Puntata speciale con Giuliano, Gabri e Ale che si confrontano sui temi politici fondamentali della settimana. La Le Pen sta lisciando il pelo alle oligarchie USA al fine di farsi eleggere in Francia e governare senza inciampi. Il mercato immobiliare statunitense dimostra la nascita di una nuova bolla che potrebbe creare una dialettica conflittuale all’interno delle oligarchie USA. Nel frattempo, Vietnam, Malesia e Thailandia non sembrano più disposti a giocare il ruolo di burattini degli Stati Uniti.
Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!
Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!
Si avvicinano le elezioni europee. E Leonardo Mellace (Università di Catanzaro) in questa intervista dimostra come i principali trattati Ue, a partire da Maastricht, sono trattati neoliberisti. E cioè trattati che disegnano una Comunità europea fondata sul primato del mercato capitalista sulla politica e sul lavoro. In contrasto con la nostra Costituzione, l’Italia è stata per questo costretta in questi anni a ridurre il proprio stato sociale e limitare ancora di più la propria sovranità. Cosa possiamo fare oggi per abbattere questo potere?
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“Mentre leggete questo articolo, il sistema commerciale globale si sta disintegrando” titola l’Economist; depositario da sempre dei dogmi religiosi più oltranzisti della globalizzazione neoliberista, almeno ha il merito di dimostrare una certa coerenza. L’annuncio di Rimbambiden, martedì scorso, di un aumento stratosferico dei dazi su una serie infinita di prodotti cinesi segna definitivamente la fine di un’epoca, una vera e propria bomba atomica lanciata contro le colonne portanti dell’ordine economico mondiale che ha regolato le nostre vite negli ultimi 40 anni; i dazi, infatti, rappresentano la negazione per eccellenza del cosiddetto Washington Consensus, l’insieme di 10 regole create a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie euroatlantiche e che Washington ha imposto al resto del mondo anche attraverso colpi di Stato, rivoluzioni colorate e tante tante bombe umanitarie e che, appunto, nella formulazione originale che nel 1989 ne ha fatto l’economista angloamericano John Williamson, prevedono la liberalizzazione del commercio con l’eliminazione di ogni restrizione quantitativa e il crollo, appunto, delle tariffe. Ma per chi trova questi temi un po’ astratti e poco intuitivi, tranquilli: ce n’è anche per voi perché questo terremoto non può che avere anche enormi ripercussioni di carattere politico e istituzionale; al contrario di quanto sostengono gli analfoliberali, infatti, la forma specifica delle nostre istituzioni politiche – le cosiddette democrazie liberali in nome delle quali l’Occidente collettivo si è arrogato il diritto di sanzionare (se non addirittura di bombardare) mezzo pianeta – non si fonda ovviamente su particolari principi o valori (che sono solo fuffa per i poveri di intelletto), ma sul fatto che sono la forma istituzionale più adeguata proprio ai dettami neoliberisti del Washington Consensus. Con la scusa dell’inviolabilità delle libertà individuali e della divisione dei poteri, infatti, le democrazie liberali, che hanno sostituito gradualmente, senza fare troppo rumore, le democrazie costituzionali moderne – che erano nate dopo due guerre mondiali proprio per eliminare le cause profonde che avevano portato ai conflitti imperialistici e all’affermazione del nazifascismo – impediscono ogni forma di concentrazione del potere alternativa a quella del grande capitale privato trasformando lo Stato in un semplice comitato d’affari al servizio degli interessi egoistici delle oligarchie. Anche la famosa democrazia dell’alternanza, a ben vedere, ha sostanzialmente questa finalità: ridurre le elezioni a un televoto tra due fazioni, divise su temi di facciata, di un partito unico degli affari e della guerra la cui agenda fondamentale è dettata, appunto, da oligarchie inamovibili; con la fine dell’ordine economico neoliberale sancita dal ritorno del protezionismo, quindi, è del tutto inevitabile che anche la sua incarnazione istituzionale sia destinata a subire la stessa sorte (e molto più rapidamente di quanto possiate immaginare).
Lo ha anticipato, in modo cristallino, nientepopodimeno che il presidente del consiglio europeo di persona personalmente, l’universalmente odiatissimo Charles Michel che, nonostante l’appartenenza alla famiglia cosiddetta progressista, ha deciso di buttare alle ortiche un antico tabù: “Nei partiti che vengono definiti di estrema destra” ha dichiarato “vi sono personalità con cui si può collaborare”; l’importante è che siano “pronti a collaborare per sostenere l’Ucraina e a rendere l’Ue più forte”. Che, tradotto, significa che siano schierati dalla parte giusta nella guerra che l’imperialismo ha dichiarato ai paesi sovrani di tutto il mondo e che siano pronti a demolire quel poco di democrazia che è rimasta a livello di Stati nazionali per trasferire tutto il potere in un’istituzione post democratica come l’Unione europea. D’altronde, non è certo una novità: liberali e fascisti sono sempre andati a braccetto, da quando Benedetto Croce e Luigi Einaudi salutavano con entusiasmo l’arrivo di un Duce in grado di reprimere nel sangue le intemperanze delle classi lavoratrici, che rischiavano di importare anche in Italia il morbo della rivolta antimperialista che aveva travolto la Russia; anche se non c’è più l’Unione Sovietica, stringi stringi, la dinamica è esattamente la stessa. Ma prima di provare a capire nel dettaglio perché la svolta protezionista di Rimbambiden comporta la morte dell’ordine economico mondiale e delle democrazie liberali, vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro un’altra dittatura (quella degli algoritmi) e, se non l’avete fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali social e ad attivare tutte le notifiche: a voi non costa niente, ma per noi può fare la differenza. Da oltre 30 anni, il culto del mercato e del libero scambio è l’unica vera religione civile rimasta in tutto l’Occidente collettivo e, come ogni religione, ha comportato le sue guerre in nome dell’evangelizzazione di ogni genere: in nome dell’imposizione del binomio liberalizzazione del commercio/istituzioni liberali si sono strozzati paesi nel debito, imposte sanzioni di ogni genere, architettato colpi di Stato e, quando ancora non bastava, pure raso al suolo interi paesi, fino a che qualcosa non è cominciato a cambiare. Una prima avvisaglia è arrivata con la prima amministrazione Trump durante la quale ci fu un primo ricorso al caro vecchio strumento delle barriere tariffarie, proprio nel paese che, più di ogni altro, si era fino ad allora speso per impedirle in tutto il resto del mondo; una contraddizione che venne fortemente denunciata anche dall’opposizione democratica e dallo stesso Rimbambiden, che proprio sulle parole d’ordine del dogma liberoscambista ha incentrato una bella fetta della sua prima campagna elettorale. Una volta salito al potere, però, la retorica ha fatto spazio alla realpolitik: le sanzioni sono rimaste tutte dov’erano e ora, alla vigilia di un’altra campagna elettorale infuocata, si rilancia con proporzioni assolutamente inedite e inaspettate. Il tema del momento, ovviamente, sono le auto elettriche, per le quali i dazi passeranno dal 25 al 100% – come aveva già minacciato Trump nelle settimane scorse a più riprese; ma è solo la punta dell’iceberg: i dazi su tutti i tipi di batterie, dal 7,5%, saranno innalzati al 25, come per la grafite e le terre rare che, fino ad oggi, pagavano zero. Da zero a 25 anche le gigantesche gru utilizzate nei porti; per le celle solari, che pagavano già il 25, si passerà al 50. Stessa cosa per i semiconduttori; per alluminio e acciaio, invece, l’aumento sarà più contenuto, dal 7,5 al 25. Ovviamente il valore complessivo attuale dell’interscambio delle merci coinvolte, in realtà non è granché (circa 18 miliardi di dollari) e, ovviamente, si tratta di una manovra dal chiaro sapore elettoralistico, tant’è che i cinesi, grossomodo, li stanno perculando: “Un tipico atto di bullismo” l’ha definito il ministro degli esteri cinesi Wang Yi che, sostiene, ha “messo in luce la mancanza di fiducia piuttosto che la forza di Washington” e che, sottolinea, “non fermerà lo sviluppo della Cina, ma al contrario ispirerà 1,4 miliardi di cinesi a lavorare di più”; ma, nonostante gli effetti immediati sull’ascesa cinese e sull’economia americana siano piuttosto limitati, si tratta comunque di una svolta storica che indica chiaramente la strada che è stata irrevocabilmente intrapresa. La domanda è: perché? Perché, nonostante le cifre – tutto sommato contenute – in ballo, si è deciso di minare definitivamente le fondamenta stesse della religione civile sulla quale è stato costruito l’unipolarismo USA che ha dominato negli ultimi 40 anni? Cos’è cambiato? Per capirlo è necessario fare un piccolo riassuntino delle puntate precedenti e provare a capire perché il mito del libero scambio, negli ultimi decenni, ha rappresentato la pietra miliare del sistema economico mondiale che le oligarchie USA hanno costruito a loro immagine e somiglianza. Secondo i dogmi liberisti, il libero scambio tra due paesi rappresenterebbe uno stimolo incredibile allo sviluppo e alla crescita: da un lato, infatti, permetterebbe a tutti i paesi coinvolti di avere accesso alle merci competitive e, dall’altro, permetterebbe ai singoli paesi di specializzarsi in quei settori nei quali hanno dei vantaggi competitivi; e così, alla fine, a beneficiarne sarebbe il sistema nel suo insieme perché la mano invisibile del mercato farebbe piazza pulita di tutte le inefficienze e di tutto quello che sta in piedi esclusivamente per valutazioni che con la gestione efficiente delle risorse non hanno niente a che vedere. E intendiamoci: questo assunto è tutt’altro che campato in aria, anzi! L’integrazione delle economie ha rappresentato spesso uno straordinario impulso allo sviluppo e alla crescita della quale tutti hanno beneficiato, ma c’è un piccolo problemino: il giochino funziona se e solo se a integrarsi sono economie – tutto sommato – abbastanza simili; non simili nel senso che producono le stesse identiche cose, ovviamente, ma simili nel senso che, complessivamente, hanno un livello comparabile di sviluppo e di diversificazione economica. Quando invece a integrarsi sono due economie a un livello molto diverso di sviluppo, quello che accade è molto semplice: la più forte diventa sempre più forte e la più debole sempre più debole; e a guadagnarci sono solo le oligarchie (che è esattamente quello che è successo con la globalizzazione neoliberista). E non è stato un incidente di percorso: nessuno sa meglio degli USA che, prima di poter trarre vantaggio dal libero scambio, l’unica strada possibile è quella di sviluppare l’industria nazionale con politiche ferocemente protezionistiche; l’hanno fatto per un secolo. Fino alla seconda guerra mondiale, per recuperare il gap che li separava dalle economie del vecchio continente