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Tag: moda

Scandalo Giorgio Armani: come si diventa il terzo uomo più ricco d’Italia grazie alla schiavitù

“Le borse di pelle firmate Giorgio Armani” scrive Alessandro Da Rold su La Verità “si vendono nelle boutique dello stilista sparse per il mondo a poco meno di 2000 euro l’una”; “per produrle però” svela “di euro ne bastano una novantina. 75, se evadi pure l’IVA”: è il quadro che emerge dall’inchiesta della procura di Milano che ha portato all’”amministrazione giudiziaria della Giorgio Armani Operations spa, nell’ambito dell’indagine sul rapporto tra la holding e i suoi fornitori”. Il fornitore ufficiale italiano di Armani si chiama Manifatture Lombarde che, a sua volta, subappaltava le commesse a subfornitori cinesi, un rapporto che gli inquirenti hanno definito di caporalato di manodopera straniera irregolare e sul quale il gruppo, nella migliore delle ipotesi, “non vigilava”; in realtà, però, vigilava eccome, solo che si concentrava su altro: come ricorda Luigi Ferrarella sul Corriere della sera, infatti, “Un mese fa i carabinieri del Comando Tutela del Lavoro in uno di questi opifici cinesi hanno persino trovato un ispettore della Giorgio Armani Operations spa intento a fare il controllo di qualità dei prodotti”. “Nel corso delle indagini”, insistono gli inquirenti, “si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee e isolate di singoli, ma di una illecita politica di impresa”.
Nel frattempo, il mondo del lusso italiano veniva stravolto da un’altra notizia incredibile: la Kering della famiglia Pinault, infatti, si sarebbe comprata una storica palazzina in via Montenapoleone a Milano per la modica cifra di 1,3 miliardi, 110 mila euro al metro quadrato; è, in assoluto, la più grande operazione immobiliare della storia del nostro paese e servirà a vendere a cifre astronomiche gli oggetti prodotti dai nuovi schiavi che, ormai, si moltiplicano nel nostro paese. E’ la nuova normalità nell’era del declino putrescente del capitalismo finanziarizzato e dell’impero. Buon visione, e buon mal di stomaco.

Giorgio Armani

Quella su Armani non è la prima inchiesta del genere: a gennaio, a venire commissariata era stata l’Alviero Martini che, rispetto ad Armani, c’ha anche l’aggravante di fare prodotti di una bruttezza rara che ancora oggi interrogano tutti i principali psicologi del consumo globale; anche in questo caso l’azienda era stata “ritenuta incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo” forse anche perché, appunto, le garantivano lauti margini di profitto. In generale, il punto è che i marchi appaltano la produzione ad aziende che non hanno nemmeno lontanamente la struttura produttiva necessaria; sono solo intermediari che servono esclusivamente ad allontanare il luogo dove si concentra l’accumulazione di capitali e il profitto dal luogo ultimo dello sfruttamento più abietto, al di fuori di ogni perimetro di legalità. Gli intermediari, infatti, competono tra loro esclusivamente andando alla ricerca dei subfornitori più economici e, a quel livello, la gara sui prezzi si fa solo in un modo: violando ogni tipo di legge sui diritti del lavoro; non c’è investimento, non c’è know how, solo bruto sfruttamento oltre ogni limite, come nelle fabbriche di Manchester del 1800.
Le testimonianze raccolte dagli inquirenti tra i lavoratori delle aziende subfornitrici indagate sono la descrizione di un girone dantesco, anche se – evidentemente – non abbastanza per scatenare una reazione collettiva che vada oltre l’indignazione da salotto; la schiavitù, come lo sterminio di massa, evidentemente è ormai parte integrante del giardino ordinato e bisogna farsene una ragione senza indulgere troppo nel buonismo.
