutti. Ma questo non ci dice nulla sulle cause. Se per esempio è vero che la depressione generalmente comporta un basso livello di serotonina, allora quello che va spiegato è perché in determinati individui il livello di serotonina sia basso. Farlo però richiede una spiegazione sociale e politica”.
Particolarmente devastanti per la nostra sfera psichica sono oggi le nuove strutture di prestazione, basate su valori di auto-sfruttamento, di spietata competizione e sulla necessità – per stare al passo degli altri – di elaborare incessanti informazioni e input mediatici; inoltre, il mito della meritocrazia, che ha la chiara funzione di legittimare lo status quo e di nascondere i reali rapporti di classe, coltiva l’illusione secondo la quale chiunque abbia voglia di lavorare sodo e abbia la giusta dose di coraggio e intelligenza può avere accesso ai gradi più alti della società. Questa favola, ormai smentita in lungo e in largo, porta chi si trova incastrato a un livello sociale basso a non lottare politicamente contro un sistema ingiusto, ma a incolpare soltanto se stesso per non essere riuscito a ottenere un livello di vita soddisfacente; su questo punto, nel saggio L’espulsione dell’Altro, Il filosofo coreano Byung-Chul Han scrive: “Nel nostro tempo si genera una nuova forma di alienazione. Non si tratta più dell’alienazione dal mondo o dal lavoro, bensì di un’autoalienazione distruttiva, di un’alienazione da se stessi. Questa autoalienazione si verifica proprio nella forma dell’ottimizzazione di se stessi e dell’autorealizzazione”. Difficile, quindi, non mettere in relazione questa forma di autosfruttamento e di autoalienazione con la dilagante epidemia di ansia, burnout e di disturbi depressivi. Ri – politicizzare le malattie mentali significa quindi non cedere all’ingenua convinzione che uno psicologo o un farmaco possano, con poteri sovrumani, farsi carico delle contraddizioni di un sistema che stritola le persone e ne aggrava le debolezze, e significa che queste contraddizioni possono essere risolte non aumentando i profitti di qualche settore privato, ma solo attraverso la lotta e l’organizzazione politica. Le catastrofi climatiche, economiche e psichiche che affliggono le persone al tempo del capitalismo neoliberale sono indice del fatto che questo sistema, anziché essere l’unico che funziona, è un sistema profondamente disfunzionale.

Margareth Thatcher

Come è possibile, allora, che alla luce di queste condizioni di vita insostenibili il realismo capitalista abbia ancora successo? Il punto – scrive Fisher in Not Failing Better, But Fighting to Win – è che “non è mai stato concepito per convincere la gente che il capitalismo è un ottimo sistema”, ma molto più realisticamente e subdolamente “per convincerla che è l’unico sistema praticabile, e che la costruzione di un’alternativa è impossibile”; pensate solo a tutte le volte che vi siete imbattuti direttamente in una delle tante forme che il disfattismo ha assunto nel dibattito contemporaneo: anche i commenti sulle bacheche di Ottolina spesso trasudano disfattismo da ogni parola. Solitamente ci viene spacciato come lucido e cinico realismo; in realtà, ci dice sostanzialmente Fisher, non è altro che il risultato di un gigantesco lavaggio del cervello architettato nei minimi dettagli: è questa l’ultima e più insidiosa delle armi a disposizione di chi si ostina a difendere un sistema disfunzionale e feroce che mette a rischio non solo la sopravvivenza della nostra specie su questo pianeta, ma anche – nell’immediato – la salute della nostra mente e, qualsiasi cosa significhi, della nostra anima.
Su tutti questi temi non perdetevi l’intervista che pubblicheremo stasera, lunedì 18 dicembre, al professor Vincenzo Costa, uno dei massimi esperti del rapporto tra neoliberismo e disturbi psichici. Contro il disfattismo del realismo capitalista, e contro la solitudine e l’isolamento ai quali vorrebbe condannarci, abbiamo bisogno di costruire un media che dia voce al 99% e che ci aiuti a trasformare il nostro disagio individuale in una forza propulsiva collettiva in grado di rovesciare lo stato attuale delle cose. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce, è Margaret Thatcher