PER UN FEMMINISMO POPULISTA
Femminismo populista: è questa la formula che potrebbe forse sancire una fondamentale alleanza tra le battaglie femministe e quelle popolari per l’emancipazione del 99 per cento. E questo nuovo movimento rivoluzionario potrebbe partire proprio dal Sud America, dove il femminismo liberal occidentale non ha mai veramente attecchito e dove il popolo ha da sempre subìto – con ancora più violenza che da noi – l’imperialismo militare e culturale nordamericano e le rapine delle sue oligarchie finanziarie.
O almeno questo è quello che si augura Luciana Cadahia, filosofa femminista argentina che nel suo libro Per un femminismo populista si augura un cambio di paradigma politico nel campo popolare e nel campo femminista che porti ad unire battaglie sociali e civili e a creare un nuovo soggetto politico comune; una proposta ambiziosa che vede come ostacoli tanto l’eurocentrismo e il liberismo delle correnti femministe occidentali, tanto una tradizione socialista e populista che ha finora sempre rifiutato valori storicamente femminili come la cura, l’empatia e l’intelligenza affettiva. Una proposta che farebbe contenta anche Nancy Fraser – la più importante femminista americana contemporanea – che da anni si lamenta della deriva di alcuni movimenti femministi che invece di combattere il sistema neoliberale fondato sullo sfruttamento e la discriminazione di tutti, hanno alle volte dato l’idea di voler ridurre l’emancipazione della donna ad una mera competizione di genere per le migliori poltrone e posti di comando.
Un femminismo efficace – ci avvertiva infatti Fraser nel suo celebre libro Un femminismo per il 99 per cento – ha il dovere di “coordinare i suoi reclami e le sue proposte con il resto dei movimenti, i quali dovrebbero anche essi andare nella direzione del 99 per cento. Non dobbiamo considerare il movimento femminista, forzatamente, come la posizione privilegiata per l’azione politica, né come il nuovo soggetto storico di emancipazione. Il femminismo è essenziale, ma deve essere parte di qualcosa di più grande, di un progetto politico ancora più ampio”; e un populismo efficace, aggiungiamo noi, ha il dovere di liberarsi dai propri residui maschilisti e patriarcali e interiorizzare le battaglie e le visioni del mondo femminile per creare un grande campo politico comune.
Nel nostro dibattito pubblico sembrerebbe esistere solo il femminismo liberista alla Elly Schlein o alla Von Der Leyen, ma le cose non stanno affatto così: diffusosi a partire dalla Rivoluzione Francese ed essendo ormai presente quasi in tutto il mondo, questo straordinario fenomeno di emancipazione politica ha infatti assunto, in questi secoli, tante forme diverse e spesso anche in conflitto tra loro. A dominare però il nostro immaginario politico, soprattutto quello giovanile, è esclusivamente il cosiddetto femminismo liberal, diffusosi prima in America e poi Europa in concomitanza con la controrivoluzione neoliberista e che, come ci aveva già spiegato Letizia Lindi in un video di Ottosofia dedicato a Nancy Fraser, è fortemente criticato da altre correnti femministe. Nel loro libro/manifesto del 2019 Un Femminismo per il 99%, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser ci spiegavano, ad esempio, come il femminismo liberal oggi dominante in Occidente, tradendo le sue ambizioni originarie, fosse diventato sostanzialmente un’ancella culturale del capitalismo: “Come femminista” scrive Fraser “ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. Ultimamente ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi”; “Una volta” specifica Fraser “il movimento delle donne aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi” conclude amaramente “festeggia le imprenditrici”. Se prima si valorizzavano “la cura e l’interdipendenza umana”, oggi ci siamo ridotti a incoraggiare il mero “successo individuale”.
A partire dagli anni ’80, da componente essenziale della battaglia universale per l’uguaglianza, il femminismo europeo si sarebbe trasformato, secondo le autrici del manifesto, in semplice battaglia per le “pari opportunità di dominio” e concentrandosi solo sulla discriminazione di genere avrebbe, di fatto, taciuto e favorito forme ancora più universali e feroci di discriminazione economica. Per superare questa contraddizione, ci avverte ora Luciana Cadahia nella sua nuova opera, il femminismo europeo non dovrà arrovellarsi in nuovi convegni accademici da cui tirare fuori qualche astratta formula magica, ma contaminarsi con altre tradizioni femministe provenienti da tutto il Sud globale, a partire da quella sudamericana; in quanto militante femminista, ma in una prospettiva dichiaratamente popolare, la filosofa argentina Cadahia si pone quindi l’obiettivo di coniugare populismo e femminismo, due tradizioni politiche di contestazione sociale che giocano un ruolo preminente in quell’area geografica. Piccola parentesi: come si sarà già capito, per Cadahia il termine populismo non ha affatto quella accezione dispregiativa che ha assunto nella maggior parte dei nostri salotti televisivi: la filosofa argentina, in compagnia di sempre più intellettuali e forze politiche in ogni parte del mondo, non usa populismo per delegittimare tutte le forze realmente critiche nei confronti dello status quo, ma anzi per indicare quei movimenti ancora caotici e disordinati – ma potenzialmente emancipativi – che si pongono l’obiettivo di sostenere la lotta popolare contro le élites.