Tra i vari casi elencati, uno di quelli che mi ha colpito di più è quello della supply chain di Minoronzoni, il gruppo di Ponte San Pietro proprietario dei marchi Toscablu e Minoronzoni 1953, ma che il grosso dei quattrini li fa – appunto – subappaltando a lavoratori rinchiusi in qualche scantinato le commesse milionarie che gli arrivano dai principali brand del lusso internazionali: secondo le dichiarazioni raccolte dagli inquirenti, ricorda sempre Da Rold su La Verità, in buona parte lavoravano a cottimo “con una paga inferiore a un euro al pezzo per lavori che potevano durare fino a quattro ore”; secondo la testimonianza di un lavoratore, l’azienda pagava “più o meno 60 centesimi per manifattura e confezionamento”, spesa che poi fatturava direttamente a nome suo ai vari committenti, “da Guess, a Versace, passando per Armani” a circa 15 euro a cintura, un trentesimo del prezzo di boutique.
La cosa più inquietante è che tutte queste dinamiche (e il fatto che siano sistematiche) lo sappiamo ormai da anni: quando lavoravo a Report, la sempre cazzutissima Sabrina Giannini a un certo punto se ne venne fuori con ore e ore di filmati, girati con la telecamera nascosta dentro le aziende cinesi del pratese; si era spacciata per un’intermediaria in cerca di fornitori adeguati per alcuni brand del lusso. Il quadro che ne era emerso era raccapricciante: decine e decine di capannoni dormitorio con migliaia di lavoratori ammucchiati a farsi il mazzo per 12/14 ore al giorno, festivi compresi, prevalentemente la notte, tutto completamente fuori regola in mezzo a corridoi pieni del meglio del meglio del lusso made in Italy. “Da quanto tempo producete queste borse Gucci?” aveva chiesto la Giannini: “Da una decina di anni” aveva risposto l’imprenditore cinese; era il 2007, 17 anni fa. Da lì in poi, la Giannini s’è appassionata al tema e c’è tornata più e più volte, svelando quanto questo scandalo fosse sistematico e ben noto a tutti i soggetti coinvolti, tra ispezioni fasulle e leggi che – guarda caso – lasciavano sempre aperto uno spiraglino per continuare sempre col business as usual; e se oggi questa situazione raggiunge le aule dei tribunali è solo perché a Milano c’è un procuratore cazzutissimo che ha dichiarato guerra alla nuova schiavitù che la tecnocrazia neoliberista ha serenamente reintrodotto nel nostro paese, dal lusso alla logistica.
Si chiama Paolo Storari e, da qualche anno a questa parte, si è conquistato il ruolo di pm più odiato della penisola (o, almeno, dal partito unico della guerra e degli affari): sempre nell’ambito di un’altra sua inchiesta, ad esempio, nel dicembre del 2022 la guardia di finanza ha sequestrato 102 milioni di euro ai colossi della logistica Brt, che è l’ex Bartolini, e Geodis che, tra l’altro (giusto en passant) sono – come in buona parte del mondo del lusso – altri due esempi di aziende italiane acquisite da megaconglomerati francesi; nel corso delle indagini, Storari era andato a controllare a campione una trentina abbondante di cooperative che lavoravano come fornitori dei colossi della logistica e aveva trovato conferma a tutti i peggiori sospetti. Bartolini truffava sistematicamente Stato e fornitori riconoscendo in busta paga solo ed esclusivamente il minimo, per poi saldare a parte evitando di pagare i contributi; per “non far emergere criticità fiscali che potessero riverberarsi su Brt”, le cooperative venivano sistematicamente chiuse ogni due anni che, tra l’altro, per i lavoratori comportava anche la perdita sistematica degli scatti di anzianità e degli altri diritti maturati e il tutto era sostanzialmente gestito direttamente dall’azienda, con le coop che non avevano nessunissima autonomia organizzativa. In quel caso, nonostante tutti i crimini emersi e le prove che i crimini erano stati perpetrati sistematicamente, volontariamente e consapevolmente, il tutto – alla fine – s’è risolto con un anno di amministrazione giudiziaria, “alla ricerca di una misura efficace”, sottolineava il Corriere, “ma invasiva il meno possibile”: nessun esproprio, nessuna conseguenza penale; solo l’affiancamento per un anno alla solita struttura, che è rimasta al suo posto, di un amministratore esterno che faccia da tutor “per bonificare l’azienda” scriveva ancora il Corriere, “irrobustire i controlli ed evitare che si possano nuovamente verificare ulteriori situazioni agevolatrici di attività illecite”. Insomma: una pacca sulle spalle; d’altronde, in quel caso, era solo sfruttamento, non vera e propria schiavitù.
