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Tag: microchip

Come la CINA pianifica di aggirare le restrizioni USA

La guerra tecnologica tra Cina e Stati Uniti sta procedendo, ed è un conflitto denso di conseguenze… La Cina, come sappiamo, è sotto embargo tecnologico da parte degli Stati Uniti per quanto riguarda l’ultra violetto estremo, cioè quella tecnologia litografica che permette di produrre chip da cinque o da tre nanometri. L’olandese ASML è al momento l’unica azienda che produce e vende questo tipo di sistemi, e gli stati uniti hanno imposto all’ASML di non vendere la sua tecnologia alla Cina. Quindi game over per la Cina, senza questa tecnologia non potrà mai arrivare a produrre i Chip di ultima generazione…. Ma è davvero così? E come sta rispondendo la Cina alla guerra tecnologica statunitense? Lo vediamo in questo video!

Nazioni Unite: l’umiliazione di Biden e Zelensky e l’inarrestabile ascesa del Sud Globale

La sintesi dei primi due giorni dell’annuale assemblea generale delle Nazioni Unite, sta tutta qui. Come sottolineava giustamente il Global Times alla vigilia dell’incontro: “Questo è l’anno dove finalmente a dettare l’agenda saranno i paesi del Sud Globale”. Un esito scontato.

Dall’ampliamento della Shanghai Cooperation Organization, al più che raddoppio dei BRICS, per finire con il G77 della scorsa settimana all’Havana, il sud del mondo ha deciso di spingere sull’acceleratore.

Ne ha dovuto prendere atto anche Joe Biden, unico leader dei membri permanenti del consiglio di sicurezza ad aver deciso di partecipare in prima persona all’evento ma che, a quanto pare, ha commesso qualche errore.

Di fronte a una platea che chiedeva impegni chiari per rilanciare il raggiungimento dei diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile adottati dall’assemblea ormai otto anni fa, Biden ha provato a fare il gioco delle tre carte.

Ha rivendicato la fine della morsa della fame per centinaia di milioni di disgraziati in tutto il mondo, pensando forse di avere di fronte un popolo di semianalfabeti come quelli che sta provando a convincere a rieleggerlo in patria fra qualche mese.

Purtroppo per lui, però, la platea sapeva benissimo di cosa stava parlando: se oggi nel mondo ci sono meno affamati di dieci anni fa, lo si deve solo ed esclusivamente alla Cina, che Biden vorrebbe cancellare dal pianeta.

Ma Biden non si è accontentato di questa ennesima figuretta.

Come fa sistematicamente da due anni a questa parte, ha cercato di trasformare l’ennesima occasione per affrontare i problemi che affliggono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale nell’ennesimo palcoscenico per il solita vecchio remake hollywoodiano della guerra in Ucraina come scontro tra il bene e il male.

Ma come sottolinea giustamente sempre il Global Times: “Le infinite chiacchiere sulla guerra e le minacce palesi e nascoste rivolte ad altri paesi, costringendoli a schierarsi, sono l’ultima cosa che questi paesi vogliono sentire”.

Per averne la prova è bastato aspettare l’intervento in aula di Zelensky; più si affannava, e più la sala si svuotava. Ma com’è possibile che l’unica superpotenza del pianeta sia stata umiliata pure a casa sua?

25 settembre 2015

Dopo nove mesi di negoziati, tutti i centonovantatré membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottano all’unanimità la risoluzione intitolata “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”; un programma estremamente ambizioso, e iperdettagliato: 91 paragrafi, 17 obiettivi, 169 target.

Una roadmap per una redistribuzione della ricchezza su scala globale in senso radicalmente più egualitario, e per affrontare tutti insieme felicemente le principali sfide che affliggono l’umanità tutta, e che a otto anni di distanza si è dimostrata essere esattamente quello che i più scettici sostenevano sin dall’inizio: fuffa allo stato puro.

Una foglia di fico per continuare a coprire il sempre più drastico furto che un manipolo di paesi sviluppati, e le loro ristrettissime oligarchie, opera a danno del resto del pianeta.

Come ha sottolineato Lula: “I dieci miliardari più ricchi del pianeta detengono più ricchezza del 40% più povero dell’umanità”. Sette di loro, per capirci, hanno passaporto a stelle e strisce. “L’azione collettiva più ampia e ambiziosa delle Nazioni Unite mirata allo sviluppo – l’Agenda 2030 –”, ha tuonato Lula dal palco, “potrebbe trasformarsi nel suo più grande fallimento”. “Abbiamo raggiunto la metà del periodo di attuazione e siamo ancora lontani dagli obiettivi definiti”.

Ma questa è solo una parte della storia: due anni prima, infatti, durante una visita in Kazakistan, nella più totale disattenzione da parte del circo mediatico occidentale, Xi Jinping annunciava l’intenzione di avviare un gigantesco progetto per la costruzione di infrastrutture di trasporto e di comunicazione nel cuore del supercontinente eurasiatico; come ricorda l’Economist: “Un annuncio che venne recepito in occidente con ‘indifferenza e perplessità'”.