gli USA hanno mantenuto un regime di dazi e tariffe astronomico: attorno al 40%; durante la globalizzazione neoliberista, le tariffe medie su scala globale sono state tenute con la forza sotto al 3. E quello statunitense non è certo un caso isolato: prima di loro, anche la Gran Bretagna aveva fatto altrettanto, adottando tariffe – di nuovo – nell’ordine del 40% fino a quando non si è garantita un vantaggio competitivo nei confronti del resto del mondo; dopodiché, di punto in bianco, come per magia ecco che le tariffe spariscono – come spariscono manu militari in tutti i paesi dove l’impero britannico era in grado di dettare legge. Quindi, in soldoni, la globalizzazione neoliberista è consistita, appunto, nell’imporre la religione liberoscambista riassunta nei 10 punti del Washington Consensusa tutto il resto del mondo, sicuri che – visto che si partiva da una posizione di vantaggio competitivo – questo non avrebbe fatto altro che aumentare il divario con gli altri paesi; che è, fondamentalmente, anche il motivo per cui erano convintissimi che avrebbero potuto investire quanto volevano in Cina senza che per questo la Cina potesse ambire a diventare un competitor in grado di mettere in discussione la loro egemonia. Avevano fatto i conti senza l’oste: in quanto paese sovrano e (per quanto agli analfoliberali questa sembri una bestemmia) democratico, la Cina non ha mai visto negli investimenti esteri, fondamentalmente, un’opportunità per le sue oligarchie di arricchirsi a dismisura ed entrare così a far parte del club esclusivo del grande capitalismo transnazionale; come molti predicano (ma in pochi fanno davvero), la Cina ha visto questi investimenti come una necessità e un’opportunità non solo, genericamente, per svilupparsi, ma anche per raggiungere una qualche forma di indipendenza tecnologica e finanziaria – e, quindi, sfuggire a quella che viene definita la middle income trap, la trappola in cui cadono i paesi imprigionati dalla logica fondante della globalizzazione neoliberista non appena superano un primo stadio di sviluppo e, da paesi arretrati e sottosviluppati, diventano paesi industrializzati (ma sempre subordinati al centro imperialistico). La globalizzazione neoliberista, infatti, in realtà fa anche cose buone, perché quando i capitali cominciano ad arrivare in un paese sottosviluppato per approfittare dei salari bassi e della sudditanza dei governi assetati di investimenti, inizialmente – in realtà – producono anche un reale sviluppo: paesi che, fino ad allora, avevano fondato la loro economia in buona parte su un’agricoltura di sussistenza a bassissima produttività, hanno l’opportunità di avviare una prima industrializzazione; ma non solo, perché per produrre in modo efficiente non basta costruire una fabbrica nel mezzo del nulla e riempirla di schiavi semianalfabeti. Bisogna liberare un po’ le forze produttive e, per farlo, servono infrastrutture – dalle strade all’energia – e, tutto sommato, servono anche un po’ di servizi sociali: un minimo di istruzione e anche un minimo di servizio sanitario. Ed ecco così che, anche nell’ambito della globalizzazione neoliberista, anche i paesi del Sud del mondo dove si sono concentrati gli investimenti per le delocalizzazioni, oggettivamente attraversano un periodo di sviluppo; certo, non privo di conseguenze, perché comunque il capitalismo non è molto previdente e, quindi, tutto quello che non è strettamente necessario nell’immediato per ottimizzare le spese non viene cacato, come – ad esempio – la tutela degli ecosistemi. Ma uno sviluppo c’è; il problema, però, è che poi, a un certo punto, inesorabilmente e magicamente si arresta e, cioè, quando si arriva al livello di sviluppo che permette a chi gerarchicamente sta in cima alla piramide di estrarre il massimo di plusvalore possibile. A quel punto, gli interessi di sviluppo del paese entrano in conflitto con quelli del centro imperiale – e delle élite compradore che hanno cooptato – e il coltello dalla parte del manico ce l’ha chi sta in cima alla piramide perché, nel frattempo, il grosso dei dividendi di questa fase di sviluppo, comunque, li ha incassati lui e li ha usati per rafforzare il suo rapporto gerarchico nei confronti dei sottoposti, aumentando sempre di più il divario tecnologico e la concentrazione dei capitali. La parabola che le oligarchie imperialiste avevano in mente per la Cina era esattamente questa: una parabola che non solo avrebbe impedito alla Cina di diventare un competitor in grado di contendere le posizioni di comando delle catene del valore globale, ma che avrebbe dovuto anche costringere la Cina a diventare un pezzo integrante dell’ordine economico neoliberale guidato da Washington e da Wall Street; l’idea, infatti, era che quell’ordine è anche negli interessi delle oligarchie cinesi, che possono continuare a estrarre valore dalla loro gigantesca economia e poi indirizzare i loro capitali laddove c’è la massima concentrazione di capitali, nella cima della piramide dove, in cambio di una rendita cospicua, sarebbero stati felici di partecipare da subordinati al grande banchetto dello schema Ponzi della speculazione finanziaria a stelle e strisce. Avevano fatto i conti senza l’oste: quello che non avevano messo in conto, infatti, è che per quanto anche la borghesia cinese si sia arricchita a dismisura, il partito non le ha mai consentito di trasformare questa ricchezza in potere politico, che è rimasto sempre saldamente nelle sue mani e l’ha usato proprio per porre le basi per non rimanere impantanato nella middle income trap; sin dal principio la Cina, infatti, ha avuto le idee piuttosto chiare su cosa era necessario fare per non diventare una colonia, nonostante l’impatto enorme dei capitali esteri e il crescente potere delle oligarchie interne. Il primo punto, ovviamente, è evitare di diventare una colonia tout court e, quindi, attrezzarsi per resistere a qualsiasi tentativo di imporre qualcosa di estraneo ai propri interessi internazionali attraverso il ricorso alla forza bruta (e su questo, sinceramente, credo nessuno – tutto sommato – si sia mai fatto troppe illusioni); il secondo è l’aspetto finanziario: mantenendo il controllo pubblico delle grandi banche – e, quindi, il controllo politico di dove vanno i soldi per fare cosa – la Cina ha impedito di consegnare il controllo della sua economia alle oligarchie che, naturalmente, hanno interesse a indirizzare i soldi dove rendono di più – e, cioè, nelle bolle speculative dirette dalle oligarchie USA e non dove serve al paese per continuare a svilupparsi. Il terzo è utilizzare lo sviluppo per diminuire il gap tecnologico, invece di vederlo aumentare come succede quando ti affidi al cosiddetto libero mercato; per fare questo, sin da subito la Cina ha posto delle condizioni molto chiare a chi voleva andare a investire in Cina: formare delle joint ventures con imprese locali, molto spesso di proprietà pubblica, in modo da garantire un trasferimento di tecnologia costante. E così, con i loro soldi e le loro tecnologie, hanno messo in piedi – giusto per fare l’esempio che oggi preoccupa di più – la filiera dell’auto elettrica, che sono tutte case nazionali che usano tecnologie nazionali e anche capitali nazionali; o quando, come nel caso di BYD (dove, tra gli azionisti, c’è la Berkshire di Warren Buffet), vedono una grossa partecipazione delle oligarchie internazionali, è comunque sempre in posizione subordinata rispetto alle borghesie nazionali che, se entrano in conflitto col partito, rischiano sempre di fare la fine di Jack Ma. E ovviamente, visto che – dopo 30 anni di deindustrializzazione negli USA e di investimenti in Cina – la Cina oggi è l’unica vera superpotenza manifatturiera mondiale che, da sola, produce circa un terzo di tutto quello che viene prodotto nel mondo, va da se che, a parte per alcuni significativi ma limitati settori specifici, i rapporti di forza si sono completamente invertiti; e, quindi, il libero scambio necessariamente favorisce la Cina e penalizza gli USA. Ed ecco così che, in men che non si dica, le fondamenta della religione civile che ci hanno imposto per decenni magicamente non contano più e possono essere gettate nel cesso e, insieme a loro, si cominciano già a vedere i primi segni della fine anche dell’involucro politico che meglio rappresentava queste profonde dinamiche materiali – e che gli analfoliberali ci spacciavano come una libera scelta dovuta a valori e principi condivisi e fortemente radicati. Insomma: l’Occidente, per come l’abbiamo conosciuto e per come c’è stato spacciato, è finito e i rapporti materiali che, sotto il velo di Maya dell’ideologia neoliberale, ne hanno sempre determinato il funzionamento, emergono in tutta la loro ferocia in superficie. Basterà per farci capire quanto ci hanno sempre preso profondamente per il culo? In buona parte dipende anche da noi e da quello che sapremo fare concretamente per approfittare di questa vera e propria incursione della verità nel mondo della post verità, a partire da un vero e proprio media che sia in grado di mettere a nudo l’ipocrisia e i doppi standard dell’imperialismo neoliberista e dia finalmente voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Laura Boldrini
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“Quello che c’è di veramente eccessivo non è la capacità produttiva cinese, ma l’ansia degli Stati Uniti”: sono queste le parole che il direttore generale del Dipartimento per gli affari nordamericani del ministero degli esteri cinese ha selezionato con cura per riassumere i contenuti della tanto attesa visita di Blinken a Pechino, a poche settimane di distanza da quella del segretario del tesoro Janet Yellen. “Il vero problema” sottolineaWarwick Powell dell’Università del Queensland su Global Times “non è la sovracapacità cinese, ma la sottocapacità occidentale”; Warwick ricorda come i numeri oggettivi facciano un po’ a cazzotti con la narrazione sulla quale l’Occidente collettivo e la sua macchina propagandistica hanno deciso di investire tutte le loro energie: ad esempio, Warwick ricorda come le esportazioni rappresentino il 13% della produzione cinese, poco superiore all’11% che rappresentavano nel 1995 (6 anni prima che la Cina entrasse nel WTO) e di gran lunga inferiori al picco del 18% raggiunto nel 2004. “Questo significa” sottolinea Warwick “che il mercato interno ha assorbito la stragrande maggioranza della crescita della produzione”; “in confronto” insiste Warwick “i settori manifatturiero tedesco e giapponese sono significativamente più dipendenti dalle esportazioni”: nel caso dell’automotive, ad esempio, che è uno dei settori più chiacchierati del momento, Warwick ricorda come la Cina, nel 2023, abbia prodotto la bellezza di oltre 30 milioni di veicoli e ne abbia esportati in tutto meno di 5 milioni, cioè circa il 16%. Il Giappone, invece, è sì sceso al secondo gradino del podio degli esportatori in numeri assoluti, ma i 4,4 milioni di veicoli che ha esportato rappresentano il 63% della sua produzione totale; in Germania l’export pesa addirittura per il 75%.