Nel caso dello scandalo Armani di sicuro le conseguenze saranno state più drastiche. Colcazzo; anche qua infatti, nonostante tutte le prove accumulate dagli inquirenti, le conseguenze dal punto di vista strettamente legale, al momento, sono minime: “La società” ricorda infatti il Corriere “non è indagata, né lo è l’89enne stilista terzo uomo più ricco d’Italia” e i vertici dell’azienda, che vede nel CdA tutti e tre i nipoti di Re Giorgio, sono sempre comodamente al loro posto. Il tutto, infatti, si limita – appunto – ad affiancare alla struttura aziendale, per un anno, il commercialista Piero Antonio Capitini per “bonificare i rapporti con tutti i fornitori”; ovviamente si tratta di casi eclatanti di giustizia dei ricchi: agisci per anni e anni impunemente mettendo in opera comportamenti illeciti eclatanti, alla fine vieni perseguito esclusivamente perché, nel mare magnum dell’esercito dei passacarte formati ad hoc per permettere al sistema di replicarsi sempre identico a se stesso, ogni tanto una scheggia impazzita comunque sfugge. E quando, dopo mesi di indagine, finalmente si riescono a provare in modo circostanziato e inoppugnabile tutte le zozzerie possibili immaginabili, il massimo che ti tocca è che per un anno ti viene affiancato un altro amministratore che deve controllare che non lo farai più, almeno fino a che non se ne va. E’ la conferma eclatante che nel giardino ordinato se hai un conto in banca a 6 zeri il massimo che ti puoi aspettare per i crimini più efferati è un po’ di toto’ sul culetto, ma oltre a questa vergogna che grida evidentemente vendetta, sarebbe anche il caso di andare oltre il moralismo e provare a capire le ragioni strutturali di tutta questa monnezza.
Iniziamo da un piccolo riassunto delle puntate precedenti: una sorta di micro-bignamino dell’idea ottolina di come s’è evoluto il capitalismo negli ultimi decenni. Facciamo un salto indietro, negli anni ‘70: la logica ferrea del capitalismo industriale ha comportato la concentrazione della produzione in fabbriche sempre più grandi e sempre più automatizzate; questo processo, però, aveva due problemini non da poco. Da un lato, gradualmente, riduceva i margini di profitto, come diceva Marx: la caduta tendenziale del saggio di profitto, che avviene inesorabilmente mano a mano che aumentano gli investimenti in quello che si chiama capitale fisso, (e cioè, appunto, grandi stabilimenti pieni zeppi di macchinari); dall’altro, che nella grande fabbrica, sempre più automatizzata, numeri crescenti di persone che hanno ruoli sempre più standardizzati si ritrovano a condividere la stessa identica condizione di sfruttamento e questo favorisce la creazione di grandi organizzazioni di massa in grado di contendere ai grandi capitalisti e ai loro docili servitori il monopolio del potere politico. Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 questo processo aveva raggiunto una dimensione tale da gettare nel panico le élite economiche globali che, per sopravvivere, hanno organizzato la loro controrivoluzione: la controrivoluzione neoliberista, che viene ufficialmente teorizzata, a partire dal 1975, con il famoso studio dal titolo La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie che un gruppo di ricercatori al servizio della dittatura del capitale capitanato dal famigerato Samuel Huntington ha redatto su richiesta della Commissione Trilaterale; nello studio si sottolinea, appunto, come la dittatura del capitale nei paesi più industrializzati è messa a rischio da un “eccesso di democrazia” che, appunto, deriva dalla capacità organizzativa dei lavoratori ai tempi della grande fabbrica. Da allora, l’obiettivo del grande capitale diventa, appunto, rimuovere la causa principale che aveva permesso ai lavoratori di guadagnare così tanto potere politico e cioè, appunto, la grande fabbrica taylorista; le strategie sono principalmente due: nei settori dove questo è possibile, frammentare il più possibile il processo produttivo, passando dalla grande fabbrica alle reti di piccoli produttori, un fenomeno che in Italia – in particolare – ha preso le sembianze della famosa distrettualizzazione che, incredibilmente, da certa sinistra è stato visto addirittura come un processo positivo, mentre, in realtà, non era appunto che uno degli strumenti della guerra di classe dall’altro contro il basso. Per quei settori dove, invece, questa frammentazione non era possibile, la strada maestra diventava la delocalizzazione; in entrambi i casi, ovviamente, era fondamentale introdurre meccanismi di concentrazione del potere economico che impedissero ai padroncini dei distretti, tanto quanto ai fornitori del Sud globale, di diventare indipendenti e quindi, alla fine, di fregare le oligarchie capitalistiche occidentali: tra questi meccanismi, i più importanti sono stati il monopolio del know how tecnologico, il monopolio – diciamo così – “culturale” (e quindi della creazione dell’immaginario attraverso il marketing con l’affermazione dei grandi brand) e, soprattutto, il monopolio finanziario, che è il vero cuore del potere politico.