Il mese dopo Xi ci ribadisce, e se dal Kazakistan aveva parlato fondamentalmente di strade e ferrovie, dall’Indonesia a questo giro si concentra su porti e corridoi marittimi, ma anche a questo giro, nel centro dell’impero, politici e propagandisti continuano a fare orecchie da mercanti.

Dieci anni dopo, quel progetto accolto con indifferenza e perplessità ha portato a casa la bellezza di 3.100 progetti in 150 paesi diversi per una cifra complessiva che si aggira attorno ai mille miliardi di dollari. Tutti messi nell’economia reale.

Come dichiarò il presidente dell’Asian Infrastructure Investment Bank nel 2016 durante la cerimonia di inaugurazione del suo istituto: “L’esperienza cinese dimostra che gli investimenti nelle infrastrutture aprono la strada a uno sviluppo economico-sociale su vasta scala e che la riduzione della povertà è una conseguenza naturale di ciò”.

Infatti, secondo le stime cinesi, la Belt and Road ad oggi non solo avrebbe creato direttamente quasi mezzo milioni di posti di lavoro, ma soprattutto avrebbe generato una ricchezza che ha permesso di elevare sopra la soglia della povertà assoluta la bellezza di quaranta milioni di esseri umani. Ed è solo l’inizio.

Dopo un relativo rallentamento delle cifre impiegate a partire dalla fine del decennio scorso e durante tutta l’emergenza pandemica, nella prima metà di quest’anno abbiamo assistito a una vistosa ripresa: oltre 43 miliardi di investimenti, contro i 35 dello stesso periodo l’anno scorso.

Ma non solo: l’approccio cinese sta cambiando alla radice l’approccio anche del resto del pianeta al tema degli aiuti allo sviluppo. Prima dell’arrivo dei cinesi, infatti, gli unici aiuti allo sviluppo che dal Nord Globale raggiungevano il sud del mondo erano una presa in giro.

In sostanza: si riempivano di quattrini le élite corrotte e conniventi di questi paesi in cambio di riforme di chiaro stampo neoliberale, che ovviamente non facevano che aumentare la dipendenza economica nei confronti dei paesi sviluppati, e impedivano così ogni alla radice ogni reale miglioramento della propria capacità produttiva.

Man mano che gli effetti benefici delle infrastrutture lungo la nuova Via della Seta cominciavano a svelarsi, i popoli del sud del mondo hanno cominciato a realizzare che un’alternativa c’è, hanno cominciato a chiedere a gran voce di perseguirla, e quando le élite non si sono adeguate perché una bella villa di sottobanco a Londra è meno impegnativa che ricostruire le precondizioni per lo sviluppo, hanno cominciato a cacciarle a suon di golpe patriottici come quelli a cui abbiamo assistito nel Sahel negli ultimi tempi.

Così, oggi, i tromboni del Nord Globale, se non vogliono perdere completamente ogni possibilità di influenza su questi paesi, sono costretti ad offrire qualcosa di simile a quello che offrono i cinesi. Di conseguenza, laddove si è imposta in un modo o nell’altro una classe dirigente minimamente autonoma, oggi può fare leva sulla competizione tra cinesi e resto del mondo per strappare l’offerta migliore. Si può, dunque, probabilmente per la prima volta nella storia, permettere di dire anche dei bei “no.

Ove mai le élite continuino a dire solo dei “” che magari gli garantirebbero di arricchirsi, o anche solo di rimanere al potere, ma senza migliorare minimamente le condizioni di vita della popolazione, rischierebbero grosso, perché da questo punto di vista il famoso adagio thatcheriano secondo il quale “there is no alternative”, non vale più. Oggi l’alternativa c’è e come, già solo questa è una svolta epocale.

Ovviamente l’Occidente collettivo fa fatica ad adeguarsi, e continua a sperare di rimpiazzare aiuti concreti allo sviluppo con un po’ di fuffa, facendo leva sulla potenza di fuoco della sua macchina propagandistica; un po’ come è successo al G20 con l’IMEC, l’India-Middle East-Europe Economic Corridor, che si è conquistato i titoloni di stampa e tg in tutto il Nord Globale come l’alternativa occidentale e democratica alla Via della Seta cinese, ma che l’occidente non è assolutamente in grado di portare a termine.

Come scrive, giustamente, l’ex ambasciatore indiano in Turchia Bhadrakumar, infatti: “L’unico modo per trasformare il sogno dell’IMEC in realtà è renderlo al contrario un progetto di connettività regionale inclusivo, e permettere che la Cina ne faccia parte. Questo però”, conclude sarcasticamente Bhadrakumar, “comporterebbe assumere che l’IMEC sia qualcosa di diverso da una semplice operazione propagandistica USA il cui unico obiettivo è permettere a Biden di presentarsi alle prossime elezioni con almeno una storia di successo nella sua altrimenti catastrofica politica estera”.