Warwick ricorda anche come l’accusa di sovracapacità è poi regolarmente accompagnata dall’accusa sulla domanda interna cinese tenuta bassa; in realtà però, sottolinea Warwick, nel 2023 “Il reddito disponibile pro capite cinese è aumentato del 6,1% in termini reali rispetto all’anno precedente, ma nello stesso periodo i consumi sono aumentati del 9%”: quindi, a differenza del Giappone e della Germania, i redditi reali crescono rapidamente e la quota dedicata ai consumi ancora di più. Insomma: le potenze industriali ferocemente mercantiliste, il cui modello di sviluppo è incompatibile con uno sviluppo equilibrato (perché mantengono artificialmente bassi redditi e mercato interno per aggredire i mercati esteri) sono altre; eppure, sottolinea Warwick sarcasticamente, “Inspiegabilmente gli USA non si sono mai lamentati della sovracapacità tedesca o giapponese”. In questo caso, poi, la gigantesca fake news sulla sovracapacità cinese è doppiamente infame perché ha come obiettivo difendere i monopoli e le oligarchie delle ex potenze coloniali sulla pelle del Sud globale: gli sherpa dell’imperialismo, infatti, accusano i cinesi di praticare prezzi troppo bassi; ora, effettivamente, i prezzi cinesi sono decisamente competitivi. E graziarcazzo: la politica industriale cinese consiste in uno sforzo gigantesco per aumentare la produttività; la non politica industriale del giardino ordinato invece, al contrario, fino ad oggi è sempre consistita nella protezione dei monopoli privati e nella loro capacità di continuare a fare profitti e scappare col malloppo senza mai investire mezzo dollaro, un lasciapassare nei confronti dell’avidità delle big corporation che ha avuto un peso particolarmente rilevante proprio nella sviluppo delle tecnologie necessarie alla transizione ecologica, anche perché – nel frattempo – evitando di investire si continuavano a riempire le casseforti degli amici petrolieri che continuano ad essere, ancora oggi, la lobby industriale di gran lunga più potente dell’Occidente. I primi che hanno solo da guadagnare dalla capacità cinese di produrre tutto quello che serve per la transizione ecologica sono invece i paesi, appunto, del Sud globale, che avrebbero così la possibilità di emanciparsi gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili a costi ragionevoli: come sottolinea Warwick “Le lamentele occidentali sono in effetti un tentativo di ostacolare l’opportunità per i paesi in via di sviluppo di accedere alle tecnologie di trasformazione a basso costo”; d’altronde, l’emancipazione dalle fonti fossili dei paesi del Sud globale per gli USA sarebbe un vero e proprio disastro. La trappola del debito nella quale l’imperialismo ha costretto il grosso dei paesi in via di sviluppo, infatti, è in gran parte dovuta proprio alla necessità di indebitarsi in dollari per importare fonti fossili e rappresenta uno degli strumenti strutturali di dominio neocoloniale più efficaci e inaggirabili: quindi, conclude Warwick, è abbastanza evidente che “Il problema non è la sovracapacità cinese, ma le potenze dominanti che vogliono mantenere il controllo su chi può svilupparsi e quando farlo”. Di fronte a rivendicazioni così platealmente infondate da parte dell’impero, la Cina, ovviamente, non poteva che rispondere picche a Blinken (come aveva già risposto alla Yellen), mentre, nel frattempo, stendeva tappeti rossi alle big corporation che che vogliono continuare ad avere accesso a un mercato interno che, evidentemente, tanto depresso non deve essere; ma allora perché i massimi funzionari USA continuano a incaponirsi così tanto e fanno la fila per andare a raccogliere l’ennesimo inevitabile due di picche a Pechino? Il primo obiettivo è provare, in qualche modo, a disincentivare l’integrazione economica e la cooperazione militare e politica con gli altri paesi che si oppongono esplicitamente al vecchio ordine unipolare: Blinken, infatti, è andato a Pechino fondamentalmente per supplicarli di non correre più in aiuto di Mosca e lo spauracchio delle accuse infondate su fantomatiche pratiche commerciali scorrette è il deterrente che hanno messo sul piatto. La progressiva integrazione economica e politica dei paesi che vengono definiti revisionisti e che, cioè, mettono in discussione l’esorbitante privilegio del dollaro e il meccanismo globale di sfruttamento su cui si fonda l’imperialismo, negli USA è diventata una vera e propria ossessione, anche perché si sono cominciati ad accorgere, negli ultimi due anni, di averla favorita. Le nuove alleanze autocratiche era il titolo di un lungo articolo del mese scorso di Foreign Affairs. L’articolo ricordava come il sistema di alleanze messo insieme dagli USA non ha precedenti: “Nessuna rete di alleanze in tempo di pace è mai stata così ampia, duratura ed efficace come quella guidata da Washington dalla seconda guerra mondiale”; in mezzo a mille affermazioni apologetiche, l’articolo fa intravedere un barlume di veridicità quando ricorda come “Le alleanze statunitensi sono asimmetriche”, con Washington che “si è fatta carico a lungo di una quota ineguale del carico militare, per evitare uno scenario in cui paesi come la Germania o il Giappone potrebbero destabilizzare le loro regioni costruendo proprie capacità di difesa a tutto spettro”, che è un modo carino e sofisticato di dire che gli USA hanno imposto ai loro alleati asimmetrici – e, cioè, subordinati – di non riarmarsi, in modo da garantire a Washington il monopolio della forza all’interno dell’alleanza e, quindi, la capacità di piegarla ai suoi obiettivi strategici – tra l’altro, facendo pagare il tutto direttamente agli alleati grazie, appunto, all’esorbitante privilegio del dollaro che impone agli altri paesi di finanziare il debito USA col quale, a loro volta, finanziano la macchina bellica. Ora, sottolinea giustamente l’articolo, l’alleanza che si sta affermando tra gli Stati canaglia dell’ordine internazionale neocoloniale creato a immagine e somiglianza degli interessi imperiali di Washington, giustamente non ha niente a che vedere con quella che l’articolo definisce la rete di alleanze degli USA e che noi, invece, definiamo l’internazionale imperialista: nel loro caso, infatti, non c’è un unico centro di dominio imperiale con i vassalli attorno, ma ci sono Stati nazione sovrani, ognuno con la sua agenda, ma anche se “I legami tra i revisionisti eurasiatici” e cioè, nello specifico, Cina, Russia, Iran e Corea del Nord “potrebbero non sembrare alleanze nel modo in cui gli americani le intendono solitamente, hanno comunque effetti simili”. La prima di queste funzioni che – letteralmente – terrorizza l’impero è che “Le alleanze revisioniste stanno rendendo le aggressioni meno costose, mitigando l’isolamento strategico che gli aggressori potrebbero altrimenti dover affrontare” che, scremato dalla neolingua della propaganda suprematista, in soldoni significa che gli stati sovrani possono oggi pensare di reagire ai soprusi dell’imperialismo senza crollare il giorno dopo perché l’impero ha imposto a tutto il resto del mondo di isolarli: “Nonostante le sanzioni occidentali e le orribili perdite militari” specifica l’articolo ad esempio “la Russia ha sostenuto la sua guerra in Ucraina grazie ai droni, ai proiettili e ai missili forniti da Teheran e Pyongyang. E l’economia del presidente russo Vladimir Putin è rimasta a galla perché la Cina ha assorbito le esportazioni russe e ha fornito a Mosca microchip e altri beni a duplice uso”. Queste capacità di sfuggire alle armi di distruzione di massa dell’imperialismo finanziario USA sono anche dovute a un elemento prettamente geopolitico: questi paesi sono un pezzo rilevante del supercontinente eurasiatico, il che significa che il monopolio della forza per il controllo dei mari (che l’imperialismo USA ha ereditato dalle sue fondamenta talassocratiche), ammesso e non concesso che sia ancora valido, può essere facilmente aggirato. D’altronde non è un caso se, da sempre, il primo obiettivo geostrategico USA è stato esattamente quello di impedire l’integrazione del supercontinente eurasiatico: provocando la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è riuscito a staccare, scaricando i costi sulle nostre spalle, la propaggine più occidentale, ma per il grosso del supercontinente – invece – non ha fatto che accelerare un processo di integrazione che, molto semplicemente, non ha gli strumenti concreti per ostacolare; e che l’accelerazione di questa integrazione sia dovuta, in buona parte, a una strategia fallimentare degli USA ormai lo denunciano in parecchi. Ne parla un altro articolo, sempre su Foreign Affairs: “Solo dieci anni fa” sottolinea “la maggior parte dei funzionari statunitensi ed europei erano sprezzanti riguardo alla durabilità del partenariato emergente tra Cina e Russia. Nelle capitali occidentali si pensava che l’ostentato riavvicinamento del Cremlino alla Cina dal 2014 fosse destinato a fallire e che non importava quanto intensamente il presidente russo Vladimir Putin tentasse di corteggiare la leadership cinese, la Cina avrebbe sempre privilegiato i suoi legami con gli Stati Uniti e i suoi alleati piuttosto rispetto alle sue relazioni simboliche con la Russia, mentre Mosca a sua volta si pensava temesse una Pechino in ascesa e avrebbe continuato a cercare un contrappeso in Occidente”, tutte riflessioni che, anche se con sfumature diverse, abbiamo fatto noi stessi più volte su questo canale; ma tutto “questo scetticismo non riesce a fare i conti con una realtà importante e triste: Cina e Russia sono oggi più saldamente allineate di quanto non lo siano mai state dagli anni ’50”. L’articolo ricorda come, nel 2022, il commercio bilaterale tra i due paesi è cresciuto del 36% raggiungendo i 190 miliardi di dollari, più dell’interscambio commerciale tra Italia e Germania; e nel 2023 è cresciuto di un altro 25% abbondante, sfondando quota 240 miliardi. Secondo Foreign Affairs, addirittura “Il consolidamento di questo allineamento tra Russia e Cina è uno dei risultati geopolitici più importanti della guerra di Putin contro l’Ucraina.”; “Certamente” sottolinea l’articolo “le relazioni sino-russe non sono prive di tensioni, e le tensioni esistenti potrebbero essere esacerbate man mano che la Cina diventa più fiduciosa ed è tentata di iniziare a comandare i russi in modo più pesante, qualcosa che nessun governante di Mosca prenderebbe alla leggera. Per ora, tuttavia, Pechino e Mosca hanno dimostrato una notevole capacità di gestire le proprie differenze”, che è il motivo per cui ogni tanto ci viene voglia di tifare Trump e le sue groupies di casa nostra. Secondo questi raffinati scienziati politici, infatti, ancora oggi la strategia USA dovrebbe essere appunto quella di Kissinger al contrario: riportare la Russia di Putin nella sfera di influenza dell’impero per poi convincerlo ad affrontare tutti insieme appassionatamente la Cina di Xi. A ringalluzzire questa prospettiva strategica piuttosto delirante c’è un approccio ultraideologico che tiene insieme l’alt right d’accatto e la sinistra delle ZTL: Putin è un fascista e quindi è pronto a tornare in Occidente se solo l’Occidente, invece che da Rimbambiden e dalla democratica illuminata Ursula von der Leyen, sarà guidato da the Donald e da Giorgia Meloni. Su La Verità c’è un articolo che più o meno ripropone questa illuminata strategia un giorno sì e l’altro pure e io, che ho una grande fiducia nell’umanità, continuo a credere che non sia un errore palese, ma una raffinata strategia dei nostri compagni di fare per accelerare il declino; purtroppo, però, gli amici della Verità sono un po’ dei fenomeni da baraccone e i think tank che contano, come il Council on foreign relations (che è l’editore di Foreign Affairs) non hanno più nessun dubbio: “Qualsiasi speranza di staccare Mosca da Pechino non è altro che un pio desiderio” sentenziano.