Il cuore del potere politico, infatti, è sostanzialmente il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa e questo potere si è concentrato sempre di più nei grandi monopoli finanziari occidentali e, in particolare, statunitensi: prima con le grandi banche e, negli ultimi anni, in particolare, con gli asset manager che gestiscono patrimoni di ordini di grandezza superiori ai prodotti interni lordi della stragrande maggioranza dei paesi del globo; grazie alla concentrazione dei capitali nei grandi monopoli finanziari, la proprietà del grosso delle principali corporation globali – per la stragrande maggioranza basate negli USA – è oggi, sostanzialmente, tutta in mano a un manipolo di fondi che hanno completamente stravolto il meccanismo originario con il quale, nel capitalismo industriale, ci si arricchiva. Invece di investire per produrre merci e poi rivenderle per fare profitti, mettere i soldi nei mercati finanziari e riscuotere una rendita; il principale prodotto di questo nuovo capitalismo monopolistico completamente finanziarizzato non sono più le merci, ma le azioni – dal feticismo delle merci, al feticismo delle azioni quotate in borsa.

Bernard Arnault

Ora, in questo scenario macro il mondo del lusso presenta una lunga serie di anomalie: la prima, macroscopica, è che è uno dei pochissimi settori dove i gruppi principali non sono controllati dai giganti dell’asset management, a partire proprio dal principale dei gruppi, la LVMH capitanata da Bernard Arnault che, con i suoi 430 miliardi e oltre di capitalizzazione, pesa da sola per quasi metà del valore in borsa di tutto il settore, soprattutto se ci si aggiungono i quasi 150 miliardi di capitalizzazione di Dior, sempre della famiglia Arnault; in entrambi questi colossi del lusso, a guidare – con una maggioranza schiacciante – la compagine azionaria non sono i soliti fondi prenditutto made in USA, ma la cassaforte di famiglia del buon vecchio Bernard che l’ha trasformato nell’uomo in assoluto più ricco del pianeta, surclassando la nuova aristocrazia del tecnofeudalesimo made in USA. Ma tenere il passo dei grandi monopoli finanziari a stelle e strisce è un’opera titanica; i monopoli finanziari privati, infatti, sono in grado di garantire due cose: uno, che essendo i principali azionisti di tutti i principali gruppi in un determinato settore, quel settore è sostanzialmente monopolistico e, quindi, è in grado di imporre sulla società i margini di profitto che desidera. E’ esattamente quello a cui abbiamo assistito negli ultimi 2 anni, dove l’inflazione non era certo dovuta a una crescita della domanda, ma proprio alla capacità delle aziende di imporre prezzi sempre crescenti in quanto monopolisti privi di concorrenza. Due, che hanno una liquidità tale che sono in grado di garantire la crescita del prezzo delle azioni a prescindere da cosa succede nell’economia reale. Sostanzialmente, almeno fino a che regge l’impero e la dittatura globale del dollaro, sono in una botte di ferro che non può essere destabilizzata dagli alti e bassi del mondo reale.
