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Tag: milizie curde

Petroliere in fiamme e basi senza difesa: è arrivata la fine del dominio USA in Medio Oriente?

Dopo 3 settimane di attacchi USA alle installazioni militari di Ansar Allah, “quei quattro beduini” – come li ha definiti in un commento qualche suprematista sulla nostra bacheca – sono talmente devastati che venerdì notte, nell’arco di poche ore, hanno prima colpito in pieno una petroliera del colosso del commercio di materie prima Trafigura e poi hanno preso di mira una nave da guerra della coalizione costringendola, per l’ennesima volta, a spendere qualche milione per intercettare un’arma che ne costa poche decine di migliaia; e il vero weekend di paura doveva ancora iniziare: domenica infatti, per la prima volta dall’inizio della fase terminale del genocidio di Gaza, a lasciarci le penne sono stati direttamente 3 soldati USA, con altri 34 che non se la passano esattamente benissimo, diciamo.

John Helmer

E la conta delle vittime è il problema minore: come scrive il leggendario giornalista ed analista statunitense trapiantato a Mosca John Helmer sul suo blog, l’attacco della fazione irachena dell’asse della resistenza alla Tower-22 giordana sta alla credibilità delle forze armate USA come l’operazione diluvio di Al-Aqsa sta a quella dell’intelligence israeliana : “L’attacco” scrive “dimostra che sia la postazione di Tower-22 che l’intero complesso militare di Al-Tanf, sia sul lato giordano che su quello siriano, sono vulnerabili alle armi che le forze statunitensi non sono riuscite a rilevare e neutralizzare. Come è altrettanto vulnerabile anche l’imponente base aerea statunitense di Muwaffaq Salti, 230 chilometri ad ovest in territorio giordano”. Helmer, inoltre, racconta che le sue fonti all’interno delle forze armate USA ci vedono anche lo zampino russo: le basi statunitensi dell’area, infatti, “generalmente” scrive Helmer “affidano la loro difesa a sistemi C-RAM” che sta per Counter rocket, artillery, and mortar e, sostanzialmente, descrive l’insieme di sistemi utilizzati per rilevare e/o distruggere razzi, artiglieria e colpi di mortaio in arrivo prima che colpiscano i loro bersagli a terra o, perlomeno, in grado di fornire un’allerta precoce, sistemi che – sottolinea Helmer – “sono stati inviati in Ucraina a partire dall’anno scorso, dove i russi hanno imparato ad aggirarli”. Fino ad adesso, in Medio Oriente gli USA hanno fatto un buon lavoro nell’abbattere i droni e oggi, sottolinea Helmer, sembra una coincidenza un po’ strana che facciano cilecca “nemmeno una settimana dopo gli incontri a Mosca con arabi, iraniani e yemeniti”; “i sistemi su cui USA e alleati facevano affidamento” conclude Helmer “sono stati sconfitti prima dai russi sulla terraferma in Ucraina, e ora che vengono impiegati per difendere le nostre navi nel Mar Rosso, rischiano di essere sconfitti anche lì. E le implicazioni sono enormi: anche il più piccolo paese marittimo, a costi molto contenuti, oggi è in grado di infliggere danni considerevoli agli attori tradizionalmente dominanti”. “Ad essere onesti” scrive Simplicius the thinker sul suo blog “è difficile immaginare come questa situazione potrebbe risolversi senza un ritiro totale degli Stati Uniti dal Medio Oriente o in alternativa nell’esplosione di una nuova grande guerra”.
Il tempo del dominio incontrastato dell’Occidente collettivo a guida USA in Medio Oriente sta andando incontro al suo epilogo?