E presa coscienza di questo processo irreversibile e, in buona parte – appunto – accelerato dall’arroganza dell’imperialismo, ecco l’ultimo compendio, sempre su Foreign Affairs, delle conseguenza che questa alleanza rafforzata tra gli Stati canaglia avrà sulle magnifiche sorti e progressive dell’imperialismo. L’asse dello sconvolgimento è il titolo: “Come gli avversari dell’America si stanno unendo per ribaltare l’ordine globale” ; a firmarlo, Andrea Kendall-Taylor che, dal 2015 al 2018, è stato nientepopodimeno che vice segretario del Dipartimento per la Russia e l’Eurasia del Consiglio Nazionale dell’Intelligence USA. L’articolo ricorda come la Russia abbia fatto abbondante ricorso ai droni iraniani, alle munizioni nord coreane e ai rapporti commerciali con la Cina: “Troppi osservatori occidentali” sottolinea Kendall-Taylor “si sono affrettati a ignorare le implicazioni del coordinamento tra Cina, Iran, Corea del Nord e Russia. I quattro paesi hanno le loro differenze, certo, e una storia di sfiducia e di spaccature contemporanee potrebbero limitare la crescita delle loro relazioni. Tuttavia, il loro obiettivo condiviso di indebolire gli Stati Uniti e il suo ruolo di leadership costituisce un forte collante. In molti luoghi dell’Asia, dell’Europa e del Medio Oriente, le ambizioni dei membri dell’asse si sono già rivelate destabilizzanti. Gestire gli effetti dirompenti del loro ulteriore coordinamento e impedire che l’asse sconvolga il sistema globale devono ora essere obiettivi centrali della politica estera degli Stati Uniti”; “Gli ordini globali” spiega Kendall-Taylor “amplificano la forza degli stati che li guidano. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno investito nell’ordine internazionale liberale perché questo ordine riflette le preferenze americane ed estende l’influenza statunitense. E finché un ordine rimane sufficientemente vantaggioso per la maggior parte dei membri, ci sarà un gruppo ristretto di Stati lo difenderà. E anche i paesi dissenzienti, nel frattempo, saranno vincolati da un problema di azione collettiva: senza un nucleo centrale di Stati potenti attorno al quale coalizzarsi, il vantaggio rimane a favore dell’ordine esistente. Ma se dovessero disertare in massa, potrebbero riuscire a creare un ordine alternativo più di loro gradimento”. La guerra per procura in Ucraina ha accelerato proprio questa diserzione di massa e così oggi “L’asse dello sconvolgimento rappresenta un nuovo centro di gravità: un gruppo a cui possono rivolgersi altri paesi insoddisfatti dell’ordine esistente” e cioè, a vario titolo, tutti i paesi sovrani. E agli USA gli rimangono solo i cani da compagnia che però, in quanto cani da compagnia, ovviamente hanno problemi enormi di legittimità e stabilità al loro interno e anche se 40 anni di controrivoluzione neoliberista ne hanno rincoglionito le popolazioni, il rischio che prima o poi la difesa dei propri interessi concreti torni a prendere il sopravvento sulle puttanate – dai deliri sulla superiorità delle democrazie delle sinistre ZTL alle armi di distrazione di massa dell’alt right – si fa ogni giorno più consistente. Prima che sia troppo tardi allora, suggerisce Kendall-Taylor, è arrivata l’ora che l’imperialismo smetta di considerare “ogni minaccia come un fenomeno isolato”: “Washington, per esempio, non dovrebbe ignorare l’aggressione russa in Europa per concentrarsi sulla crescente potenza cinese in Asia. È già chiaro che il successo della Russia in Ucraina avvantaggia la Cina revisionista, dimostrando che è possibile, anche se costoso, contrastare uno sforzo occidentale unito. Anche se Washington considera giustamente la Cina come la sua massima priorità, per affrontare la sfida di Pechino sarà necessario competere con altri membri dell’asse in altre parti del mondo”. Tradotto: la guerra è già mondiale, i vari avversari vanno considerati un unico nemico e l’imperialismo deve diventare una forza unica diffusa su tutto il globo che, sotto l’egemonia USA, combatte contemporaneamente su tutti i fronti una guerra esistenziale; “Affrontare l’asse sarà costoso” sottolinea Kendall-Taylor: “Una nuova strategia richiederà agli Stati Uniti di rafforzare la spesa per la difesa, gli aiuti esteri, la diplomazia e le comunicazioni strategiche”, ma non sarà nemmeno lontanamente sufficiente. “Washington” sottolinea Kendall-Taylor “dovrà fare pressione sugli alleati affinché investano in capacità che gli Stati Uniti non potrebbero fornire se fossero già impegnati in un altro teatro militare”. Il timore per le potenziali conseguenze del riarmo degli alleati vassalli, che ha caratterizzato la lunga era della pax americana fino ad oggi, deve essere messo da parte; d’altronde la subordinazione finanziaria che gli USA hanno imposto agli alleati in particolare in questi ultimi 15 anni – a partire dall’inizio della terza grande depressione inaugurata con la crisi finanziaria del 2008 – servono proprio a questo: gli alleati hanno cessato di esistere come Stati nazione sovrani e la totale integrazione delle loro oligarchie con quelle USA li hanno trasformati stabilmente in emanazioni dirette del centro imperiale. Possiamo anche lasciare che si armino; tanto, fino a che non scoppia una rivoluzione, le loro élite fanno gli interessi dell’imperialismo basato su Washington, mica quelli dei loro paesi, motivo per cui parlare di pace oggi rischia di non servire assolutamente a una cippa e, per quanto abbiano provato a convincerci si trattasse di una parola desueta, da vetero nostalgici, rovesciare il potere costituito con ogni mezzo necessario potrebbe risultare, in realtà, oggi l’unica cosa sensata da fare. Insomma: il tempo della resistenza e della resilienza potrebbe essere finito e, proprio per puro istinto di sopravvivenza, potrebbe essere arrivato il tempo della riscossa, che non può che essere MULTIPOPOLARE. Per sostenerla ci serve un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Parliamo del recente atroce massacro di palestinesi con Michele Giorgio, giornalista che da anni vive in Medio Oriente ed è corrispondente del quotidiano Il Manifesto.