Per tenere testa alla pressione di questi colossi, Arnault deve garantire sostanzialmente le stesse condizioni: che il mercato del lusso sia sostanzialmente un monopolio e che abbia abbastanza liquidità da sostenere il prezzo delle azioni a prescindere. Ed ecco così che, nel tempo, Arnault si è letteralmente comprato tutto: da Bulgari a Fendi, passando per Loro Piana e, giusto il mese scorso, pure Tod’s, così ricavi e profitti dovrebbero essere in una botte di ferro. La capacità, invece, di sostenere il prezzo delle azioni a prescindere, un po’ meno: le azioni di LVMH, a differenza di molte di quelle dove puntano BlackRock e Vanguard, sembrano – infatti – piuttosto dipendenti dai conti economici reali; dopo il covid, quando la gente è tornata a spendere i soldi che si era messa da parte durante l’emergenza pandemica, il titolo, infatti, ha guadagnato circa il 70% nell’arco di un anno. Poi, però, la stagnazione economica ha fatto credere ai mercati che anche il lusso ne avrebbe risentito e il titolo ha cominciato a scendere, nonostante Arnault abbia cercato di fare la piccola BlackRock de noantri; il meccanismo, ovviamente, per chi non gestisce migliaia di miliardi altrui come i fondi, è sempre quello del buyback; nel luglio scorso LVMH s’è ricomprata 1,5 miliardi delle sue azioni e, siccome non è bastato, il mese dopo Arnault da solo, di tasca sua, s’è comprato altri 250 milioni delle sue aziende, ma rispetto alla potenza di fuoco dei fondi, per una società che capitalizza quasi 450 miliardi, sono spiccioli. E il titolo è continuato a scendere fino al febbraio scorso, quando LVMH pubblica i risultati economici del 2023: se non ha abbastanza cash per imitare la strategia di sostenimento artificiale del prezzo delle azioni dei fondi, ha abbastanza controllo del mercato per incassare i dividendi della sua posizione semi-monopolistica. LVMH comunica una crescita delle vendite vicina al 10% e i mercati reagiscono istantaneamente: nell’arco di poche ore il titolo guadagna oltre il 10% e, nel mese successivo, guadagnerà un altro 20%.
A contribuire, nel frattempo, un altro fattore; LVMH ha capito che c’è un’altra speculazione finanziaria che è più alla sua portata che non la manipolazione del prezzo delle azioni: la speculazione immobiliare. Nell’arco di pochi mesi investe 500 milioni di dollari per ingrandire e rinnovare il gigantesco e leggendario negozio di Tiffany sulla 5th avenue – quello, appunto, di Colazione da Tiffany; poi si è comprato i negozi dove i suoi brand erano rimasti fino ad allora in affitto sugli Champs Elysèes e sulla londinese Bond Street. E LVMH non è un’eccezione; come titolava l’Economist il mese scorso, Gucci, Prada e Tiffany scommettono sugli immobili: a guidare le danze, in particolare, c’è il principale concorrente di Arnault, Kering, l’altro megaconglomerato del lusso francese. Kering è, in tutto e per tutto, il precursore di LVMH: a partire da fine anni ‘90, ha cercato di costruire un monopolio del lusso facendo shopping forsennato – da Gucci a Yves Saint Laurent, da Bottega Veneta a Balenciaga e sempre rimanendo saldamente in mano alla famiglia Pinault, un progetto che però, a un certo punto, si è arenato. L’ultima grande acquisizione di Kering (e che poi manco è così grande) è stata quella di Balenciaga nel 2001; nell’era dei monopoli, troppo poco: ed ecco ,così, che Kering non solo, come Arnault, non ha abbastanza cash per sostenere le sue azioni, ma manco abbastanza quote di mercato per garantirsi ricavi e profitti. Ed ecco, così, che a marzo, mentre LVMH era tornato a correre grazie a un anno record, Kering doveva dichiarare il crollo dei ricavi del suo brand principale, Gucci, che ha segnato un bel -20% di ricavi. Risultato: al contrario di LVMH, il declino delle azioni di Kering, iniziato col post covid, continua ancora. Ed ecco, allora, che – più di ogni altro – il buon vecchio Pinault decide di dedicarsi all’altro ramo della speculazione: quella immobiliare; a gennaio s’è comprato, per oltre 800 milioni, il negozio sulla 5th avenue dove Gucci era stato, fino ad allora, in affitto e giovedì scorso è arrivato a casa nostra. Per 1,3 miliardi di euro, infatti, il compagno Pinault s’è comprato il palazzo storico di via Montenapoleone a Milano dove ci sono le boutique di Saint Laurent e Prada: è, in assoluto, la più grande operazione immobiliare di sempre nel nostro paese – che uno si immagina chissà quanti metri quadrati saranno 1,3 miliardi… Macché: la superficie complessiva, infatti, è di poco meno di 12 mila metri quadrati – di cui soltanto 5 mila sono commerciali. Tradotto: sono 110 mila euro al metro quadrato.