“Era solo questione di tempo” commenta affranto l’Economist: “a partire dal 7 ottobre”, ricorda la testata britannica, “i gruppi sostenuti dall’Iran hanno lanciato droni e razzi contro gli avamposti americani in tutto il Medio Oriente in 160 occasioni. Quasi tutti hanno mancato il bersaglio o sono stati abbattuti. fino a domenica scorsa, quando uno è riuscito a passare, e ha ucciso 3 soldati americani e ne ha feriti altri 34”; secondo l’Economist si tratterebbe nientepopodimeno che del “primo attacco aereo mortale contro le forze di terra americane dalla Guerra di Corea” e rischia di costringere l’amministrazione Biden a fare una scelta avventata. “La retorica dell’amministrazione Biden, in Iran” ha scritto su X il famigerato senatore repubblicano Lindsey Graham “cade nel vuoto”; “potete eliminare tutti i rappresentanti iraniani che volete” continua, “ma questo non scoraggerà l’aggressione iraniana”. La soluzione è quella classica, la sola buona per tutte le stagioni che un redneck con una quantità di neuroni che si contano sulle dita di una mano può elaborare: “Colpite l’Iran adesso. Colpitelo forte” scrive Graham, con quel linguaggio tipico dello statista di indiscusso spessore; “Chiedo all’amministrazione Biden di colpire obiettivi significativi all’interno dell’Iran” insiste Graham “non solo come rappresaglia per l’uccisione delle nostre forze, ma come deterrente contro future aggressioni”. E Lindsey Graham non è certo l’unico assetato di sangue: anche dal cuore dell’establishment clintoniano arrivano segnali di insofferenza: “Dovremo riflettere di più su ciò che facciamo affinché gli iraniani capiscano che qui c’è un rischio, e non è un rischio che loro vogliono correre” avrebbe affermato l’ex inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente ai tempi dell’amministrazione Clinton Dennis Ross; “se il carattere della nostra risposta rimane lo stesso adottato fino ad ora” conclude “il messaggio è che possono continuare così e non gli costerà nulla”.
La tesi dei suprematisti di entrambi gli schieramenti politici è sostanzialmente sempre la stessa: gli USA, dall’alto della loro incontrastata superiorità tecnologica e militare, potrebbero facilmente chiudere la partita, ma sono troppo buoni per farlo. Potrebbe non essere così semplice: secondo Simplicius, l’ipotesi di un nuovo intervento sul campo, infatti – ammesso e non concesso abbia senso – “richiederebbe come minimo un anno abbondante di preparazione”; in Iraq infatti, ricorda, ci sono voluti oltre 6 mesi “solo per trasportare materiali e risorse nella regione, allestirli, ecc.” “ma l’Iran” continua “non permetterebbe tutto questo, perché ha sistemi balistici moderni molto più sofisticati di qualsiasi cosa avesse l’Iraq, il che significa che le grandi concentrazioni di truppe e le aree di sosta di armature e materiali potrebbero essere colpite e spazzate via molto prima dell’ora zero”. “L’unica cosa che potrebbero tentare, al limite” continua Simplicius “è una campagna aerea di lunga durata. Ma scalfire anche solo lontanamente le capacità dell’Iran richiederebbe una vasta campagna della durata di almeno 6-12 mesi e probabilmente molto di più. Un periodo durante il quale l’Iran chiuderebbe tutti i principali punti di strozzatura marittima ed economica della regione, mandando in crash l’economia globale”; “Se pensate che il fatto che alcune navi oggi vengano colpite nel Mar Rosso sia un male” conclude Simplicius “aspettate di vedere le forze iraniane regolari, invece che gli Houthi, colpire tutto ciò che vedete: non sarà carino”. Spinta dai mal di pancia sempre più diffusi nell’intero arco costituzionale USA – ma impossibilitata a perseguire una qualsiasi soluzione finale – l’amministrazione Biden quindi, con ogni probabilità, farà di nuovo quello a cui ci ha abituato da un paio di anni a questa parte: aumenterà un pochino il livello del conflitto causando un po’ di distruzione in più senza, sostanzialmente, ottenere una seganiente.

John Raine

“Gli Stati Uniti” ha dichiarato all’Economist l’ex diplomatico britannico John Raine, “cercheranno di trovare una risposta che sia proporzionata e non implichi un’escalation, ma che allo stesso tempo sia anche efficace come deterrente”; peccato però che” continua Raine “nelle attuali condizioni della regione e con l’attuale schiera di attori ostili attivi, si tratti di un compito estremamente arduo. E almeno su uno di questi criteri dovrà cedere”. Per uscire da questo collo di bottiglia ecco allora che i pochi consiglieri USA che non sono cascati dal seggiolone da bambini hanno ricominciato a porre in varie forme la domanda delle domande: ma perché mai gli USA non prendono atto della realtà e non se ne vanno finalmente dal Medio Oriente? “Dovremo chiederci” ha affermato, ad esempio, l’ex ufficiale dei Marines Gil Barndollar “se vale davvero ancora la pena la presenza delle truppe statunitensi in Iraq e Siria”. Giovedì scorso intanto, ricorda il sito Analisi difesa, “Il ministero degli esteri iracheno ha reso noto che è stato concordato con gli USA di formulare un calendario che specifichi la durata della presenza della coalizione internazionale contro l’ISIS in Iraq, sottolineando che l’accordo prevede l’inizio della graduale riduzione di tali forze”; a sua volta poi, continua Analisi difesa, “Il ritiro delle forze americane in Iraq renderebbe inoltre logisticamente impossibile sostenere le truppe schierate nelle basi situate nella Siria orientale”. Il ritiro totale delle truppe dalla Siria d’altronde – dove, ricordiamo, gli USA sono presenti come vera e propria forza di occupazione senza uno straccio di legittimità – era già stato ventilato dall’amministrazione Trump; all’epoca però, ricorda sempre Analisi difesa, “il Pentagono convinse la Casa Bianca a mantenere la presenza di truppe a sostegno delle milizie curde situate nei pressi di alcune basi russe con l’obiettivo di impedire a Damasco di riprendere il controllo dei pozzi petroliferi dell’est”. Ora che entriamo nel bel mezzo della contesa presidenziale, però, la questione torna a fare capolino; un bel rompicapo perché, nel frattempo, il ruolo della Russia nell’area sembra consolidarsi continuamente: l’ultima novità, ricorda ancora Analisi difesa, è “la recente decisione di Mosca di impiegare i propri aerei schierati in Siria alla fine del 2015 nella base di Hmeymin, per sorvolare l’area di confine con Israele nel Golan”, una scelta – continua Analisi difesa – “che sembra indicare la volontà di Mosca di porsi come garante di Damasco anche nei confronti di Israele, che nel frattempo continua a colpire in territorio siriano milizie e obiettivi legati all’Iran”. In questo contesto, sottolinea ancora Analisi difesa, “Il ritiro statunitense dalla Siria costituirebbe quindi una grande vittoria per la Russia, l’Iran e per il governo siriano di Bashar Assad”, un’alleanza che continua a consolidarsi e a espandersi: come riporta John Helmer, infatti, giusto la settimana scorsa “in tutta Mosca, delegazioni insolitamente numerose di funzionari del consiglio di sicurezza russo, guidate da Nikolai Petrushev e Ali-Akbar Aahmadian, rappresentante speciale presidenziale e segretario del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano, si sono incontrate per discutere un ordine del giorno dettagliato che prevede un’ampia cooperazione in materia di sicurezza russo – iraniana e l’attuazione pratica degli accordi raggiunti al più alto livello”. Il negoziato avrebbe dato il via alla firma definitiva di un nuovo accordo ventennale tra Russia e Iran che, stando a quanto riportato da Simon Watkins su Oilprice, “rafforza esponenzialmente il legame tra i due paesi, a partire proprio dalla difesa e dalle politiche energetiche”; “Il nuovo accordo” sottolinea Watkins “dà alla Russia il primo diritto di estrazione nella sezione iraniana del Mar Caspio, compreso il giacimento potenzialmente enorme di Chalous” che, secondo le stime più recenti, ammonterebbe alla cifra spaventosa di 250 miliardi di metri cubi di gas: e come sempre, le politiche energetiche vanno a braccetto con la difesa, dove il nuovo accordo rafforzerebbe enormemente la collaborazione sul fronte della guerra elettronica al quale si va ad aggiungere la questione dei missili, con nuovi missili destinati ad essere inviati in Iran dalla Russia. “Il personale selezionato del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” scrive Watkins “sarà addestrato sugli ultimi aggiornamenti russi di diversi missili a corto e lungo raggio: dai Kinzhal, all’Iskander, prima che inizi il piano per fabbricarli su licenza in Iran, con l’obiettivo di far sì che il 30% di essi rimanga in Iran, mentre il resto venga rispedito in Russia”; “questo” sottolinea Watkins “significa che il nuovo accordo ventennale tra Iran e Russia cambierà il panorama del Medio Oriente, dell’Europa meridionale e dell’Asia poiché l’Iran avrà una portata militare molto estesa che gli darà molta più influenza. E questo significa che i paesi di quest’area cominceranno inevitabilmente a realizzare che continuare a fare affidamento sugli Stati Uniti per la loro protezione è un’opzione molto più precaria di quanto non fosse prima”.

Mohammed Abdelsalam – Mikhail Bogdanov

Nel frattempo, giovedì sera a Mosca a incontrarsi erano stati il ministro degli esteri russo Mikhail Bogdanov e una delegazione di Ansar Allah capitanata da Mohammed Abdelsalam: “Particolare attenzione” recita il comunicato rilasciato alla fine dell’incontro dallo stesso Bogdanov “è stata prestata allo sviluppo dei tragici eventi nella zona del conflitto israelo – palestinese, così come all’aggravamento della situazione nel Mar Rosso. In questo contesto, sono stati fortemente condannati gli attacchi missilistici e bombe contro lo Yemen intrapresi dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, che sono in grado di destabilizzare la situazione su scala regionale”. “La dimostrazione di sostegno russo all’Asse della Resistenza contro Israele e gli Stati Uniti” commenta Helmer “non ha precedenti. Gli incontri del Ministero degli Esteri e del Consiglio di Sicurezza confermano che ora esiste una nuova definizione di terrorismo nella strategia di guerra russa, in cui vi è sostegno sia pubblico che segreto ad Hamas, agli Houthi e ad altri gruppi in Libano e Iraq che lottano per la liberazione nazionale contro Israele e Stati Uniti”.
La lunga era della finta pax americana è ormai un antico ricordo: forse è arrivato il momento che gli USA prendano atto di quanto rapidamente, drasticamente e irreversibilmente è venuta meno la loro capacità di determinare a proprio piacimento gli equilibri geopolitici dell’intero pianeta e si concentrino magari un po’ di più su casa loro prima che, oltre a perdere l’Ucraina e il Medio Oriente, non si ritrovino a perdere pure il Texas. Ma sollazzarsi alla vista del vecchio che muore potrebbe non essere sufficiente: dobbiamo continuare anche a fare tutto il possibile perché finalmente nasca il nuovo e per combattere tutti i fenomeni morbosi che questa lunga e dolorosa fase di transizione genera necessariamente. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte della pace e degli interessi concreti del 99%, dallo Yemen alla periferia di Houston e, soprattutto, a casa nostra. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bill Clinton