Si avvicinano le elezioni europee e, come ormai accade inevitabilmente da anni, uno spettro si aggira per il vecchio continente: lo spettro dell’affermazione elettorale dell’estrema destra nazionalista. Che strano… I cantori delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista, infatti, avevano dato il tema dell’identità nazionale per morto già diversi lustri fa: sostenevano, in soldoni, che sarebbe stato – inevitabilmente e definitivamente – relegato in un angoletto buio della soffitta dei ricordi un po’ scomodi dall’ascesa incontrastata di un’economia sempre più mondializzata e interconnessa, dal superamento delle frontiere della governance globale e da identità sempre più fluide; gli stati nazionali, secondo questa ottica un po’ messianica, non erano altro che un rimasuglio arcaico che si ostinava a tentare di ostacolare con scarsissimo successo il pieno dispiegamento di una società sempre più aperta e il definitivo trionfo a livello globale dell’unico modello possibile immaginabile: la democrazia liberale. Come mai anche a questo giro non c’avevano capito assolutamente una cippa? “Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere, né confini”: così si esprimeva il 12 aprile del 1961 il primo essere umano ad avere la possibilità di guardare il nostro pianeta dallo spazio; non a caso, era un cosmonauta sovietico. L’aspirazione alla costruzione di un mondo senza frontiere e alla costruzione di un essere umano nuovo cittadino del mondo è da sempre parte integrante del movimento operaio e dell’identità politica di ogni sincero progressista; oggettivamente, però, con scarsissimi risultati fino a quando qualcuno non ebbe una incredibile intuizione: quello che non erano riusciti a ottenere i subalterni di tutti i paesi attraverso la lotta politica, lo si poteva raggiungere attraverso il mercato. Altro che internazionale dei lavoratori! A garantire un futuro di pace e di progresso c’avrebbe pensato direttamente la globalizzazione. Purtroppo si è rivelata essere un’intuizione non particolarmente brillante, diciamo: a fregare i nostri amici idealisti, l’assenza dell’aggettivo che deve sempre accompagnare il termine globalizzazione – e senza il quale si rischia sempre di prendere cazzi per mazzi – e cioè neoliberista. Quella che stavano sostenendo i nostri amici alla disperata ricerca di una nuova forma di internazionalismo non era genericamente la globalizzazione, ma specificatamente la globalizzazione neoliberista; e la differenza non potrebbe essere maggiore: lungi dall’essere un progetto post – nazionale, la globalizzazione neoliberista, infatti, mirava a consolidare un ordine economico internazionale fondato su una gerarchia precisa, con alcuni stati nazionali e i loro imperi al centro e gli altri alla periferia, che potevano accompagnare solo. In particolare, accompagnare la logica feroce dell’accumulazione capitalistica che, con il sostegno dell’impero, ha operato per mettere gli stati della periferia gli uni contro gli altri in una competizione senza fine a chi si accaparra più capitali dalle oligarchie finanziarie a suon di privatizzazioni, incentivi e guerra senza frontiere ai diritti di chi lavora. E così alla fine, paradossalmente, l’identità nazionale più che cedere il passo si è potenziata: la crescita di una governance internazionale sempre più oligarchica e meno democratica ha rafforzato vecchi e nuovi nazionalismi, e la comunità nazionale si è confermata la comunità di riferimento principale per miliardi di cittadini e cittadine in tutto il mondo. Nel suo L’insicurezza sociale, cosa significa essere protetti?Robert Castel ci ricorda come gli individui, per sentirsi sicuri, sentano la necessità di sentirsi parte di una comunità; nel novecento, però, esistevano due tipi di comunità non necessariamente antitetiche, e cioè quelle nazionali e quella, senza confini fisici, del lavoro: la sconfitta del movimento operaio, dei suoi attori e delle sue istituzioni, quindi, non poteva che lasciare il posto al primato incontrastato della comunità nazionale. Davanti all’insicurezza della globalizzazione, la nazione non poteva che venire sempre più percepita come l’unico rifugio sicuro rimasto; di fronte a questo fenomeno, una fetta maggioritaria della sinistra ha reagito con uno schematismo un po’ superficiale e non particolarmente lungimirante: nel tentativo di tenere fede in modo completamente astratto al dogma internazionalista, non solo si è allineata totalmente all’ostilità del grande capitale nei confronti del concetto di nazione, ma ha rilanciato scagliandosi come un solo uomo contro l’idea stessa di stato. “Nel mondo globalizzato” sintetizzava il maître à penser per eccellenza di questa deriva, Toni Negri, “ogni reminiscenza statalista è destinata a piegarsi al sovranismo e all’identitarismo, e rinnova derive fasciste”.
A tentare di riportare il dibattito sul piano del materialismo dialettico, sottraendolo a queste derive semplicistiche, c’ha pensato fortunatamente Wolfgang Streeck , direttore emerito dell’Istituto Max Planck per lo studio delle Società di Colonia: Streeck, infatti, sottolinea proprio come quel Leviatano repressivo che è lo stato – e, in particolare, proprio nella sua forma nazionale – sia stato storicamente la forma più efficace a disposizione delle classi popolari per controllare e socializzare l’economia e come, ancora oggi, rappresenti l’ultimo argine al dominio incontrastato delle forze del capitale. Anche per questo – anche se in modo spesso confuso o ambiguo – in assenza della comunità del lavoro organizzata, oggi le forme di opposizione prevalente al regime neoliberista globalizzato si presentano come rivendicazioni di sovranità nazionale o substatale, siano esse di sinistra o di destra, escludenti o inclusive. Ma cos’è la nazione? Davvero questo concetto è necessariamente strumento della reazione? Oppure, al contrario, può essere anche uno strumento di emancipazione egualitaria e popolare? Un quesito fondamentale che, finalmente, oggi possiamo affrontare con due strumenti in più: il primo si chiama Un’idea di paese. La nazione nel pensiero della sinistra ed è l’ultima fatica del giovane Jacopo Custodi, ricercatore in comunicazione politica alla Scuola Normale; l’altro invece si chiama Nazioni in cerca di stato ed è opera di un altro giovane ricercatore, lo storico Paolo Perri. Due libri che da prospettive diverse e complementari ci parlano, appunto della nazione, di come questo concetto non vada necessariamente declinato su base etnicocentrica ed escludente e di come un approccio diverso a questa questione possa rappresentare finalmente una base per una sinistra egemonica, nazionalpopolare e in grado di sfidare sia l’egemonia della globalizzazione neoliberista sia il suo alter ego complementare, rappresentato dal nazionalismo xenofobo e finto sovranista. I due autori condividono la definizione di Benedict Anderson di nazione come comunità immaginata: le ideologie, sostengono, non sono mistificazioni fuorvianti da sfatare rivelando una presunta verità, ma sono invenzioni concettuali che creano un ordine ideale che produce effetti materiali concreti: identità, affetti, passioni. Il fatto che, per secoli, lo sviluppo dello stato si sia accompagnato a quello della nazione e che miliardi di uomini e donne in tutto il pianeta crescano e vivano in un contesto culturale, istituzionale e comunitario in cui la nazione è la principale comunità d’appartenenza, rende la nazione un concetto materialmente vivo ed estremamente potente, che ci piaccia o no; il problema, allora, più che disquisire su quanto ci piace o meno un dato di realtà incontrovertibile, consiste più prosaicamente nel comprendere concretamente il tipo di nazione evocato: escludente e rivolto al passato, o includente e rivolto al futuro? A incidere, continuano i nostri due autori, sarebbero in particolare due variabili: da un lato la storia e, dall’altro, il progetto politico inteso come l’insieme di interessi e di gruppi sociali che ci si propone di rappresentare; un concetto escludente di nazione è, ad esempio, per eccellenza, quello che si fonda sull’appartenenza etnica che, contro ogni minima parvenza di rigore storico, viene spacciata come chiusa, statica e naturale. La nazione fondata su una purezza etnica necessariamente posticcia non può che essere funzionale esclusivamente a vedersi eternamente come un fortino minacciato da tutti gli altri popoli – culturalmente ancora più che politicamente; è una nazione che teme ogni mutamento sociale, sogna il ritorno a un eden passato totalmente artefatto e, nel farlo proprio mentre magari legittimamente contesta le oligarchie transnazionali, punta al rafforzamento di gerarchie sociali che vedono le oligarchie locali al centro e tutti gli altri intorno, che possono accompagnare solo: insomma, l’esatto opposto di una nazione che si fonda sulla condivisione di principi e orizzonti democratici, aperta a chiunque voglia condividere un progetto sociale fondato sull’uguaglianza e necessariamente in eterno divenire. Questa idea includente di nazione rifiuta l’artificio dell’omogeneità etnica e culturale, e più che essere interessata al pedigree e da dove vieni, è interessata a dove vorresti andare e al contributo che sei disposto a dare per arrivarci, insieme; in quanto fondata su un progetto politico condiviso e democratico, la nazione includente è un’arma straordinaria di contrasto allo strapotere delle oligarchie e, paradossalmente, è per sua natura intrinseca molto più concretamente internazionalista di quanto non lo siano le utopie astratte, perché già solo per il fatto di esistere – e di resistere – contribuisce concretamente alla costruzione di un sistema di relazioni internazionali più equo e democratico.
Jacopo Custodi si sofferma principalmente sull’idea di nazione nella sinistra radicale e nella sua tradizione teorica, in particolare nel contesto italiano, e lo fa a partire da una semplice ma fondamentale riflessione: pensate se io oggi mi svegliassi e su un qualsiasi social mi azzardassi ad affermare una cosa tipo “O la patria, o la morte”. Immaginate? Razzista! Rossobruna! Ebbene sì: sono razzista e rossobruna, come Che Guevara: Patria o muerte infatti, com’è ben noto, è stato a lungo il più celebre dei suoi slogan. A lungo, appunto, ma da una trentina di anni, un po’ meno, diciamo. Il Che, ovviamente, si riferiva in particolare alla funzione fondamentale che l’idea di comunità nazionale rivestiva nelle lotte di decolonizzazione, ma la centralità della questione nazionale nelle riflessioni di un militante rivoluzionario non era certo una sua invenzione: da Lenin a Rosa Luxembourg, in tutta la storia del movimento operaio la questione nazionale è sempre stata centrale; durante la rivoluzione d’Ottobre, la lotta per l’autodeterminazione nazionale di quelle che diventeranno poi le repubbliche sovietiche è stato uno degli assi fondamentali, e per Antonio Gramsci la partita principale consisteva nella definizione di un un progetto nazionalpopolare di unità del proletariato del Nord con i contadini del Sud per un blocco storico nazionale capace di costruire un’Italia socialista. Amare il proprio paese, scrive Jacopo Custodi, “vuol dire attivarsi per cambiarlo, e allo stesso tempo identificarsi con esso e rappresentarlo”, ed “è questo” continua l’autore “il senso profondo di quell’espressione, costituirsi in nazione, che compare nel Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels e che porta con sé l’eco della Rivoluzione Francese”; “Ciò che è nell’interesse della nazione” continua Custodi “dipende da cos’è la nazione, e da dove viene messa la sua frontiera immaginata”. Il punto, insiste, è la lotta per l’egemonia e la rivendicazione del fatto che le battaglie per l’uguaglianza e l’emancipazione dei subalterni non solo coincidono con l’interesse nazionale, ma SONO l’interesse nazionale; lasciare alle forze della reazione la costruzione dell’idea di nazione significa, molto semplicemente, rinunciare a lottare per l’egemonia e nascondersi mentalmente in qualche paradiso perduto, tra qualche battuta snob sulla necessità di abolire il suffragio universale e qualche piagnisteo vittimista su quanto il volgo non sia in grado di comprenderci.