Ora, capite bene che, rispetto a queste follie, Giorgio Armani, con i suoi 9 mila dipendenti, poco più di 2 miliardi di fatturato e meno di 150 milioni di utili, sia sostanzialmente un morto che cammina e che cerca di rimandare la sua resa definitiva con ogni mezzo necessario, compresa la schiavitù. Per ora sdoganare la schiavitù pubblicamente fa ancora brutto, forse, ma state tranquilli che ci arriveremo; li vedo già i giornali nei prossimi anni: Buonisti radical chic condannano la schiavitù e fanno chiudere le aziende italiane. Anzi: in realtà, anche se non formulata esattamente così, ci sono già stati; per anni abbiamo sostenuto che la controrivoluzione neoliberista avrebbe necessariamente portato all’impoverimento e alle svolte autoritarie; eravamo ottimisti. La controrivoluzione neoliberista ci scaraventa direttamente in una entusiasmante nuova era di genocidi, stermini di massa e schiavitù. Forse sarebbe il caso di organizzarsi e reagire come si deve a questa nuova età di barbarie senza fine; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che smonti pezzetto per pezzetto la narrazione delle oligarchie affamapopoli e dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Donatella Versace

P.S.: per i più determinati, visto che un po’ di tempo fa – quando, per la prima volta, Arnault venne ufficialmente incoronato da Forbes uomo più ricco del pianeta scavalcando allora Elon Musk – gli avevamo dedicato un simpatico video biografico, adesso ve lo riproponiamo. Buona ri-visione.

Italia per sempre schiava? Come la sindrome del suddito si è impossessata del nostro Paese

Nel nuovo mondo multipolare e con il prossimo disimpegno politico e militare americano in molte aree a noi vicine, enormi possibilità e opportunità si aprono per il nostro paese – opportunità che, però, rischiamo di non cogliere a causa di una grave malattia che ormai ci affligge da decenni, la malattia forse più grave che possa colpire una comunità nazionale: è la cultura del vincolo esterno – o anche detta la sindrome del suddito – e, cioè, l’idea che gli italiani sarebbero incapaci per natura di autogovernarsi, che la nostra salvezza dipenderebbe sempre da un salvatore esterno e che, in fondo, il nostro destino non può che essere quello di essere colonie di un qualche superpotenza a cui bisogna leccare il più possibile i piedi nella speranza di ricevere in cambio un affettuoso gesto di approvazione.

Ovviamente non c’è nessuna ragione storica e culturale per pensare che questo debba essere il nostro destino, anzi! Gran parte della nostra storia ci dice l’esatto contrario; ed è però il classico esempio di profezia che si autoavvera: più noi la pensiamo così, più diventiamo davvero sempre più incapaci di mobilitarci e trasformare le cose ed educhiamo intere generazioni a disprezzare lo Stato, a respingere la propria comunità e a non lottare per i propri diritti al lavoro, alla casa, alle cure… È, questo, il risultato più preoccupante di 70 anni di dominio militare e culturale americano e degli anni di egemonia culturale della finta sinistra esterofila e anti – italiana della ZTL, ossia l’aver interiorizzato la mentalità dei servi a tal punto da pensare che la nostra incapacità di governare sia una nostra caratteristica antropologica, nonché l’avere sviluppato una vera e propria fobia nei confronti dell’indipendenza e della libertà. Nel suo ultimo articolo pubblicato su Limes, Il vincolo esterno (non) è un destino, Giuseppe De Ruvo, filosofo e analista geopolitico, ripercorre la storia e le ragioni di questo mito tutto italiano e ci indica anche possibili vie per finalmente liberarsi da questa atmosfera tossica e autodistruttiva, utile solo a chi, tra le oligarchie economiche nostrane e le potenze straniere, si approfitta della nostra ignoranza e inconsapevolezza nazionale.