Ma il contributo che la Cina e la Via della Seta hanno già dato alla faticosa costruzione di un nuovo ordine multipolare non si limita alla rivoluzione nell’approccio agli aiuti allo sviluppo: la Via della Seta, in dieci anni, ha anche accelerato e di tanto lo spostamento di qualche migliaio di chilometri del baricentro del potere economico mondiale. “Mentre l’influenza americana diminuisce”, ammette infatti addirittura anche l’Economist, “le economie asiatiche si stanno integrando”.
Il lungo articolo ricorda come “settecento anni fa, le rotte commerciali marittime che si estendevano dalla costa del Giappone al Mar Rosso erano costellate di dau arabi, giunche cinesi e djong giavanesi, che trasportavano ceramiche, metalli preziosi e tessuti in tutta la regione” e di come questa “enorme rete commerciale intra-asiatica fu interrotta solo dall’arrivo di marinai dagli imperi europei in ascesa”. L’Economist puntualmente si dimentica di citare anche le armi e la ferocia del colonialismo dell’uomo bianco.

Il punto è che, riconosce sempre l’Economist, quella fitta rete commerciale intra-asiatica è tornata ad essere il centro del mondo. “Nel 1990, solo il 46% del commercio asiatico si svolgeva all’interno del continente”. Oggi siamo vicini al 60%. che è anche più o meno la percentuale degli investimenti esteri diretti nella regione detenuti da altri asiatici. Anche i prestiti bancari sono sempre più asiatici, a partire dalla spettacolare crescita della Commercial Bank of China, che “è più che raddoppiata dal 2012 ad oggi, raggiungendo quota 203 miliardi”.

“Nel 2011 i paesi più ricchi e più antichi dell’Asia avevano circa 329 miliardi di dollari investiti nelle economie più giovani e più povere di Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Malesia, Filippine e Tailandia. Un decennio più tardi quella cifra era salita a 698 miliardi di dollari”.
“Secondo un recente sondaggio”, continua l’Economist, “solo l’11% degli operatori economici asiatici considera ancora gli USA il potere economico più influente dell’Asia” e “uno studio pubblicato l’anno scorso suggerisce che il trattato siglato nel 2020 e denominato Regional Comprehensive Economic Partnership, comporterà un aumento consistente degli investimenti transfrontalieri nella regione”.

“Al contrario”, sottolinea sempre l’Economist, “a seguito dell’abbandono da parte dell’America dell’accordo commerciale di partenariato transpacifico nel 2017, ci sono poche possibilità che gli esportatori asiatici ottengano un maggiore accesso al mercato americano”. Questa integrazione lega profondamente la Cina e i paesi che guardano con favore al suo piano per un nuovo ordine multipolare, ai più fedeli alleati di Washington.

“Uno studio condotto dalla Banca asiatica di sviluppo nel 2021 ha concluso che le economie asiatiche sono ora più esposte alle ricadute degli shock economici dalla Cina piuttosto che dall’America”; tradotto: gli alleati USA subiscono più danni se va male l’economia cinese che non se va male quella USA.
Questo fenomeno, nonostante la retorica sul decoupling, mano a mano che la Cina crescerà economicamente, non farà che aumentare e nonostante l’imponente propaganda degli ultimi mesi, la potenza economica cinese continuerà a crescere, mentre quella occidentale continuerà a stagnare, nonostante la guerra tecnologica.

Come ha sottolineato l’ottimo Kishore Mahbubani su Foreign Policy, infatti: “Gli USA non possono arrestare la crescita cinese”. “La decisione dell’America di tentare di rallentare lo sviluppo tecnologico della Cina”, scrive Mahbubani, “non è che il solito vecchio tentativo di chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati. La Cina moderna ha dimostrato molte volte che lo sviluppo tecnologico del Paese non può essere fermato”. Mahbubani ricorda come nel 1993 l’amministrazione Clinton cercò di restringere l’accesso dei cinesi alla tecnologia per i sistemi satellitari. Oggi la Cina ha 540 satelliti in orbita, ed è una vera superpotenza del settore.

Mahbubani ricorda anche di quando gli USA nel 1999 decisero di restringere l’accesso dei cinesi ai dati geospaziali del sistema GPS. Oggi il sistema BeiDou Global Navigation che la Cina è stata costretta a svilupparsi da sola è più avanzato di quello occidentale. Ora si gioca la partita dei microchip, ma paradossalmente potrebbe fare più male agli USA che alla Cina. La Cina, infatti, rappresenta oltre un terzo del mercato globale dei chip e senza il suo mercato le aziende USA saranno a corto di profitti da reinvestire in ricerca e sviluppo.

Che le élite che fondano la loro spropositata ricchezza siano pronte a tutto pur di non accettare il loro declino è comprensibile, ma che noi persone comuni continuiamo a farci corbellare da una manciata di analfoliberali che ci vogliono spacciare la loro feccia propagandistica per oro, invece, grida vendetta. E per vendicarci la cosa migliore che possiamo fare è costruirci un media tutto nostro che ci faccia uscire da questa bolla asfittica e anacronistica del suprematismo occidentale; per farlo, abbiamo bisogno del tuo sostegno!

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…e chi non aderisce è Volodomyr Zelensky!