Ma perché, fino a questo momento, il campo populista e quello femminista hanno quasi sempre colliso senza dare vita a un soggetto politico comune e, quindi, molto più capace di incidere nella vita politica? Per due motivi fondamentali: per prima cosa, risponde Cadahia, la cultura patriarcale ha posto delle barriere culturali alla femminilizzazione del campo popolare, mettendo in secondo piano le rivendicazioni femministe o, comunque, non accogliendo e non interiorizzando molte delle sue riflessioni; riflessioni che non hanno a che fare solo con l’emancipazione femminile, ma con nuovi modelli politici tout court, ossia nuove visioni complessive e strutturali della società e del potere. La seconda ragione è che c’è stata una tendenza, da parte del femminismo, a separare la propria battaglia dagli altri conflitti che attraversano la società, come se esistesse solamente la discriminazione di genere e come se i nemici sociali delle donne discriminate e sfruttate fossero maschi economicamente altrettanto discriminati e sfruttati: “Non c’è qualcosa di narcisista” si chiede Cadahia “nel tentativo di svincolarsi simbolicamente dalle altre lotte contro l’oppressione? Partendo dallo slogan che il patriarcato permea tutto, finiscono per promuovere narrative che creano conflitti all’interno degli stessi settori popolari”; secondo Cadahia, in soldoni, il femminismo liberal europeo – autore di questo distaccamento – non vuole affatto emancipare le donne, ma piuttosto strumentalizzare le battaglie femministe per poi gettarle meglio tra le logiche dello sfruttamento capitalista, delle logiche disumane per maschi e femmine che vogliono ridurre l’uomo ad un indifferenziato atomo consumatore e che solo dosi da cavallo di propaganda e pubblicità fanno apparire come desiderabili. “Spesso il femminismo” riflette Cadahia “interiorizzando la mentalità patriarcale e rifiutando i propri valori ha pensato di emanciparsi adottando l’approccio competitivo ed individualistico dello spazio pubblico neoliberale”; il punto di forza dei movimenti femministi sudamericani invece, secondo Cadahia, sta in buona parte proprio nel voler valorizzare capacità e valori storicamente femminili per trasformare radicalmente la politica e il potere – e cioè spazi, ahinoi, storicamente maschili. Invece che demonizzare e disconoscere in toto la tradizione domestica della donna, il femminismo sudamericano, secondo Cadahia, vuole mettere al centro il riconoscimento pubblico di doti umane come l’empatia o di fattori politico – sociali come la cura, da sempre relegati in secondo piano dalla società patriarcale. Ed è proprio quindi sul tema della cura che Cadahia insiste, in alcuni dei passaggi più densi del libro, chiedendosi in che modo queste dimensioni tradizionalmente femminili possano uscire dallo spazio domestico e promuovere una trasformazione materiale della res publica; la funzione di cura, sostiene ad esempio Cadahia, non può più essere pensata come disgiunta a quella della vita politica, ma anzi ne deve plasmare le logiche fino a addirittura a trasformare lo Stato liberista in uno Stato, appunto, della cura.
È dunque solo attraverso questa futura alleanza tra populismo e femminismo, capace di arricchire entrambe le lotte in una sintesi comune, che le battaglie popolari per l’emancipazione collettiva possono tornare ad avere successo; fino a quel momento, infatti, ha ragione la filosofa argentina a dire che si dovrebbe più giustamente parlare di plebe che non di popolo, mancando completamene una consapevolezza politica comune. Le èlite – e i media a loro servizio – cercano di ridurre il femminismo a una mera guerra di genere per le poltrone più comode e le posizioni di dominio migliori nel sistema neoliberale: l’audacia di Fraser, Cadahia e tante altre sta nel riconoscere che il femminismo è un fondamentale tassello della battaglia a tutto campo che dobbiamo condurre contro la cultura neoliberista e le ristrettissime oligarchie del nord globale. Un femminismo, appunto, per il 99 per cento, come il media di cui abbiamo bisogno se davvero vogliamo dare il nostro contributo affinché finalmente la plebe diventi popolo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Hillary Clinton