Con la crisi dell’impero americano e l’emergere di nuove potenze che stanno trasformando il mondo, per il nostro paese – così come per tutti i paesi europei – si aprono spazi geopolitici e geostrategici prima impensabili che nuove classi dirigenti che si lasciassero, finalmente, alle spalle gli ultimi 30 anni di politiche suicide, potrebbero sfruttare. La prossima vittoria di Trump, in particolare, potrebbe segnare la definitiva scelta di campo americana riguardo alle proprie priorità strategiche e, cioè, quella di concentrare tutte le risorse e mezzi possibili nell’Asia – Pacifico in ottica anticinese, disimpegnandosi cosi in Europa e lasciandoci maggiore margine di manovra. In aree come il Medioceano e il Mediterraneo – fondamentali per la nostra sopravvivenza – l’Italia avrebbe, ad esempio, tutte le potenzialità per imporsi come importante soggetto regionale; inoltre, l’espulsione della Francia dalle sue colonie africane ci candida automaticamente a potenziale soggetto geopolitico eurafricano: “Non avendo un passato coloniale paragonabile a quello francese” scrive De Ruvo “potremmo proporci come partner alla pari dei paesi del Maghreb e del Sahel, trasformandoci in inaggirabile hub energetico e logistico.” Infine, la profonda crisi economica e industriale tedesca potrebbe aprire degli spiragli per ridiscutere il trattato di Maastricht, il patto di stabilità e il pareggio di bilancio in Costituzione; precondizione fondamentale per sfruttare queste opportunità è, però, lasciarci alle spalle la cultura esterofila ed autodistruttiva del vincolo esterno che è, oggi, un’atmosfera culturale che mina alla base i fondamenti e i legami della nostra comunità democratica, delegittimando l’idea stessa di Stato e nazione italiana, anche perché ad essere più colpite da questa atmosfera – che si ripercuote in un’opinione pubblica e in una classe dirigente collaborazionista con chi, di questo stato di cose, se ne approfitta – sono, come sempre, le classi popolari, ossia le classi che hanno di più da perdere dall’indebolimento dello Stato, dalle politiche predatorie delle oligarchie economiche nostrane e delle potenze straniere che si approfittano di questa debolezza – e dal venir meno dei legami comunitari.

Giuseppe De Ruvo

Il problema fondamentale però, riflette De Ruvo, è che dopo la seconda guerra mondiale l’Italia ha sostanzialmente basato la sua costituzione geopolitica sul concetto stesso di vincolo esterno: “Abbiamo sovrapposto i nostri interessi a quelli americani e a quelli europei” scrive De Ruvo “convinti che gli altri paesi avrebbero fatto lo stesso. Abbiamo creduto all’ideologia della Pax Americana più degli americani stessi, nonostante – dopo la fine della guerra fredda – il nostro estero vicino abbia conosciuto più volte la guerra (Jugoslavia e Libia). Abbiamo considerato l’Unione Europea un fine in sé, mentre tutti gli altri la trattavano per quello che è: un utile mezzo per promuovere specifici interessi nazionali.” In più, in preda ad uno strano delirio masochistico, invece di porci come obiettivo la nostra rinnovata auto – determinazione, nel nostro immaginario abbiamo associato ai soggetti del nostro vincolo esterno tutte le qualità positive che a noi non apparterrebbero e, quindi, da una parte noi siamo populisti e incompetenti e, dall’altra, l’Unione Europea è neutra e competente; e quindi, da una parte, il nostro stile di vita è retrogrado e provinciale e, dall’altra, lo stile di vita americano è invece assolutamente desiderabile. Insomma: secondo questa moda culturale esterofila, che nella storia ritroviamo spesso in comunità occupate e colonizzate, l’Italia dovrebbe essere un paese fondamentalmente passivo che, per salvarsi, deve affidarsi a mani più sagge e competenti e questo perché i padroni benevoli saprebbero sicuramente fare il nostro interesse nazionale meglio di noi.