Paolo Perri inquadra invece la questione nazionale da un altro punto di vista, ripercorrendo la storia dei movimenti e partiti politici che rappresentano quelle nazioni senza stato in cerca di maggiore autonomia o indipendenza; l’autore ripercorre la storia dei principali indipendentistmi, dalla Spagna all’Irlanda passando per Scozia, Galles, Fiandre e chi più ne ha più ne metta, e in questo modo ci permette di toccare con mano, in qualche modo, quello che Custodi ha provato a descrivere teoricamente. Come Custodi, Perri condivide l’idea della nazione come un prodotto dell’immaginazione politica che mette insieme elementi sociali, religiosi, economici e storici per un concetto di nazione sempre mutevole; questi nazionalismi diventano spesso il catalizzatore politico di una domanda di trasformazione più ampia il cui maggiore o minore successo è determinato da un lato dal grado di repressione dello stato nazionale in cui si sviluppano e, dall’altro, dalla loro capacità di rappresentare un progetto sociale ed economico alternativo : “Le mobilitazioni autonomiste e indipendentiste nell’Europa di questi ultimi anni” scrive Perri “si possono e si devono ricondurre a una molteplicità di fenomeni, quasi sempre espressione della crisi della democrazia rappresentativa. I movimenti nazionalisti, allora, possono proporsi da un lato come canali di radicalizzazione democratica, avanzando soluzioni antiliberiste e redistribuzioniste, come nei casi irlandese, basco, catalano e scozzese; oppure possono agire come forze autoritarie e conservatrici, che declinano il nazionalismo in forme di chiusura neo – comunitarista e xenofoba, come nel caso fiammingo.” L’idea nazionale, in questo caso, diviene il perno centrale di un immaginario antisistemico che catalizza il dissenso sociale: durante le crisi, sottolinea Perri, “Partiti spesso marginali, o addirittura organizzazioni clandestine e/o paramilitari, si sono trasformati in veri protagonisti della scena politica, sostituendosi in molti casi ai partiti tradizionali di destra, di centro e di sinistra. In tutti i casi qui presi in considerazione, il nazionalismo, da semplice espressione della frattura centro – periferia, ha finito quindi per interagire con diverse ideologie politiche, sposandone sempre più convintamente alcuni aspetti e producendo una sintesi liquida, che gli ha permesso di rispondere a un numero molto più ampio di istanze e richieste provenienti dalla società”; non è un caso che molti di questi movimenti abbiano rappresentato una delle risposte politiche alla globalizzazione neoliberista e che il loro sostegno elettorale sia cresciuto nelle fasi successive alla crisi del 2008. Paolo Perri ci costringe a prendere atto dell’ineludibile centralità del concetto di nazione nei momenti di crisi mostrandoci, ancora una volta, come la lotta per una declinazione diversa di nazione sia non solo possibile ma, probabilmente, l’unica possibilità che ci rimane per provare davvero a tornare a combattere per l’egemonia e non rassegnarci in eterno a rimanere ad abbaiare alla luna da un angolino. Per riflettere insieme su come uscire concretamente dall’angolino l’appuntamento è per mercoledì 31 gennaio a partire dalle ore 21 in diretta su Ottolina Tv insieme a Paolo Perri e a Jacopo Custodi per una nuova puntata di Ottosofia .Noi comunque, nel frattempo, un’ideina ce la siamo fatta: servirebbe un vero e proprio media che faccia i conti con la realtà – a partire dall’esistenza di stati e nazioni – e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Il mito fondativo dell’era del trionfo del neoliberismo in cui siamo immersi più o meno suona così: il mercato è il frutto spontaneo della natura umana; lo Stato con le sue regole, invece, è un artificio. Poi – vabbé – al limite ci si divide un po’ tra quelli che sostengono che sia un artificio che ha fatto anche cose buone e altri che, invece, sono convinti che abbia fatto solo ed esclusivamente danni, e meno c’è meglio è, ma sul mito fondativo il consenso è abbastanza trasversale.
La storia dell’economia è la storia della lotta tra il mercato e lo Stato, ma non per Karl Polanyi; storico, antropologo ed economista ungherese, nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale se ne venne fuori con una tesi che di primo acchito venne considerata piuttosto strampalata e che, in estrema sintesi, suona così: il libero mercato è tutt’altro che un fenomeno naturale, ma è un artificio e a renderlo possibile è Stato proprio lo Stato. Fa un po’ strano, no? A meno di situazioni straordinarie, lasciato in balìa di se stesso il mercato, alla fine, si regola da solo. Storpiando completamente l’idea di Adam Smith, nel tempo questo affermazione è diventata parte integrante del nostro senso comune; eppure, dice Polanyi – che oltre che economista era pure storico e antropologo – questa fede in un mercato in grado autoregolarsi non è insita nell’uomo. Anzi, è piuttosto recente e a promuoverla è Stato proprio quello che viene spesso considerato il suo più acerrimo nemico: lo Stato. “Il libero mercato” scrive infatti Polanyi “è frutto di scelte politiche. Il mercato come agente regolatore dell’economia non è derivato dal libero sviluppo del mercato arcaico, ma è Stato frutto dell’assalto della controrivoluzione capitalista, che ha distrutto le vecchie consuetudini per creare una società basata sul mercato”; uno di questi interventi statali è, ad esempio, l’abolizione del sistema di sussidi ad inizio Ottocento in Inghilterra. “La strada verso il libero mercato era aperta ed era tenuta aperta da un enorme aumento in continuo interventismo centralmente organizzato e controllato. Rendere la semplice e naturale libertà di Adam Smith compatibile con la necessità di una società umana era una questione estremamente complicata”; il quadro dipinto da Polanyi mette in luce una contraddizione fondamentale: “Lungi dall’eliminare la necessità di controllo, regolamentazione ed intervento” scrive l’economista ungherese “l’introduzione di mercati liberi ne avevano accresciuto la portata. Gli amministratori dovevano essere costantemente all’erta per assicurare il libero funzionamento del sistema” e – guarda un po’ – “anche coloro che più ardentemente desideravano liberare lo Stato da tutti gli obblighi non necessari, e tutta la filosofia dei quali richiedeva la limitazione delle attività dello Stato, non potevano far altro che affidare allo Stato stesso i suoi poteri organi e strumenti richiesti per l’applicazione del laissez-faire”: per usare un francesismo, laissez-faire un par di palle. L’affermazione del mercato ha consistito, per Polanyi, nella creazione di un mercato autoregolato per il lavoro prima, per la terra poi e, infine, per la moneta, ma l’illusione è durata poco perché l’autoregolazione di questi tre mercati – e cioè l’assunto fideistico che le semplici forze della domanda e dell’offerta avrebbero potuto, sempre e in qualsiasi luogo, condurre la società a trovare un equilibrio ottimale – era destinata a scontrarsi subito con la dura realtà della vita economica concreta. Dalla libertà del mercato del lavoro emergevano povertà, disoccupazione e degrado; dalla libertà della terra scaturiva una concorrenza agguerrita nei mercati delle materie prime che minava gli interessi agrari e minerari e dalla libertà del mercato della moneta scaturivano crisi finanziarie, inflazione e pure deflazione, che mangiavano i profitti, rendevano gli investimenti rischiosi e distruggevano il commercio internazionale. E così lo Stato dovette tornare a intervenire per mettere un po’ di toppe in qua e in là per evitare che la nave affondasse; paradossalmente quindi, “Mentre l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da parte dello Stato” riassume Polanyi “le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo spontaneo. Il laissez-faire era pianificato, la pianificazione non lo era”. Altro che Stato contro mercato quindi: quando lo Stato ha pianificato scientemente qualcosa, quel qualcosa era, appunto, un mitologico libero mercato fondato sulla libertà dei più ricchi di arricchirsi a dismisura a scapito della salute dell’economia stessa; e quando, per salvare capra e cavoli, lo Stato è dovuto intervenire per mettere qualche paletto, non ha seguito un piano strutturato per ridimensionare lo strapotere delle oligarchie, ma si è limitato a mettere qualche toppa dove poteva. Per Polanyi doveva essere solo l’antipasto: “La società industriale”, scrive, potrà tornare ad esistere solo “quando l’esperimento utopistico di un mercato autoregolato non sarà altro che un ricordo orribile”. Nei decenni successivi, le democrazie costituzionali moderne a quell’esperimento utopistico gli hanno dato una discreta mazzata, senza però riuscire a mettere definitivamente in soffitta quell’assurdo mito fondativo che, dopo una piccola parentesi di ragionevolezza, è tornato a imporsi con la grande controrivoluzione neoliberista: ancora una volta un esempio da manuale di fantomatici mercati autoregolamentati creati con la forza dallo Stato attraverso una meticolosa pianificazione fatta di delocalizzazioni, privatizzazioni, finanziarizzazione e demolizione delle istituzioni democratiche. Immancabilmente, però, anche a questo giro l’esperimento utopistico del mercato autoregolato è tornato nell’arco di pochi anni a presentare il conto, dopo aver raso al suolo la nostra società industriale; solo che, a questo giro, per ora di interventi pezzi e bocconi dello Stato per mettere qualche paletto qua e là in realtà non è che se ne vedano molti. Eppure la grande crisi ormai è in corso da 15 anni abbondanti, almeno da quando Lehman Brother fu obbligata a chiudere baracca; lo stimolo finale, l’altra volta, venne dalla guerra, che costrinse anche gli ultraliberisti britannici a convertirsi dal giorno alla notte a una specie di economia pianificata per non venire definitivamente rasa al suolo. Ecco: noi, sinceramente, per riportare un po’ di ragionevolezza nella politica mainstream vorremmo evitare di dover aspettare la terza guerra mondiale; chiediamo troppo?
