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Tag: meta

ADDIO CONTRO-INFORMAZIONE!! Ecco come META vuole CENSURARE la politica dai SOCIAL

L’annuncio è stato lanciato nei giorni scorsi come se niente fosse, come se si trattasse di robetta da nulla, ma si tratta in verità di una svolta storica nel mondo dei social e della libera informazione: stando alle dichiarazioni ufficiali del capo di Instagram Adam Mosseri, Instagram, Threads e Facebook, – le piattaforme che fanno capo al gruppo Meta limiteranno fortemente la diffusione di contenuti politici sulle proprie piattaforme; non solo i post politici non compariranno più nelle sezioni Esplora e Reels e le pagine che li pubblicano non verranno più suggerite nel Feed, ma gli account che postano contenuti prevalentemente politici rischiano di essere cancellati per sempre. In questo modo, decine di migliaia di associazioni e di canali di informazione indipendente – come Ottolina Tv – rischiano di scomparire per sempre costringendo le persone ad informarsi solo attraverso i media ufficiali, nel frattempo sempre più controllati da un ristrettissimo numero di editori di regime e fondi di investimento. E le giustificazioni date da Mosseri per salvarsi la faccia e non dichiarare apertamente il proprio collaborazionismo con il potere dominante, sono state ridicole: in pratica, ha sostenuto di farlo per il nostro bene adducendo le solite motivazioni paternalistiche sulla trasparenza e sulla migliore esperienza utente; in verità, la decisione sembra soprattutto riconducibile ad una fase politica dove la realtà non fa che sbugiardare continuamente in modo plateale le narrazioni ufficiali e, per evitare la minaccia di un risveglio collettivo, bisogna sempre di più stringere i cordoni della libera circolazione delle idee.

Adam Mosseri

Fino ad oggi, la soluzione adottata delle piattaforme era – banalmente – quella del rincoglionimento di massa attraverso la promozione seriale di contenuti stupidi, alternata all’iperinformazione, che impedisce di distinguere tra dati veri e fasulli e, quindi, di mettere in fila i puntini; ciononostante, proprio a causa del divario sempre più profondo tra narrazione ufficiale e vita vissuta, nel tempo la realtà è riuscita comunque a emergere anche nelle bacheche dei social, come ad esempio sta accadendo in modo eclatante con il genocidio di Gaza. Ecco, allora, perché Meta ha deciso di tagliare la testa al toro: le piattaforme avranno esclusivamente il compito di aumentare i nostri deficit cognitivi e la politica sarà tenuta rigorosamente alla larga; d’altronde, è una vera e propria emergenza. Il 2024, infatti, per gli interessi dell’impero dei doppi standard e delle ex democrazie – ormai anche ex liberali – sarà un anno decisivo: nei prossimi mesi andranno al voto quasi 3 miliardi di persone in quasi 80 paesi e come produrre consenso per le forze politiche amiche di Washington, prima, e presentare al pubblico i risultati delle urne poi, sarà una questione di vitale importanza. Le informazioni date da Mosseri sono ancora poche e confuse e Meta deve ancora chiarire esattamente quando e in che modo questa censura mascherata verrà messa in atto, ma quel che appare sicuro è che il processo – che va avanti da anni – di restringimento degli spazi della libera informazione sta subendo una fortissima accelerata, in maniera direttamente proporzionale alla caduta del consenso popolare per i regimi neoliberisti e americanocentrici.
I liberali, con meno senso del pudore, giustificano questa ennesima torsione autoritaria con la scusa che, alla fine, parliamo di piattaforme private e che quindi hanno tutto il diritto di fare un po’ quello che vogliono, ma come spiega in modo magistrale Yannis Varoufakis nel suo libro “Tecno – feudalesimo”, i gestori di queste sono gestori di un monopolio naturale, di una tecnologia pubblica; sostenere che ci possano fare cosa vogliono è un po’ come dire che quando una multinazionale gestisce la nostra rete idrica, ha – in fondo – tutto il diritto di metterci dentro anche il cianuro: insomma, una questione che non ha veramente nulla di privato e che ha, invece, molto a che fare con la trasformazione sempre più rapida delle società occidentali in una sorta di regimi oligarchici neo – feudali. Nella puntata di oggi approfondiremo le parole di Mosseri, cercheremo di capire tutte le conseguenze che questa nuova forma di censura 2.0 potrà avere sulle nostre vite e di come tutto questo si colleghi ai caratteri del nuovo capitalismo tecnofeudale descritto da Varoufakis.
Meta sta soffocando le voci a sostegno dei palestinesi di Gaza, in un momento in cui subiscono sofferenze indicibili e avrebbero più bisogno del sostegno internazionale: così dichiarava Deborah Brown, direttrice associata per il settore Tecnologia e diritti umani di Human Rights Watch, a conclusione di un’indagine e di un rapporto di 51 pagine pubblicato dall’associazione, e non è certo la prima volta che le piattaforme vengono accusate di censura sistematica e collaborazionismo con l’agenda politica dei più potenti tra i gruppi di potere americani. Da dieci anni, ormai, i social sono nell’occhio del ciclone per l’influenza diretta o indiretta che esercitano sulla politica; Facebook, in particolare, ha dovuto affrontare processi mediatici – e non solo – riguardo alla profilazione degli utenti, agli algoritmi che favorirebbero la disinformazione, all’hate speech, alle cosiddette filter bubbles e alla censura intenzionale dell’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, bandito per due anni dalle piattaforme di Meta: il bavaglio a Trump, in particolare, ha intensificato notevolmente le pressioni politiche su Zuckerberg e compagni, accusati di indebita ingerenza sui meccanismi democratici. Insomma: da una parte la politica occidentale diventa sempre più insofferente alla libertà di espressione e informazione e si inventa parole come Hate speech, Fake news e incitamento all’odio e al terrorismo per limitarla il più possibile, dall’altra i proprietari dei social network si sono stancati di resistere a tutte queste pressioni dall’alto e, visto l’annuncio di Mosseri degli scorsi giorni, pur di evitare altri scandali e tagliare la testa al toro hanno preferito semplicemente chiudere gli spazi di discussione, lasciandoci la libertà di vedere 1000 reel al giorno di gente che si tuffa dagli scogli o di vecchi che giocano a paddle, ma non quella di farci una libera opinione su quello che riguarda le nostre vite e il nostro futuro.

Mark Zuckerberg

Pur essendo piattaforme private, anche in Italia i social network hanno assunto un ruolo pubblico fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica; dopo la televisione, per il 42% degli italiani i social sono la fonte primaria di informazione: tra questi, Facebook e Instagram risultano le due fonti preferite, rispettivamente, per il 44% e il 20% degli utenti: questi dati, da soli, danno la misura dell’importanza di Meta nella produzione del consenso e dovrebbero scoraggiare ogni tentativo di minimizzare la portata del mutamento in atto. Mosseri ha tentato di gettare acqua sul fuoco assicurando che i post politici verranno comunque mostrati sul Feed degli utenti che già seguono la pagina, ma questo non è molto rassicurante: quel che Mosseri dimentica di dire, infatti, è che già oggi l’utente medio si perde il 70% dei contenuti del Feed, ovvero i contenuti pubblicati dagli account che segue; ciò significa che una pagina politica, probabilmente, non riuscirà a raggiungere i propri follower neanche lì. Come scrive Laurent Ferrante in un articolo de La Fionda “Considerato che l’algoritmo di Instagram cerca attivamente di distogliere gli utenti dal proprio Feed – suggerendo contenuti ad alto potenziale di distrazione cuciti sui nostri gusti personali – e che la maggior parte di queste esche sono Reel che portano dritti alla sezione interdetta alla politica, il quadro si fa decisamente tetro.” Non è ancora chiaro, poi, se verranno bersagliati i singoli contenuti o gli account e se ci sarà un certo numero di contenuti “politici” tollerati prima di censurare un intero profilo; certo, Meta avrà buon gioco a dire che a nessuno viene impedito di pubblicare nulla, ma questo è vero solo perché la censura non si abbatte sul messaggio, quanto sulla sua distribuzione: insomma, su Facebook e Instagram potrai sempre dire ciò che vuoi purché nessuno ti senta, e a subire tutto questo saranno, come sempre, le realtà più deboli e con meno intrecci con il potere, perché se è vero che anche la sorte dei giornali tradizionali e politici di professione sulle piattaforme potrebbe essere segnata, si apre – in verità – l’inquietante ma più che verosimile scenario che costoro, pagando magari decine di migliaia di euro per comprarsi account esclusivi, supereranno il blocco.
Quello che è sicuro è che ad essere colpite a morte saranno le centinaia di migliaia di pagine di attivisti, associazioni e canali di informazione indipendenti come il nostro che, non avendo il culo parato e altri spazi di visibilità, semplicemente rischiano di scomparire: “I social non sono solo una porta di accesso all’informazione” scrive Ferrante “ma un luogo in cui i movimenti di opinione si formano, crescono e tentano di raggiungere la massa critica. Uno spazio che senz’altro non è mai stato completamente libero ma che offriva ancora notevoli opportunità di aggregazione e costruzione del consenso dal basso. Un’opportunità vitale per tutti i movimenti militanti e contro – culturali che tentano di sfidare il pensiero unico dominante, come anche per i piccoli partiti ignorati dalla stampa.” E, paradosso dei paradossi, dietro la maschera sempre inclusive e friendly che presenta al pubblico, Meta sta infatti compiendo un’operazione che non potrebbe essere più politica, ossia decidere sulla base di parole e argomenti cosa è politico e cosa non lo è, ciò che si può dire e ciò che non si può dire, chi ha diritto di parlare di un tema e chi invece no; il tutto, ovviamente, riflette Ferrante, da quella prospettiva tecnocratica – e quindi falsamente neutrale – che tanto bene abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni. Attualizzando, possiamo già immaginarci una roba tipo: post di commemorazione delle vittime del 7 ottobre va bene perché non è politica; attivista ONU che parla delle migliaia di bambini palestinesi morti sotto le bombe non va bene perché è politica; la moglie di Navalnij che piange il marito morto e chiede giustizia non è politica; Human’s Rights Watch che si lamenta delle condizioni di Assange in carcere è politica.
Abbiamo come l’impressione che i casi di ipocrisia e doppi standard occidentali potrebbero subire una tale impennata che persino Carlo Calenda potrebbe decidersi ad aderire alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV, anche perché sia chiaro: una definizione univoca di cosa sia politica e cosa non lo è non esiste e non è mai esistita. Anzi, è da più di 3 mila anni che l’umanità – con i suoi più grandi filosofi e scienziati – la sta cercando senza successo, ma Adam Mosseri, Head in chief di Instagram, ha sostanzialmente dichiarato di aver sciolto questo enigma. E se è vero che, in linea teorica, si tratta di aziende private che possono legittimamente decidere a quali contenuti dare priorità, è anche vero che oggi una manciata di attori privati controlla le vie di accesso alle informazioni online di miliardi di persone esercitando un potere di influenza enorme sulla libertà di espressione e di informazione; questa situazione è stata finalmente riconosciuta dall’Unione Europea con l’approvazione nel 2022 e l’applicazione nel 2024 di due regolamenti: il Digital Services Act e il Digital Markets Act, che inquadrano le responsabilità pubbliche delle piattaforme online; Meta, Google, Apple, TikTok, Microsoft e Amazon sono stati riconosciuti come gatekeeper, ovvero custodi delle chiavi delle attività online e, come tali, sono stati costretti ad assicurare una serie di servizi/diritti ai propri utenti, tra cui “il diritto alla libertà di espressione e di informazione”. Come scrive Ferrante: “All’interno di questo quadro giuridico, non sarebbe impensabile immaginare un intervento degli Stati o delle istituzioni europee per impedire ai gatekeeper di comprimere la libertà di espressione e di informazione e la libertà dei media e il loro pluralismo”, ma è molto più probabile che, in ossequio alla proverbiale ipocrisia e servilismo delle istituzioni europee, ad essere tutelate saranno solo le posizioni politiche collaborazioniste con l’occupante americano e, in generale, amiche dello status quo.
Il tecnofeudalesimo di cui parla Varoufakis, insomma – e che approfondiremo sicuramente in un video a parte – è già realtà: sempre meno proprietari di spazi digitali, sempre più ricchi, che governano insieme al governo di turno una plebe sempre meno informata, povera, rincoglionita e priva di potere politico; il potere tecnofeudale a guida americana vorrebbe farci scomparire e la censura 2.0 potrebbe presto abbattersi (più di quanto già non faccia) sulla nostra pagina e su tutti i nostri contenuti. Per sopravvivere, abbiamo bisogno del tuo aiuto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Adam Mosseri

META ha davvero deciso di CENSURARE TUTTO? ft Laurent FERRANTE | Live martedì 20 febbraio ore 13.30

Meta ha deciso di dare un taglio drastico ai contenuti politici (salvo poi ritrovarci le bacheche inondate di spot partitici durante le campagne elettorali…). Non è una novità: sia noi che altri media indipendenti hanno visto crollare il numero di utenti raggiunti sulle piattaforme social più conosciute ed utilizzate.

Meta si giustifica con nuove politiche di engagement, di distribuzione dei contenuti e rispetto di linee guida. Ma davvero possiamo considerare le piattaforme social sono un’affare “privato”? Ne parliamo martedì 20 febbraio alle 13.30 con Laurent Ferrante de “La fionda”.

BEN NORTON: ecco perché dobbiamo NAZIONALIZZARE le PIATTAFORME digitali

Fermi tutti! Fermi tutti che qui c’abbiamo un altro bel carico da 11: dopo l’intervista a Michael Hudson, rilanciamo con un altro mostro sacro della guerra culturale contro l’imperialismo neoliberista; per la prima volta in assoluto dell’internetsfera italoparlante – almeno che io sappia – Ottolina Tv è orgogliosa di presentarvi un piccolo estratto della lunga intervista che abbiamo registrato ieri con il mitico Ben Norton, il caporedattore di Geopolitical Economy Review, in assoluto tra i nostri canali Youtube preferiti e continua fonte di ispirazione.

Ben Norton

Con Ben abbiamo provato ad approfondire alcuni degli spunti principali che erano già emersi nell’intervista a Michael Hudson: in una parola, il superimperialismo delle oligarchie finanziarie USA e il suo lungo, tortuoso, contraddittorio, ma inesorabile declino. Come ci ripete da anni Emiliano Brancaccio – alla faccia delle leggende metropolitane sull’azionariato diffuso e vaccate simili – l’80% dei titoli azionari del pianeta sono detenuti dal 2% degli investitori – della serie quando parliamo del 99 contro l’1%, pecchiamo di ottimismo. E questo è il primo tassellino; ma l’edificio dell’imperialismo oligarchico di tassellini ce n’ha anche altri: un altro, fondamentale, è che questi titoli azionari, fondamentalmente, stanno tutti negli USA. La capitalizzazione complessiva di Piazza Affari, la borsa italiana, pesa per meno del 30% del PIL italiano; Francoforte per meno del 50% del PIL tedesco; Wall Street, invece, quasi il doppio del PIL USA: oltre 50 mila miliardi, quanto le borse di tutto il resto del pianeta messe assieme. Ma non è ancora finita, perché uno potrebbe anche dire eh, vabbeh, è regolato meglio, è più efficiente, si quotano tutti lì che, per carità, è anche vero, senonché questa retorica meritocratica da bambacioni analfoliberali fa a cazzotti con un altro dato abbastanza impressionante: a Wall Street, infatti, in tutto sono quotate 2800 aziende – meno di 6 volte quelle quotate a Francoforte o a Piazza Affari – mentre il rapporto tra la capitalizzazione complessiva di Piazza Affari e quella di Wall Street è 1 a 100; significa che, in media, un’azienda quotata a Wall Street ha 30 volte i capitali di una quotata a Piazza Affari. Ma c’è un altro dato impressionante, perché i primi 7 titoli per capitalizzazione a Wall Street, da soli, pesano poco meno di un terzo di tutto il mercato; i primi 7 titoli in Italia pesano per meno – assai meno – di un decimo del totale e per arrivare a un terzo della capitalizzazione totale devi mettere assieme oltre 50 aziende quotate, il 10% del totale. Non so se è chiaro questo dato: per arrivare a un terzo della capitalizzazione della borsa italiana, devi sommare la capitalizzazione di 50 aziende su 430 totali; negli USA basta sommarne 7 su 2800 totali. Queste 7 aziende da sole capitalizzano, appunto, qualcosa come 15 mila miliardi: 30 volte tutta Piazza Affari, ma anche 7 volte tutta Francoforte e 5 volte tutta Parigi, alla faccia della democrazia e della classe media.
L’intero capitalismo globale, in soldoni, ruota attorno alle azioni di 7 aziende; ma cosa faranno mai di così prezioso queste 7 aziende? Hanno il monopolio dell’era digitale e del capitalismo delle piattaforme: Alphabet, Meta, Amazon, Microsoft: come dice Norton, forniscono servizi pubblici essenziali, come l’elettricità e l’acqua. Quando il capitalismo industriale puntava alla crescita della produttività, questi monopoli naturali venivano nazionalizzati; la logica ce l’ha spiegata perfettamente Michael Hudson: l’obiettivo era abbassare i costi della produzione e mettere l’intera economia in condizione di funzionare nel modo più efficiente possibile riducendo al minimo i costi, e quindi impedendo alle oligarchie di fregarsi una rendita garantita sulla pelle di tutto il resto della società. Al netto di tutte le contraddizioni, potremmo dire bei tempi; ora, invece, l’intero capitalismo globale si fonda – appunto – sulla speculazione che viene fatta sui pezzi di carta abbinati a questa estrazione di una rendita gigantesca. Varoufakis lo chiama tecnofeudalesimo ed è quel sistema che, dice Varoufakis, ha ucciso il capitalismo e che, rispetto al feudalesimo original, c’ha pure un’aggravante in più perché, almeno all’epoca, ognuno faceva il feudatario a casa sua. C’era già un po’ più di pluralismo, diciamo; adesso i feudatari impongono la loro dittatura sull’intero pianeta. Non era mai successo prima: anche quando si era affermato il capitalismo – prima che arrivasse la democrazia moderna e i monopoli naturali venissero nazionalizzati – i monopoli capitalistici privati si appropriavano con la violenza di una rendita, ma solo a casa loro. Ognuno a casina sua. Ora ci sono i monopolisti privati che si appropriano di un monopolio naturale su tutto il pianeta, o almeno in quella parte di pianeta che ha deciso di rinunciare alla sua sovranità: ed è proprio qui che inizia il bello.

V’è venuta la voglia di sentirla tutta, eh? Apposta facciamo così: abbiamo imparato dai padroni del tecnofeudalesimo coi quali siamo in combutta; per vedere l’intervista integrale, infatti, non dovete fare altro che visitate il nostro canale Youtube in inglese. Ne vale la pena. Ben Norton ci ha aiutato, infatti, a tradurre questa analisi in qualcosa di estremamente concreto: ci ha raccontato di come in Cina quest’appropriazione privata dei monopoli naturali viene contrastata ogni giorno dal Partito Comunista al governo e di come questo renda l’intero sistema enormemente più efficiente. Liberata dalle rendite degli oligarchi, la Cina – infatti – è diventata l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta, in grado di generare più ricchezza di sostanzialmente tutto il resto del mondo messo assieme, e ci ha anche raccontato di come, ispirandosi ai successi cinesi, sia piuttosto chiaro quello che anche noi in Occidente potremmo e dovremmo fare per rompere questo girone infernale: nazionalizzare le piattaforme e mettere fine al tecnofeudalesimo, una parola d’ordine concreta che, per essere portata avanti in modo efficace, ha bisogno di una battaglia culturale a tutto tondo. Per portarla avanti, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che non abbocchi alle vaccate della propaganda delle oligarchie e che metta al centro gli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Jeff Bezos

I nuovi Hitler: o come compiere un massacro ergendosi a paladini dell’Umanità

Negli ultimi anni, in caso di conflitto tra l’occidente americano e i suoi nemici sono emerse due tecniche fondamentali di manipolazione mediatica: la censura qualificata e la reductio ad Hitlerum

Joe Biden: “siamo dalla parte di Israele per annientare i nemici della democrazia”.

Ci risiamo. Il copione è sempre lo stesso.

Un giorno ci svegliamo, scopriamo che dei cattivi hanno attaccato in maniera ingiustificata il mondo libero, viene dichiarata l’impossibilità di avviare trattative in quanto ad essere in gioco sono i valori dell’occidente e della democrazia, e infine assistiamo gaudenti alla distruzione totale dell’avversario.
La fase storica che stiamo vivendo è caratterizzata da una profonda crisi, forse terminale, dell’impero americano.
Ma con l’indebolirsi della presa USA sul mondo, i suoi i processi di controllo sull’informazione hanno subito un’accelerazione, e la propaganda si fa sempre più capillare e stingente.
Negli ultimi anni, in caso di conflitto tra l’occidente americano e i suoi nemici sono emerse due tecniche fondamentali di manipolazione mediatica: la prima è la censura qualificata, fondata sul controllo e sulla selezione dei flussi di opinione pubblica. La seconda è quella che con il filosofo tedesco Leo Strauss possiamo chiamare la reductio ad Hitlerum: tutti i nemici politici occidentali vengono identificati come nuovi Hitler, in modo da squalificarli ontologicamente, impedire ogni forma di diplomazia, e giustificare preventivamente ogni crimine e mezzo di distruzione che verrà perpetrato nei loro confronti. Purtroppo, chi ci rimette di più in questa guerra alla ragione e al pensiero critico siamo proprio noi europei, che assisteremo succubi e impotenti alla destabilizzazione del mondo intorno a noi e ad un un’ulteriore restrizione delle nostre libertà democratiche.

Scrive il professore di Filosofia morale Andrea Zhok: “Essendo i paesi del blocco di alleanze americano tutte liberaldemocrazie, il problema del controllo dell’opinione pubblica è centrale. Si è avviata così una fondamentale battaglia per le anime delle popolazioni occidentali, e questa battaglia ha il suo epicentro non in America, ma in Europa, dove la tradizione di una cultura critica e plurale era assai più vigorosa che negli USA”. Naturalmente, questa battaglia non avviene più attraverso i metodi di eliminazione fisica o di censura sistematica visti un secolo fa; oggi si possono infatti manipolare, censurare e filtrare selettivamente le informazioni per il tempo sufficiente a creare un certo effetto irreversibile.

Per comprendere questo processo possiamo tranquillamente guardare a quanto successo in Italia durante queste due settimane di guerra calda della lotta indipendenza palestinese. Sono state demonizzate e accusate di connivenza con il terrorismo tutte le manifestazioni pro-Palestina. La trasmissione di Fabio Fazio, punto di riferimento dei progrediti italiani, ha deciso di non ospitare più Patrick Zaki dopo che questo aveva espresso la sua pessima considerazione del governo israeliano. L’ebreo Moni Ovadia, da sempre critico contro le politiche imperialiste israeliane, è stato praticamente accusato di antisemitismo e invitato a lasciare il posto di direttore del teatro comunale di Ferrara.
Nel mentre, i manganellatori dell’informazione di Repubblica e del Corriere della Sera, hanno lanciato strali e organizzato agguati mediatici contro la povera ambasciatrice Elena Basile, rea di aver espresso semplicemente la sua opinione frutto di anni di lavoro diplomatico.