L’esperienza del fascismo ha giocato sicuramente un ruolo fondamentale in tutto questo e negli anni successivi alla caduta del regime si assiste addirittura alla diffusione di tesi sull’illegittimità storico – politica del popolo italiano: “Nel dopoguerra” scrive De Ruvo “il ventennio fascista era visto come una macchia indelebile, che poteva essere lavata solo in due maniere: o considerandolo un qualcosa di estraneo, una parentesi, o legandolo indissolubilmente a una certa italianità che andava estirpata e rimossa […]; la prima – crociana – è caratterizzata dal rifiuto di storicizzare il fascismo, mentre la seconda lega, in qualche modo, l’esperienza fascista a una certa antropologia, al modus vivendi dell’homo italicus, caratterizzato dall’indifferenza e dal me ne frego e, secondo questa prospettiva, per evitare che il mitologico fascismo eterno alla Umberto Eco torni a impossessarsi degli italiani, ci sarà sempre bisogno di un vincolo esterno capace di limitare i nostri istinti più bassi e accompagnarci per mano in un futuro migliore. Come ha scritto anche l’ex governatore di Banca Italia Guido Carli nelle sue memorie, la progressiva adesione del belpaese ai vincoli europei “nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo paese”.
Arrivati a questo punto, l’errore – quindi – più grave che possiamo fare è quello di interpretare queste leggende metropolitane sull’italianità tossica e sulla nostra incapacità di governarci, diffusesi in questa precisa congiuntura storica a causa dal nostro status coloniale, come tratti antropologici eterni del nostro carattere nazionale; purtroppo capita spesso, invece, di sentire anche in televisione qualche intellettuale un po’ snob riempirsi la bocca con esempi storici per dimostrare che l’Italia è sempre stata terra di conquista e di gente egoista e pavida, sempre felice di sottostare a quella o quell’altra dominazione straniera. Ma senza scomodare l’impero romano – che può sembrare un esempio iperbolico – in epoca contemporanea basta pensare al periodo risorgimentale in cui migliaia di persone sono morte per la nostra libertà e indipendenza, o anche alla prima parte del novecento, per capire che in realtà si tratta di pura ideologia funzionale ad interessi ben precisi, un’ideologia che però, grazie alla nostra classe di intellettuali e politici collaborazionisti, è diventata quasi una sorta di pedagogia anti – nazionale propinata fin dalle scuole primarie.
Infine, la cosa che più di tutte forse dovremmo infilarci in testa è che non esistono padroni benevoli, non esistono vincoli buoni: esistono solo padroni che fanno i loro interessi che ogni tanto, per puro caso e per un periodo di tempo limitato, possono anche coincidere con i nostri. Ma, alla lunga, credo basti il buon senso per capire che una comunità non libera di perseguire i propri interessi nei modi e con i mezzi che ritiene più opportuni non può che andare incontro alla propria distruzione. Per uscire da questa atmosfera culturale decadente e corrosiva, De Ruvo indica alcune questioni da affrontare in maniera dirimente: “Intanto, l’Italia deve tornare a definire chiaramente i propri interessi nazionali e non può più permettersi di rinunciare alla sua sovranità nella (in)fondata speranza che anche gli altri lo facciano.” Scrive De Ruvo “[…] Non possiamo più nasconderci dietro alla foglia di fico dell’Europa o affidarci toto corde al Veltro americano: abbiamo dei chiari interessi nazionali dai quali dipendiamo esistenzialmente e dobbiamo avere la capacità di farli rispettare”; inoltre, continua, “Gli italiani devono prendere coscienza della loro unità e uniformità nazionale. È incomprensibile che gli abitanti del belpaese si considerino più disuniti dei francesi o dei tedeschi. Questo dato è semplicemente falso: per cultura, modo di vivere e di stare al mondo gli italiani sono molto più uniti di quanto amino raccontarsi.”
Come ci ha insegnato Marx, la cultura di una collettività dipende, in gran parte, dalla sua struttura politico – economica in quel determinato momento storico ed è quindi prima di tutto su questo piano che la nostra battaglia deve indirizzarsi per cambiare le cose; ma anche l’informazione e il senso comune possono giocare la propria parte nello sfatare ideologie false e autodistruttive e su questo tutti noi, nel nostro piccolo, possiamo fare la differenza: la lotta di classe, infatti, si unisce oggi inevitabilmente anche alla lotta per l’indipendenza nazionale ed europea, senza la quale rischia di annacquarsi in un astratto internazionalismo. Per vincere avremo bisogno di un media veramente libero e indipendente che combatta la propaganda delle oligarchie americane e dei nostri intellettuali collaborazionisti. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Gentiloni