Per rispondere, seguiteci domani sera, mercoledì 17 gennaio, a partire dalle 21 in diretta con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica: ospite d’onore il nostro caro Marco Bertilorenzi, che è un po’ il nostro cicerone quando cerchiamo di addentrarci nella storia del pensiero economico. E, nel frattempo, se come noi pensi che ci sarebbe bisogno come il pane di un media che invece che fare da ripetitore alla propaganda delle oligarchie provi a darci gli strumenti per capire che un’alternativa c’è – e magari anche in cosa dovrebbe consistere – aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
“I mercati globali sono stati inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi da enormi sussidi statali”. Quando il 13 settembre ho sentito la nostra Ursulona (von der Leyen, ndr) pronunciare queste parole, mi sono subito fiondato alla ricerca di una di queste fantomatiche macchine elettriche cinesisupereconomiche che avrebbero drammaticamente “invaso i mercati globali”
Contrario allo sfruttamento del lavoro geriatrico, anche per la mia audi a4 del 2002 è decisamente arrivata l’ora del meritato pensionamento. Quale migliore occasione di una nuova auto che non solo è cinese, ma pure elettrica, e pure supereconomica? Ma quando mi sono trovato davanti al listino prezzi, tutto l’entusiasmo iniziale è stato, diciamo così, leggermente ridimensionato. Ovviamente, visto che l’avrei dovuta pagare con i quattrini di chi generosamente sostiene questo strambo canale, sono partito dal modello base: BYD Dolphin, si chiama.
L’auto elettrica più economica sul mercato, avevo sentito dire. Con in più la garanzia di un marchio che vede come primo azionista niente popo’ di meno che la Berkshire Hathaway del signor Warren Buffet. uno che di investimenti, così a occhio, al netto di tutto, ci capisce.
Peccato però che in realtà costi quanto un SUV: a partire da 30.790 euro, riporta “quattroruote”. Ci sono rimasto male…Quando è stata lanciata in Cina, ricordo, il singolo punto su cui si era concentrata tutta la campagna pubblicitaria, era che sarebbe stata la prima auto elettrica della BYD a stare sotto la soglia dei centomila yuan. più o meno, tredici mila euro. Nel frattempo è un po’ aumentata, effettivamente e il prezzo di partenza nei listini cinesi oggi è di 116 mila yuan. 15 mila euro.
E non è un caso isolato. la versione elettrica della MG ZS, secondo “quattroruote”, in Italia parte dalla modifica cifra di 34.500 euro. in Cina, secondo bloomberg, da 15.600 euro
Non è questione soltanto di marchi cinesi.
Come riporta sempre bloomberg infatti, l’auto elettrica più economica attualmente sul mercato in realtà sembrerebbe essere la versione elettrica della Dacia Spring, che in Italia partirebbe da 21.450 euro. Anche lei però, nonostante sia del gruppo Renault, viene prodotta nella provincia dell’Hubei, in Cina, dove è stata ribattezzata Nano Box, e il prezzo di partenza è inferiore, udite udite, agli ottomilacinquecento euro. Ma com’è mai possibile che lo stesso identico oggetto in Cina costi meno della metà che in Europa? E sopratutto, listini alla mano, Ursula sette cervelli von der Leyen, esattamente, questa fantomatica invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche, da dove se l’è tirata fuori? Anche lei come il suo bestie sleepy Joe ha degli amichetti immaginari che gli suggeriscono cose?
Da quando Henry Ford s’è inventato quel meraviglioso bussolone a pedali che era la model-t, l’industria automobilistica si è affermata come il singolo settore più importante dell’intera industria globale. Oggi l’industria automobilistica europea è sottoposta a un attacco concentrico devastante e la nostra impresentabile classe dirigente, non sa che pesci prendere. “Le nostre industrie più sviluppate adorano la competizione”, ha affermato la Von der Leyen durante la seduta del parlamento europeo del 13 settembre scorso, all’inizio di un intervento che rischia di passare alla storia come uno degli esempi più eclatanti di quanto ormai le elite europee vivano in un mondo immaginario tutto loro. “Loro sanno che la competizione fa bene agli affari”, ha continuato ursulona, “e che crea e protegge i posti di lavoro qui in europa”.
Non fa una piega.
Secondo ursulona, le nostre aziende la concorrenza non si limitano a subirla, attrezzandosi come possono per tentare di sopravvivergli, ma proprio la amano. Se te vai dagli azionisti di un’azienda qualsiasi e gli dici di prenotarsi alla caritas perchè a breve li distruggerai mettendo sul mercato un prodotto simile o migliore del loro, ma a metà del prezzo, loro proprio danno fondo a tutte le bottiglie di crystal rimaste in cantina, invitano le migliori escort della loro agenda e ti improvvisano una festa di buon auspicio come non ne hai mai viste.
È proprio per amore della concorrenza, infatti, che le nostre aziende investono più in lobbying che in ricerca e sviluppo. Ed è sempre per amore della concorrenza che nel tempo, con la complicità delle istituzioni, hanno creato un mercato così aperto e concorrenziale, che quando un paio di anni fa è cominciata ad arrivare la spinta inflazionistica, sostanzialmente in tutti i settori si sono formati cartelli più o meno organizzati che non solo hanno potuto serenamente scaricare all’unisono tutto quell’aumento dei costi sui consumatori, senza rimetterci un centesimo, ma ci hanno pure ricaricato sopra e pure parecchio, con il paradosso che mentre tutta l’economia andava a scatafascio e il potere d’acquisto di chi lavora precipitava, i loro profitti decuplicavano.
Più amore per la concorrenza di così…
Ogni tanto però, sottolinea la Von Der Leyen, arriva qualche bricconcello che che sul nostro amore incondizionato per la libera concorrenza ci specula un po’. “Troppo spesso”, ha affermato la nostra ursulona, “le nostre aziende sono escluse dai mercati esteri o sono vittime di pratiche predatorie e spesso devono vedersela con concorrenti che beneficiano di ingenti sussidi statali”.
Finalmente! dopo due anni che gli USA non solo ci hanno costretti a infilarci in una guerra per procura in Ucraina contro la Russia che per noi è economicamente suicida, ma hanno pure rincarato la dose rispolverando un protezionismo economico ultra-aggressivo che ci sta scippando da sotto il culo ogni investimento possibile immaginabile a suon di incentivi multimiliardari alle aziende, finalmente ci siamo decisi a rialzare la testa.
Brava Ursula, era l’ora!
Perchè ovviamente parlavi degli USA, no? Voglio dire, a sto giro l’hanno fatta davvero grossa. Per trent’anni in nome della libera concorrenza e dell’apertura dei mercati non hanno fatto altro che architettare colpi di stato, cambi di regime, devastanti crisi del debito e veri e propri stermini di massa e ora che si sono accorti che la libera concorrenza e l’apertura dei mercati alla lunga li condanna a un’inesorabile declino dal giorno alla notte si sono rimangiati tutto e sono tornati al caro vecchio protezionismo e agli aiuti di stato. Il tutto a nostro discapito. Prima o poi era inevitabile che qualcuno gliene cantasse quattro…macché.
Per mettere fine alla mia breve illusione, è bastato aspettare la frase successiva: “non abbiamo dimenticato”, ha tuonato infatti ursulona, “come le pratiche commerciali sleali della Cina hanno influenzato il nostro settore fotovoltaico. Molte giovani imprese sono state espulse da concorrenti cinesi fortemente sovvenzionati”. Ma te guarda, ed io che credevo che si chiamasse, molto banalmente, politica industriale. La Cina infatti si è limitata a fare esattamente la stessa cosa che hanno sempre fatto tutte le potenze industriali quando hanno deciso che la crescita di un determinato settore fosse strategica per l’insieme dell’economia. Attraverso investimenti pubblici hanno creato le condizioni affinché il capitale privato si indirizzasse verso un determinato settore e attraverso altre regole ad hoc, hanno impedito che si sperdesse in settori ritenuti secondari se non addirittura controproducenti. In questo modo, il settore privilegiato ha raggiunto un livello tecnologico e una scala tale da abbattere in maniera drastica i costi e trovarsi così nelle condizioni di sbaragliare la concorrenza, almeno laddove la libertà della concorrenza veniva garantita. Non esiste nell’intera storia del capitalismo settore industriale di una certa consistenza che non si sia sviluppato così. Basti pensare appunto, all’industria automobilistica europea, le cui esigenze hanno dettato per decenni la politica industriale di tutti i principali Paesi del continente, che si sono prodigati in aiuti e sgravi di ogni genere, hanno fatto guerre coloniali e neocoloniali per assicurare l’accesso alle materie prime e con i soldi pubblici hanno costruito le infrastrutture necessarie affinché le auto che venivano prodotte servissero concretamente a qualcosa. L’idea che le aziende private si inventano un prodotto e si affermano sul mercato vincendo contro la concorrenza, senza il sostegno degli Stati, non è semplicemente distorta, è proprio pura fantasia.
Un mondo immaginario.
Tramite “giganteschi sussidi dello stato” ad esempio è nata e cresciuta la Silicon Valley, con i suoi colossi che poi hanno colonizzato digitalmente tutti quei Paesi che non avevano messo sul piatto una politica industriale altrettanto ambiziosa per il settore delle piattaforme tecnologiche. Ovviamente lo stesso è successo con la tecnologia per la produzione di energia da fonti rinnovabili, dove a imporsi invece sono stati appunto i cinesi. Con la differenza che l’abbattimento vertiginoso dei costi per produrre energia da fonti rinnovabili, cara Ursula, a quanto mi risulta, sei la prima a sostenere che sia cosa buona e giusta. Mentre su quanto sia davvero positivo il ruolo che svolge per la collettività l’oligopolio di google, facebook e microsoft, se non ricordo male, anche l’Unione Europea stessa ha sollevato qualche lieve perplessità. Ma se c’è un aspetto che caratterizza sempre le classi dirigenti di una civiltà in declino, è la coazione a ripetere sempre gli stessi errori. Ed ecco così che oggi il focus si sposta su un altro settore, chiacchieratissimo: i veicoli elettrici.
“Un settore cruciale per l’economia pulita”, come lo definisce la stessa ursulona, “con un enorme potenziale in Europa”. Che però, teme la nostra ursulona, rischia di rimanere inespresso. Sarà mica per colpa delle case automobilistiche che non ci hanno investito il becco di un quattrino, dal momento che erano troppo occupate a intascarsi i dividendi e andarli a investire nelle bolle speculative negli USA?