Fortunatamente però, a difendere il pluralismo e la libertà di espressione ci sono sempre le istituzioni europee. Con l’inizio dei bombardamenti israeliani su Gaza, l’UE ha infatti chiesto a META di rimuovere dalle loro piattaforme tutti i contenuti ritenuti “disinformazione”, pena sanzioni fino al 6% del fatturato mondiale, e il commissario europeo Thierry Breton è intervenuto ufficialmente presso Elon Musk per sollecitare interventi di controllo e censura sulle “fake news”. Possiamo solo rabbrividire all’idea di cosa intendano i mozzi di Washington con i termini “fake news” e “disinformazione”. La reductio ad Hitlerum, invece, funziona pressappoco così: ogni volta che scoppia un conflitto, il nemico dell’occidente americano viene immediatamente bollato come nuovo Hitler, e da semplice antagonista degli interessi strategici americani si trasforma in minaccia esistenziale per la democrazia e per i valori dell’ occidentale: lo abbiamo visto con Milosevic, Saddam Hussein, Putin e adesso con Hamas, definita organizzazione terroristica e paragonata a più riprese ai nazisti.
È quanto emerge esemplarmente dall’articolo di Roger Abravanel pubblicato in questi giorni sul Corriere: “Non si tratta” scrive “di una lotta politica per liberare un Paese occupato ma di una lotta contro la civiltà occidentale e Israele è solo il primo passo di questa lotta. I terroristi non gridavano «morte a Israele», ma «morte agli ebrei» (di tutto il mondo) e il passo successivo è già in atto: portare il califfato ovunque, anche in quella Europa cristiana che però continua a finanziare Hamas-Isis, illudendosi che questi fondi arrivino alla popolazione palestinese. Gli attentati terroristici in Francia e in Belgio di questi giorni sono una prova che la guerra non è contro gli israeliani e gli ebrei, ma contro il mondo occidentale”. La lotta di indipendenza palestinese quindi, non è come pensano gli sciocchi un conflitto regionale legato ad una disputa di territori ed interessi strategici. No, è una dichiarazione di guerra totale a tutto l’occidente.
Questo spaventoso artificio retorico non è solo un modo per compattare internamente la società prospettando una sorta di nuova invasione barbarica, ma soprattutto per squalificare ontologicamente il nemico così da giustificare preventivamente tutte le atrocità che verranno commesse per sconfiggerlo.
“Dichiaro il blocco totale della Striscia” ha dichiarato infatti il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant quando è cominciato il massacro di Gaza. “Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto sarà tagliato fuori. Siamo in guerra con dei subumani e agiamo di conseguenza”. Ci stanno dicendo; visto che non abbiamo a che fare con degli uomini, ma con neo-sub-umani neonazisti odiatori del bene e dell’umanità, e quindi tutto è lecito, e tutte le morti civili che faremo in questa guerra saranno giustificate, come giustificate furono durante la seconda guerra mondiale la distruzione di Dresda e le bombe atomiche americane sganciate sui civili giapponesi.
È sostanzialmente questo il ragionamento anche del giornalista del corriere Jacopo Iacoboni, che in un tweet del 10 ottobre, esprimendosi sul massacro di Gaza dimostra una straordinaria padronanza della reductio ad Hitlerum: “Era giusto colpire di fatto tutti i tedeschi, per colpa dei crimini commessi dalla cricca nazista?” Si chiede Jacoboni “Certamente no, ma nelle fasi finali della guerra questa distinzione finì per sfumare, perché bisognava distruggere i nazisti e impedire che continuassero a fare del male all’umanità”. Ma oltre alla manipolazione e all’amore per il napalm, anche l’ipocrisia dell’occidente americano non sembra conoscere limiti. In questi giorni infatti, leggiamo un po’ ovunque sia nei giornali dei suprematisti che in quelli dei progrediti, un altro argomento utilizzato in questi anni per legittimare i bombardamenti occidentali dei propri nemici: “il benessere futuro dei palestinesi di Gaza”, scrive sempre l’oplita della libertà Roger Abravanel sul Corriere, “dipende dall’annientamento di Hamas da parte di Israele e coloro ai quali esso sta a cuore debbono appoggiarlo”.
Insomma, così come nel 2003 il vero nemico degli iracheni non erano gli americani, ma Saddam Houssein, e l’America come è noto distrusse il loro paese per salvarli da se stessi, in questi giorni scopriamo che il vero nemico dei palestinesi non sono gli israeliani, ma Hamas, cioè i palestinesi stessi, e che i massacri compiuti dagli Israele sono mossi dall’amore per la popolazione di Gaza. Come diceva Gaber l’occidente americano non fa mai la guerra per prendere, ma solo per dare, perché è generoso. E se anche tu ti auguri che l’italia e l’europa possano prima o poi svegliarsi da questo sonno della ragione e ricominciare a rispettare la propria storia e i propri principi, aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolinatv su pay pal e gofoundme, e aiutaci a costruire un media libero e indipendente che contrasti la propaganda.

E chi non aderisce, è Jacopo Jacoboni.