No, macchè…sarà allora mica colpa degli Stati che a causa delle loro politiche neocoloniali stanno sul cazzo a tutto il resto del mondo e non sono riusciti a costruirsi una filiera stabile ed efficiente per reperire le materie prime in modo sicuro e sostenibile?
No, ma figurati…sarà allora forse mica perché i governi in preda al misticismo dell’austerità non hanno fatto i compiti a casa in termini di ricerca di base e di costruzione delle infrastrutture necessarie per rendere quel prodotto realmente utilizzabile, a partire banalmente dalle colonnine per la ricarica?
Ma no, ma cosa ti viene in mente mai…e allora vedrai il problema che ha in mente Ursula non può che essere quello che dicevamo all’inizio: il ritorno del protezionismo negli USA, e la politica aggressiva di incentivi che decreta la morte del libero mercato e spinge le nostre aziende a salutare con l’altra manina il vecchio continenti e andare a cercare fortuna in America.
Macchè, manco questo…e di chi sarà mai allora la colpa?
Ma dei cinesi ovviamente!
Secondo la Ursula infatti, il potenziale delle nostre aziende è messo a rischio dal fatto che “i mercati adesso sono inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi grazie a enormi sussidi statali”. È lo stesso identico ragionamento distorto fatto per il fotovoltaico, ma con un aggravante in più parecchio grossina, sinceramente. e imbarazzante. Nel caso dei pannelli fotovoltaici infatti, per lo meno, il dato di base è verissimo: quelli cinesi, a parità di caratteristiche, costavano parecchio ma parecchio meno e si sono divorati il resto del mercato.
Per le auto elettriche, invece, molto banalmente, come dice il nostro amico David Puente: No! le auto elettriche cinesi in Europa non costano meno dei concorrenti. Non è solo questione di contesto mancante, che è la formula che usa David Puente per segnalare a caso come inattendibili tutte le notizie che molto semplicemente non gli piacciono: è proprio una bufala; palese; evidente.
Come vi abbiamo raccontato all’inizio di questo pippone infatti, è assolutamente vero che le auto elettriche cinesi costano enormemente meno di quelle della concorrenza. Questo, come per i pannelli, è il frutto di una politica industriale di lungo periodo, che nel corso degli ultimi dieci anni ha permesso di creare in Cina un ecosistema produttivo che non ha neanche lontanamente pari nel resto del pianeta e anche di generosi incentivi Statali che continuano ad essere concessi sia a chi le macchine le produce, sia a chi le compra, a partire dall’esenzione almeno fino al 2025 dall’IVA. Ma questo appunto, riguarda la Cina e solo la Cina. In Europa, come d’altronde in tutto il resto del mondo, le auto elettriche cinesi costano in media circa il doppio che in patria, e quindi molto banalmente non c’è nessunissima “invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche”, che ammazzano il mercato a causa di intollerabili incentivi Statali. Ma d’altronde, siamo nell’era della post verità e queste semplici considerazioni basate sui numeri, evidentemente, lasciano il tempo che trovano.
Quello che conta è la narrazione.
Ed ecco così che ursulona continua imperterrita per la sua strada, e da assunti completamente inventati, trae inevitabilmente conclusioni decisamente pericolose: “questo sta distorcendo il nostro mercato”, tuona, “e quindi oggi sono qua per annunciare che la commissione aprirà una indagine anti-sussidi sui veicoli elettrici cinesi”.
Grande ursula, questo si che è parlare chiaro! La sala del Parlamento Europeo è tutta uno scrosciare di applausi. Ormai funziona così: più grossa è la puttanata, più grossa è la hola.
L’indagine anti sussidi, dovrebbe fornire la legittimazione per introdurre dazi più sostanziosi rispetto alla tassa del 10% sulle auto importate che è già oggi in vigore. L’Unione Europea infatti ci tiene molto a continuare a recitare la parte di quella che rispetta le regole e si rifiuta di alzare i dazi senza giustificazione come ad esempio hanno fatto gli USA, dove ora sono addirittura al 27.5%. Quindi, prima di procedere, vuole far finta di avere una pezza d’appoggio. Peccato però che come sottolinea addirittura Politico, che certo non può essere accusato di avere simpatie filocinesi, “per avviare un’indagine antidumping deve prima verificare che l’oggetto della sua indagine sia effettivamente venduto in Europa a un prezzo inferiore a quello applicato nel paese di origine. E guardando i prezzi sarà piuttosto difficile sostenere questa tesi”. Ma allora, perché mettere in piedi tutta questa ennesima clamorosa buffonata? Sempre secondo Politico, sarebbe tutta farina del sacco dei francesi, che temono per la tenuta dei loro campioni nazionali. In tutta sincerità, ne hanno ben donde. Non so chi di voi ha mai avuto un auto francese: io ho avuto una scenic per qualche anno, ormai una ventina di anni fa. Da allora ho deciso che piuttosto che un auto francese, vado più volentieri a piedi. I tedeschi invece, sottolinea sempre Politico, ma anche Bloomberg, in realtà vedrebbero questa buffonata di cattivo occhio. Loro le auto le sanno fare davvero e non sono troppo preoccupati dalla concorrenza cinese. Mentre sono preoccupatissimi dall’idea che queste buffonate possano far incazzare i cinesi, e spingerli a reagire restringendo la libertà di manovra che i marchi tedeschi hanno sul loro mercato, che è quello che li tiene in piedi. A questo giro, sostiene bloomberg, i cinesi per reagire, molto onestamente, avrebbero motivi in abbondanza. Infatti, ancora non abbiamo risposto alla semplice domanda da cui era partito tutto questo pippone infinito: come minchia è possibile che le auto elettriche cinesi in Europa costino più del doppio che in patria?
Un bel po’ di ottoliner si sono scervellati per tutto il week end alla ricerca di una risposta più o meno plausibile, ma senza grossi risultati. Solo lo stupore di constatare come nessuno, e intendo proprio NESSUNOsui nostri media si sia posto questa domanda fino ad oggi. Sulla stampa internazionale, invece, qualche considerazione si trova.
Mettiamole in fila.
Ai prezzi cinesi, tanto per iniziare, ci vanno sicuramente aggiunti i costi di logistica, che possono arrivare a pesare anche per il 15%; poi c’è la tassa sulle importazioni, che persa per un altro 10%; poi c’è il fatto che nei listini cinesi, visto che fino al 2025 sulle auto elettriche è stata abbattuta, non c’è l’IVA, che pesa per un altro bel 22%; poi c’è il fatto che i marchi cinesi da noi non hanno una rete di distribuzione strutturata, e anche questo produce sovra costi notevoli.
Metti tutto assieme e un bel 50/60% del sovra costo eccolo spiegato. A questo però dobbiamo togliere qualcosa, perché di solito, ovviamente, quando vuoi affacciarti su un nuovo mercato, sopratutto se è un mercato ostile per motivi ideologici e culturali come lo è quello europeo nei confronti del made in china, dovresti essere disposto a sopportare un periodo di margini piuttosto risicati, e questo dovrebbe portare a diminuire un po’ la percentuale di sovra costo spiegabile. Invece qui il rincaro è del 100% o oltre. Da dove arrivi quel 50% abbondante in più, nessuno lo sa spiegare e tendenzialmente, manco c’hanno provato.
A parte Bloomberg, di sfuggita, quasi per sbaglio. Bloomberg infatti, con nonchalance, ribadisce quanto sia strambo che la von der Layen affermi che “il mondo è inondato di auto cinesi a basso costo quando, almeno finora, le case automobilistiche cinesi hanno generalmente evitato di vendere veicoli elettrici a prezzi molto bassi in Europa, forse”, conclude, proprio per timore “di questo tipo di ritorsioni”
T’è capi’?
Lo dice una delle più importanti testate delle oligarchie finanziarie occidentali eh, mica il global times. Quella gigantesca parte di costo aggiuntivo delle auto elettriche cinesi che non siamo riusciti in nessun modo a giustificare, non sarebbe altro che una politica deliberata delle case automobilistiche stesse, con ogni probabilità su indicazioni del Governo, per evitare di mettere troppa pressione sulla decotta industria automobilistica europea e giustificare così l’intervento a gamba tesa delle istituzioni che sono per il libero mercato solo quando fa guadagnare quattrini agli oligarchi che li tengono artificialmente al governo. Se qualcuno di voi ha intenzione di comprarsi una Dolphin, quando staccherà l’assegno, se lo ricordi: dei trentamila euri che sta sganciando, almeno sette sono dovuti alla compagna von der Layen e a chi le permette di avere il ruolo che ha.
Già questo grida vendetta, ma è solo l’inizio.
Il prezzo delle auto elettriche in Cina, infatti, ci dimostra in modo incontrovertibile che si possono produrre auto elettriche a prezzi addirittura inferiori all’endotermico. Come ricorda l’analista del mercato automobilistico indiano Vijay Govindaraju infatti, mentre “negli USA le auto elettriche costano in media il 27% in più di quelle a benzina, e in europa addirittura il 43, in Cina costano la bellezza del 33% in meno”. Chiudersi ai prodotti cinesi quindi ha una sola motivazione: permettere ai nostri colossi automobilistici di continuare a non investire una lira per raggiungere la scala e l’efficienza dell’industria cinese, mentre nel frattempo si costringono i consumatori a comprare le loro inefficienti e costosissime auto. L’ennesima rapina condotta dalle istituzioni per arricchire l’1% ai danni del 99% e che offre così anche una graditissima sponda al complottismo dei negazionisti climatici. Pur partendo da un assunto completamente sbagliato e cioè la negazione della matrice antropica di almeno una parte consistente del surriscaldamento globale, arrivano a conclusioni paradossalmente più lucide delle nostre tanto istruite élite politiche: per le oligarchie occidentali, la transazione ecologica non è altro che l’ennesima scusa per fregarci un’altra gigantesca montagna di quattrini. Con la complicità delle istituzioni e senza manco avvicinarci lontanamente agli obiettivi climatici. Come sempre, i fintoprogressisti immaginari, sono i migliori amici della peggio destra reazionaria: una vera e propria partnership di ferro, nei secoli dei secoli.
Per combatterla, abbiamo bisogno di un media che non si inventi storielle, ma che guardi il mondo dal punto di vista del 99%, aiutaci a costruirlo: